La donna
dorme, dentro preziose lenzuola di seta.
Il
copriletto è percorso di ricami sottili, eleganti giochi di fiori sbocciati in
fili iridescenti, e sulla balza un monogramma e un simbolo, lo stemma di
famiglia. Una stella a cinque punte.
I lunghi
capelli, un tempo neri come la notte fuori della finestra, ora striati d’argento
sono sparsi con religiosa cura sul cuscino, e persino le pieghe delle coperte
sembrano ordinate, appena increspate nelle forme sottili della donna.
Il letto è
grande, ma solo una piazza è occupata. L’altra è intatta, nemmeno quelle minime
pieghe la turbano. Sono molti anni che nessuno dorme più accanto alla donna, se
non la memoria di un uomo silenzioso e gentile, il cui volto sorride ancora in
bianco e nero nella foto sul tavolino da notte. Anni, così tanti, ma che lei
ancora conta, mentre ha quasi rinunciato a contare i suoi, ormai entrati
nell’ultima stagione della vita.
Dorme. Sta
sognando.
Di solito, i
suoi sogni sono leggeri e armoniosi, pennellate di acquerello su sfondi chiari,
disegni quasi astratti nella luce, i visi delle persone che ha amato e che ama,
tutti accanto a lei come in un ritrovo a lungo atteso. Sempre più rari i ricordi
della sua infanzia e della sua giovinezza, e qualche volta ci sono i sogni
strani, quelli che sfuggono alla sua razionalità, quelli in cui si trova in
posti che non ha mai visto, liquefatti in sensazioni che al risveglio paiono
appartenere ad un altro mondo.
Rari sono
gli incubi.
Ma questo è
un incubo.
--Twenty-five years since I woke up trembling
Twenty-five years since that terrible dream
I could see that the world was crumbling
Nothing is ever as it seems—
Il mondo.
Non sa come
sia possibile vedere il mondo tutto insieme, ma quella è l’impressione del
momento. L’idea mozzafiato di afferrare il mondo intero in uno sguardo. Ci sono
città ultramoderne irrequiete di grattacieli e insegne al neon, riconosce Tokyo,
e New York, forse, e poi ci sono villaggi assediati dal deserto e dalle mosche,
lamiere rugginose per proteggersi dalla febbre di un sole tutto l’anno.
Metropoli che ancora conservano diroccati i muri di qualche epoca passata, e
capanne di pescatori sull’oceano. Nello stesso attimo, nello stesso spazio,
ghiacci e dune di sabbia dorata, steppe senza fine e montagne illuminate di
fuochi.
Ma
improvvisamente capisce una cosa.
Che il mondo
è fatto di vetro.
Non potrebbe
dire come abbia fatto a comprenderlo, ma da un momento all’altro lo sa, lo sa e
basta. E’ una certezza testarda, che non vuole spiegazioni.
Il mondo è
fatto di vetro.
E una crepa
serpeggia tra le creste dei monti, giù, percorre le dorsali degli oceani, segue
le linee dei vulcani, sempre più ampia, si spacca nei fiumi, apre in due il
mare… e crollano le capanne e le ville, tremano, precipitano gli specchi di cui
sono fatti i grattacieli, di vetro sono le acque che si infrangono in spuma,
cadono le città.
--Tried
to run but my feet were frozen
Tried to scream but there was no sound—
Lei vorrebbe
urlare, correre via da qualunque luogo in cui si trovi, perché sa, sa che tutto
sta per finire. Gridare il suo terrore e fuggire, nascondersi, l’istinto di un
animale braccato da un nemico che non vede. Ma non ha voce. Non può muoversi,
solo restare impietrita sotto la pioggia di milioni di frammenti di vetro, nella
tempesta del mondo accoltellato a morte.
Schegge,
vetri, le urla di tutti gli abitanti della Terra, tranne lei… vetri… specchi.
C’è uno
specchio.
Davanti, un
bambino. E’ piccolo, chissà quanti anni potrà avere, forse una decina. Ha i
capelli lisci e neri, il volto nascosto dalla frangetta, e gioca con la sua
immagine riflessa. Ride, e l’immagine ride. Apre la mano contro la superficie, e
dall’altra parte un’altra mano, perfettamente identica, si congiunge con la sua.
