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Brother’s pride
Disclaimer: Nessuno
dei personaggi qui presenti mi appartiene, né la canzone citata, né nulla
riguardante FMA. Solo questa piccola fan-fiction e le idee correlatevi sono
frutto delle mie elucubrazioni mentali. Però mi piacerebbe tanto tanto avere
possesso di Al. Ed non m’interessa, perché è la mia simpatica versione al
maschile. E non sono narcisista.
About:
Spaccato nella vita
degli Elric kyoudai, dato dalle mie scarne seppur complete conoscenze del manga.
Un esperimento.
Summary: La vita è
un insieme di memorie confuse; il rimorso ciò che le tiene insieme. L’orgoglio,
l’orgoglio di un fratello, di esserlo, la forza di andare avanti.
Rating:
PG13. Nulla di che,
ma argomenti opprimentemente tristi.
Pairing: No pairing.
Amore fraterno, in maniera fraterna. Stop.
Warnings:
One-shot; eventuali, inconsci spoilers possibili.
Prosti
menya, mladshiy brat!
Ya tak pred
toboy vinovat.
Pyitatsya
vernut' nyelzya
Togo, chto
vzyala zyemlya.
Kto znayet
zakon Byitiya,
Pomog byi mne
nayti otvet.
Zhestoko
oshibsya ya;
Ot smerti
lekarstva nyet.
Come posso ripagarti, fratello
mio?
Come posso pretendere che
mi perdoni?
Aggrappandomi al passato,
ho versato il tuo sangue.
E distrutto la tua possibilità
di
vivere.
Anche se conoscevo le leggi,
non vi ho prestato attenzione.
Come posso restituirti il
respiro
perduto?
Quello che non sapevo ti fosse
costato caro...perché non c’è
cura per la morte.
(Ooshima Michiru – Bratja)
-
Nulla può
riparare le cose, quando s’infrangono quelle conoscenze che non dovrebbero
esserlo.
In queste
cose, si può solo andare avanti, abbandonando quello che non c’è più, andando
avanti per quello che rimane.
Così
Edward Elric sentì la presa della mano fredda di sua madre scivolar via dalla
sua, stringendo in consolazione quella ancora calda di Alphonse Elric, l’adorato
fratellino.
Vide lui,
e vide qualcosa per cui proseguire; vide lui, e vide un obiettivo da
raggiungere, per conseguentemente ottenere l’ambita felicità.
Incontentabile, tentò di perdere tutto perché nuovo calore lo irradiasse nel
seno materno, al suo abbraccio, mentre Alphonse ancora, timidamente, annuiva
accondiscendente, si adeguava alle sue scelte, al suo pensiero.
Alimentato
dalla fiamma degl’occhi fraterni, il minore dei fratelli Elric faceva sue
conoscenze e decisioni che un bambino tranquillo come lui mai avrebbe davvero
ambito a conoscere.
Ed era
stato tutto così devastante, ed avevano creato ed ucciso, e perso tutto.
Egoista
nelle sue ambizioni, nei suoi desideri, Edward vide invece una parte di sé
indurirsi, pose inferriate davanti ai suoi resti; ed aveva così guadagnato forza
in cambio della sua innocenza; fu egoista sin dall’inizio, e fino alla fine,
mentre battevano i palmi delle mani sul cerchio di trasmutazione, perdendo
tutto, scaraventati in qualcosa di largamente opposto alle loro considerazioni.
-
Tante
volte o, quantomeno, un buon numero di volte, Edward Elric si ritrovava
la testa pesante, così pesante da costringerlo a privarsi di un buon numero di
momenti di sonno; ed il sonno era piuttosto importante per le sue fatiche, per
quella salute che doveva dividere con l’anima fraterna.
Ma tante,
tante volte era egoista; tante volte ogni cosa bruciava insopportabilmente, sale
su cicatrici ancora dischiuse, nuovo tormento.
