Disclaimer: giuro di
essere una narratrice mentecatta, dica lo giuro - lo giuro! I Muse e
quei poveretti che fanno loro da contorno in questa storia sono
totalmente estranei ai fatti narrati, checché io ne dica.
Note: tante, troppe, specie se
parliamo di Matt Bellamy. Ma no, ciaosonol'autrice!
un giorno sono andata in overdose da tè e ho provato a
scrivere qualcosa. Non ho avuto il modo di pensarci più di
tanto, in realtà, perché se l'avessi fatto avrei
cestinato tutto, o forse non avrei mai avuto il coraggio di pubblicare,
chissà. Approfittando dunque dell'ora tarda (what a god taxi driver,
sono le 04:17!), vi delizio con il primo capitolo, come una sorta di
preludio, di una storia senza alcuna pretesa che si rivelerà
essere una sega megagalatica, conoscendomi.
Allora... 'Meds' è
una canzone dei Placebo (ma no, Brian non presenzierà in
questa storia semplicemente perché non riesco a gestirlo -
voglio dire, ho già i miei Bellamy, non complichiamoci
ulteriormente la vita, uh?), e da questa prende il nome la nostra
impresa. A narrare è Dominic, il batterista-leopardo
(idraulico nel tempo libero), che possiede la grazia e la finezza di un
muratore, lo so. Il punto è che non riesco ad immaginare
queste persone impegnate in un monologo alla Jane Austen, mi dispiace.
Comunque... non voglio dirvi altro.
C'è un motivo per cui questa storia si trova qui e
non nella sezione Muse.
#sapevatelo
Altre annotazioni? No, ma vi chiedo immensamente e ripetutamente scusa
perché io non scrivo dalle elementari, tipo. Potrei dunque
considerare questo come il mio primo autentico approccio alla scrittura
di fanfiction. Insomma, non vi sto dicendo che ho dimenticato le regole
basi della grammatica italiana, solo che sono fuori fase,
olè.
Pairing:
mostly Bellamy/Howard (o BellDom, come preferite), ma non sono escluse
varie ed eventuali ulteriori;
Commenti:
che ve lo dico a fare? Tutti sanno che un commento fa la giornata di
una fic-writer, quindi come
at me, bwos!
Enjoy <3
Meds
_I was
alone
falling
free
trying
my best not to forget
*
Il
giorno del mio quindicesimo compleanno mio padre mi portò a
pescare.
Ricordo
ancora come quella mattina di dicembre la mamma avesse provato a
fermarci, in piedi sull’uscio della porta sul retro, avvolta
nella sua vestaglia di pile preferita - quella rosa, rosa a righine
azzurre e le maniche a sbuffo che la zia Cathy le aveva regalato
qualche Natale prima.
“Bill,
tu credi sia davvero necessario? Hai visto il tempo, lì
fuori? Sta per venir giù un acquazzone!” aveva
detto, lo sguardo colmo di rimprovero.
Papà
aveva solo scrollato le spalle, offrendole poi un bacio sulla guancia
ed un sorriso giovale in risposta.
“Saremo
a casa prima di pranzo, aspetta noi per cucinare!” e si era
fatto strada fuori in cortile, nel freddo bastardo della costa inglese,
avvolto nel suo piumino verde muschio e tre giri di sciarpa che lo
facevano sembrare due volte più grosso di quanto in
realtà non fosse.
“Papà,
aspetta!” mi ero già lanciato
all’inseguimento di mio padre quando la mamma mi
tirò indietro, verso di sé, stringendomi in un
abbraccio che profumava di gelsomino.
“Auguri,
piccolo, ti voglio bene” e poi mi aveva ricoperto i capelli,
e la fronte e le guance di baci giocosi e soffi di risate, divertita
dai miei tentativi di allontanarla e i ripetuti
“ma’, dacci un taglio! Ho
quindici anni, ormai!”
In
piedi in cortile, mio padre osservava la scena a braccia aperte. Rideva.
