That
Love is All There is
Terre_del_Nord
Slytherin's Blood
Chains - IV.010
- Myrddin
Rabastan Lestrange
Hogwarts, Highlands - dom. 9 gennaio 1972
“Di nuovo? Non è possibile! Non puoi avermi
battuto di nuovo! Sei un baro! Ecco cosa sei!”
“Non m'interessano i tuoi
complimenti, Rosier, ma i tuoi galeoni sonanti! Ahah... ”
Ghignai, mostrando la lingua e leccandomi le labbra in maniera
inequivocabile, mentre allungavo le mani sul malloppo che era cresciuto
a dismisura sul tavolo; ci trovavamo come sempre al tavolo
più defilato della Sala Comune, da lì avevamo il
pieno controllo della situazione, così da far sparire le
tracce della bisca se fossero sorti problemi; avevamo giocato in
coppia, come sempre, per la prima parte della partita ed ora che
avevamo battuto tutti gli altri, Evan ed io c'eravamo sfidati
all'ultimo sangue, per spartirci il bottino. Lo osservai, di fronte a
me, le dita affondate nei lunghi capelli rossicci e scarmigliati: era
pallido, aveva visto svanire, un galeone dopo l’altro, tutte
le risorse che il padre gli aveva concesso per le sue spese mensili e
tutto il frutto della lunga mattinata di bagordi. Sorrisi tra me:
quando mi avesse chiesto di fargli un prestito, mi sarei anche fatto
pagare profumatamente gli interessi!
“Non fare così, se
fossi uscito, a quest'ora le tue amichette ti avrebbero lasciato
ugualmente in mutande... ”
“Almeno mi sarei divertito,
dopo essermele fatte togliere! Ahah... ”
“Non ci pensare... Sei
imprigionato qua dentro, con me, ancora per tanti, tantissimi mesi,
avere i soldi e non poterli usare ti avrebbe reso pazzo, io ti ho solo
aiutato a non pensarci... ”
“Oh, certo, l'hai fatto per
me, per il mio bene! Sei una malefica faina! Ecco cosa sei!
Bastardo!”
Scoppiai a ridere annuendo con un rapido movimento del capo. Gli avevo
proposto di divertirci insieme, a spennare polli, quella domenica, ed
Evan aveva accettato, pur sapendo di rischiare di essere spennato a sua
volta: si annoiava anche lui, non poteva uscire, come me, per quel
vecchio scherzetto fatto a Pascal e a Slughorn, in autunno, e non
potendolo usare nei modi che gli piacevano, l'avevo convinto a provare
a far fruttare tutto quel denaro. Da parte mia, dovevo mettere
insieme una discreta sommetta entro il ritorno dei ragazzi da
Hogsmeade, per saldare un piccolo debito, e soprattutto trovare un modo
diverso di passare la giornata, o rischiavo di
“sfinirmi” di seghe in bagno o di diventare
completamente pazzo. E la natura, come diceva sempre quel borioso di
mio fratello, mi aveva già messo a buon punto sulla strada
della pazzia. Esplosi a ridere sguaiatamente, al pensiero di come era
finita l'ultima volta che Rodolphus era piombato in camera mia, per
ammorbarmi con una delle sue solite cazzate, proprio mentre ero molto
impegnato...
Oh sì, l'ho fatto pentire amaramente di avermi interrotto!
Evan mi guardò sospettoso, vedendo il mio ghigno da folle
intuiva che ne avevo combinata un'altra delle mie, a Natale, ma
conoscendomi piuttosto bene, preferì non indagare.
Sì, spennare polli non era una delle mie attività
preferite, ma era l'unica che potessi concedermi, al momento, visto che
Dumbledore mi teneva d’occhio e non potevo rischiare di farmi
buttare fuori da Hogwarts, non con tutto quello che c'era in ballo: era
fuori discussione, insomma, almeno per un po’, affatturare
qualche troietta e trascinarla nel buio di qualche
sottoscala… Tanto per fare un esempio di quali fossero i
miei divertimenti preferiti. No, non dovevo pensarci... o mi sarei
ritrovato subito con i pantaloni troppo stretti.
“Che scena squallida... due
presunti Maghi Purosangue ridotti a giocare d'azzardo, come volgare
plebaglia babbana... ”
La voce ironica dell'odioso Malfoy, nato evidentemente solo per rompere
le palle al prossimo, ci colse alle spalle e s'incrinò in
uno sbuffo divertito, su quell'ultima parola; subito, tra i pochi
presenti in Sala Comune, calò un silenzio carico di attesa e
di curiosità: era stata una domenica noiosa, un bisticcio
poteva essere l'unica nota emozionante, l'ultima, per risollevare la
giornata.
“Povero Lucius, costretto come
un comune mortale qui, di domenica pomeriggio, in punizione!
Com'è ingiusta la vita, quando non bastano i soldini di
papà a toglierci dai guai!”
“A proposito di soldi,
Lestrange, come mai hai tutto questo strano bisogno di soldi? E
soprattutto come mai ti stai dando a tutta questa strana, improvvisa
castità? Le... "bacchette"... mal funzionanti sono costose
da... riparare?”
Il doppiosenso attirò qualche risatina beffarda nelle
retrovie, io non me ne curai, conoscevo Lucius, sapevo che prendersi
gioco di me era solo un diversivo: lui voleva che reagissi e che
facessi qualcosa per cui fossi punito e magari sbattuto fuori! E il
denaro, naturalmente, mi sarebbe stato requisito, non prima che qualche
galeone finisse per sbaglio nelle sue tasche. Sì, lui era
fatto così, si divertiva solo quando metteva gli altri nei
guai, quando raccoglieva il lavoro degli altri, quando riusciva a
pavoneggiarsi per meriti che non erano suoi, ma la cosa che odiavo
più di tutte, di Malfoy, era che, quando si doveva pagare,
lui se la cavava sempre, in ogni modo, grazie all'intervento di suo
padre. Era inutile dire che lo disprezzavo. Mi voltai,
fissandolo con la mia abituale faccia serafica, trattenendomi a stento
dal ridergli in faccia: non sapeva che l'avevo visto, nello studio di
Cygnus Black, la sera del suo fidanzamento, e non immaginava che avrei
colto la prima occasione per farlo vergognare come un ladro. Poteva
scommetterci che l'avrei fatto vergognare come un ladro! Non subito,
certo, me la sarei giocata bene, così quando si fosse saputo
in giro, gli sarebbe passata la voglia di fare altre battutine sulla
mia... “bacchetta”. Lo squadrai, pur sapendo di
essere in punizione, si era preparato per uscire, sicuro fino
all'ultimo che lui, il rampollo di Abraxas Malfoy, sarebbe caduto in
piedi ancora una volta: negli ultimi due mesi, le aveva fatte di tutte
per liberarsi della punizione che era toccata a tutti noi, spesso era
già riuscito a convincere Slughorn ad ammorbidirgli la pena,
e anche quel giorno contava di riuscire ad andarsene fuori tutto il
pomeriggio con la sua "futura sposa". Peccato per lui che quel
vecchio pazzo di Dumbledore non riconoscesse certi automatismi,
così, quel pomeriggio, aveva dovuto guardare la sua Narcissa
lasciarlo solo e uscire con le amiche. Ora stava seduto sul divano
vicino al camino, ad attenderne il ritorno, un bicchiere in mano,
simile a uno di quei nobili decaduti che riempivano i quadri del
maniero dei Lestrange a Trevillick, impettito, profumato, con i
pantaloni eleganti che facevano capolino sotto la toga sontuosa, il
mantello di ermellino scuro piegato con finta distrazione al braccio,
deciso a passeggiare con lei prima di cena nei cortili delal scuola,
quello stupido bastone nel cui manico celava la bacchetta, i capelli
legati nel solito codino lezioso. Tutto in lui, a partire da quell'aria
strafottente, mi ispirava il desiderio di pestarlo a sangue. Mi alzai,
mi avvicinai, gli passai dietro, mi chinai sulla sua spalla, gli
parlai, piano, all'orecchio, scandendo bene le parole, con voce chiara
ma bassa, volevo far imbestialire lui, non volevo offendere chi non
c'entrava niente.
