Monsters - Shower me with lullabies

di Ato
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Poche note a inizio capitolo: è una storia breve, divisa in due parti. Ambientata al settimo anno, nel post-guerra, in cui io ho immaginato che Astoria Greengrass sia davvero piccola e che sia finita a Gryffindor.

Ah, e ho anche immaginato che a Hogwarts ci sia la statua di Ebe sulla via per i sotterranei – Ebe, quella tizia che faceva la coppiera degli dei.

I paragrafi hanno un punto di vista alternato: prima Draco, poi Hermione, e via dicendo.

I mostri sono quelli che conosciamo tutti. Cioè quelli che sogniamo la notte.

 

 

Monsters

Shower me with lullabies

 

 

A chi ha trovato il modo di leggermi

anche quando io stessa non sapevo come fare.

 

“You shower me with lullabies, as you’re walking away”

Placebo    _

 

 

C’erano sapori che a provarli sulla punta della lingua lasciavano impressioni diverse. Ottobre aveva un sapore del genere, ma più disperato.

A una bambina sembrava quello di un chicco d’uva rossa, scurissima, da masticare dopo averne consumato qualche strato con unghie mangiucchiate e labbra sporche di succo aranciato. Per lui, ottobre sapeva di vino elfico e calici che qualche volta si frantumavano sotto la pressione di dita troppo rabbiose per essere innocue.

Draco Malfoy quella sera non aveva bevuto, ma la bambina aveva saccheggiato la scodella della frutta come se il bisogno di quel tesoro per lei fosse quasi doloroso.

Dopo cena, si era nascosta al solito posto. C’era una statua all’ingresso dei sotterranei: aveva pelle di marmo, fredda e nuda come il cielo che mostra tutte le sue stelle nelle notti d’estate; un biancore così fulgente da sembrare etereo, candido e puro, toccata dalle lingue di fuoco delle torce aveva la stessa luce abbagliante che si vede al confine tra la vita e la morte. La statua era quella di un’Ebe dalle mani delicatissime: versava un sorso di paradiso in una coppa gigante, che avrebbe dovuto donare a un dio la cui statua era andata persa nei meandri di Hogwarts, o nella cantina di uno scultore che aveva improvvisamente perso tutta la sua ispirazione.

Draco Malfoy si accigliò. Era certo che anche l’ambrosia di Ebe avrebbe avuto un sapore diverso per la sua lingua e per quella della bambina.

La Granger arrivò trafelatissima proprio sul filo di quella riflessione.

«Ho avuto problemi con Pix al piano di sopra. È diventato impossibile. E i frati ubriachi nel corridoio ovest? Stanno minacciando ogni primino con la pretesa che se non gli portano dell’altro vino andranno tutti all’inferno e che il vino serve per ricordare il sangue di… Non sta piangendo

Draco prese a massaggiarsi le tempie. Quella mezzosangue gli faceva venire sempre un gran mal di testa. Non la smetteva mai di parlare. Sembrava una collezionista di parole inutili, di tutte quelle che la gente scartava. Lo vedeva dal modo in cui proprio in quel momento diceva transustanziazione e riusciva a pronunciarla al primo colpo.

«Non sta piangendo», le assicurò, lanciando uno sguardo obliquo alla bambina.

Lei non parve molto persuasa. «L’hai sedata? Hai usato una pozione di usnea barbata

Draco Malfoy decise che per sentirsi offeso non gli serviva nemmeno sapere cosa diavolo fosse l’usnea barbata. Magari la Granger giocava alla piccola pozionista con la barba della nuova professoressa di pozioni e non era assolutamente il caso di indagare oltre.

«Astoria?»

La bambina non diede segno di aver sentito il richiamo con cui la mezzosangue cercava di avvicinarla. Continuò a conficcare acini d’uva in una crepa del muro proprio di fianco a Ebe. Aveva le mani un po’ sporche di succo, il sapore di ottobre si riversò sulla pergamena che giusto un mese prima aveva lasciato in quella stessa fessura.

«Non piangeva neppure quando nascose quella», osservò Draco, pensieroso.

«Cos’è? Una preghiera? Una pagina di diario? Un appunto per una pozione segreta? Magari un…»

«È l’orario delle lezioni del settimo anno. Non so a chi l’abbia rubato».

«È strano», rifletté la Granger. «Perché mai un’allieva del primo dovrebbe interessarsi agli orari del settimo anno?»