Così tante
volte da ucciderlo lentamente, senza morbidezza alcuna; affrontava i suoi
ricordi, senza concedersi di urlare.
Ad
affrontare l’Inferno più e più volte, uno ci faceva il callo col dolore, con le
limitazioni umane, con i suoi errori.
Toccando
il fondo ripetutamente, non poteva che risalire, fiaccamente e debolmente.
Nulla era
dolore comprovabile a quello patito da Alphonse nel perdere il corpo per mani
fidate; al non aver più voce per urlare per lo strazio, a non aver più forze per
dimenarsi e tentare di scampare l’inevitabile.
Con le sue
mani sporche, Edward aveva legittimamente abbandonato ogni sua possibilità, ogni
suo diritto.
Paragonava, continuamente paragonava non il dolore suo, ma quello di Alphonse,
con quella bieca e sottile felicità che gli riusciva di dargli.
E’
abbastanza?
No, non
sarà mai abbastanza.
Dolore non
porta gioia, ma la scaccia.
Il dolore
patito da Alphonse, era il peggiore di tutti; dunque la sua felicità la più vana
e sottile.
Fermamente, riconosceva questo, e nel farlo si sentiva piccolo e sciocco, perché
Alphonse non si era mai lamentato di nulla, per fedeltà fraterna, e lui se ne
sentiva tanto orgoglioso, di quell’orgoglio che solo un fratello maggiore può
provare, di quell’ammirazione profonda che solo un fratello minore può provare.
Continuamente, loro erano entrambe le cose, mischiando le carte in tavola,
scambiandosi i ruoli e poi facendolo ancora, così, smossi solo da palpabile
confusione, e nulla era chiaro, e tutto era oscurità.
Tante
volte Edward, a quel modo, si avventava sulle sue paure, sul suo passato, con la
forza e la disperazione violenta propria solo a chi è nel torto e lo sa, lo sa
benissimo.
La testa è
fremente, e nuove colpe si accatastano alle altre, mentre giace in terra, senza
una ragione precisa, come un povero idiota, in verità, sulla gradinata sotto la
loro stanza alla centrale.
Nel voler
pensare al meglio per il fratello, ogni volta lo privava della sua presenza, ed
ogni volta Alphonse aveva paura, tanta paura.
Al buio,
ogni volta attendeva il suo ritorno invano, e il pensiero che fosse via per sé,
solo quello lo sollevava un poco.
Ma Edward
era il suo fratellone adorato, quanto gli era rimasto al mondo, e non voleva,
non voleva perderlo neppure distrattamente di vista.
Eppure non
se la sente più di tollerare questo, troppo il disordine dentro di sé, e si
solleva dal suolo, metallico nei movimenti, metallico nel tremare; ed è tutta
pura illusione, pura malattia: nulla gli è concesso, in questo corpo, nulla.
Terrorizzato, terrorizzato ogni volta di più in tali constatazioni sente il
bisogno di esternarlo; e non può urlare, o disturberebbe il fratellone; e non
può schiantarsi in suolo, perché questo lo addolorerebbe.
E’ solo
ansia, vibrante, e lo scuote, e prosegue goffamente nella sua terrorizzata
ricerca di consolazione, di Edward.
Potrebbe
piangere, nel rivederlo, solo per il conforto; non può.
"Nii-san,
nii-san!"
Sente
sorta di benessere interiore, nel dirlo, e la confusione allevia gli animi di
entrambi, abbandonandoli.
Così,
certi l’uno nella tangibilità dell’altro, è tutto indicibilmente lenitore.
Per una
volta, qualcosa alleggerisce.
E senza
sapere bene perché, Edward solleva la mano a fargli cenno di sederglisi vicino,
sguardo ancora perso nel nulla, nulla ancora ad allargargli la visione al
passato.
E ricorda,
ricorda pesi che ha inflitto alla leggerezza ingenua di Alphponse.