Il bambino osserva con infinita meraviglia il gioco inesauribile di qualcosa di
così normale, ordinario come uno specchio.
La
sensazione di avvicinarsi al ragazzino. Lei si china, alla sua altezza, e lui si
volta, stupefatto, ma poi sembra riconoscerla, e sorride. Adesso può vedere i
suoi occhi, grandi e verdi come cose che ha dimenticato, prati in cui forse ha
corso in anni lontanissimi, all’alba della sua vita.
Anche
l’immagine nello specchio sorride in occhi altrettanto verdi. Eppure, ha
qualcosa di lievemente diverso, un’espressione appena più scherzosa, dispettosa,
un modo più aperto di ridere. Ed entrambi i bambini corrono verso di lei, si
perdono nel suo abbraccio che non ha confini.
Tenerezza.
Sente un’impressione nuova eppure antica di tenerezza, che si spande attorno a
lei, intorno a loro in un manto di rosa. Rosa. L’immensa chioma di un ciliegio
tutto in fiore.
Dove sono i
bambini dai capelli neri? Non lo sa, non sa quando si siano slacciati dal suo
abbraccio, ma ora ne assapora l’assenza, le sue mani stringono il vuoto.
Ma non prova
angoscia, perché conosce il luogo dove ritrovarli. Deve averli lasciati lì ad
aspettare, forse ha promesso loro di tornare a prenderli presto, sotto il
ciliegio. Ed è lì che sono. No, si è sbagliata, solo uno l’attende ai piedi
dell’albero in fiore.
E’ tutto
sbagliato.
Perché
accanto al bambino c’è un uomo, e lei presagisce che dietro i suoi sorrisi
quell’uomo nasconde abissi di doppiezza, piume nere e ricordi di sangue, fiori
macchiati di rosso che se li tocchi ti tingeranno le dita per sempre.
E allora
tenta di correre, correre per salvare il bambino, si getta con tutto il suo
essere sotto il ciliegio in fiore, tende le mani, protende il suo potere perché
no, no, non deve succedere niente al ragazzino dagli occhi verdi, non deve
accadergli niente, no…
--In my
head voices echoing
Girl you should know better by now—
Ma
c’è l’uomo.
Che la fissa con il
suo sorriso senza occhi, con il suo sguardo senz’anima. Gli basta sollevare una
mano per respingere la donna, spezzare il suo slancio, gettarla a terra, la
forza che muore in gola… dolore… non esiste altro che il dolore nelle gambe che
non può sentire più…
E quel sorriso
beffardo sembra dirle “Davvero credevi di potermi battere? Dovresti saperlo che…
Non puoi.”
Le parole la
deridono, ridono, ripetute mille volte nella sua testa fino a diventare una
successione di suoni senza senso, per lasciare solo il terrore, la sensazione di
avere perso.
La sconfitta.
Il senso della
sconfitta la spazza, annulla il suo essere, e adesso c’è solo bianco, vuoto.
Neanche la consolazione di avvertire le lacrime sulle guance, nemmeno quella può
avere, perché sa di essere totalmente impotente. Il suo esistere è inutile,
perché non potrà mai fare niente per cambiare le cose, non potrà impedire al
destino di girare la sua ruota, impedire al mondo di vetro di spaccarsi in tutti
i suoi specchi, non potrà fermare quell’uomo dal prendere le mani del bambino e
stringerle tra le sue, in una promessa perversa…
E il mondo continua a
cadere.
La donna si sveglia
di soprassalto.
Trema, trema
incontrollabile tra le gelide lenzuola di seta, le immagini del sogno che si
sfaldano, si bruciano davanti agli occhi della sua mente come corrose dalla
realtà del risveglio. Cerca di trattenerle, di capire, di immergere le mani in
quel fiume per afferrare qualcosa che brilla sul fondo… quelle visioni… è già
tutto sfuocato, indeciso, impreciso, ma una cosa sola resta chiara.
