Questa è una Fan Fic inedita, la prima che posto qui! L'idea è un pò difficile da sviluppare quindi non garantisco la velocità di aggiornamento ma spero piaccia! Ci tengo davvero molto per il resto, un bacio a tutte e spero commentiate ______________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________
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*
Eins.
Heuchler
*
«Quale
vantaggio avrà l’uomo
se guadagnerà
il mondo intero,
e poi perderà
la propria anima?»
Vangelo di
Matteo 6,26
«Nina, ti
prego, fermati, mi stai facendo male»
La bambina
sorrise, le sue labbra piene si volsero verso l’alto mentre bloccava la mano a
mezz’aria.
Guardò la sua
“vittima” di fronte a lei, si teneva una guancia paffuta con la manina
anch’essa grassoccia. I suoi occhioni nocciola si posarono su di lei, brillanti
come il sole che alle loro spalle, stava mandando gli ultimi bagliori.
Da lì a poco
il giorno sarebbe terminando proiettandosi nella sera e il parco sarebbe stato
chiuso.
Abbassò la
mano e inclinò la testolina, facendo ricadere le sue lunghe trecce del colore
dell’oro «Io non ti farei mai male, Bibi» lo guardò con quei suoi grandi
occhioni da cerbiatta verdi come un prato svizzero.
Il bambino la
guardò storcendo la bocca «Mi stavi menando!»
«Mi stavi
prendendo in giro» puntualizzò la ragazzina.
«Non io, Tom
ti prendeva in giro, ha fatto a cambio con le magliette» si difese, quasi
offeso, il bambino «Io non ti prendo mai in giro».
E così, come
sempre, l’altro gemellino la metteva nel sacco. Si girò per ritrovarselo alle
spalle che ridacchiava con quella classica faccia da bravo bambino –finta- che
portava sempre. La bimba fece ricadere le mani lungo i fianchi e lo guardò
«Perché fai così?»
«Perché tu te
ne vai a Berlino e ci lasci qui» si impuntò il secondo gemello mentre il primo
annuiva «E io e Bill non vogliamo»
«Non vi
dimenticherò, lo sapete» balbettò la bambina guardando atterra.
«Berlino è
molto grande, ti farai altri amici e noi non esisteremo più» piagnucolò il
primo affiancandosi al gemello.
Era così
uguali che lei non riusciva mai a distinguerli. Uguali e tremedamente diversi.
Maschi ma pur
sempre meglio di tutte le bambine di Loitsche.
Lei scosse la
testa «Mai»
Ma le
promesse fatte da bambini non valgono mai
Aprì gli occhi di colpo.
Le sue iridi di puro
smeraldo risplenderono per nel fondo di
quella vasca bianca. I suoi capelli rossi –resi più scuri dall’acqua-
ondeggiavano sopra di lei. L’acqua iniziava a bruciarle gli occhi.
Si tirò su, fuori dallo
specchio d’acqua, come se quel gesto le fruttasse uno sforzo immane, presa da
una scossa elettrica del tutto ingiustificata. Le voci di quei bambini le si
erano infilante nella testa da quando aveva chiuso gli occhi e non avevano
intenzione di lasciarla in pace. Poggiò la testa contro la parete di mattonelle
bianche del bagno del suo appartamento e si guardò intorno. Piegò il viso in
una smorfia infastidita quando sentì una fitta salirle su per lo stomaco e
percorrerla con la forza di un uragano.
Era a rota ed odiava
esserlo. Si passò una mano tra i capelli
rosso intenso e si tirò su, stando ben attenta a non inciampare. Quando
arrivava al punto di essere a rota non aveva molta stabilità nelle gambe.
Posò un piede con le
unghia smaltate di nero sul tappetino blu e cercò lo sguardo le sue culotte
nere di microfibra e la sua cannottiera grigia. Intercettate vi si avvicinò e
si piegò per afferrarle. L’acqua gocciolava per tutto il bagno ma non le
fregava granchè, doveva solo sbrigarsi per rimediare al suo male.