“Ho necessità di
denaro per pagare i servigi della tua futura signora, Malfoy: ora che
si è fidanzata è diventata... esosa... Quanto
alla mia “bacchetta”... puoi chiedere a lei se...
è a posto...”
Scoppiai a ridere, mentre il volto di Lucius cambiava rapidamente
colore, dal bianco cadaverico e un rosso bluastro per tornare al
consueto pallore; lo vidi serrare impercettibile la mano sul manico del
bastone, proprio come un anno prima, e riprendere il controllo a
fatica, solo dopo un respiro molto, molto profondo. Risi ancora di
più, tra me.
“Quanto è costoso
mantenere intatta questa tua finta faccia da santo, eh, Lucius? Ahah...
Non dovresti fare così, sai? Dovresti sfogarti ogni tanto, o
prima o poi ti prenderà qualcosa, e allora... davvero...
qualcuno dovrà “consolare” la piccola
Cissa... ”
“Forse... ma di sicuro a
consolarla non saresti tu... ”
“Ah no? E chi te lo
assicurerebbe, una volta che fossi finito sotto terra?”
“Perché per allora
ti avrò già staccato le palle e te le
avrò già fatte ingoiare... ”
“Come hai provato a fare
l'anno scorso? Interessante! Peccato che tu non sia abbastanza uomo da
riuscirci, Malfoy!”
Questo lo dissi a voce ben più alta, così che
sentissero tutti, mentre già tornavo a prendere posto
accanto a Evan. Rosier mi guardò allibito, non aveva sentito
tutto lo scontro verbale, ma sapeva che non era mai opportuno attaccare
frontalmente Malfoy come avevo appena fatto io; eppure, anche lui,
tratteneva a stento una risata. Oltre a disprezzarlo, compativo Malfoy,
la situazione, per lui, si stava facendo imbarazzante. Erano almeno due
anni che un sospetto si stava facendo largo in me ed ora stava
diventando certezza: per il glaciale, imperturbabile rampollo di
Abraxas, fingere era sempre più difficile, si era visto bene
quando aveva perso le staffe e si era accapigliato con Rigel Sherton,
un ragazzino molto più piccolo di lui, che era riuscito
persino a metterlo in difficoltà, l'anno
precedente. Una scena spassosissima, un valido motivo per
considerare quel ragazzino del Nord un tipo in gamba. La
verità era che Lucius Malfoy, quello stupido idiota, si era
innamorato davvero e, cosa ancora più divertente, era
geloso, tanto che tutta la sua boria ormai non bastava più a
nascondere la verità, anzi rendeva il tutto ancora
più ridicolo e patetico: Narcissa Black era un fiore, il
fiore più bello e come tale era stata scelta, anni prima, da
suo padre per il nome, il sangue, la bellezza, il denaro, destinata a
diventare l'ennesimo grazioso trofeo che i Malfoy avrebbero mostrato al
mondo per farsi invidiare da tutti. Oltre che per garantire la fusione
di due delle famiglie più Pure e ricche del Mondo Magico.
Peccato che, impegnati più a incensare se stessi che a
rendersi conto del mondo attorno a loro, i Malfoy non avessero capito
niente dei Black e, in particolare, Lucius avesse sbagliato i suoi
calcoli riguardo i rapporti di forza con la sua futura sposa. Narcissa
Black, infatti, si era rivelata tutt'altro che un grazioso trofeo, non
era affatto una giovane fragile e manipolabile come serviva ai Malfoye,
tutt'altro, conosceva il proprio valore e si era andata a conficcare
come una spina avvelenata nel cuore di ghiaccio di quel bastardo. Ed
ora, con un semplice sguardo, lo rendeva fragile come
cristallo. Tradotto nel mio linguaggio più
efficace, Narcissa Black lo teneva per le palle e già questo
era sufficiente a suscitare in me tutta la mia più profonda
ammirazione! Ghignai.
Il problema, naturalmente, era che anche per lei, io non provavo solo
una platonica ammirazione, soprattutto quando ripensavo a quello che
avevo visto a Lacock il giorno del matrimonio di Bellatrix con mio
fratello. Ero amico di Evan Rosier da quando eravamo ragazzini,
complice anche il fatto che eravamo imparentati tramite le nostre
madri, quindi lui sapeva di me molto più di quanto fosse
auspicabile, ed io sapevo pressochè tutto di lui, compreso
quanto succedeva quando andava a casa delle sue cuginettee Black: era
così che, in tempi non sospetti, quando Bellatrix era solo
un sogno proibito per mio fratello e Lestrange e Black non erano ancora
destinati a diventare parenti, avevo saputo quali fossero le stanze
delle ragazze nella loro casa nel Wiltshire e, il giorno del
matrimonio, mi era bastato un rapido giro per i cortili interni per
riconoscere la quercia da cui Bellatrix si calava per fumare di notte,
all'insaputa di Cygnus, o l'abete su cui Evan si arrampicava per spiare
Andromeda e le sue sorelle che si faceva il bagno. Ero salito su
quell'albero anch'io e, con una visuale perfetta sulle camere delle
sorelle, mi ero goduto in tutti i sensi la vestizione di sposa e
ancella... Poi avevo sfogato gli ormoni per giorni a quei
ricordi, e a dire il vero continuavo a farlo, quasi tutte le sere, nel
gelido baldacchino del dormitorio. Era meglio non pensarci troppo, a
dire il vero, più di una volta, soprattutto a Storia della
Magia mi ero ritrovato con i pantaloni improvvisamente stretti mentre
la mente tornava a quella mattinata di maggio... al corpo snello di mio
cognata, alle morbide, pallide, rotondità di sua sorella...
al pensiero di come avrei voluto intrufolarmi in quella stanza,
affatturare ed eliminare l'Elfa, e prendermi ciò che volevo,
con o senza la disponibilità
di… Sì, quei pensieri e quei ricordi
erano incredibilmente coinvolgenti, anche in quel momento, anzi
soprattutto in quel momento: avere di fronte quel borioso di Lucius,
sapere che sarebbe impazzito se solo avesse immaginato... A volte la
vita riservava delle piccole, inaspettate soddisfazioni, ed io avrei
avuto cura, un giorno, di fargli sapere esattamente tutto quello che mi
passava in mente in quell'istante: sapevo già che sarebbe
stato molto divertente.