“Dom,
figliolo, credimi, non si è mai troppo grandi per quello”
aveva detto, e poi si era voltato facendomi cenno di seguirlo
perché s’era fatto tardi.
Lanciai
un’ultima occhiata relativamente malevola a mia madre, la
quale ancora ridacchiava compiaciuta, e poi uscii assicurandomi meglio
il berretto sulla matassa di capelli biondi (a quei tempi li portavo
ancora lunghi), ricalcando le orme che gli scarponi di mio padre
avevano lasciato sull’erba umida.
Quel
giorno tornammo a casa senza neanche un pesce, bagnati fino alle
vertebre e in ritardo per il pranzo (che mia madre s’era
premurata comunque di cucinare, santa donna). In serata avvertivo
già i primi sintomi della febbre del secolo, ma sgattaiolai
via lo stesso per raggiungere i miei amici.
Ricordo che mio padre mi vide, accovacciato in giardino, in fuga come
un ladro. Quando ero ormai rassegnato all’idea della
rinuncia, o quanto meno del rinvio della mia missione, lui
attirò la mia attenzione picchiettando piano sul vetro della
finestra; mi fece l’occhiolino, e poi spense la luce in
camera, voltandomi le spalle. Non ci pensai due volte: ghignando come
un matto, mi avventurai nella notte.
Quella
sera a casa di Ben Mitchell mancava Matt. Lo stronzo aveva tirato su un
party di compleanno per me e poi aveva dato buca, per “altre
robe” che aveva da fare, come mi disse Tom più
tardi. Rimasi lì per non più di un paio
d’ore, credo, bevendo birra e altri strani miscugli da grossi
bicchieri di carta colorata ad ogni brindisi d’auguri che mi
veniva proposto (“cheers!”),
e dopo esser riuscito ad infilare le mani sotto la gonna di Jody Webb
(un gran traguardo per lo sfigato-me dell’epoca), decisi di
averne avuto abbastanza. Raccattai quel briciolo di lucidità
che mi rimaneva e mi feci strada tra le viuzze di quella dannata
cittadina - ah, dio, come l’odiavo quand’ero
ubriaco. Continuai a camminare per qualche minuto, senza sapere
realmente dove i miei piedi disgraziati mi stessero conducendo. Ero nei
pressi della caserma quando lo vidi: una figurella accartocciata sul
marciapiede e, intorno a lui, tre ragazzi più robusti,
enormi se messi a confronto. Non ci volle molto a capire cosa stesse
accadendo, e ancora meno a farmi muovere il primo passo verso la scena
non appena mi accorsi che uno dei tipi teneva fermo Matt da dietro,
mentre un secondo gli tirava calci nello stomaco. Non mi fermai a
riflettere sul fatto che fossero chiaramente in vantaggio (e non solo
numerico), né mi curai di notare il dettaglio del coltellino
che scintillava nel pugno di uno di loro - quello che parlava. In
realtà non so cosa cazzo mi dicesse la testa
all’epoca, ma fatto sta che presi ad urlare come un diavolo
dal centro della strada, tentando di attirare la loro attenzione e non
solo, e...
bingo.
Il
più grosso dei tre, quello con un vistoso tatuaggio di
un’aquila sul collo, si voltò a guardarmi, pur
continuando a tirare falcate stavolta alle spalle di Matt, curve nel
tentativo di proteggere le parti già lese.
“Torna
a casa, riccioli
d’oro”
disse, scoppiando poi a ridere in una maniera che trovai quasi comica,
come un cane o un doppiatore davvero scadente, la testa buttata
all’indietro e il coretto incoraggiante degli altri due.
Ripeto,
non so cosa mi dicesse la testa all’epoca. Fatto sta che nel
90% dei casi mi portava a dire o fare cazzate, come quella sera.
“Lasciatelo
in pace, figli di puttana!” sbraitai infatti, stupidamente.
