Quando si sdraia sul letto, il libro fra le mani, i capelli
ancora impregnati di fumo (troppe sigarette, davvero troppe), i piedi
gonfi e la schiena dolorante dopo aver vuotato tutti gli scatoloni, Adriana capisce
che l’ha trovata davvero. Accade quando fissa il lampadario con le gocce di
cristallo, e cento gemme d’arcobaleno ammiccano verso la sfera centrale.
Guardando meglio, nota le due ombre più scure nella metà superiore della sfera,
e annuisce.
Come le orbite di un teschio, pensa, e sente il peso
familiare della stanchezza scivolare via dalle palpebre. Anni di stanchezza. Le
sue ginocchia dolgono come quelle di una vecchia, quando scende le scale. Come
se avesse sessant’anni e non trentadue. Ma questa notte, pensa ancora, finirà. Questa
notte dormirà, quando avrà eseguito il suo compito. E’ già a buon punto. Ha
trovato la casa, alla fine.
Adriana ha cercato la casa da quando può ricordare. L’ha
sognata a ogni sonno e l’ha riprodotta, sempre identica, in tutti i suoi
disegni di bambina: un corridoio centrale con quattro porte, due a destra e due
di fronte, un armadio a muro in fondo e dirimpetto, subito a sinistra
dell’ingresso, una nicchia con una tenda di velluto color vino, come usava
nelle famiglie borghesi del dopoguerra. Doveva esserci della carta-stoffa crema
a piccole righe marroni nel corridoio, e di un verde tenue nelle due camere da
letto. Cucina e salone dovevano essere tinteggiati di bianco, e dovevano
esserci tende ricamate che si gonfiavano col vento nel secondo e un tavolo di
formica azzurra nella prima.
La casa l’ha accompagnata nei disegni – a matita e poi a
cera e poi ancora ad acquarello - finché sua madre non l’ha accompagnata dalla
psicologa, preoccupata per quella che le sembrava l’inizio di
un’ossessione. Adriana aveva capito che doveva proteggere la casa, aveva
sorriso quando la psicologa le sorrideva, aveva bevuto camomille, inghiottito
capsule di vitamina e non l’aveva disegnata mai più.
Però continuava a essere presente nella sua testa: e il
lampadario della camera da letto faceva tintinnare le gocce di cristallo mentre
Adriana aveva le prime mestruazioni, traduceva Cicerone, imparava a fumare e a
farsi la tinta, e le tende frusciavano mentre indossava il tailleur per la
festa di laurea, firmava il contratto per la prima supplenza e accompagnava i
genitori (prima il padre, due anni dopo la madre) al cimitero.
Aveva cominciato a cercare la casa il giorno dopo l’ultimo
funerale. “Che tipo di appartamento le interessa?”, aveva chiesto l’impiegato
dell’agenzia senza guardarla, le mani già sulla tastiera del computer. Adriana aveva
aperto la cartellina con i vecchi disegni e glieli aveva mostrati. “Arredato”,
aveva detto. “Così”.
Non era stato facile. Adriana aveva cambiato molte agenzie,
e nei tre anni seguiti alla morte di sua madre era entrata in decine di palazzi
di periferia, dove era più facile trovare un appartamento con mobili così
vecchi. Aveva salito scale che odoravano di fritto o di deodorante da pochi
centesimi. Aveva visitato stanze dove ombre più chiare ricordavano l’esistenza
di quadri ora appesi in altre case, o perduti per sempre. Aveva camminato per lunghi
corridoi, con gli occhi semichiusi, quasi annusando l’aria, sperando che alla
sua sinistra si sarebbe aperto un salone con le tende bianche. Aveva scansato
mucchi di calcinacci e preso fra le dita frammenti di carta-stoffa ingrigita, e
aveva sollevato velluti polverosi del colore giusto, ma senza trovare la cosa
più importante che avrebbe reso altrettanto giusta la casa, e che ai
tanti impiegati immobiliari non aveva neanche menzionato. Perché non li
riguardava. Quella era una faccenda solo sua.
Sua, e della creatura.
