miria
Testo
scritto per “Progetto scuola: racconta il tuo professore”
(in una pagina di Word) di EFP e UR Editore.
Sonetti
d'amore in un corpo da ingegnere chimico
School sucks.
Era scritto in verde nei
bagni della scuola, degna conclusione a "L'Ode alla prof. a
gambe aperte”, un capolavoro di dodici - sconci - versi in rima
baciata .
Terzo anno, Liceo
Scientifico. All'epoca facevo parte delle poco nutrite fila dei
secchioni e di quelle, ancora più esigue, del “fronte contro il
vilipendio delle strutture scolastiche”. Per questo, su quel
muro del pianto, non ho mai scritto nulla. Del resto, a sedici anni,
nei bagni della scuola ci andavo pochissimo: puzzavano da far schifo
e non capirò mai perché, fra tutti i posti disponibili, i
perditempo dell'istituto avessero scelto proprio quel miasmatico
tugurio per i loro rendez-vous.
Col pennarello, in
compenso, io scrivevo sul mio diario: i voti dei compiti in classe e
delle interrogazioni, la media di ogni materia e, sull'ultima pagina,
un gigantesco "Miria P. vaffanculo".
Il mio
compagno di banco ci aveva aggiunto una freccia rossa ed una vignetta
della prof. di matematica&fisica intenta in attività
extracurricolari orgiastiche di dubbio gusto e di ancor più dubbia
realizzazione. Perché Miria P., la peggiore affastellatrice di
numeri e formule su lavagna che io abbia mai avuto la sfortuna di
incontrare, oltre ad essere incredibilmente antipatica era anche
irrimediabilmente racchia.
Non soltanto brutta, non
semplicemente sgraziata... proprio repellente! Con i suoi capelli a
caschetto flosci e la chierica, due occhietti troppo vicini e il naso
lungo e adunco, portava a spasso per le classi le sue terga ossute ed
una risatina caustica modello frenata di automobile. Come se Madre
Natura non si fosse sufficientemente accanita sulla sua sfortunata
persona, Miria P. aveva deciso di peggiorare le cose dimenticarsi
dell'uso dello shampoo e della ceretta, coltivando nel tempo libero
una vena dark di tutto rispetto, che la portava ad intabarrarsi in
orrendi vestiti neri che la fasciavano tutta dalla testa ai piedi,
accentuando baffi, basette e dentoni sporgenti.
Miria P. si fregiava
dell'altisonante titolo di “ingegnere chimico” e - come tanti
altri - era finita al liceo senza nemmeno sapere bene come,
improvvisandosi insegnante e riversando tutta la frustrazione di un
matrimonio fallito e di una carriera neppure incominciata su di noi,
poveri scolari. Si presentava in aula tutte le mattine con una faccia
lunga e triste, trascinandosi dietro un borsone - rigorosamente nero
- più grosso di lei. Lo lanciava sulla cattedra gettandosi una mano
sugli occhi e ci si nascondeva dietro. Dalle profondità degli abissi
di una Furla tarocca giungeva l'ordine perentorio di fare tutti gli
esercizi del libro, dall'uno al quattromilaventi, e la sua odiosa
vocetta nasale - che faceva rizzare i peli delle braccia peggio del
gesso grattato contro l'ardesia - ci intimava di non disturbarla:
anche quel giorno infatti una terribile emicrania le impediva di
spiegare alcunché. Le sue ore passavano così: quatto fessi – me
compresa – a fare gli esercizi, tutti gli altri megatorneo di
briscola o tressette. La prof., riferivano dal primo banco (gli unici
che potevano testimoniare ci fosse un essere umano dietro la
finta-pelle con le borchie), scriveva a tutto spiano. E scriveva
durante le assemblee di classe e di istituto, e scriveva durante le
esercitazioni antincendio e scriveva durante le dimostrazioni di
primo soccorso. Tempo due mesi e avevamo trafugato da sotto il suo
naso lungo un malloppo di carta sottile quanto lo Zanichelli:
struggenti sonetti d'amore, diabetici componimenti di zucchero e
miele.
Con i primi raggi del
sole primaverile su quella creatura rachitica e malaticcia, che
appestava le mie giornate con la sua sgradevole presenza, si abbatté
l'ira funesta delle mamme casalinghe-tantoperbene-chiomaAldoCoppola a
colpi di "siete indietro col programma": il settembre
successivo era sparita, e non l'ho più vista.
Non ho mai alzato un dito
per difenderla dagli sberleffi dei miei compagni o dalle critiche dei
genitori, anche se era una creatura patetica e fragile,
fondamentalmente innocua. Mi faceva pena, ma mi faceva anche rabbia
con la sua insulsa pretesa di meritare rispetto perché doveva
illuminarci di sapere e il suo totale convincimento che non valesse
la pena sprecare tempo nel farlo con un metodo diverso dal respirarci
vicino.
Oggi mi resta solo la
rabbia, perché ogni singolo giorno, quando visito un paziente,
quando gli prescrivo un farmaco, so che nessuno scuserà un mio
errore. Miria sbagliava nel deridere l'ignoranza dei suoi alunni,
sbagliava qualsiasi dimostrazione su un piano cartesiano, sbagliava
mostrando quanta poca importanza e quanto poco rispetto meritassimo
come studenti e come esseri umani.
Miria ha sbagliato, mi ha
portato via tante cose e cerco ancora vendetta.
***
Ci
sono molte cose che ho amato durante la scuola, molti professori che
hanno meritato il mio rispetto, molti altri che la mia stima non
l'avranno mai...
Ricorderò
sempre con affetto il mio maestro elementare, magister di tutta la
vita, con i baffoni anarchici, i capelli bianchi e l'unità sotto il
braccio. Quello sposato da quarant'anni con la maestra della classe
affianco, la stessa che gli portava il caffè ad ogni intervallo,
tutti i giorni, da sempre, e non aveva ancora imparato che ci voleva
un cucchiaino e mezzo di zucchero. Mi ha fatto amare i libri e me li
ha indicati come amici di tutta la vita.
Ricorderò
la mia insegnante di matematica delle medie, che dall'alto del suo
terribile metro e cinquanta mi incuteva un timore reverenziale.
Perché mi ha fatto amare la scienza e la medicina che oggi sono il
mio lavoro.
Miria
P. vorrei dimenticarla, e ancora più di me vorrebbero farlo quelli
che il test d'ingresso a numero chiuso non lo hanno passato, quelli
che ad ingegneria hanno buttato il sangue, quelli che ad architettura
hanno capito quanto faticoso sia studiare da soli quello che era
nostro diritto sapere.
Miria
P. “vaffanculo”...
|