Dovevano averlo pensato anche loro, che fosse una cosa stupida da dire,
intendo, perché le risa raddoppiarono di volume, e poi Mr
Aquila Rampante lasciò perdere Matt e si diresse verso di
me, facendosi scrocchiare le dita in un’intimazione
minacciosa. Da qualche parte, con la coda dell’occhio,
riuscivo a vedere Matt, ancora piegato in due, ma finalmente libero, i
pugni serrati contro l’addome, e i suoi occhi - i suoi occhi
furibondi. Era stato pestato da tre tizi grossi il triplo di lui,
insultato, molestato, probabilmente minacciato in qualsiasi modo
perché - oh, chissà in che guaio s’era
cacciato quel dannato figlio di puttana - eppure non era resa, o
dolore, o disperazione quella che gli si leggeva in volto; no, Matt
Bellamy era incazzato nero, e se la sua bocca sputava sangue a causa
delle botte prese, i suoi occhi scoccavano frecce avvelenate di odio
puro; era sconfitto, ma l’orgoglio bruciava, era debole, ma
sempre più forte di me.
A
volte mi faceva paura, altre lo ammiravo e basta, altre ancora ero
così invidioso di lui che avrei voluto spaccargli la testa.
Il
punto è che davvero non m’importava di prenderle
per lui. Non ero nemmeno sicuro che Matt avrebbe fatto lo stesso per
me, ma mi andava bene così. Sapevo che me ne sarebbe stato
riconoscente a suo modo, era per quello che lo facevo. Punto.
Quando
la ronda di quartiere ci incrociò, sia io che Matt eravamo
ridotti in uno stato pietoso, chi più chi meno, e i tre
bastardi se l’eran data a gambe, ragion per cui alle guardie
venne facile pensare che ce le fossimo suonate di santa ragione tra di
noi. Per fortuna bastarono poche parole da parte mia a convincerli del
contrario, e dopo poco io accompagnavo Matt, appoggiato completamente a
me, su per il viottolo. Non aveva detto una sola parola, né
un grazie né altro - non che me l’aspettassi, a
dire il vero. Arrivati sull’uscio di casa di sua nonna, aveva
semplicemente aperto la porta, lasciandola poi aperta dietro di
sé, in un invito nemmeno così chiaro ad entrare.
Ovviamente, lo seguii.
Matt
mi aspettava ai piedi delle scale, appoggiato al muro, gli occhi
chiusi. Qualcosa mi diceva che fosse imbarazzato perché non
sarebbe riuscito a salirle se non l’avessi aiutato, ma che
non voleva ammetterlo a se stesso. Perciò quando mi
avvicinai e gli feci passare un braccio attorno alla vita - sottile,
sottilissima - per offrirgli un supporto, feci finta di ignorare la
smorfia infastidita che gli si dipinse in volto. Ah, di nuovo,
l’orgoglio.
Arrivammo
in camera sua dopo due minuti di prese scomode e silenzi imbarazzati, e
lì mi lasciai andare sul suo letto, accusando per la prima
volta tutta la stanchezza di cui m’ero fatto carico durante
la serata. Matt accese la lampada sulla scrivania e poi si tolse la
felpa oversize che indossava, rivelando un busto esile ricoperto di
macchie violette e altre cicatrici passeggere. Calcolai quindici
battiti, quindici come gli anni che compivo, e poi me lo ritrovai lì
disteso al mio fianco, sporco di sangue e terriccio. Puzzava di sudore,
e un po’ di erba, e dovevo essere davvero ubriaco, ma ricordo
di averlo trovato bellissimo quando si era girato a guardarmi, gli
occhi blu che brillavano nella stanza illuminata a malapena.
“Sei
un coglione” aveva detto, ma non lo pensava sul serio.
“Grazie
mille, non c’è di che” risposi,
distogliendo lo sguardo.
Passarono
alcuni minuti prima che uno di noi parlasse di nuovo, e alla fine
cedetti per primo. Come sempre.
“In
che guaio ti sei cacciato stavolta, Matt?”
La
risposta venne ancor prima che avessi terminato di fargli la domanda,
puntuale come sempre.