A maggio, infine, la casa le venne incontro come un letto nuziale: quando
uscì dall’ascensore, Adriana si sentì davvero una giovane sposa calda di
eccitazione e allegria, pronta a essere sollevata fra le braccia e portata
attraverso la soglia, i piedi dondolanti in aria, le labbra asciutte per
l’aspettativa. Sapeva che dietro la vecchia porta di rovere, appena ondulata
dall’umidità dove toccava terra, avrebbe trovato quel che cercava. Così, con le
ginocchia che dolevano e tremavano, superò in fretta l’impiegato, abbracciò con
lo sguardo le quattro porte che si affacciavano sul corridoio, sollevò, alla
sua sinistra, la tenda di velluto e si vide riflessa nello specchio. Perché era
lo specchio che cercava, e doveva essere come questo, alto e stretto e antico.
Il viso di Adriana scintillò nel riflesso come in un raggio di luna, fra le
macchie scure del tempo. “E’ compreso nel prezzo”, balbettò l’impiegato. “Lo
so”, gli rispose.
Ora, mentre fuma l’ennesima sigaretta guardando il soffitto,
si chiede cosa sarà di lei dopo che avrà fatto quel che deve fare e che farà tra
poco, quando la luna sarà alta nel cielo, e sarà piena e bianca come latte. Si
taglierà i capelli, per cominciare. Li ha lunghissimi, li porta sempre annodati
sulla nuca, e pesano anche così. “Un voto”, aveva detto una volta a un
corteggiatore curioso, sapendo che da quel momento l’avrebbe considerata una
bigotta e che non l’avrebbe più cercata. Non aveva importanza. Non ha avuto
uomini, anche se ha passato i trent’anni. Un voto anche questo, in un certo
senso. O, per meglio dire, una forma di rispetto per il suo compito. Nessuna
distrazione. Nessun altro scopo.
Il fumo della sigaretta vacilla e si dissolve come se un
soffio di vento l’avesse spazzato via. Le finestre sono chiuse, anche se è
giugno e comincia a fare caldo. Adriana si siede sul letto e spegne la luce.
Quella della luna (ancora troppo bassa) è sufficiente. Chi sarà la prima?,
si chiede, guardando verso la porta della camera da letto. Il tempo di
formulare il pensiero, e la maniglia si muove, prima piano, poi affondando di
colpo verso il basso. L’ombra sulla soglia è una macchia più chiara nel buio
della stanza. Dalla testa parte un velo che immagina bianco, o che doveva
esserlo, all’inizio. La luce che filtra in modo diseguale le indica che è strappato
in più punti: un tempo doveva essere leggero come una ragnatela d’argento. E’
la sposa, come immaginava.
Era stata la sposa, del resto, a guardare per prima nello
specchio, nella casa dove avrebbe abitato con quello che sarebbe divenuto, fra
non molto, suo marito, e solo alla parola marito le guance le
diventavano rosse e il corsetto sembrava improvvisamente soffocarla. Era andata
a visitare la casa nuova con le amiche e le sorelle minori, sfuggendo al
controllo della zia: avevano salito le scale in un turbine di taffetà e di
organza, soffocando le risate per non farsi scoprire. La sposa era entrata
correndo in ogni stanza, seguita da gridolini di ammirazione e di invidia,
aveva indicato la sfumatura crema della carta da parati e tastato la morbidezza
delle tende. Infine, aveva visto lo specchio. Era alto e stretto in una cornice
d’oro, proprio al centro della nicchia accanto all’ingresso. Aveva corrugato la
fronte: non ricordava di averne desiderato uno, e di certo aveva pensato di
utilizzare la nicchia in un altro modo. Un piccolo busto in marmo, per esempio.
Così, mentre le amiche si estasiavano su ricami della tovaglia e la morbidezza
delle sedie imbottite del salone, si era avvicinata, e aveva guardato. E dallo
specchio era arrivato, direttamente alle sue orecchie, anzi no, direttamente
nella testa, il sussurro. Non aveva capito, non subito. Le parole
sembravano acqua che scorre, vento tra foglie secche.
Foglie di gingko. Acqua gelata di torrenti. Una foresta
dove la luce filtra a macchie irregolari. Una delle macchie è bianca. La luce è
bianca. La luce è una creatura. E’ quella creatura a parlare.
La creatura nello specchio.
La sposa aveva portato le mani alle orecchie. Il sussurro si
era fatto intollerabile, più veloce, più imperioso, più potente. Infine, si era
fuso in tre parole.
Rompi lo specchio.