Si accorse di avere le
mani che tremavano quando, a stento, riuscì ad afferrare la sua culotte ed a
indossarla. Fece lo stesso con la canotta mettendoci il doppio del tempo e, con
passo malfermo, si avvicinò all’armadietto dei medicinali.
Lo aprì con difficoltà e,
con una manata del tutto inelegante, buttò i vari flaconi di medicinali per
terra riempendo il pregiato pavimento con tante piccole pillole colorate. Le
ignorò, nella sua condizione non le interessava che la sua “bianca” amica.
Un sorriso le nacque sulle
labbra quando trovò il pettinino in cui nascondeva la sua roba. Lo prese di fretta e lo privò della parte dentata.
All’interno vi era un cartoccio di cartatragnola ripiegato per bene. Lo prese e
con tutta la cautela che aveva lo aprì. Al suo interno vi era una polverina
bianca, sembrava quasi zucchero a valo. Posò il cartoccio con cautela sul
lavandino e afferrò un vecchio cucchiaio che aveva nascosto dietro le sue
aspirine, vi versò sopra un po’ della polverina bianca con attenzione, dopo di
chè prese un’accendino che aveva posato poco prima sul davanzale della finestra
e lo posizionò, acceso, sotto il cucchiaio. Guardò, con occhi da psicopatica,
la polverina sciogliesi gradualmente. Dopo aver posato il cucchiaio su un
piattino da saponetta in modo tale che la soluzione non cadesse, aprì uno dei
cassetti sotto il lavello e trovò la scatola delle siringhe. Ne prese una e
lacerò, letteralmente, la confezione. Dopo averla liberata del tutto afferrò il
cucchiaio e immerse l’ago nel liquido. Tirò dietro rapidamente lo stantuffo
imponendo al liquido di entrare nella siringa. Il tutto era stato molto veloce.
Si affrettò ad afferrare un laccio emostatico dallo stesso cassetto e,
velocemente, se lo legò sul braccio. Avrebbe fatto invidia a una infermiera per
la rapidità con cui individuò la vena. Con lei era facile, aveva il braccio
pieno di buchi cicatrizzati.
Prese la siringa e, senza
pensarci due volte, si perforò il braccio.
Aveva circa quattordici
anni quando aveva iniziato a inniettarsi la Cocaina direttamente nelle vene.
Aveva dodici anni quando aveva perso l’innocenza e la coscienza. Aveva sedici
anni quando il mondo si era accorto di lei scagliandola in un mondo pieno di
luci ed ombre.
Niniel Smith non aveva
programmato di diventare quello che era: una rockstar drogata e malata di
sesso, con problemi esistenziali e infinite contraddizioni. Nessuno aveva mai
immaginato che quella bimba dai capelli d’oro –spesso intrecciati in lunghe
trecce alla Pippi Calze Lunghe- avrebbe preso quella strada. Nessuno.
A partire dai suoi
genitori, divorziati, che l’avevano trascinata a Berlino all’età di sei anni
condannandola al suo destino di tossicodipendenza e vuoto per finire ai suoi
fans a cui regalava sorrisi così falsi e raccomandazioni ipocrite.
Perché lei era quello:
un’ipocrita.
Un’ipocrita e una
bugiarda.
Niniel –nome strano,
elfico, dovuto alla passione di sua madre, scrittrice Fantasy, per quelle creauture
della mitoligia nordica- aveva tagliato le trecce d’oro quando era arrivata a
Berlino, la Capitale tedesca. Le aveva tagliate perché non sopportava essere
etichettata come la “Zotica dalla Culonia”. I bambini berlinesi non erano
affatto quelli di Loitsche. Erano cattivi, subdoli, infimi. L’avevano trattata
male fin dall’inizio perché lei era una “campagnola”. Niniel aveva pianto notti
intere per quelle prese per il culo gratuite. Una sera, alla veneranda età di
otto anni, aveva rubato le forbici dalla cucina della mamma e si era tagliata i
capelli. Sua madre gliene aveva date di santa ragione, credette davvero che
quello fu il giorno in cui le prese di più. Ma a Niniel non importava, quando
tornò a scuola era nata una nuova lei. Era nata la Niniel Smith Berlinese,
aveva soppresso il suo vero io.