“Non
sono cazzi tuoi”
Aveva
chiuso gli occhi mentre lo diceva, sospinto certamente dal peso di
qualcosa più grande di lui. Matt poteva fare il figo quanto
voleva, ma non mi fregava.
“Quanto
ti serve?”
Avevo
perso il conto delle volte in cui gli avevo prestato dei soldi che non
mi eran più tornati indietro - ancora una volta, la cosa non
mi interessava.
La
risposta, comunque, fu un quanto mai irritato “ho detto che
non sono cazzi tuoi” e poi, subito dopo “Dom, Dom,
per favore, lascia perdere, sì? Com’era la
festa?”, e le sue dita nervose tra i capelli.
Sbuffai.
Matt
rotolò di fianco e poggiò la testa contro la mia
spalla.
Sbuffai
ancora, ma non aggiunsi nulla.
“Allora?
Dom?”
Matt
mi cinse con un braccio, stringendo forte, poi le sue labbra spaccate
erano contro la mia tempia, fredde e ruvide. In quel momento avrei
potuto dirgli di tutto, con la scusa di essere ubriaco e stanco morto,
avrei potuto scostargli quella stupida ciocca di capelli dal viso,
soffiargli sul naso, avrei potuto fargli il solletico fino a quando
avesse implorato pietà, o dirgli che era il mio migliore
amico e che mi faceva paura e che volevo baciarlo e che gli volevo bene
e che volevo picchiarlo perché doveva smetterla di non
pensare, doveva smetterla con quella cazzo d’erba, doveva
smetterla con quel gruppo di sfigati del Pier, doveva -
“Oggi
sono andato a pescare con mio padre. Ho preso un persico, ma mi
è scappato mentre tiravo la lenza”
Il
mio cervello doveva essere tarato.
“Poi
pioveva, e siamo tornati a casa a mani vuote - papà ha
proposto di comprare del pesce al mercato, però si
è accorto di aver lasciato il portafogli a casa”
Matt
emetteva suoni gentili contro il mio collo. Era piacevole,
perciò continuai.
“Abbiamo
mangiato pollo a pranzo. Emma mi ha regalato un orologio, è
subacqueo. Poi lo zio ha sganciato un po’ di grana, potrei
pensare di comprarmi un ride nuovo, sai, sostituire quello vecchio.
Potremmo andare ad Exeter uno di questi giorni, uh? Verresti con
me?”
Non
mi aspettavo una risposta, in realtà. Per questo quando
arrivò mi colse di sorpresa.
“Oggi
ho preso dei soldi a Dick. Non li ho proprio rubati, erano soldi che mi
doveva. Ci volevo comprare... una cosa. Poi quel tizio, Rob, se ne
accorge e pretende la sua parte - la solita merda, no? Lui mi prende i
soldi e mi dà il pacco, e mi dice ‘tieni un
terzo’, e dentro - dentro, Dom, dentro c’era...
c’era roba pesante, polvere bianca, Cristo. E allora io gli
dico ‘fottiti’, gli dico...
‘fottiti’ perché io quella roba, Dom, io
- quando qualche anno fa ero a casa dei miei, ricordi, quando - quando
abitavo ancora sulla collina? Un giorno ero lì che giocavo
con questo specchio, cazzo, nemmeno so come, cade e si rompe, e mia -
c’era vetro ovunque per terra, okay, ed era colpa mia, e mi
tagliai un dito perché volevo... ma mi disse di lasciar
perdere, dei sette anni di sfiga che - che io - ”
Ricordo
di averlo interrotto a quel punto, perché Matt stava
tremando e io non riuscivo sopportarlo. L’avevo stretto e gli
avevo detto “zitto, sei un coglione, sono un coglione,
sta’ zitto”, e poi “Matt, Cristo,
Matthew”.
