Studiò quegli spartiti trattenendo a stento le lacrime.
Suonò quelle note una ad una, diventando parte della musica; quella stessa
musica che la riportava indietro, riempiendole la mente di ricordi vani, ricordi
di attimi mai vissuti, ricordi del futuro. Le doleva il petto come se vi fosse
conficcata una lama, mentre le sue dita scorrevano sui tasti del piano. L’atmosfera
malinconica di quel brano avvolgeva la taverna. L’essenza di qualcosa di
immaginario, qualcosa che non era reale, aleggiava nell’aria. Si sentiva come
rapita da quel succedersi di suoni veloci, brillanti, nostalgici, precisi. Le
pareva di fluttuare nell’aria insieme a quella melodia, di disperdersi in tante
piccole gocce quante erano le lacrime che le inumidivano le guance,
precipitando silenziose sulle sue mani. Il brano terminò, e un silenzio opprimente
calò nella stanza. Lo sentiva premere sul suo capo, come se volesse
schiacciarla. C’erano delle grida, un grido, il suo muto grido di dolore che
riempiva l’aria che respirava, e che tornava in lei, facendole scoppiare il
petto. Ma rimaneva impassibile, con gli occhi ancora fissi sullo spartito, le
mani sulla tastiera, le lacrime che solcavano il suo viso e sembravano
interminabili, i capelli castani le ricadevano incorniciandole il volto, la
schiena era perfettamente dritta, i piedi sui pedali, i brividi di freddo lungo
tutto il corpo, la bocca contratta. Pareva una statua. Poi, lentamente, quel
silenzio, nella sua mente, cessò. La melodia riprese, identica a prima,
ammaliandola, inducendola ad alzarsi dallo sgabello nero. Rimase in piedi un
attimo, indecisa sul da farsi. Cosa c’era da fare? Qualunque cosa sarebbe stata
completamente priva di senso, vuota. Le note continuavano a susseguirsi all’interno
della sua testa, mettendole addosso una strana voglia di dormire. Dormire
sempre, per sempre, e non svegliarsi più. Improvvisamente si rese conto di
quanto la sua vita fosse vuota; vuota come ogni cosa che avrebbe potuto fare.
Tranne una. Si diresse verso il mobile che stava alla sua destra, aprì il primo
cassetto e ne estrasse la pistola di suo padre. La osservò, la accarezzò, la
tenne un attimo tra le sue mani. Tornò a sedersi al pianoforte, passò le dita
leggere e affusolate sullo spartito, suonò gli ultimi accordi pensando a come
era successo tutto quanto, a come era arrivata fino a quel punto. Si odiò per
averlo amato, si odiò per aver imparato quella musica, per averla ascoltata
fino alla nausea, per essersi ripetuta quella frase centinaia di volte,
convinta che nascondesse un fondo di verità. Di vero non c’era mai stato
niente. Il brano finì, per l’ultima volta. Si portò la pistola alla tempia, il
dito sul grilletto. Sorrise debolmente, e sparò.