«È strano», masticò Draco, soffermandosi sulla normalità della parola stranostrano era davvero troppo normale per la Granger. «È strano anche che venga qui a piangere ogni notte. E questa è la seconda volta che nasconde qualcosa nel muro».

«Bipolarismo?»

Draco sospirò, chiedendosi come riuscisse a essere così tecnica e scolastica davanti a una piccoletta che trascorreva ore in preda alle lacrime. «È solo una bambina. Avrà perso qualcosa».

Avrebbe dovuto dire qualcuno, ma era la Granger quella che sapeva pronunciare le parole impronunciabili.

Però la sua bocca rimase chiusa, immobile.

Allora Draco si chiese che sapore avesse ottobre sulla lingua della Granger.

 

***

 

Novembre aveva la meraviglia straziante dell’autunno che muore e di un corpo di giovincella che quando incontra la morte si veste di una bellezza preclusa a chi da vivo è costretto a vestirsi di sospiri.

Era passato un mese dalla volta in cui aveva preso Astoria per mano senza l’urgenza di asciugarle le lacrime. La via per riportarla ai dormitori di Grifondoro era molto lunga, ed Hermione ricordava di essersi sentita sollevata e inquieta al tempo stesso. Certi giorni sembrava che le lacrime fossero l’unico segno di vita in quella ragazzina, perciò la notte successiva, quando aveva ripreso a piangere, Hermione si era sentita di nuovo sollevata e inquieta, anche se in maniera diversa e più dolorosa.

Il giorno trenta Astoria non pianse. Era sabato e i caposcuola in via teorica erano esentati dalla ronda notturna, ma Hermione non si stupì troppo di trovare Draco Malfoy poggiato al muro di fronte la statua dell’Ebe che mesce.

«Continui con gli straordinari, Malfoy?»

«Per quanto ogni singolo mago della comunità sia rimasto folgorato dalla tua capacità di cavillare al mio processo per farmi uscire pulito, ti ricordo che sono ancora tenuto d’occhio da troppi occhi».

Hermione sorrise, tronfia. All’inizio lei ed Harry avevano accettato di fare da testimoni al processo di Draco soltanto perché Harry si sentiva in debito nei confronti di Narcissa, e lei… lei aveva avuto voglia di dimostrare ancora una volta quanto fosse migliore. Migliore di lui, che aveva offerto una protezione sin troppo blanda quando a pasqua erano giunti a Malfoy Manor; migliore di lui che non l’aveva protetta per niente, mentre sua zia la torturava.

Hermione era stata talmente presa da quella voglia di costruirsi una posizione di favore, che a un certo punto aveva fatto fuori l’avvocato di Malfoy e aveva preso le redini della sua causa. La decisione aveva fatto chiacchierare molte signore, e aveva invitato i più benestanti a giocare altissime somme di denaro in una scommessa che dava per spacciata la relazione lavorativa nel giro di tre giorni. I più audaci avevano puntato su una durata di ben quindici giorni. E ci avevano quasi preso.

In dieci giorni Hermione aveva fatto scagionare Malfoy da quasi tutte le accuse, non lo aveva maledetto – non gli aveva lasciato segni tangibili di maledizioni, cioè – e alla fine si erano pure stretti la mano.

«Finalmente hai capito cosa significa cavillare

«Granger, quanto sei acida».

«E tu sei acescente».

Hermione si ripropose di nascondere il suo sorrisino soddisfatto. C’era un’ombra particolare nella linea che prendevano le labbra di Malfoy quando decideva di offendersi anche se non capiva l’offesa che gli era stata rivolta.

Si voltò di nuovo a fissare Astoria. Non piangeva, come tutti gli ultimi del mese il suo visino era pulito e truccato come le aveva insegnato una vera intenditrice di finezza. Aveva il capo poggiato contro il muro gelido che da Ebe scendeva nei sotterranei, poco sopra la pietra che spostava ogni tanto per nascondere qualcosa nelle viscere del castello. Questa volta lottava con mani che emanavano riflessi violetti, le unghie ombrate da petali che lasciavano impronte chiarissime, come i cuori delle persone di cui adornavano le dimore eterne.

Astoria cercava di incastrare nella pietra un fascio di crisantemi.