Conoscevo
la storia dello specchio, me l’aveva raccontata sua nonna,
una volta, mentre mi versava il tè e lui
nell’altra stanza finiva i suoi esercizi al pianoforte. I
suoi genitori avevano divorziato un anno prima, e Matt non aveva mai
smesso di farsene una colpa. La cosa lo lacerava, anche se lui avrebbe
negato fino alla morte. Faceva tanto il duro e poteva anche essere un
idiota che coltivava marijuana sul terrazzino di casa sua, ma non era
uno di quegli
idioti là.
Non so con quale sicurezza riuscissi a dirlo all’epoca,
neanche lo conoscevo da molto, in fin dei conti, ma quel ragazzino
problematico con gli occhi di porcellana e la famiglia in fumo mi aveva
aperto un varco, nel cuore, nello sterno, nel cervello, io non so - che
nessun altro riusciva a colmare con la propria presenza. E,
paradossalmente, mentre invidiavo fortemente il suo carattere,
l’intelligenza e il suo essere perennemente in rivolta, mi
ritrovavo ad essere a mia volta, in maniera del tutto inconsapevole,
oggetto di invidia da parte sua. Ciò che più
faceva male, naturalmente, era che a Matt mancassero cose che io davo
invece per scontate o totalmente ordinarie: andare a pesca con
papà, litigare con Emma per il volume dello stereo, le
raccomandazioni della mamma ogni qual volta uscissi di casa...
L’avevo
tenuto fino a quando non riconobbi un ringhio esasperato,
l’autoimposizione di fare tutto meno che piangere,
l’enorme contraddizione che era Matt lì tra le mie
braccia e poi non più, alla ricerca di una via di fuga da
me, da quella stanza, dal suo riflesso, da tutto.
“Non
- io volevo prenderti qualcosa, un regalo, ma non - ”
Si
rivestiva, mentre parlava, forse più per darsi da fare che
per altro.
Un
regalo, voleva farmi un regalo e si era ritrovato in affari
più grandi di lui. Ma no, la colpa non era neanche del
regalo, perché prima o poi Matt ci si sarebbe ritrovato
comunque - quello, era quello che gli bruciava, e che tirava calci come
un bastardo adesso contro il termosifone, la libreria, il letto, la mia
gamba.
“Matt,
Matthew - e che cazzo, Matt!”
Ero
saltato su anche io, spintonandolo fino a quando la sua schiena aveva
incontrato la parete, ma piano, senza fargli troppo male.
“Matt,
ascolta” iniziai, ma non lo guardavo, perché
adesso sapevo che non voleva che lo vedessi così
“Matt, devi promettermi una cosa. Mi ascolti?”
Matt
aveva emesso un verso debole, quasi sconfitto. Lo sentii annuire, e
questo mi bastò.
“Promettimi
che la prossima volta che avrai voglia di fare a botte chiamerai me.
Promettimi che se avrai mai di nuovo bisogno di soldi, li chiederai a
me”
Matt
annuì, una volta e poi anche due. Gli credetti.
“Matt”
ripresi, stavolta guardandolo. Aveva un sopracciglio spaccato, il viso
sporco di fango sul lato sinistro, lì dove probabilmente
l’avevano tenuto premuto a terra. I capelli erano un
po’ sporchi come al solito, lunghi ad incorniciargli gli
spigoli in evidenza degli zigomi, la linea della mascella non ancora
definita. Mi stupì ancora una volta il fatto che sotto
quella maschera sicura ci fosse poco più di un bambino,
unica eccezione fatta per gli occhi, già duri,
già adulti, abituati a vedere cose che un ragazzino di 14
anni non avrebbe dovuto vedere neanche in tv. Tanto per cambiare.
Provai
un moto di tenerezza, sentendomi in parte responsabile per lui - era
come se avessi fatto un voto, quella sera, quando lo avevo sentito
arrancare e balbettare nel suo discorso sullo specchio; tutto il mio
mondo si ritrovò concentrato su quelle labbra minuscole e
screpolate, sulle quali giaceva la richiesta muta di aiuto,
l’invito e la negazione. Mi avvicinai, facendo poggiare la
mia fronte alla sua, ridacchiando quando lo sentii fare lo stesso.