Di ognuno
di questi, per quanto Alphonse abbia affrontato tutto con calma, si sente
prettamente colpevole, e desidera, desidererebbe di non esserne mai stato
capace, siano esse seppur piccolezze, ma di un degno ammontare.
Il biasimo
era il lenitore di ogni ferita; il biasimo per sé stesso, quanto suppurava,
lacerando in pezzi, le ferite del suo corpo, dei nervi interni, della carne
debole e inutile che ne ricopriva le ossa.
A loro
modo, entrambe le cose rimbombavano metalliche al suo interno; a loro modo,
entrambe le cose risuonavano necessarie al fargli volgere un altro passo
avanti.
Guardando
a quelle mani inutili e fredde con cui si era spacciato sommo creatore, con cui
aveva attinto ad un mucchio di conoscenze che avrebbe preferito non far sue;
guardando al modo in cui le sue dita si flettono, dure ma ai comandi dei suoi
nervi vive, riconosce che ci sarebbero tante cose sbagliate da dire,
dunque le sceglie con cura.
Edward
erra, tante volte, straniero in quella pesante mente che ne disturba la
spensieratezza d’adolescente, consapevolezze, colpe e pene che cancellano quanto
d’infante era rimasto tra le sue dita.
Le sue
dita, così fredde e dure, sono vive.
Queste dita, queste
mani vorrebbe offrirle al fratellino che ha tradito, agli occhi grandi che lo
guardavano con fiducia, e non hanno ancora smesso di farlo.
Così, lui gli ha
tolto, tolto e ancora tolto tante volte; l’ha appesantito di consapevolezze,
l’ha alleggerito di colpe.
Quel che ha
infranto lui stesso è insensato ricada su di altri; in ottobre cancellò le
tracce dei suoi errori, volendoli rendere falsi ed irreali.
Ma Alphonse è
rimasto davanti ai suoi occhi, a condannarlo ogni giorno di più, perfettamente
tangibile, perfettamente visibile.
Questo e la voce di
lui, lentamente a farsi spazio nella sua mente, riportano alla luce memorie
sopite, le risvegliano.
Di come lui gli
abbia dapprima insegnato cos’era la morte, e poi uccisolo con le sue mani, in
sorda ironia che nessuno potrà mai udire, e ricorda, ricorda giorni felici,
l’uno al fianco dell’altro.
Ricorda, e nel
ricordarlo è più che mai colpevole, ancora e ancora.
-
In quei
giorni, non avevano che, presumibilmente, sei e sette anni.
Non
distante da casa loro, un placido luogo si elevava dinanzi alle giovani
creature, sorprendendoli in quella semplicità.
Un
laghetto in cui spesso giocavano a schizzarsi d’acqua, a rincorrersi, loro e
Winry, circondati da lievi colline da cui ruzzolare, scalare quando innevate, da
osservare, da usare come giacigli.
Cespugli
ed immensi, immensi prati fioriti, ed era il Paradiso.
Felicemente, si erano ritrovati a passarci ogni giorno, più e più volte: dopo la
scuola, dopo i pasti, i compiti, animi acquietando.
I lievi
sorrisi di Winry, lo scintillio dell’acqua sui suoi capelli così biondi, il sole
a solleticarle le iridi celesti da una parte; la chioma più scura e
scarmigliata, il sorriso sempre così gentile di Al, caldo e gentile ed
innocente, dall’altra.
"Nii-san,
nii-san, fa’ attenzione!"
Riscuotendosi, il piccolo Ed sbatté un attimo le palpebre, realizzando di aver
messo un piede scalzo in acqua, non sul piccolo sentiero di rocce che stava
seguendo un po’ distrattamente; essendo pietre di modeste dimensioni,
accantonate le scarpe sull’erba, era sorta tra loro quella piccola sfida, a chi
sarebbe giunto all’altro capo del laghetto senza cadere.