Hermione si portò una mano alla bocca, sconvolta – il respiro mozzato da una lama di precisione, quella impugnata da mani innocenti che la rendevano più sottile, più letale.

È solo una bambina. Avrà perso qualcosa.

Sentì distintamente l’attimo in cui Draco la raggiunse, sistemandosi alle sue spalle. Quando la fece voltare verso di sé, lei aveva già qualche lacrima incastrata tra le ciglia.

«Puoi dirlo», lo sentì mormorare, ed era quasi una preghiera nascosta nella formula di un permesso accordato.

Avrà perso qualcosa.

«Draco, ha perso qualcuno».

 

***

 

La Granger col cappellino natalizio era pressoché ridicola. Il problema era che se Draco si azzardava a farglielo notare lei rispondeva che quello era il moderno gonfalone di una società rispettabile, che ancora sapeva in cosa credere. E allora si cadeva nell’incomunicabilità. Perché Draco sapeva cos’era un gonfalone, ma non riusciva a concepire che quello dei babbani fosse un cappellino taglia unisex per umani ed elfi domestici, che somigliava a quello di un presunto barbone che faceva il papà solo la notte di Natale rubando il latte ai bambini in cambio di prestazioni atletiche lungo i comignoli dei camini più sporchi.

A dire il vero non riusciva a concepire nemmeno che i babbani avessero un moderno gonfalone, ma Draco sospettava che non fosse una mossa intelligente mettere a parte il mondo di certi pensieri. Soprattutto quando al mondo era venuto in mente di rigurgitargli la Granger sulle scarpe nuove – sia su quelle estive, che su quelle invernali, a dirla tutta.

Tuttavia Draco si disse che magari con una mossa di fine intelligenza poteva farle notare che Natale era passato e che ormai erano già al trentuno dicembre. Il fatto era che con tutta quell’incomunicabilità di fondo – lei che usava parole incomprensibili, lei che faceva ragionamenti incomprensibili, lui che cercava di capirli l’istante prima di ricordarsi che era una perdita di tempo – Draco aveva deciso di tagliare le comunicazioni anche col suo buonsenso.

Così non le aveva detto di liberarsi del cappello ridicolo. Gliel’aveva rubato. I capelli ne erano usciti in maniera disastrata. La Granger sembrava un albero di Natale con addobbi sparati a caso, però aveva una frangetta piuttosto disciplinata – la cui disciplina si riduceva a incorniciarle il viso in quella maniera che la faceva sembrare più buffa e piccola di Astoria Greengrass.

Draco si impegnò a scacciare dalla testa quell’immagine brutale.

Non era la prima volta che la regina dei cavilli e delle parole impronunciabili gli sembrava vittima di una parola fatta realtà – di una parola talmente violenta da ridurla in lacrime, proprio come succedeva ad Astoria. Nelle notti più buie, quando una fiammella si spegneva anzitempo per un alito di vento che penetrava attraverso i vecchi infissi, Draco aveva dovuto combattere e riallacciare i rapporti col suo buonsenso, strofinarsi un po’ gli occhi per stabilire che solo Astoria piangeva. Aveva dovuto faticare per distinguere le immagini di una bambina in lacrime da quelle di una ragazza che se piangeva doveva essersi graffiata coi suoi stessi artigli.

Se piangeva, la Granger, si era graffiata coi suoi stessi artigli.

O c’era ancora qualcosa in grado di farle del male?

«Malfoy, tu sai che questo si chiama furto aggravato dal mezzo fraudolento?»

«E il mezzo fraudolento sarebbe?»

La Granger distolse velocemente lo sguardo, come predata da una insidia invisibile.

Draco si disse che forse era il suo nuovo profumo.

«Fissavo Astoria. Ero distratta. E tu ne hai approfittato».

Magari il mezzo fraudolento erano i suoi piani di tenersi la critica a babbo natale tutta per sé? Possibile che la donna delle parole impronunciabili l’avesse smascherato così presto?

Draco scosse la testa, facendo del suo meglio per allontanare i pensieri molesti. «È il trentuno dicembre. Lo sai anche tu che non piangerà».

«Ma riuscirà a festeggiare? Nemmeno ci rivolge la parola».

«Parla per te. Una volta mi ha detto logofobia».

«E tu ovviamente sai cosa significa».

«Significa che se sta ancora a contatto con te comincia a parlare anche lei in un modo strano».

«Inintelligibile ai più superficiali».