“Avevo imparato come ci si afferma a Berlino:
sempre a muso duro. Preferibilmente il più duro di tutti.”
La frase l’aveva letta su
un libro di scuola al 5° grado. A dirla era stata Christiane F. nel suo unico libro
ma Niniel si rispecchiava in lei in tutto, anche in quello che sarebbe successo
successivamente.
E Niniel l’aveva davvero
presa alla lettera. Era diventata la sua diretta nemesi: scontrosa, bulla,
violenta e…sì, ipocrita.
Era sempre stata una
dannata ipocrita.
Perché lei, nelle sua
testa, si dava della scema per ciò che stava diventando, prometteva a sua madre
e al suo compagno –di vent’anni- che non avrebbe preso quelle strade di merda e
poi, appena poteva, si tuffava nel barato a testa alta e allo stesso tempo in
sordina.
Per stare nel gruppo dei
“Berlinesi” aveva iniziato a fumare spinelli, a bere fino a vomitare l’anima,
ad andare con i ragazzi, a tingersi i capelli di rosso e a girare in minogonna
inguinale a soli dodici anni. Credeva di poter riuscire a gestire la
situazione, l’omologazione estrema con la gente che aveva intorno ma…
Più i giorni passavano,
più le giornate si inseguivano in un suggeguirsi di settimane, mesi, stagioni e
anni, la situazione aveva preso a sfiuggirle di mano. E con una formula
inversamente proporzionale più la sua fama aumentava più lei sprofondava nel
baratro.
E quando poi aveva
incontrato Kathi, Christina, Ryan e Daren e la sua strada aveva preso uan piega
diversa. Non era del “gruppo” e mai lo sarebberoo stati. La prima bionda, occhi
da cerbiatta celesti –tipici teutonici- che sapeva suonare tutti gli strumenti
del mondo ma che amava la batteria quasi fosse il suo ragazzo, la seconda,
capelli come l’ebano, occhi turchesi come le acque delle Maldive, una tigre
appena sfiorava le corde di una chitarra, il terzo, ciuffo alla emo e il metal
nelle ossa. Voce scremo per un sound che stava nascendo e l’ultimo, il mago del
basso con quei suoi capelli tiranti in aria in una specie di cresta. La loro
vita era la musica, la sua la droga, ma le venivano incontro: quando avevano
iniziato il progetto Blood Tears le avevano permesso di seguire il suo “idolo”
in cambio di non farlo prima dei concerti. Ovviamente Niniel, inizialmente
aveva anche provato a farlo, ma…
I risultati erano scarsi e
si limitava a qualche pillola prima dei concerti con il risultato di essere
totalmente assente. Di tutti i 320 concerti che aveva fatto da quando
l’avventura era iniziata non ne ricordava mezzo, fatta com’era. Inizialmente
Kathi incaricava qualcuno di riprenderlo per farglielo vedere, ci teneva che
anche lei si ricordarse quanto fosse strepitosa, ma poi aveva smesso, in un
giorno e nell’altro. Si era stancata anche lei.
E quel giorno avevano
litigato, o se avevano litigato. L’ultimo concerto era stato uno schifo, non
che avesse cantato male, ma aveva vomitato sul palco. Avevano ragione, una
fottuta ragione a pensare di buttarla fuori, stava mandando a puttane anche la
loro vita (come aveva tenuto a precisare Daren quella mattina), ma nessuno di
loro capiva davvero come lei si sentisse. Non era mai stata se stessa, esserlo
le aveva provocato solo dolore.
E mentre pensava a quanto
lontano fosse da se stessa la sua
mente –annebbiata dall’alcool che aveva ingerito dopo la lite- le aveva
proiettato quell’immagine. L’immagine di quei due gemelli così uguali che
l’avevano conosciuta davvero. Un’immagine che non aveva rievocato da anni ed
anni e che, improvvisamente, le si figuarava nitida nella testa. E fu quello
anche l’ultimo pensiero che le venne in mente mentre, lenta, scivolava
nell’oblio.