“Mia cara...
finalmente!”
Mi voltai verso l'ingresso, Narcissa era appena apparsa sulla porta,
deliziosa nel suo cappottino scuro, i boccoli morbidi che scendevano
liberi sulle spalle, le guance appena rosate dal freddo della giornata
invernale, lo sgaurdo altero che saettava nella stanza, per cercare
Lucius o forse anche per cercare me: le avevo chiesto un favore
particolare, prima che partisse per Hogsmeade. Lucius si era alzato per
andarle incontro, ma prima si era soffermato dietro la mia sedia, si
era chinato abbastanza da sibilare al mio orecchio, fingendo una
tranquillità che non aveva, che prima o poi mi sarebbe
passata la mia proverbiale voglia di ridere. Ed io gli avevo risposto
che non avevo ancora nemmeno iniziato a ridere sul serio... di lui...
ma che l'avrei fatto molto, molto presto. L' avevo lasciato interdetto,
soprattutto perchè non guardavo lui ma Narcissa che stava
avvicinandosi a me, con la chiara, misteriosa, intenzione di parlarmi.
Ghignai ancora di più.
Oh Lucius... affogati in questo dubbio... chissà che cosa
vuole lei, proprio da me...
“Cissa... tuo cugino ha
generosamente finanziato i miei acquisti... Ecco il denaro che ti
devo... se devo aggiungere qualcosa... è tutto a
posto?”
“Ho mandato un'Elfa a prendere
accordi con il guardiacaccia... ma se vuoi, puoi pensarci direttamente
tu... o puoi vederlo, prima...”
“No, mi fido del tuo gusto,
sono sicuro che sarà il dono perfetto... ”
La fissai angelico, lei mi guardò con un velo del solito
sospetto: dire che non le piacevo era un eufemismo, ma la nostra
“parentela” la costringeva ad ascoltarmi anche se
avrebbe preferito vedermi sprofondare in un abisso; quel giorno,
però, le avevo fatto una richiesta piuttosto innocua per non
dire sorprendente, perché avevo chiesto il suo consiglio
riguardo a questioni che coinvolgevano galanteria ed etichetta, materie
in cui lei era maestra, così non si era insospettita per
niente. Non come il giorno del matrimonio dei nostri fratelli: le avevo
chiesto, educatamente, di ballare con me, però poi, appena
l'avevo avuta tra le grinfie, non le era piaciuto molto come le avevo
annusato i capelli o il modo in cui le avevo serrato i polsi... mi ero
scusato, dicendole che avevo temuto che cadesse, ma sapevamo entrambi
che era una bugia... Mi era piaciuto vedere tutto quel disagio nei suoi
occhi, quell'inquitudine... e soprattutto l'imbarazzo quando,
stringendola a me, l'avevo costretta a notare quanto fossi
“entusiasta” della sua vicinanza... Era
fuggita via appena aveva potuto, per rifugiarsi tra le braccia
improbabili di Mirzam Sherton, il testimone dello sposo, che mi aveva
poi preso da parte e spiegato tranquillamente che potevo scegliere tra
chiederle immediatamente scusa, o aspettare di tornare a casa per
sentire la cinghia di mio padre. Le avevo chiesto scusa, ma Narcissa
era una Black: appena tornata a scuola, aveva raccontato tutto a
Lucius, naturalmente, e il biondino mi aveva scaraventato lungo le
scale con un incantesimo, una sera che camminavo da solo, insomma alla
prima occasione appropriata, secondo i suoi parametri. Mi ero
ammaccato per bene, quella volta, ma il caso aveva voluto che, per vie
traverse, poi restasse coinvolto anche Rigel Sherton... eh
beh... Quello che era accaduto dopo mi aveva fatto dimenticare
ogni ferita e avevo riso sonoramente per giorni.
“Ti libero subito di questo
osceno indviduo, mia cara... andiamo a parlare in cortile...”
Lucius la prese per un braccio e si allontanò con lei, ero
sicuro che le avrebbe fatto il terzo grado, indispettendola ancora di
più.Alla fine mi congedai da Evan, mi sollevai, divertito
nel notare un paio di ragazzine che mi fissavano a metà tra
l'inorridito e lo stupefatto, feci loro un inequivocabile gesto che le
fece scappare a gambe levate, poi mi nascosi in bagno, divertendomi a
ricordare i fianchi morbidi di Narcissa Black almeno fino all'ora di
cena.
***
Meissa Sherton
Hogwarts, Highlands - lun. 10 gennaio 1972
“Signorina Sherton…
Non deve usare la Bacchetta con tanto vigore, o non crescerà
mai più una sola foglia a quella povera piantina!”
Rimasi con la Bacchetta a mezz'aria, strappata ai miei pensieri fumosi
dalla voce della professoressa Sprout, a sorpresa dietro di me: fin
dall'inizio dei corsi, le lezioni di Erbologia erano state le mie
preferite, entrare nelle serre e sentire l'odore tiepido della terra mi
ricordavano la rugiada nella foresta di Herrengton, e prendermi cura di
un essere vivente, anche una semplice piantina, soddisfaceva, in
piccolo, la mia aspirazione a diventare, un giorno, una Guaritrice. Da
quando ero tornata dalle vacanze di Natale, però, sembrava
che avessi perduto ogni mia capacità, ero sempre
più imbranata, inutile, persino dannosa: mortificata, sentii
la faccia andarmi a fuoco, quando mi resi conto di aver ridotto la
pianta di fronte a me a uno sterpo spelacchiato e che, implacabili, dal
fondo della serra, salivano le solite risatine maligne che mi seguivano
da giorni, a ogni stupido errore che commettevo. Si
risvegliò, subito, anche il desiderio di vendetta, quando
udii quella “befana” della Dickens borbottare
querula con Yaxley “Loro
usano la Bacchetta per sistemar Ministri, non piantine... ”,
ma, mentre la professoressa, infastidita dal chiacchiericcio, imponeva
il silenzio, mi limitai a stringere forte la Bacchetta e a mordermi le
labbra a sangue, imponendomi di non reagire. Ormai era
così ovunque, a lezione, in Sala Grande, in biblioteca,
ovunque mi seguivano bisbigli atterriti o irridenti, contro di me e
Rigel, contro Mirzam, contro mio padre, contro tutti noi. Mi
“salvavo” solo di notte, quando, tutte le sere, mio
fratello ed io andavamo in Infermeria per sottoporci alle ultime cure
che ci erano state prescritte a Inverness e Madama Pomfrey ci obbligava
a dormire lì, scatenando altre chiacchiere tra chi, come
alcuni Slytherins, scommetteva che non avessimo più la
faccia di presentarci nei Dormitori e chi, come certi Gryffindors,
credeva che quella fosse una precauzione voluta dal Preside Dumbledore,
per tenerci d'occhio.