Alphonse e
Winry erano leggermente più piccoli di corporatura di lui, e seppur goffamente,
non avevano avuto grossi problemi; lui invece rovinò in acqua, sbattendo ancora
le palpebre piuttosto perplesso, e scostandosi un ciuffo di capelli ora biondo
scuro per l’acqua dalla fronte.
"Edo-kun,
sei goffo. Sei più basso di me, ma non hai la mia grazia." rise Winry allargando
un sorrisetto che di malizia non aveva nulla, ma solo tenerezza.
Edward
dapprima arrossì seccato, aprendo la bocca per dire qualcosa a proposito del
fatto che un ippopotamo avrebbe avuto grazia maggiore di lei, ma non altrettanta
fortuna, ma si trattenne alla vista della mano di Alphonse a lui tesa, così,
accondiscendente.
Giovane
paciere, con quel sorrisetto conciliante risolveva sempre tutto, ed allo stesso
modo Edward dimenticò all’istante ogni proposito ai danni in seguito della
proprio integrità fisica, limitandosi ad allontanare un poco seccato la mano di
Alphonse, con tutta la gentilezza che poteva evitare di ostentare, ma sentire.
"Non ce
n’è bisogno, Al, affatto. Sono più grande di te e non una mocciosetta."
sottolineò fremente mentre Winry riduceva gli occhi a fessure, preparandosi ad
un nuovo attacco verbale circa la sua statura, ma Alphonse già pareva, per pura
abitudine a quei piccoli diverbi e agli atteggiamenti scostanti del fratello,
essere stato distratto da qualcosa tra i cespugli.
Gli altri
due non gli prestarono molta attenzione; Alphonse udì distrattamente un urlo di
dolore da parte fraterna, e un seccato, seguito da passi pesanti "Me ne vado!"
dall’altra parte.
Il minore
degli Elric sollevò vagamente la mano in segno di saluto, troppo eccitato per
tentare di fermarla, e allungò un cenno ad Edward, che ancora brontolava
testardo.
"Così
suscettibile e violenta, quella lì..."
"Nii-san."
"...insomma, mica è sempre colpa mia.."
"Nii-san."
"...ecco,
ed ha cominciato le..."
"Nii-san!"
Edward si
riscosse nuovamente, quasi intimiditone, e si avvicinò al fratellino,
inginocchiato, che stringeva qualcosa tra le tozze manine.
"Nii-san.
Guarda!"
E sollevò
le mani a lui, un gattino a gemergli tra le mani.
Una
sottile peluria grigia si accostava al corpicino gracile ed ossuto, gli occhi
chiusi.
Alphonse
lo trovava davvero, davvero grazioso; si chiese se avrebbe potuto tenerlo; ma
d’improvviso il micino frenò ogni lamento, giacendo inerme, ed Edward per primo
realizzò con tormento che quello era stato un gemito non lamentoso, ma di
richiesta d’aiuto.
Probabilmente il più debole della cucciolata, era stato abbandonato da una madre
con un istinto materno non del tutto sviluppato, o da un padrone spietato.
Strinse le
labbra mentre il minore ancora accoglieva tra le braccia il piccolo felino.
Non
sembrava avere ora che un’espressione rilassata sul muso, come piacevolmente
addormentato, ed Alphonse lo scosse gentilmente, domandandandosi perché non si
muovesse; forse non aveva voglia di giocare.
Forse lui
non piaceva, ai gatti.
Edward si
sentì fiacco e triste, d’improvviso; qualche volta, non rammentava come né
quando, ma la mamma gli aveva parlato di una cosa simile.
Forse gli
era morto un canarino, non ricordava bene, ma aveva realizzato che nessun
movimento stava per nessun ritorno.
Era stato
freddo e crudele da realizzare, e non si sentì di dirlo apertamente al
fratellino, quando la constatazione feriva lui stesso.
Quel
corpicino fermo, feriva lui stesso.
Così, per
affievolirne il fardello, stette un poco in silenzio a pensare.