«Quel che è». Per la verità Draco aveva deciso che sarebbe stato saggio non indagare, perciò nel mese di dicembre era stato più interessato a elaborare strategie mefistofeliche per separare la Granger dal suo cappellino, invece che a perdere tempo dietro a un’altra parola dimenticata anche dai dizionari più vecchi della buon’anima di suo zio Pollux mezzabirra Black.  «E poi Granger sei tu quella che vuole festeggiare: dovresti almeno offrirle da bere, se capisci cosa voglio dire».

«Ci avevo già pensato, naturalmente».

La Granger massacrò tutte le ombre che li circondavano, la sua evocazione sapeva di lumi accesi sotto travi basse e parole soltanto sussurrate. Improvvisamente comparvero dei calici e una bottiglia di spumante dall’odore improbabile – possibile che l’avesse barattato con un elfo delle cucine in cambio di un cappellino orribile come il suo?

Draco capì che non c’era proprio limite alla sconvenienza del cattivo gusto e ai disastri a catena che generava.

Come per esempio il fatto che il mondo, dopo avergli rigurgitato la Granger sulle scarpe nuove, ora gliele sporcava pure con bevande di seconda scelta.

Draco sbatté un po’ le ciglia: non era stato molto attento, ma era sicuro che la dannata mezzosangue aveva centrato il calice proprio un attimo prima di attentare alle sue scarpe. La fissò con più attenzione: il viso si era acceso di disagio, le braccia si erano rifugiate dietro la schiena, il petto andava incontro all’aria con movenze fin troppo agitate.

Cosa le faceva del male se non se stessa?

«Se il marmo potesse ridere, Ebe si giocherebbe la sua immagine per sollazzarsi della tua professionalità», le fece notare, indicando la statua con un pensiero irrisolto in testa.

 

«È stata solo una svista, Malfoy, non fare l’iperbolico».

Draco assunse l’espressione offesa per principio. Era praticamente sicuro di essere stato offeso.

«Perché non mi aiuti a fare l’Ebe che mesce invece di indignarti?»

«Perché se mi avvicino di nuovo mi sporchi pure la camicia».

Hermione voltò il capo verso la bambina, ancora una volta. Come se, per assurdo, in lei trovasse sicurezza. «E non puoi sacrificare i polsini per un brindisi?»

 «Per brindare dovrei pensare a farti un augurio».

Draco si disse che magari anche a lui era concesso distogliere lo sguardo, qualche volta, e che gli sguardi in fuga forse sono codardi, ma pieni di parole – di quelle impronunciabili, che però sono sempre sulla punta della lingua, e le danno il sapore delle stagioni.

 

«Ha nascosto un regalo di Natale». La Granger gliel’aveva sussurrato all’orecchio, come se fosse un segreto da affidare solo ai compagni più fidati. «Malfoy, dico: l’hai vista?»

Draco si riscosse dalle sue riflessioni, lanciando un’occhiata disperata alla bottiglia di spumante. «Magari è un regalo per la sorella, cosa vuoi che ti dica».

«Ma hai detto che sua sorella è…»

«Appunto, Granger».

Draco si massaggiò stancamente le tempie, chiedendosi per quanto ancora avrebbe dovuto espiare le sue colpe sopportando ben due donne ogni notte, insieme, col particolare raccapricciante che nemmeno una delle due si prendeva cura di lui.

Gli venne in mente il giorno in cui aveva capito chi avesse perso Astoria. Era stato un ingenuo a non pensarci prima. Aveva dato per scontato che semplicemente una come Daphne Greengrass non era interessata a finire la scuola.

E magari non lo era sul serio, ma qualcuno le aveva portato via la possibilità di scegliere.

Era morta.

Davanti alla statua dell’Ebe, Draco ne era sicuro.

Ricordò anche il momento in cui aveva dovuto dirlo alla Granger. Era stato praticamente terrorizzato dall’eventualità che lei lasciasse incastrare qualche altra lacrima tra le ciglia e Draco in un momento di confusione avrebbe saputo dirle soltanto che lei non doveva inghirlandarsi le ciglia per renderle belle.

Non era successo nulla di tanto disastroso, effettivamente: la Granger si era limitata ad aumentare i suoi tentativi di intortare la bambina con qualche parola impossibile.