Ogni giorno, odiavo la scuola un po' di più, non per
l'impegno che le lezioni richiedevano, anzi, quando riuscivo a
concentrarmi, seguire le spiegazioni e studiare mi erano di conforto:
ciò che non sopportavo più erano la
falsità e la cattiveria dei miei compagni. Non mi
era facile prestare attenzione, non solo perché la mia mente
correva di continuo a Mirzam, ma anche perché, per quanto
mio padre e mio fratello mi avessero “preparata” al
peggio, non riuscivo a capacitarmi e ad accettare che, per ragioni che
nulla avevano a che fare con me, molti con cui avevo studiato e giocato
fino a poche settimane prima, non volessero più parlarmi, o
mi prendessero in giro, o mi guardassero come se fossi un mostro.
Rendermi conto di quanto avessi sbagliato nel giudicare certe persone,
nel concedere amicizia e aiuto a chi, come Zelda, si era
all’improvviso trasformata in una "vipera" che mi sparlava
dietro, solo per compiacere la Dickens, trasformava le mie giornate in
una sequela infinita di amarezze, che mi privavano della forza e
dell'entusiasmo per fare qualsiasi cosa. Persino Sirius si stava
comportando in modo inspiegabile: mi sorrideva, sentivo che voleva
parlare con me quanto lo desideravo io, però, alla fine,
permetteva a “quel” Potter di intromettersi; ed
io... io avevo troppa paura di un suo “rifiuto” e
non avevo più il coraggio di fare la prima
mossa. Pregavo tutte le sere che almeno su di lui mi stessi
sbagliando e che tutto tornasse presto come un tempo: non volevo
perdere anche l'unica persona che, lì dentro, contava
qualcosa per me.
Sospirai, serrando la Bacchetta tra le dita e mordendomi ancora di
più le labbra, poi sollevai lo sguardo e lo feci scorrere su
chi avevo di fronte, cercando di non perdere il controllo, anche se
sentivo le lacrime premere e l'agitazione farmi tremare le
gambe. No, non dovevo farmi vedere debole, non dovevo.
Mai. Da nessuno. Dovevo reagire a quella tristezza,
dovevo riuscirci; mi ripetevo come un “mantra” che
non doveva importarmi nulla delle persone che mutavano sentimento al
mutar del vento. Quanto a Sirius, doveva esserci un equivoco,
ma presto si sarebbe sistemato tutto, non potevo aver perduto la sua
amicizia, perché né io né la mia
famiglia gli avevamo fatto alcun male. La professoressa,
intanto, pensierosa, annunciò alla classe che la lezione era
finita.
“Potete andare. Lei attenda,
signorina Sherton: devo parlarle.”
Sentii altri squittii divertiti ma non me ne curai, la mia unica
preoccupazione era che la discussione fosse breve: ormai era buio e mio
padre, memore di quanto era accaduto a Herrengton, si era raccomandato
perché non mi spostassi mai da sola nel castello, ed io
potevo scommettere che nessuno mi avrebbe atteso, per fare insieme il
tragitto fino a Difesa contro le Arti Oscure. Aspettai che gli
altri fossero usciti, seguii la professoressa fino al suo tavolo di
lavoro, la osservai mentre, con la Bacchetta, faceva sparire le tracce
di terra dai guanti e dal grembiule e sostituiva le nostre piante con
altre, nuove, per i ragazzi che avrebbero avuto la lezione successiva.
“Mi dispiace per la pianta. Mi
sono distratta e... ”
Sembrò non considerarmi, mentre restavo in attesa,
mortificata; estrasse infine un vaso dalla dispensa, lo pose sul
tavolo, misurò quattro cucchiai dei semi nerastri, a forma
di disco, che vi erano contenuti, e li chiuse in un sacchettino di
pelle che mi porse, con sguardo gioviale ma fermo.
“Conosce questi semi,
signorina Sherton? E soprattutto, sa a che cosa servono?”
“Credo siano... semi di...
“Griffonia Simplicifolia (1)”,
forse? Quelli che aiutano il sonno?”
“Esattamente: li
studierà solo al terzo anno, ma sua madre mi disse di
averglieli mostrati una volta, un paio di anni fa. Se ne ha ricordo,
vuol dire che la sua memoria sta finalmente facendo progressi. Molto
bene. Vorrei portasse il sacchettino a Madama Pomfrey, al termine delle
lezioni: questi semi servono per gli infusi che lei e suo fratello
dovete assumere, di sera... ”
Tacque di colpo e mi fissò con insistenza, incoraggiante:
lentamente nella mia testa si accese il collegamento tra quelle
informazioni e tante cose sembrarono andare al loro posto.
“C'è la Griffonia
negli infusi che beviamo? Allora... allora forse è per
questo che... ”
Ero sorpresa, incerta, timorosa di sbagliare ancora, ma la Sprout
annuì, sorridendomi.
“Sì, è a
causa di questi semi se si sente stanca e, a volte, distratta:
favoriscono il riposo, perché il sonno aiuta la memoria a
riprendersi, ma danno anche temporanei effetti collaterali. Tenga
conto, inoltre, che è normale avere delle
difficoltà di concentrazione, quando si subiscono dei
traumi. Non si angusti, perciò, non c’è
nulla d’irreversibile, presto tornerà tutto come
prima e lei recupererà in fretta, ha ottime basi e una
naturale propensione per questa e altre materie. Quanto ai suoi
compagni, vedrà che tra non molto smetteranno di aver paura
di lei e di suo fratello.”
“Paura? Perché? Non
abbiamo fatto nulla di male! Io... io credo piuttosto che ci
odino!”
“La paura rende irrazionali,
signorina Sherton, e anche chi conosce la sua famiglia, pur sapendo
quanto certe accuse siano ridicole, può commettere errori di
valutazione. Le sembrerà difficile credermi, adesso, ma
passerà... Lei, nel frattempo, pensi solo a
riposare e a rimettersi in forze... E se ha bisogno, anche solo di un
consiglio, può rivolgersi a me, alla professoressa
McGonagall, a un altro professore… Sa cosa dice il nostro
saggio Preside? “A Hogwarts, chi chiede aiuto lo trova
sempre”(2).