*
Arracando, Kathi riuscì ad
arrivare nell’appartamento dell’amica.
Oh, Daren aveva davvero
esagerato, Niniel si presentava fatta ai concerti da praticamente quattro anni,
perché farle una colpa proprio adesso? Avevano fatto in modo che la faccenda
passasse per un’intossicazione alimentare, cosa serviva farle una scenata del
genere?
Ed era stato quel pensiero
–la paura che lei facesse qualcosa di stupido vista la sua condizione- a
spiengerla ad andare dall’amica –al decimo piano di un palazzo- ignorando la
sua paura tremenda per gli ascensori.
Kathi era corsa da lei per
starle vicino il più possibile.
Voleva bene a Niniel, le
avrebbe donato volentieri la luna e le stelle se avesse potuto e stava male
quando lei si odiava tanto da autodistruggersi da sola.
I suoi anfibi provocarono
un rumore indistinto mentre si dirigeva verso la porta scura dell’attico
dell’amica. L’idea malsana di farla vivere lì dentro era stata di Daren, non
avrebbe potuto fare pazzie visto che Niniel soffriva spaventosamente di
vertigini. Alzò di poco la mano facendo tintinnare i suoi svariati bracciali
contro il polsino di borchie argentante pronta a bussare. Nonostante
condividessero tutto, anche quel dannato segreto, Kathi manteneva sempre un
certo distacco dagli altri. Bussò piano, con delicatezza. Sapeva che l’amica
era a rota, i rumori forti la disturbavano. La sua mano sfiorò delicata il
legno della porta che si aprì cigolando.
Kathi rimase a guardarla
con un sopracciglio biondo alzato. Niniel l’aveva lasciata aperta? Era pazza
per caso?
Ritirò la mano indecisa
sul da farsi. Entrare o non entrare?
Timida posò una mano sulla
maniglia tirandola verso di se. Non era educato entrare in casa altrui senza il
loro permesso, avrebbe bussato e aspettato. Stava per chiudere quando sentì un
rumore dall’interno.
Rumore di coccio che si
frantuma in mille pezzi seguito dal frantumarsi di bicchieri. Il suono
assordante degli oggetti che cozzavano con il pavimento le fece cambiare idea e
trasalire allo stesso tempo.
Abbassò la maniglia con
una velocità assurda e si infilò nella casa. C’era qualcosa dentro di lei che
le diceva di doversi sbrigare, sentiva l’angoscia salirle in corpo.
Quasi scivolò sul marmo
lucido del pavimento mentre seguiva il rumore. Veniva dal bagno.
Corse verso quella porta
infisciandosene delle pregiate sedie e dei divani di pelle bianca. Un altro
rumore –più assordante del primo- riempì la stanza.
Kathi afferrò la maniglia
del bagno e la spalancò al suo desolante spettacolo.
Niniel era lì, stesa sul
pavimento e presa da forti convulsioni, strisciava in cerca di un appiglio ma
riusciva solo a muoversi tra i cocci e le schegge di vetro. Kathi fece vagare
lo sguardo alla stanza.
La notò subito quella
maledetta siringa buttata sul pavimento, giacere vuota e inanimata,
all’apparenza innoqua.
«Merda» imprecò la bionda
infilandosi nel bagno.
Si fece ricadere al
capezzale dell’amica strusciando con il pavimento tagliente facendosi male alle
ginocchia.
«Niniel» la chiamò
afferrandola per un braccio.
I capelli rossi della
ragazza le coprivano il viso impedendole di vedere cosa stesse succedendo.
Niniel tossì e Kathi ne
sentì le convulsioni sotto le mani. Urlò.
Urlò con tutta la voce che
aveva in corpo quando si accorse che dalla bocca dell’amica colava una sostanza
rossa verminia.
Sangue.
Niniel vomitava sangue.
*
La campanella suonò.
Mandò il suo ultimo trillo
con un suono diverso. Un suono che sapeva di libertà.