Come in quel momento, in cui specificava che purtroppo certe bevande erano state deistituzionalizzate a Hogwarts, ma per l’ultimo dell’anno persino lei era pronta a fare un’eccezione e a chiudere un occhio.

Magari due, si ritrovò a sperare Draco, preso dalle sue ciance:«Astoria, vuoi assaggiare lo spumante che ho evocato? È fatto con essenza di felix felicis», le confidò lei, con aria soddisfatta.

Draco non fu molto stupito dell’ennesima diavoleria che si era inventata la Granger per festeggiare a base di assurdità. Anzi, gli venne voglia di prendere la bottiglia e scolarsela per conto proprio tutta in una volta sola.

«Insomma, Malfoy, mi vuoi aiutare?»

Lanciò un ultima occhiata al candore della sua camicia di alta sartoria. Si disse costretto a sacrificarla. Prese un calice dalle mani della Granger e attese che combinasse lo stesso disastro di prima.

Il suo polsino ne uscì imbrattato di spumante al sentore di felix felicis, e tuttavia doveva ancora decidere se quella camicia fosse davvero fortunata.

La Granger ci mise veramente tanto, ad avvicinarsi alla bambina, ma quando lo fece la sua bocca sembrava lo scrigno più pieno di fortuna che Draco avesse mai visto.

Forse se ne convinse anche Astoria, che diede un sorso e pigolò qualcosa di molto simile ad Auguri.

L’altra ne uscì deliziata, tanto che non pensò nemmeno di scusarsi quando, per riempire anche i loro calici, sporcò entrambi i polsini di Draco, che almeno a quel punto fu ben felice di avere un augurio adatto: «Per l’anno nuovo, Granger, ti auguro di trovarti qualcuno capace di versare un po’ di spumante senza fare disastri», mormorò. Giocando con dispetto un po’ della sua frangetta,  le lasciò un colpetto sulla fronte.

«E io ti auguro di trovarti qualcuno che abbia un po’ di rispetto per le tue camicie».

Alla Granger tremavano le mani.

 

***

 

C’era stato un momento della sua vita in cui il confine tra sogno e realtà era tracciato da una ninna nanna dolcissima. Di quella che le mamme inventano nelle notti insonni e cantano ai propri figli per far loro un dono prezioso, esclusivo, pregno di affetto così estremo da sembrare impronunciabile.

La passione per le parole impronunciabili l’aveva avuta in dono dalla guerra e da un pezzo di estate trascorso con Malfoy, ma Hermione sapeva sin da piccola quante cose riesce a dire una ninna nanna.

Così non si era stupita di trovare un vecchio giradischi nella stanza di Astoria, e non si era neppure stupita quando aveva visto cosa traeva da un vinile malandato.

Qualche volta, durante le notti più turbolente di gennaio, in cui le lacrime sembravano più fitte della pioggia, Hermione le aveva chiesto se le potesse piacere ascoltare di nuovo quella ninna nanna cantata da una bocca amica. Astoria aveva spesso fatto cenno di no col capo, ma non l’aveva mai allontanata quando l’accompagnava in camera, a notte fonda, quando le lacrime le avevano già scavato il viso.

«Potremmo evocare il giradischi», propose, davanti a un Malfoy esasperato.

«Granger, tu sei sicura che non ha niente di grave?»

Hermione fissò la ragazzina, attentissima.

Dormiva nascosta dalla statua di Ebe, senza una lacrima in viso. In grembo aveva un diario bianco, di cui aveva inaugurato solo una pagina. Doveva essere l’ennesimo ricordo che voleva donare alla sorella – come l’orario delle lezioni che avrebbe dovuto seguire, e i fiori per onorare tutti i cari, e il regalo di Natale impacchettato in una carta di un verde scurissimo.

Poteva capitare, a volte, che ci si ritirava così in profondità nei propri sogni, da smarrire la via del ritorno.

Avevano provato a svegliare Astoria in tutti i modi più delicati che conoscevano, ma non era cambiato niente. Era il trentuno gennaio, e anche se quello era l’unico giorno del mese in cui la ragazzina riusciva a trattenere le lacrime, era chiaro che coi suoi demoni non riusciva proprio a spuntarla.

«Draco, secondo te cosa sogna che la agita tanto?»

«Mostri. I sogni servono per metterti in guardia. Perciò da piccolo sogni tutti questi mostri…»

«E da grande?»