"Al…lui
non è qui. E’ in cielo." tentò debolmente, vigliacco agli occhi verde scuro del
più piccolo.
E per
qualche strana ragione, il fatto che il gattino fosse da qualche parte parve
calmare Alphonse un poco.
"Quando
torna, nii-san?"
Edward si morse un poco il labbro inferiore, alla disperata ricerca di un
qualche appiglio, ma non ne trovò; né gli parve giusto fargli accogliere quella
consapevolezza morbidamente quando, irruenta, più e più volte si sarebbe
scagliata davanti a loro, com’era giusto che fosse.
"Non
torna, Al."
Il fratellino strinse forte gli occhi, e tastò ancora il corpicino immobile
dell’animale, cercando un battito che non avrebbe trovato, e urlando forte.
Mestamente, sopracciglia calate alle palpebre, Edward lasciò scivolare il palmo
della mano sinistra a sfiorare la testolina bionda del fratello, mentre con
l’altra afferrava delicatamente il gattino.
"Lo
seppelliremo qui."
Alphonse chiuse gli occhi, asciugandosi il viso con la manica della camicia, e
sentì qualcosa di fermo e confortante, al di là dell’oppressione al petto nel
realizzare cosa, effettivamente, era morire.
Così,
l’occhio fraterno era sempre stato calato su di lui, le mani che più conoscevano
il mondo e sapevano come agire scavavano in terra cercando di ricreare un
morbido giaciglio per l’animale; questo lo rassicurò.
Non
sarebbe mai stato solo, mai sperduto, ma sempre con un vigile punto di
riferimento a sovrastarlo.
Tirando un
po’ su col naso si chinò dunque, anche lui, ad aiutarlo.
-
"Nii-san,
è...successo qualcosa?"
Alphonse
piano si ricompone, accostandoglisi, senza mutamenti a quell’esteriorità da lui
distaccata, per non peggiorare in maniera avvilente le cose.
Lo sguardo
sottilmente annebbiato di Edward vaga incerto tra il suolo ed il fratello,
stringendo forte le labbra e dischiudendole solo infine, sopracciglia chine alle
palpebre in velata frustrazione, mentre ricompone la netta parvenza di quello
che gli spettava essere, della forza che, come sostegno ad entrambi, gli spetta
mantenere.
"Perché
eri agitato?" prorompe infine ansimante, ansia flebilmente tradendo, fisso
guardando Alphonse, che abbassa un poco la testa, passandosi la mano metallica
dietro il capo, in implicito imbarazzo, scuotendola poi con vigore, ed Edward se
ne meraviglia un poco, addolcendo poi l’espressione in viso, fraterno come deve,
e come si sente di essere.
Loro erano
così; nulla meno importante di sé, ottimo stratagemma per celare riservatezza
alle proprie pene.
Questo
valeva principalmente per Edward, a modo suo; spontaneità così ingenua, invece,
caratterizzava appieno solo Alphonse.
"Non
è...non è nulla, davvero!" esclama il minore dei due, minimizzando con quei
gesti e parole che gli attenti occhi ed orecchie di Edward ormai riaccostano
gentilmente e senza problemi al viso, all’espressività di Alphonse ferma nei
suoi ricordi, e non se la sente di provare nemmeno ad insistere, per l’inutilità
che avrebbe in questp momento; e sempre.
Si
ridistende di scatto sulla gradinata, schiena sul pavimento antistante, senza
mostrare alcun mutamento esteriore, solo qualcosa di simile a maggiore
spensieratezza.
D’altronde, non lo stupisce quella reazione, quel non negare che vi fosse
qualcosa per l’ingenua sincerità che lo accompagnava da sempre, ma non ritenerla
cosa importante e degna di sua preoccupazione da pronunciarla.
Così, così
teneramente infantile, quello era ed è ancora il suo fratellino.
Non ha mai
scordato chi è, per quanto lui stesso tenda a dimenticarlo.