Ora vada, non faccia tardi alla lezione del professor Pascal.”
“Grazie... di tutto...
”
La fissai, un po’ dubbiosa: la Sprout era una persona
schietta, ma dubitavo che quelle ultime parole non avessero un qualche
significato nascosto; decisi di scrivere a mio padre della nostra
insolita conversazione, già quella sera: di sicuro lui, che
ricordava sempre ai miei fratelli di non credere a tutto quello che
diceva il vecchio Preside, avrebbe compreso meglio di me. La
professoressa rispose, bonaria, al mio sorriso intimidito, poi la
salutai, risollevata che non fosse solo colpa mia se in quei giorni non
ne avevo combinata una giusta, e rinfrancata per aver trovato qualcuno
che sembrava credere nell'innocenza della mia famiglia. Mi
buttai il mantello sulle spalle e mi avviai fuori, di corsa, ero
talmente sollevata che mi sembrava possibile persino arrivare alla
lezione di Difesa in tempo, o almeno non troppo in
ritardo! Come mi aspettavo, non trovai nessuno fuori delle
serre ad attendermi, né tra gli Slytherins, né
tra gli Hufflepuff, alzai le spalle, incurante, e mi avviai veloce nel
sentiero bianco di soffice neve, finché scorsi le retrovie
dei miei compagni e, ultimi, Yaxley e la Dickens, impegnati a insultare
due Nati Babbani di Hufflepuff, che cercavano, invano, a passo spedito,
di distanziarli.
Rallentai, non volevo fare un pezzo di strada con quei soggetti,
così, anche se, con un po' di fortuna, avrei potuto
incontrare Sirius e i suoi amici diretti alle serre, invece di avviarmi
all'ingresso nord, da cui partiva la scalinata per il secondo piano,
come avrebbero fatto tutti gli altri, decisi di raggiungere l'ingresso
ovest, attraversando il cortile chiuso tra gli appartamenti del
professor Binns e la torre settentrionale, che si ergeva massiccia e
maestosa sul porticato innevato (3).
Superate già solo le prime colonne, sentii le risate e le
voci spegnersi lontano da me, e mi ritrovai in una specie di giardino
di ghiaccio, fatato, illuminato fiocamente da quattro bracieri posti
agli angoli del cortile: non era una buona idea attardarsi
lì, da sola, lo sapevo, ma da quando ero tornata a scuola,
con la scusa delle tempeste di neve, Rigel mi aveva imposto di non
uscire mai, se non per andare a lezione alle serre, ed io non ne potevo
più di quell’insopportabile prigionia. Quella
sera, perciò, con l'ultima luce del sole ormai spenta dietro
le montagne e il cielo buio del vicino novilunio, la neve ghiacciata
sotto i piedi, l'aria frizzantina che mi solleticava le guance,
percorsi il vialetto al centro del cortile, soffermandomi a raccogliere
la neve dalle siepi di semprevivi e ammirando un pettirosso che mi
osservava, insonnolito, dal suo nascondiglio, nella spaccatura di un
alberello spoglio: no, non c'era nulla da temere in quell'angolo di
assoluta pace. Poco per volta, rallentai fino quasi a fermarmi, godendo
di quel silenzio, riflettendo su cosa se ne facesse un fantasma, per i
suoi appartamenti e il suo studio, di un'ala del castello tanto ampia,
distraendomi completamente, finché un fruscio e una specie
di singulto, dietro di me, provenienti dai cespugli ai piedi del
colonnato, mi riportarono al presente e mi fecero voltare.
Nell'oscurità densa del porticato non riuscii a vedere
nulla: ero da sola, in ritardo, eppure, nonostante le raccomandazioni
che mi si affollavano nella mente con la voce di mio padre, l'istinto
m’indusse a tornare indietro e cercare la fonte di quel
suono; quando, infine, si ripresentò, riconoscere e,
soprattutto, vedere che cosa mi avesse attirato indietro, mi
stampò finalmente un vero sorriso in faccia.
“E tu cosa ci fai qui, solo
soletto?”
“Mewwwonnn... ”
Un batuffolo grigio, con due enormi occhi verdi all'insù (4), mi fissava
spaurito dai cespugli ai piedi di una colonna, tremando di freddo: mi
chinai e lo presi in braccio, lasciai che mi si accoccolasse addosso,
facendosi largo col musetto tra la stoffa del mantello, per riscaldarsi
con il mio tepore; passai lievi le dita sulla sua fronte, strappandogli
uno sguardo compiaciuto e una “ronfatina”
soddisfatta: con una ciotola di latte e un po' di carne, sarebbe stato
un gattino felice. Sorrisi e continuai a lisciarlo per
riscaldarlo, mentre mi guardavo intorno, perplessa. Non capivo
come potesse essere arrivato fin lì, da solo,
l’avevano forse abbandonato? Non c'erano finestre da cui
fuggire via e comunque era troppo piccolo per saltare; inoltre, da
quanto ne sapevo, non c'erano gatte con dei piccoli nel castello: avevo
supplicato Rigel di informarsi dal Guardiacaccia, poche settimane
prima, nella speranza di poterne accudire uno.
“Da dove vieni, micio?
Così piccolo non credo tu sia il gatto di uno
studente.”
Aveva fame, lo capii da come mi mordicchiava il dito, mi affrettai
verso l'ingresso, sentendo una raffica di vento gelido penetrare nel
cortile e permearmi fino alle ossa, avrei indagato e trovato il
legittimo proprietario in un secondo momento, prima dovevo scendere
nelle cucine per procurargli del cibo; di Difesa, ormai, nemmeno mi
ricordavo più, anche perché, con quel professore
inetto, si trattava di un corso soporifero almeno quanto quello di
Storia della Magia! E se anche avessi saltato la lezione, Pascal non se
ne sarebbe accorto, svagato e distratto com’era, l'unico
rischio era che qualche spione glielo facesse notare, solo per crearmi
altri problemi.
“Tanto accadrebbe ugualmente,
qualsiasi cosa faccia o non faccia... ”
“Che cosa
“accadrebbe ugualmente, qualsiasi cosa faccia o non
faccia”, Mademoiselle?”
Trattenni un grido e mi bloccai, spaventata, mettendo a fuoco la
persona che mi era apparsa di fronte, emersa dalla densità
oscura del colonnato alla mia sinistra a frapporsi, improvvisa, tra me
e l'ingresso, avvolta in un mantello scuro, la sigaretta in mano.