L’ultimo giorno di scuola
è proprio quello, l’ultimo guizzo di prigionia forzata prima dello svago
totale, l’annullamento istantaneo di nove mesi d’inferno passati in quelle
quattro mura grigie e sterili, come le pareti di un’ospedale psichiatrico.
Tom si alzò lentamente dal
banco raccattando la sua roba: un pacchetto di Camel alla menta (la sua droga
ormai), il suo scassato Nokia N95 che sembrava aver combattuto in trincea nella
Grande Guerra, XXL –la sua rivista di musica preferita insieme a Rolling
Stones-, il suo scassato I-Phod rosso carico di scritte fatte con l’uniposca e
il suo usurato zaino della Eastpack nero. Se lo issò sulle spalle e, con la
stessa maestria si infilò le cuffie alle orecchie mandando al massimo volume la
voce di Samy Deluxe.
Hände Hoch impegnò
piacevolemente le sue orecchie mentre scivolava fuori dalla sua cella. I
cappuccio color tenebra sui cornows neri che scendevano lunghi sulle spalle, la
bandana bianca legata sulla fronte alta, gli occhi bassi mentre la musica Hip
Hop prendeva possesso dle suo cervello. Infilò le mani nelle tasche della tuta
nera che aveva che scendeva su delle nike bianche. Chiunque incontrasse Tom lo
vedeva come un ragazzino che giocava a fare la Gangsta, ma il ragazzino aveva
19 anni e aveva individuato il suo vero io in quel modo di atteggiarsi.
Tom Kaulitz non aveva mai dato peso a quello che la
“gente” di Loitsche diceva di lui, era solo un tugurio che lo stava ospitando
provvisoriamente, un anno e sarebbe andato a vivere ad Amburgo per conseguire
un corso di laurea come Architetto.
Già, proprio lui, Tom Kaulitz, la piaga della scuola,
lo spezzacuori per eccellenza, il menefreghismo personalizzato, sognava di fare
l’Architetto. Un sogno che teneva per sé e che allo stesso tempo lo
identificava.
Tom non cercava l’assenso degli altri, non doveva fare
niente per nussuno, le uniche persone a cui doveva rendere qualcosa era se
stesso e il suo gemello. In entrambe le situazioni doveva convivere con
entrambi 24 ore su 24.
E ci riusciva benissimo da 19 anni –ancora da
compiere-.
Sfilò per i corridoi affollati della scuola senza
degnare nessuno di uno sguardo.
C’era chi lo considerava uno snob, chi un emo nascosto
sotto i larghi vestiti di un hippopper, c’è chi diceva di lui le cose più
assurde ma…
La verità era che nessuno lo conosceva davvero.
NESSUNO.
Nessuno sapeva che le calde ragazze della scuola non
gli interessavano se non altro per autoconvincersi che non gli interessava più
quella fottutissima bambina con le trecce
che l’aveva abbandonato quando era ancora un poppante e che gli era rimasta
in testa quasi fosse una condanna. Perché lui la odiava.
Odiava il modo con cui aveva infranto la sua promessa,
odiava il modo in cui era sparita dimenticandosi di lui e Bill.
La odiava perché quella maledetta cotta non gli era
passata.
Ad aiutarlo non c’era nemmeno la distanza. Non
esisteva la domana “potrebbe essere diventata un cesso no?” No.
Lui la vedeva ovunque, in Tv, su Internet, sui
giornali, persino sul suo cellullare.
La sua bambina con le trecce era diventata una bomba
sexy con una voce d’angelo e gli occhi spenti.
Occhi da drogata.
E, nonostante si autoinfliggesse l’indifferenza,
quando era solo correva sul computer per poterla seguire.
Bill Kaulitz, suo fratello, lo faceva più apertamente.
Nessuno aveva mai creduto che lui avesse conosciuto la famosa Niniel Smith, ma
a Bill non importava, lui lo sapeva e quello bastava.
«Tomiiii» cinguettò una voce femminile.
Si girò appena vedendosi arrivare dietro la sua
migliore amica.