Il senso della
disperazione.
Il panico che invade
la sua pelle e ogni suo pensiero, terrore non ricorda più di cosa, ma è un
pericolo imminente, immenso, un’ombra sospesa addosso al suo mondo.
Spalanca la porta e,
a piedi nudi sul legno, corre nell’altra stanza, dove dormono l’uomo e la
giovane donna.
Sì, dormono.
Sono in pace, le
coperte si sollevano appena al ritmo confortante del loro respiro, l’uno vicino
all’altra nelle loro espressioni tranquille, lontane da qualsiasi incubo.
L’uomo forse ha
sentito qualche rumore dato che si agita un poco sotto le lenzuola, socchiude
gli occhi, poi riconosce la figura nella penombra, accanto allo shoji, e si alza
lento per venirle incontro.
“Mamma? Che ci fai in
piedi? Cosa c’è?”
Come può spiegare il
panico irragionevole che ancora la fa tremare sotto le vesti, cosa può dire di
un sogno che non ricorda, di un pericolo che adesso è così chiaro che non
esiste? Adesso, con i piedi ben piantati a terra, l’aria appena fredda della
notte, il viso assonnato, i capelli arruffati di suo figlio… adesso… ma una
manciata di attimi fa, dentro quelle immagini buie e irrimediabili, dentro quel
labirinto di disperazione senza uscita…
“Niente, mi sembrava…
di aver sentito qualcosa, sai…”
Lui sorride
affettuoso, nonostante il brusco risveglio. “No, no, è tutto a posto, stai
tranquilla. E poi, lo sai, almeno per due settimane non dovrebbe ancora
succedere nulla. Certo, quando si tratta di gemelli non si sa mai… magari questi
due bricconi hanno fretta di nascere… ma non ti preoccupare, mamma, se ci fosse
qualcosa ti verremmo a svegliare noi. D’accordo?”
Ha tanta voglia di
piangere. Vorrebbe avvertire suo figlio di qualcosa, qualcosa, ma non sa cosa. E
allora può soltanto passargli sul viso una carezza della sua mano tremante, e
fare finta di niente.
“Buonanotte, figlio
mio.”
“Buonanotte.”
Oh, non sarà una
buona notte, per lei. I suoi passi sono lenti e stanchi sul legno, non ha il
coraggio di chiudersi la porta alle spalle quando rientra nella sua camera.
Rannicchiata in fondo al letto, si stringe addosso le coperte cercando invano di
ricordare, o di dimenticare. Si chiede perché ha ricevuto in eredità quel
maledetto potere, perché ogni tanto nei suoi sogni, nelle meditazioni le si
aprano squarci del futuro, strappi nel cielo che fanno intravedere qualcosa
d’altro, visioni che corrono nella loro confusione. A volte si sono avverate,
altre volte no. E non c’è modo di discernere il giusto dall’inganno, di sapere
se quelle apparizioni si affaccino dalle porte della verità o da quelle
dell’illusione.
Forse è meglio così.
Potrebbe tirare fuori
dai suoi cassetti le pergamene incantate e l’inchiostro, il coltello cerimoniale
e uno specchio, potrebbe sedersi di fronte al Grande Fuoco che non si spegne
mai, e forse, nella danza delle fiamme, nell’odore del fumo si disegnerebbe la
verità.
Ma sa già che non ne
avrà il coraggio.
--Long
ago, far away…
In the mist of yesterday—
-----------------------------------
--Twenty-five years since I woke up trembling
Twenty-five years since that terrible dream—
Lui era già sulla
porta.
Il suo esile profilo
si dipingeva in controluce sullo sfondo del giardino della villa immerso nella
primavera. Il chiarore del primo mattino, e il verde, il verde che faceva
capolino timidamente dall’inverno e dalla notte. Gli occhi di lui sarebbero
dovuti essere ancor più preziosi di quel tripudio, ancora più verdi della gloria
della natura, ma erano invece spenti, come sempre, occupati adesso a controllare
le fibbie e le chiusure delle valigie.