Quando si mosse e il riflesso lontano di uno dei bracieri, sinistro,
gli illuminò il viso, rabbrividii, pur avendolo
già riconosciuto dalla voce: dopo gli ultimi eventi, non
potevo parlarne male, certo, ma Rabastan Lestrange restava uno degli
individui più inquietanti da incontrare in pieno giorno,
figurarsi di sera, in un cortile deserto. Serrai la Bacchetta
e feci un passo indietro, arrabbiata con me stessa per la mia
stupidità, per essermi lasciata distrarre e aver abbassato
tutte le difese.
“A quanto pare ci sono
riuscito di nuovo: ti ho spaventato a morte, Mademoiselle! Ahah...
”
“Non mi hai spaventato,
idiota! Mi hai colto di sorpresa... non ti ho sentito arrivare... e...
”
“Lo so, l'ho fatto apposta!
Sei proprio distratta, Sherton! E i fatti recenti non ti hanno
insegnato niente! Male, molto male! Hai almeno un motivo valido per
trovarti qui, al freddo?”
“Sei forse mio fratello o un
Prefetto? No, quindi non sono affari tuoi! Non farmi perdere tempo,
Lestrange, sono già in ritardo!”
“Anche come bugiarda devi fare
molta pratica, Mademoiselle! Se vuoi, posso insegnarti io qualcosa...
per esempio… se fossi stata davvero in ritardo, non avresti
preso la strada più lunga di ritorno dalle serre e non
avresti perso tempo a rovistare in mezzo alle
siepi…”
“Che cosa? Tu che cosa ne sai?
Mi hai spiato, forse? Salazar! Tu mi stavi spiando!”
“Naturalmente! Il
più forte è chi sa tutto di tutti. Non
è però questo il punto, Mademoiselle, il punto
è che avresti dovuto trovare una scusa migliore: se avessi
detto “ho perduto qualcosa”, saresti stata
credibile, così invece sei stata impacciata, inefficace e
arrogante... perciò, da capo... che cosa ci fai qui,
Sherton? Hai forse un appuntamento segreto... mmm… con il
giovane Black? Sareste ancora piccoli per queste cose, ma si sa,
Sherton e Black sono sempre stati molto... precoci! Ahah... ”
“Vai al diavolo!”
“Sei diventata rosso porpora,
lo sai? Si vede che ci ho preso! Ahah… ”
Lo fissai, furiosa, ero stanca delle chiacchiere, infreddolita e
determinata a liberarmi di lui.
“Bugia o verità,
ciò che faccio non riguarda te, Lestrange, ora fammi
passare, grazie!”
“Forse non è questo
il momento né il luogo per darti queste lezioni,
è vero, ma trovarti qui, sono in parte affari miei: dopo il
tramonto questo cortile diventa il mio regno e chi vuole venire qua, a
bigiare lezioni, amoreggiare indisturbato, o contemplare le stelle,
deve… pagarmi un pedaggio!”
Mosse un passo verso di me ed io arretrai di nuovo, mi fissò
canzonatorio, io mi guardai intorno cercando una via di fuga e
valutando in quale guaio mi fossi cacciata: non avevo idea di quali
fossero le sue intenzioni, ma se fosse stato necessario urlare, non
avrebbe sentito nessuno, ero in un cortile isolato, le aule e gli
appartamenti di Binns si trovavano oltre spesse mura di pietra, quel
lato della torre non aveva molte finestre e le poche erano chiuse, le
serre erano troppo lontane. Potevo tentare di scappare, ma
l’avevo visto, Rabastan era persino più veloce e
agile di Rigel nella corsa, mi avrebbe raggiunto subito; quanto a
difendermi con la Magia, aveva quattro anni di esperienza
più di me ed era già molto abile nelle Fatture...
soprattutto quelle non molto legali. Mi guardai la mano, con l'Anello
del Nord potevo chiedere aiuto, certo, ma dentro Hogwarts non ci si
poteva materializzare e Rigel, o chiunque altro, non sarebbe mai
arrivato in tempo da me. Lestrange fece no con la testa e riprese a
ridere, forse aveva intuito i miei ragionamenti, io, per la rabbia,
maledissi la mia stupidità e lo affrontai ancora, fingendo
coraggio.
“Che cosa diavolo vuoi,
allora?”
“Salazar, che impeto! Ha
ragione Lucius, “Gli Sherton hanno tutti dei modi
“inurbani” ”! Ahah... ”
“Hai finito? È
freddo e non ho voglia di perdere altro tempo con te! Vuoi del denaro
per lasciarmi passare? Va bene... Dimmi quanto ne vuoi, te lo
darò dopo cena, ora non ne ho con me!”
“Denaro? Non mi pare di aver
“mai” detto di voler del vile denaro, “da
te”... ”
Parve farsi ancora più inquietante e misterioso, forse per
la paura che sentivo crescermi dentro: non capivo se mi stesse
deridendo o dicesse sul serio, ma mi stavano tornando in mente le
brutte storie che avevo sentito su di lui e l’atroce sospetto
che avessero fondamento, m’impedì persino di
fiatare, sentii il sangue diventarmi ghiaccio e brividi di terrore
percorrermi la schiena. Indietreggiai, in maniera il più
possibile impercettibile.
“Cos’è,
hai perso la lingua, Sherton? Ti sei ricordata che sono io il lupo
cattivo? Ahah... ”
Si appoggiò con la schiena alla colonna, gli occhi
socchiusi, non avevo modo di superarlo, aveva chiuso l'unico varco
presente tra le siepi da cui raggiungere l'ingresso: per allontanarmi,
ora, potevo solo tornare indietro, dandogli le spalle, e sapevo che non
era per niente una buona idea. Restai immobile, congelata dal freddo e
dal terrore; il gattino iniziò ad agitarsi, mi stava per
sfuggire dalla manica del mantello, potevo usare una sola mano per
trattenerlo, l’altra mi serviva per la Bacchetta; cercai di
tenerlo buono, mentre Lestrange continuava a ridere, una risata
sommessa che diventava via via sempre più sonora, librandosi
infine alta e limpida nell'aria gelida.
“Voglio solo ciò
che mi spetta, Sherton, per esempio la tua fiducia: l'ho meritata,
credo…”
“Ti devo un
“Grazie”, Lestrange, è vero, non ti ho
ancora ringraziato per quella sera... per il resto, però...
io non sono stupida, e solo uno stupido si fiderebbe di te!”
Gettò a terra la sigaretta ormai del tutto consumata, si
staccò dalla colonna, negli occhi il riflesso rossastro di
un braciere dietro di me, andò a sedersi cavalcioni sul
muretto, tra una colonna e l'altra, le braccia conserte, la Bacchetta
abbandonata sulla pietra, innocua: ora c’era il varco che
cercavo, ma avrei dovuto passargli troppo vicino e sapevamo entrambi
che non l’avrei mai fatto. Mi fece l'occhietto, ghignando, io
lo insultai, strappandogli altre risate.