I capelli castani che volavano qua e in là mentre
correva goffamente verso di lui. I lineamenti morbidi come le sue curve, i
jeans che mostavano le gambe rubuste e una maglia abbastanza larga da
nascondere i suoi inseparabili “dieci chili in più”. Alina Smith era il suo
specchio al femminili.
Non le importava se era più rotonda delle altre, se
non poteva mettersi dei vestitini quando andavano in discoteca, se non poteva
entrare nei jeans attillati delle ragazze con cui lui andava a letto, no.
Lei sapeva di essere comunque bellissima e anche Tom
lo sapeva. Non assomigliava a nessuna delle sue amichette e quel particolare
faceva di lei una delle ragazze più belle che avesse conosciuto dopo… lei.
E Alina lo sapeva, lo sapeva perfettamente.
Si infilò, abilmente, sotto le sue braccia
imponendogli di posare il braccio sulle sue spalle. Tom se lo lasciò fare, non
c’era altro che amicizia in quel gesto, con Alina aveva un rapporto del tutto
speciale.
La strinse a se mentre lei si tirava su la tracolla di
Tokidoki.
«Sigaretta!» cinguettò la ragazza facendolo sorridere.
Da quando lei e Bill avevano preso a fumare come lui
avevano inaugurato la “Comune delle Sigarette”, come la chiamava Andreas. La
mattina, prima del suono della campanella, Tom, Bill ed Alina si infilavano
nella tabaccheria vicino alla stazione e si dividevano il costo di un pacchetto
da venti di sigarette alla menta. Erano abbastanza costose e da soli non ce
l’avrebbero mai fatta così, sapientemente, avevano deciso di smezzarsi i
pacchetto.
Avevano sempre condiviso tutto anche quando c’era
Niniel, non era un problema per loro.
Tom fece scivolare una mano nella tasca dei pantaloni
ed estrasse il pacchetto nero e blu aprendolo. Ne estrasse una stecca e la
passò all’amica poi procedette nello stesso modo per sé.
Afferrò l’accendino blu dal pacchetto e si portò la
sigaretta alla bocca accendendola. Gesti ripetuti così tante volte da essere
fatti velocemente. Passò l’accendino all’amica che procedette allo stesso modo.
Alina, dopo aver scosso appena i capelli restituì
l’oggetto e si fece un tiro «Hai sentito la novità?» esordì andandosi a sedere
su una delle ringhiere del cortile.
«Quale?» chiese Tom appoggiandosi ad essa di fianco
alla bionda.
«Mia cugina ha preso un’overdose» disse buttando fuori
una nuvoletta di fumo «Hanno cancellato l’intero tour estivo e l’hanno fatta
passare per una momentanea perdita della voce»
«E ovviamente tuo zio ha spifferato tutto a tua nonna,
vero?» mormorò Tom fingendosi indifferente. Era bravo a far finta di fregarsene
di lei quando in realtà aveva una voglia matta di sapere come stava.
«E sottointeso che sapessimo, in fondo siamo la sua
famiglia» Alina si portò la sigaretta alla bocca «Fatto sta che si è parata il
culo anche questa volta»
«Sta bene?» chiese Tom senza colore. La domanda non
poteva che uscirgli e quindi si sforzò di darsi un “contegnoso menefreghismo”,
come se stesse facendo la domanda più per gentilezza che per apprensione.
Alina sorrise tra sé e annuì «Sta benissimo, se non
fosse arrivata quella santa di Kathi sarebbe finita al creatore» gli disse
guardando la sigaretta «Ieri, comunque, ha chiamato zia»
Silenzio.
Il ragazzo lo sapeva, sapeva benissimo che Elainor Rotter-Smith non chiamava mai senza
motivo.
Le poche chiamate che aveva fatto alla suocera
annunciavano sempre spiacevoli notizie. La prima gravidanza di Niniel che dopo
sei settimane aveva avuto un aborto spontaneo, la morte della consuocera e
l’espulsione della nipote dal Gymasium per spaccio. Poche disastrose chiamate.
«Ebbene» riprese Alina dopo una pausa «Preparati
mentalmente Tomi, Niniel tornerà qui!».
Nero.
Tom, in quel momento, vide solo nero.
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