Quel giorno

di Joelle
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Quel giorno

La gente camminava in fretta, quasi irritata. Tirava un forte vento, quel giorno. L'aria era sudicia, sì; così pesante, che ti premeva la pelle: un'aria inquinata dai miei soli respiri, respiri sofferti, respiri pieni di Vuoto, respiri così flebili da svanire all'istante, respiri di scarso valore. Tutto scorreva sotto i miei occhi; occhi senza vita, ormai. Mi sentivo come una regina, già. La regina di quel giorno, di quel momento, di quell'immensità di cielo che ancora non era mia. La città, invece, era sotto il mio dominio. Un dominio selvaggio, senza regole, abbattuto unicamente dalla troppa imprudenza che veleggia in me stessa. Ero un burattinaio e questo era il mio gioco: un gioco sporco, forse, ma era così divertente che non riuscivo a farne a meno; adoravo far soffrire le persone, sì; erano in mio possesso, potevo giocarci quanto mi pareva; erano le mie bambole. Fin da bambina passavo il mio tempo con le bambole, ed ora che quest'ultime sono passate di moda, uso le persone: mi rende molto più soddisfatta, sapete? È un buon modo per uccidere la monotomia, sì. Ora che tocca a me soffrire, però, non mi stimolava neanche un po'. Le mie giornate, ormai, le passo qua sopra; vicino alla Luna, accanto a tutte le mie amiche Stelle, libera di volare nel cielo. Adesso sì che è di mia proprietà, questo immenso cielo. Non appartengo più a quella polverosa Terra, finalmente. Dopo tanto, la mia anima è tranquilla, quieta nel più totale caos; mi basta solo la mia cara nuvoletta per vivere, adesso. Se ancora posso chiamare vita questa inutile Morte.





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