“Rigel ti ha istruito bene:
è vero, nessuno sano di mente dovrebbe mai fidarsi di me!
Ahah… ”
Esasperata, studiai la siepe al mio fianco, mi chiesi se sarei riuscita
a saltarla senza scivolare sul ghiaccio, correre rasente al muro,
superarlo e raggiungere l'ingresso prima che mi lanciasse una Fattura;
lo guardai, faceva no con la testa, divertito, aveva capito tutto,
ancora una volta.
“Suvvia, Sherton, sono
così antipatico? Rischieresti di romperti una gamba, solo
per non restare ancora un po’ qui con me? Sono dolorose le
fratture, quando giocherai a Quidditch, lo capirai. Allora…
cosa potresti darmi al posto della fiducia?
Vediamo…”
“Se non mi fai passare subito,
Lestrange, racconterò questa storia a mio padre e al
Preside!”
“E rovinare tutto coinvolgendo
degli estranei? No, Sherton, no! Non si contratta così...
Voglio il gatto, ecco! Mi accontento del botolo pulcioso che nascondi
nella manica del mantello!”
“Che cosa? Non so di che cosa
parli e...”
“Te l'ho detto, Sherton, ti ho
spiato e tu sei un disastro a mentire: possibile che non impari niente?
Ti ho visto raccogliere il gatto, sotto la siepe là in
fondo, pochi minuti fa! Ed io lo voglio!”
Mi guardò, sogghignando, trattenni il micio che stava per
spuntare fuori: la ragione mi diceva di cedere un gatto che non era
nemmeno il mio e darmela a gambe, ma giravano brutte storie anche su
quello che Lestrange faceva di solito agli animali ed io non potevo
permetterglielo; la sua risata intanto si era spenta, non si era
avvicinato, certo, ma la sua impazienza incuteva timore.
“Dammelo, dai… Ti
conosco, non sei né stupida né ingenua, hai
capito che ho bisogno di divertirmi, stasera! Se non vuoi essere tu il
mio divertimento, ti conviene darmi quel gatto!”
“Sei... sei un essere...
spregevole, disgustoso e… e orribile, Lestrange!”
“Davvero? Sì,
è vero, sono così e mi piace molto essere
così: orribile e... irresistibile, come il
Demonio!”
Si leccò le labbra, facendo una di quelle sue smorfie
volgari con cui scandalizzava mezza popolazione femminile e mandava in
visibilio l'altra metà, poi mi squadrò con
l'occhiataccia famelica che mi aveva già rivolto sul treno,
a settembre, mettendomi altri brividi addosso. Mentre si alzava e si
avvicinava, incurvai le spalle per nascondere meglio il gatto sotto il
mantello, pregai che non osasse mettermi le mani addosso per
prenderselo, "sono una Sherton, né io né lui
possiamo dimenticarlo", ma il micio, affamato e al buio, si mise a
calciare fino a riemergere dal mantello, facendo infine capolino sotto
la mia spilla. Forse fu questo a salvarmi o forse era tutta
una burla fin dall’inizio. O forse Rabastan Lestrange... era
semplicemente pazzo.
“Guardalo! Il furfante si
nascondeva dove ti tenevo io, accanto... al mio cuore! Ahah...
”
Di nuovo divertito, la voce quasi addolcita, si era fermato a un passo
da me e fissava il gatto. Il cuore saltò un battito e il
volto avvampò, per la paura e per un groviglio che sentivo
dentro da giorni: la ragione mi diceva “Scappa”, ma
Lestrange sapeva quella Verità che avevo bisogno di
conoscere, quella Verità che poteva riguardare anche il mio
Mirzam. In quelle due settimane, a scuola, non aveva mai fatto cenno
né con me né con altri a cos'era accaduto nella
torre di Herrengton, ma avevo sentito spesso i suoi occhi addosso
quando sedevamo al tavolo degli Slytherins in Sala Grande o quando
eravamo vicino al caminetto, in Sala Comune. E spesso, ero stata io,
per prima, a cercarlo con lo sguardo. Era per questo che restavo
lì, immobile, inchiodata davanti a lui, sopportando tutte le
sue assurde provocazioni di quella sera: non reagii nemmeno quando mi
sfilò il gatto dalle braccia e tenendolo stretto,
iniziò ad accarezzarlo in modo languido, ipnotico,
fissandomi e parlandomi come un incantatore.
“Ti stai chiedendo da giorni
se a rapirti sono stato io, vero? Immagino il dubbio, la paura, il
sospetto che ti agitano e... rido! Sì, Sherton, io rido: del
tuo orgoglio, della tua ostinazione nel fingere che non sia accaduto
nulla, che non ci leghi niente, così supina alle
raccomandazioni della tua famiglia! La vita, però,
è la tua, non di tuo padre o di tua madre. Io, se non
ricordassi nulla come te, vorrei sapere, a qualsiasi costo, brucerei il
mondo pur di sapere... Vorrei sapere chi erano i buoni, chi i cattivi,
la verità su Mirzam, su chi mi ha rapito... anche su cosa mi
ha fatto... l'Uomo Nero! Ahah... ”
“Io... io presto
ricorderò! E sarà la verità! Non le
tue menzogne! E se sei tu il colpevole, parlerò, puoi
scommetterci!”
“La Verità? Quale
Verità vuoi che esista in un mondo pieno di bugiardi
com’è il nostro? La tua sarebbe la
verità della sorella di un assassino, della figlia di un
sospettato... Chi ti crederebbe? Da quanto vedo, nemmeno gli amici...
allora forse è tempo che gli Sherton si fidino dei
nemici… Lo sai anche tu, per questo vuoi la mia, di
verità… ed è per questo che hai
sopportato tutte le mie provocazioni, stasera. Vuoi sapere. Ebbene, era
freddo sulla torre, quella notte, molto più di quanto sia
freddo qui, ora... tuo padre dovrebbe fustigare quei dannati Elfi che
hanno ridotto il maniero a una ghiacciaia...”
Non capivo perché di colpo avesse smesso con le buffonate e
le minacce e stesse parlando di argomenti seri. Lo fissai,
forse non era sincero, forse si burlava di me, di nuovo, ma desideravo
che continuasse; non indietreggiai nemmeno quando iniziò ad
avvicinarsi, né quando sollevò la mano libera
fino alla mia spalla, scansandomi un poco una ciocca di capelli per poi
portare le labbra al mio orecchio, senza sfiorarmi, sussurrando piano.