Lo vide rabbrividire, sotto i colpi di un pensiero violento. «Sogni ancora i mostri, credo. Il problema è che quei mostri sono ricordi di ciò che hai visto il giorno prima, o l’anno prima. E allora i sogni non servono più a metterti in guardia».

Hermione si inginocchiò davanti ad Astoria, scostandosi la frangetta dagli occhi; si sentiva più nuda, da quando Draco le aveva rubato il suo cappellino e si sentiva ancora più nuda da quando lui aveva scoperto che spesso le tremavano le mani.

Il fatto era, però, che da quando Astoria le aveva raccontato qualcosa della persona che aveva perso, Hermione sentiva di non avere neppure il diritto di vestirsi di protezioni momentanee.

Daphne si era allontanata da sua sorella ordinandole di non uscire allo scoperto, cantando a voce bassa e anche un po’ grave.

Qualcuno aveva sentito il singhiozzo di Astoria, poco prima, e in breve avrebbero trovato il loro nascondiglio, se una di loro non avesse deciso di farsi vedere. Allora una slytherin si era sacrificata per la sua piccola sorella di gryffindor, ed era morta con una ninna nanna sulle labbra e un pensiero dolcissimo nel sangue che presto era finito riversato sul pavimento di pietra, mischiato ad altro meno puro, o meno eroico, o meno dolce.

Sul pavimento di pietra, con una ninna nanna sulle labbra che parlava di affetto impronunciabile.

Hermione sussultò, incapace di guardare una ragazzina mangiata dai propri demoni – ricordi – e affatto pronta a sentirsi ancora impotente.

«Ma allora a cosa servono i sogni quando cresci?»

Draco si buttò stremato contro il muro, le mani piegate sulle spalle, intorno al collo, per massaggiarsi qualche muscolo teso. «Salazar, le persone normali per qualche tacito accordo non parlano di sogni e mostri, Granger, fattene una ragione».

Hermione annuì, tentando di controllare il tremore nelle mani. «La porto di sopra», soggiunse, decidendo di spostare Astoria dalla parte Slytherin del castello fino alla torre di Gryffindor. L’avrebbe fatta levitare. Ci sarebbe riuscita, senza mai lasciarla cadere. «Ci vediamo domani ad aritmanzia, Malfoy. E dirò così tante volte prostaferesi che ti farò impazzire».

Lui la fissò con occhi sgomenti, quando si rese conto che faceva proprio sul serio. Tirò un lungo respiro, prima di prendere la ragazzina tra le braccia e incamminarsi lungo le scale a cui piaceva sempre cambiare. «Non sarà quello a farmi impazzire», sbraitò.

C’era stato un momento della sua vita in cui il confine tra sogno e realtà si era fatto invisibile, e i sogni si erano fatti incubi, ricordi di mostri.

O ricordi di mani troppo ferme per tremare, come quelle di Draco, che le aveva fermato i polsi prima di dare le spalle al ritratto della signora grassa. Aveva gli occhi nebulosi, col sentore di un invito a cena mancato. «Servono per capire che da piccolo facevi bene ad avere paura».

 

***

 

Potrei discutere del fatto che sono una persona orribile perché mi sono presa questa pausa autunnale da efp che non mi ha molto giovato e che invece di farmi migliorare, mi fa regredire.

Non so cosa sia questa storia. Qualcuno che sa davvero leggere mi ha detto che ha un’atmosfera malinconica e un po’ struggente come Medusa. Io ho sorriso. Se fosse come Medusa o qualcun’altra delle mie storie vorrebbe dire che mi sto ritrovando.

Perché è a questo che mi serve Monsters. A ritrovarmi.

Non so se ci sia riuscita, ma almeno ho ritrovato loro, gli impiastri insomma.

E va bene così.

 

Appena possibile posto il secondo capitolo.

 

-          You shower me with lullabies, as you’re walking away è tratto da The Bitter End, dei Placebo.

-          L’usnea barbata è il lichene da cui si ottengono i barbiturici.

-          Logofobia è la paura di determinate parole.

 

C’è qualcuno che mi contatta in privato ogni tanto e mi dice quando continui peccato? (quando trovo un lepricauno che mi esaudisce un paio di desideri!)guarda quanto è fresco qui Joseph Morgan!

Per chi volesse buttarsi nella mischia, io sto qui: Click

Filomena

 

 

 

 

 





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