E davanti ai suoi occhi sbarrati un’immagine si era formata.
Un’immagine bianca e luminosa, con due soli gialli dove avrebbero dovuto essere
gli occhi. La sposa aveva scosso la testa ed era fuggita, irrompendo nella
camera da letto dove le sorelle stavano ammirando, turbate e ridenti, il comò e
le lenzuola ricamate, e si era gettata sul letto e loro avevano lanciato uno
strillo di disapprovazione e…
La voce di Adriana è ferma e gentile. “Non l’hai fatto, è
vero? Non hai rotto lo specchio. Eri troppo spaventata per eseguire l’ordine”.
La forma velata sospira e trema sulla soglia. “Cos’hai fatto allora?”. La forma
tace. Ma nella mente di Adriana appare con chiarezza l’immagine di una ragazza
piccola e sottile, capelli biondi raccolti sotto il velo, spalle curve sotto
l’abito nuziale. Nota il pallore del viso, le ombre livide sotto gli occhi che
gli altri scambiano per emozione. Nessuno si stupisce quando la fanciulla
chiede, con voce rotta, di essere lasciata sola prima di uscire verso la
chiesa. Pochi minuti, davvero. E quando i genitori e le sorelle sono usciti, trema
più forte, e vacillando si avvia alla finestra, guarda il selciato sotto di
lei. Gli invitati fanno corona attorno alla carrozza. Li raggiungerà. Ora.
Chiude gli occhi. Salta.
“Mi dispiace”, mormora Adriana. “Davvero”. La figura oscilla
ancora e svanisce, come se le sue parole, parole di comprensione e non di
condanna, l’avessero assolta dal rimorso di non aver spezzato lo specchio. Era
così giovane, pensa. Così impreparata.
La luna non è ancora al posto giusto. Adriana si alza, passa
le dita fra i capelli, le passa ancora sulla camicia da notte, che è bianca
come quella di una sposa. Sa che doveva indossare qualcosa di simile. Come fa a
saperlo? Questo è impossibile da capire, come il fatto che conoscesse quella
povera ombra infelice che si è affacciata alla sua camera da letto. Sa soltanto
che in tutti i sogni della sua vita, oltre alla casa e allo specchio, ci sono
state le altre.
La sposa, la bambina, la vecchia.
Sente un colpo, non troppo forte a dire il vero, in mezzo
alla schiena. Si gira di scatto. La bambina è là, come se fosse stata chiamata
dal suo pensiero. E’ vestita, anche lei, di bianco: in origine doveva essere
un vestitino della festa, tagliato in un piquet dai piccoli rombi in rilievo.
Ora è strappato all’orlo e sulle spalle e sgocciola acqua sul pavimento. Anche
i capelli della bambina sono fradici, il viso è cereo, le piccole labbra livide
sono serrate. Adriana allunga la mano, le accarezza la testa, prende fra le
dita una ciocca nera molle come un’alga. La bambina guarda in alto, verso il
lampadario a gocce.
“Eri tu che vedevi il teschio nella sfera, è vero?”, chiede.
E prima che la bambina annuisca sa che è così, che aveva sette anni quando
agonizzava sdraiata sotto il lampadario, mentre la febbre le bruciava la carne.
Una polmonite, pensa Adriana. Era caduta nel fiume mentre scappava dalla
figura nello specchio. Dalla voce della figura nello specchio. E’ crudele,
pensa ancora. Era troppo piccola per capire. Si china a sfiorare con le
labbra la fronte della bambina. Anche la pelle è fredda e molle, e svanisce al
tocco.
Ora, ne manca una soltanto. E poi, la luna.
Adriana infila le pantofole, si incammina lungo il corridoio.
Il velluto color vino è ancora immobile a coprire lo specchio, ma la finestra
del salone è spalancata (l’aveva chiusa, questo lo ricorda bene) e le tende bianche
si agitano al vento come veli. La vecchia è seduta davanti alla finestra, avvolta
in una vestaglia candida, una tazza fra le mani. Profumo di tè. Tè
all’arancia, pensa Adriana. Sa che insieme allo zucchero e al limone la
vecchia ha sciolto una manciata di veleno per topi. Si vendeva ancora in certe
botteghe. L’hanno trovata così, la mattina dopo, la tazza in terra. Anche in
questo caso, non è stato giusto. Era troppo anziana e spaventata, e quei
sussurri hanno finito per annientarla. Aveva così poco da perdere, se solo…se
solo avesse obbedito.