Si raddrizzò, e
rivolse uno sguardo all’anziana donna immobile nell’ingresso.
“Allora… io vado.”
Tre parole,
definitive. E lui aveva già i bagagli in mano, già un piede fuori della soglia.
L’unico desiderio di
lei era quello di corrergli incontro, fermarlo, stringerlo a sé come faceva
quando lui era piccolo, quando ascoltava ogni sua parola, obbediente e timido
negli specchi di smeraldo che erano i suoi occhi. Ma non poteva.
Non poteva più
correre, inchiodata alla sedia da tanti anni che quasi non ricordava più cosa
significasse posare i piedi per terra e sentire le piante sostenere il peso del
corpo.
Non poteva
abbracciarlo, perché lui era un uomo adesso, il capo della famiglia, ogni sua
parola, ogni sua silenziosa ostinazione erano legge.
Non poteva fermarlo.
Perché nei suoi occhi
leggeva una cosa sola.
Che non si può
salvare nessuno da se stesso.
--“You
had tried so hard to save me
How do you save someone from themselves?
All those years, wasted wishes
Drowning in the wishing well…”--
Quanti anni buttati,
quanti sogni spezzati, quante vite perse?
Che importava che
fosse imminente la fine del mondo, quando il suo mondo era già finito da un
pezzo, rimasto soltanto a trascinarsi nella sua inutile agonia disfatta, a
ricordarle ad ogni minuto che passava tutti i suoi fallimenti?
Perché l’unica cosa
che le restava doveva andare via?
“Addio, nonna.”
Le lacrime
scivolavano giù sul viso della donna, neanche quelle aveva potuto fermare.
“Oh, Subaru… pregherò
per te, Subaru…”
“Non ti disturbare.”
Neanche quello,
poteva fare.
E d’improvviso le
tornò alla mente il sogno, il sogno che aveva fatto venticinque anni prima. E
quella sensazione così assoluta di impotenza, di inutilità, di sconfitta riempì
di nuovo, in un istante solo, tutto il suo essere.
Era ancora una volta
immobile nell’occhio del ciclone, sotto il diluvio di schegge di vetro, in mezzo
al mondo che crollava, schiantato come tutte le sue speranze, le sue illusioni.
Sorrisi senza allegria e addii senza senso, desideri finiti in tragedia e
neanche il tempo di pronunciare una parola, fatica sprecata, fiori di sangue
sbocciati nel suo universo immacolato.
Lui se n’era già
andato.
Gli occhi della donna
restarono fissi sulla sua figura che si allontanava, annegata nel velo caldo
delle lacrime. L’ultimo cancello si spalancava, lasciava passare il giovane uomo
–non s’era voltato indietro- e poi si richiudeva, per non aprirsi mai più. Mai
più l’avrebbe rivisto tornare in quella casa.
Dopo venticinque
anni, il sogno tornava ad esigere il suo tributo.
Venticinque anni di
una vita che adesso andava a recitare il suo ultimo atto, l’ultimo sacrificio al
destino. Andava a fare finta di opporsi all’epilogo.
Andava a finire un
mondo già morto.
Per tutti e due.
--Twenty-five years since I woke up trembling
Twenty-five years since that terrible dream…—
[Note...
Scritta completamente di
getto, sulle note della canzone dei Blackmore's Night. E' la prima volta che
scrivo in questo modo, e forse sarebbe stato meglio aspettare qualche giorno,
lasciarla lì e poi tornare a rileggerla tra un po'. Ma ho voluto sperimentare
una scrittura completamente ispirata, senza ripensamenti. E soprattutto, volevo
metterla qui entro oggi, perché... è il mio regalo di compleanno per Juuhachi
Go!! E questa scadenza mi ha spinto a completare il lavoro. In onore di una
grande scrittrice come lei, poi, ho voluto fare un ritorno all'onirico, il mio
modo di scrivere attraverso il quale abbiamo cominciato a conoscerci meglio.
Con i miei più calorosi
auguri per Jucchan (quanto vorrei essere lì con te...) e con la speranza che
questa fic abbia un senso e sia almeno un po' comprensibile...
Shu]
|