"Sai, Al"
esordisce ora, senza particolare ragione, mentre il fratello si volge a lui "Tu
con me ti puoi lamentare. Dovresti, con me più che con altri, perché tutto è
partito da me e, pur facendo del mio meglio, non riesco a combinare nulla di
plausibile. Come giungo vicino ad una risoluzione, mi sfugge dalle mani, nella
mia inutilità. Ah, chi potrebbe mai volere un fratello simile?"
"Questo
non è assolutamente vero!" esplode Alphonse, accorato nell’amarezza ed
ingiustizia che gli hanno trasmesso
quelle
parole e quel tono, mentre Edward allargava un basso sorriso ironico, mano sulla
fronte a scoprirla da ciuffi di capelli troppo lunghi "Nii-san, fai sempre tutto
quello che puoi e quello che non puoi, mai per felicità tua, sempre per
felicità mia o di entrambi, perdendo di vista i tuoi desideri, la tua vita, ed
io, io odio questo! Hai già perso e sprecato troppo, per me, per quanto
mi riguarda si potrebbe anche lasciar stare tutt-..."
L’altro
alza allora di scatto il capo, riportandolo fiaccamente indietro; abbandonando
la testa alle sardoniche risa, abbandonando le risa al sardonico pianto.
"Tu sei
convinto, Al, veramente convinto che ti vada bene così?"
Stringe
gli occhi e i denti, amaro a logorarne la testa già fiaccata.
Alphonse
esita, un poco, quasi vacillante, perplesso ma fermo nel suo pensiero.
"...in
effetti no, nii-san. Io non ne sono convinto. Ma va bene così. Per ora.
Se serve, per sempre."
Edward
stringe maggiormente le labbra, celando il malessere che straborda ormai da un
po’ nel suo corpo, contegno riprendendo, orgoglio ostentando in quel fiacco,
indistruttibile tender di labbra nello scuoter furiosamente il capo.
"Stupido.
Stupido, dannazione. Io non ho molti meriti, ma credevo, spero di averti
fatto capire delle cose importanti. Nonostante tutto, sempre, sempre ho potuto
vedere il tuo sorriso felice, dentro di me. Nel vederlo, pensavo di star
seguendo un giusto tracciato. Di poter alleggerire il peso del mio sguardo su di
te. Ho sempre ricordato chi eri, ed ora sei tu a volerlo dimenticare, ad
accontentarti di una vita fittizia? No, non è giusto. E’ stato tutto vano se
siamo dovuti giungere a questo."
Il minore
sente una certa dose di propria afflizione perder valore, in quello; nulla,
nulla di simile avrebbe potuto scivolargli addosso, eppure questo lo
alleggerisce.
E’ un tale
sollievo, alle volte, tante volte, venir corretto.
Sapere di
essere in errore lo solleva dalle responsabilità che un adulto deve assumersi.
Sapere di
essere in errore e venire corretto, gli concede di essere il bambino che
dovrebbe essere ma da cui non viene mai trattato, per forza di cose, per furia
degli eventi.
Trattato
così, gentilmente accostato alla soluzione ai suoi errori, non gli mancherà mai
supporto d’adulto, adulto in quell’infantilità dall’altro odiata e da lui tanto
sospirata.
Nessuno di
loro ha sbagliato, né sbaglierà mai da solo.
"Non
intendevo questo." sospira, nonostante tutto un poco fiaccatone, allo stesso
tempo veramente rinvigoritone "Ma ti ringrazio, nii-san."
L’altro
scrolla le spalle, portando le mani alla nuca, portando la schiena verso di lui.
Senza
bisogno di sguardi o parole, l’uno può veder l’altro sorridere nei propri
ricordi, nel più stretto infiltrarsi di gioia al cuore, nel più intimo celarsi
di antiche speranze.
Ed
afferratele una nuova volta, nel cingerle al petto, morranno ancora, più e più
volte, prima di lasciarle scivolare via.
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