Adriana si avvicina alla vecchia, che si rattrappisce nel
vederla. Le sfila la tazza dalle mani, fa una breve carezza sulle vene rigonfie
del polso. Un istante, e le sue dita si chiudono sul vuoto. E’ andata,
finalmente: e ora, davvero, tocca a lei. Perché la luna, bianca e sfolgorante e
immensa, è al posto giusto, al centro esatto di un cielo scuro come il fondo
dell’oceano.
Tempo di andare.
Pochi passi, ed è davanti alla tenda rossa. Può sentirlo
prima ancora di sollevarla. E’ come immaginava, ma più forte. I sussurri che
premono contro le orecchie sono molto più violenti di un torrente, sono un’onda
immensa che sembra schiacciarla, sono artigli che si conficcano nella carne.
Artigli che sono scattati invano, mentre la magia, più
potente di qualunque altra avesse mai conosciuto, più potente di Lui, infine,
lo immobilizzava e lo imprigionava qui.
Qui nello specchio.
La tenda si stacca dagli anelli, cade al suolo, si sfarina
in una nube di polvere e tarme. Lo specchio risplende di luce candida, è esso
stesso un gorgo di luce, anzi, e nella luce ci sono due bagliori dorati. C’è
rabbia repressa, in quelli che sono occhi, e che non sono umani. C’è la
frustrazione di secoli di prigionia. Quando è stato chiuso nello specchio? E
perché solo una donna mortale avrebbe potuto liberarlo? Chi ha voluto imporgli
questa ulteriore pena? E per quale motivo?
Adriana non lo sa. Ma i sogni le hanno mostrato cosa doveva
fare, e lei, a differenza delle altre che l’hanno preceduta, ha osservato e
ascoltato, e si è preparata al punto di espellere ogni altra possibilità dalla propria
vita. La creatura doveva essere liberata, questo sapeva, questo voleva. Questo farà.
Così, non aspetta che i sussurri formino le parole che sa,
“Rompi lo specchio”, ma strappa un lembo della camicia da notte e lo arrotola
attorno alla mano destra. Si ferirà comunque, ma è così che va fatto.
Colpisce nel centro esatto dello specchio, mentre la luce
diventa più forte e la avvolge e la spinge a terra, e l’onda diventa il mare
intero e la travolge mozzandole il fiato e incendiandole la testa in una fitta
bruciante, mentre i frammenti dello specchio tagliano la pelle della mano e il
braccio fino al gomito. E’ tutto così forte e doloroso e…troppo, infine, per
una donna.
Non sa quanto resta svenuta. O forse non è uno svenimento, perché
in parte può vedere e sentire. Le sembra che ci sia qualcuno accanto a lei, e
che questo qualcuno sia il cuore stesso della luce che era nello specchio, e
che si sia chinato sul suo corpo sanguinante e abbia sussurrato ancora. Non sa
dire cosa. Sa che al suo risveglio la mano e il braccio erano lisci e senza
tagli, ma lievemente umidi, come se una saliva argentea li avesse sfiorati.
Si sveglia, a proposito, con il sole che entra dalle
finestre del salone. Tirandosi a sedere, lo vede riflesso nei frammenti dello
specchio e si sente leggera come non è mai stata. La giornata è bellissima.
Pensa che anche il resto della sua vita potrebbe esserlo, ora che la creatura
è libera.
Nella foresta che lo attende e che lo accoglierà con un
fruscio di benvenuto, e l’acqua del torrente sarà come musica. Dopo secoli.
Adriana passa la lingua sulla pelle della mano.
Buon viaggio, pensa ancora.
Non si stupisce delle lacrime che scendono sulle guance. Per
lungo tempo la creatura aveva abitato nei suoi sogni, prima che il tempo li
divorasse e li dissolvesse nel breve arco compiuto dal suo pugno verso lo
specchio.
Devo trovare un’altra casa, si dice Adriana, entrando
in cucina. E mentre versa la polvere di caffè nel filtro, pensa, con una
stretta al cuore, a quali sogni nuovi potrà mai trovare, e se potranno mai
essere all’altezza di quelli che ha perduto. Le tende del salone si sollevano
ancora, salutando.