“Matt,
promettimi che la smetti con quella roba.
Me
lo prometti?”
Era
stato solo un breve movimento del capo, un cenno e basta, e poi Matt
aveva preso a trafficare con le tasche dei suoi jeans per tirarne fuori
un pacchettino dall’aria malconcia, la fronte sulla mia
spalla, e aveva cominciato, balbettando, a dire “non
è quello che - è un’altra cosa,
perché - non sapevo se - poi andiamo ad Exeter insieme, a
proposito, sì certo - senti Dom scusa, io”, ma io
l’avevo zittito strappandoglielo di mano.
“Per
una buona volta nella tua vita, Bellamy: taci”
Matt
aveva riso, e poi aveva fatto una battuta squallida sui pacchi, ed io
avevo riso ma solo perché lui rideva a sua volta, e via
così fino alle quattro del mattino.
Il
giorno del mio quindicesimo compleanno, Matt mi regalò una
musicassetta di ‘Nevermind’ dei Nirvana. Ce
l’avevo già, naturalmente, ma poco importava.
Vent’anni
dopo mi ritrovo seduto da solo come un coglione sul letto di una
lussuosissima suite. Non so dove mi trovo, ma probabilmente sono ancora
in Inghilterra, forse addirittura a Londra. La testa mi pesa come un
grave nel vuoto, le gambe pure - da qualche parte nei recessi meandri
del mio cervello registro anche una sensazione simile al freddo, ma
forse è dovuto al fatto che sono nudo dalla vita in
giù. Il perché mi sfugge, ma non lo inseguo.
Mi
è stato insegnato dalle mie recenti ignobili compagnie, che
la migliore soluzione in questi casi è chiudere di nuovo gli
occhi e aspettare che il soffitto la smetta di girare, che le sabbie
mobili del letto cessino di provare ad inghiottirmi.
Cessino.
Cesso,
ah-ha, devo andare al cesso, devo proprio andare al cesso!
Ho
provato a chiamarlo quattro volte da quando mi sono svegliato, ma
naturalmente non risponde. Volevo chiedergli dove sono e se mi viene a
prendere con la macchina nuova, quella che mi piace, quella
blu-viola-notte. Forse ho sbagliato numero, o forse in
realtà non l’ho davvero chiamato. Non ricordo.
Cosa dovevo ricordare? Ricorda Dom. Ricorda - ero
andato a pesca con mio padre e avevo quasi preso un persico, poi mi era
sfuggito mentre tiravo la lenza
-
Sono
andato allo Skin stasera - Matt
aveva rotto uno specchio e piangeva ma non si faceva guardare
- Thierry mi ha dato della neve ed io ho riso - la
vestaglia della mamma era a righe rosa e blu... no, rosa e azzurro e le
maniche a sbuffo - sono
tornato in camera con TiziaA e TiziaB ma non mi si alzava
perché ero troppo fatto - le
orme di papà nell’erba bagnata erano enormi -
Matt non risponde al cellulare, Matt non mi vuole più bene - il giorno del mio
quindicesimo compleanno...
Note
di fine capitolo:
'Neve' è uno dei nomi
che viene utilizzato per indicare la cocaina;
Il pesce
persico è un pesce d'acqua dolce, ma non volevo che Dominic
pescasse sardine, so deal with it. Inoltre, a Teignmouth c'è
anche un fiume, quindi sono a posto con la coscienza;
La storia dello
specchio è vera. Matt ruppe uno specchio antico quando aveva
13 anni, e sua madre rimproverandolo gli disse che avrebbe causato
sette anni di sfortuna alla famiglia; un anno dopo i genitori di Matt
divorziarono, e lui non riuscì mai a scacciare dalla mente
il pensiero che potesse esser stato lui ad aver causato indirettamente
la loro separazione quando aveva rotto quello specchio. Povero piccolo,
ecco. :(
Non mi viene in mente
altro. Buonanotte.
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