“Ti ho trovato stesa su un
divano, Sherton, sembravi solo addormentata. Ho pensato subito che non
fossero affari miei, rischiavo di essere accusato di chissà
che cosa, se mi avessero trovato vicino a te e... sinceramente non ne
valeva la pena... ma poi mi sono accorto che eri ferita... ed era
freddo, troppo... così ti ho portato via. Prima,
però…”
Mi fissò, fece il gesto di scivolare con un dito dalla mia
tempia fino al mio mento, senza in realtà sfiorarmi: attesi
con il fiato in sospeso, sentendo così da vicino
l’odore dei suoi guanti di pelle di Drago.
“... prima mi son voluto
togliere lo sfizio di vedere se davvero le Streghe del Nord...
”
Sussurrò al mio orecchio quale curiosità sulle
Rune si era voluto togliere, disse di avermi aperto la tunica, di
avermi osservato, di avermi persino sfiorato, mentre ero incosciente e
indifesa. Ero incredula, fuori di me dalla rabbia per quanto diceva e
dalla vergogna per avergli permesso di prendermi in giro: le sue erano
falsità, lo sapevo, dette solo per provocarmi, ma ero
così orripilata da lui, dalle sue parole, dai suoi pensieri,
dalla sua venefica presenza, che mi voltai, infuriata, e lo
schiaffeggiai, poi mi allontanai, strofinandomi la guancia, lordata dal
suo respiro. Lo guardai disgustata: e Rabastan rideva... ancora.
“Smettila, sei solo un
bugiardo! Nessuno può toccarmi a Herrengton e nessuno
l’ha fatto! Mai! Nessuno!”
“Ah sì? Nessuno
avrebbe potuto ferire te o i tuoi, a Herrengton, invece l'hanno fatto,
quindi che ne sai? Non c'era nessuno a impedirmelo, avrei potuto farti
qualsiasi cosa mi fosse venuta in mente... se te l’ho
risparmiato, è solo perché non vale ancora la
pena correre certi rischi… Non ti preoccupare,
però, un giorno lo farò... anzi,
aspetterò che sia tu ad aprirti la tunica per me e...
”
“Meglio la morte!”
“Morire? Ahah... no no... che
cosa definitiva e noiosa!”
“Definitiva, forse, ma non
noiosa, perché la morte sarà la tua!”
“E questa cosa sarebbe,
Sherton, una promessa? Spesso è proprio partendo da promesse
simili che una Strega si ritrova ad aprire con soddisfazione le proprie
gambe ai cosiddetti nemici! Non fartene una colpa, però, se
il Destino ha deciso in questo modo, chi siamo noi per
opporci?”
Il cuore sembrò esplodermi dall'ira, senza riflettere
brandii la Bacchetta contro di lui e gli urlai contro una delle nostre
Maledizioni in gaelico, ma ero troppo inesperta e troppo sconvolta e
non ricordai bene la formula che avevo sentito spiando Rigel e William,
così ottenni solo una fiammata viola che si spense prima
ancora di raggiungerlo; il gatto, però, ancora tra le sue
braccia, si spaventò e gli si rivoltò, soffiando
e mostrando i dentini, riuscì persino a graffiarlo sul viso,
piccoli tagli poco profondi ma con quel freddo dolorosi, senza
però riuscire a sfuggirgli, nemmeno lui. Ormai terrorizzata
al pensiero della sua reazione, vidi Rabastan fissarci e poi scoppiare
di nuovo a ridere. Non c’erano più dubbi, era
sicuramente pazzo.
“Tu e il tuo dannato botolo
siete anime affini, Sherton! Avete pure la stessa faccia! Salazar, non
ridevo così da mesi! Sai cosa ti dico? Tienitelo il tuo
sacco di pulci! Te lo sei meritato! Avrei scommesso che saresti
scappata in lacrime in pochi minuti, come fanno le bamboline viziate,
invece pare tu sia una mocciosa con le palle! Meriti lo stesso rispetto
che ho per tuo fratello...Tieniti alla larga da qui, però,
d'ora in poi... sai com'è... potrei non essere altrettanto
ben disposto, la prossima volta che tu e il tuo mostriciattolo baffuto
verrete a rompermi i coglioni!”
“Non so che farmene del tuo
rispetto... E se mai ci sarà una prossima volta, Lestrange,
io non sbaglierò la Maledizione!”
“Chissà...
può darsi... accetta un consiglio, però,
ragazzina: non eccedere mai con la presunzione, soprattutto quando hai
di fronte un Lestrange!”
Mi gettò il gattino addosso, vidi che il sangue uscito dai
piccoli graffi gli si stava gelando sulla guancia, in mezzo alla
barbetta leggera che iniziava a portare, poi sparì
nell'oscurità del colonnato, all'improvviso, così
com'era apparso; sentii le gambe cedermi, tremavo come una foglia,
appoggiai la schiena a una colonna, cercando di calmare i battiti
impazziti, incredula, di quanto fossi stata stupida e, in un certo
senso, fortunata. Giurai a me stessa che non avrei
più disubbidito ai miei, mai, mai
più. Mi rimisi in piedi, con difficoltà,
raggiunsi la porta, mentre due Gryffindors del terzo anno ne uscivano,
quando li superai, li sentii borbottare qualcosa su di me, ma non me ne
curai, ero frastornata, non capivo il senso di quanto era successo,
sentivo ancora il respiro irregolare, le gambe incerte e tremavo
benché nel corridoio fosse molto
caldo. Più di una volta, passando vicino agli
arazzi e alle porte, mi guardai alle spalle e mi rannicchiai contro la
parete, sentendo risate dietro di me, e rimasi in silenzio, chiusa nei
miei pensieri, anche quando incontrai facce amiche, tutta presa a
ripercorrere quanto era accaduto: odiavo Rabastan Lestrange, non era
solo idiota, era malato, sì, era un folle, da cui tenersi
alla larga. Aveva ragione mio padre.
Attraversati vari corridoi e vestiboli, senza quasi accorgermene,
raggiunsi infine la scalinata principale e scesi nei sotterranei,
diretta alle cucine, per occuparmi del gattino e iniziare le indagini
sulla sua provenienza, volevo dimenticare il prima possibile il terrore
provato per quella che mi era sembrata un'eternità, invece,
stranamente, tutto si era svolto in pochissimi minuti. In
prossimità dell'aula di Pozioni, però, mentre
riflettevo tra me se fosse il caso o meno di raccontare tutto a Rigel o
direttamente per lettera a nostro padre, rischiai di inciampare addosso
a un gruppetto di studenti, degli Slytherins del sesto anno, che
uscivano al termine del recupero di una lezione.
“Che maniere! Fai
attenzione!”
Fissai la ragazza che avevo quasi travolto e divenni subito color
prugna: già mi sentivo costantemente impacciata, soprattutto
in quegli ultimi giorni, se poi mi trovavo di fronte all'impeccabile
perfezione di Narcissa Black, il mio livello di goffaggine diventava
abissale; ripensai alla sera del suo fidanzamento con Lucius, quando
era apparsa nel salone delle feste al maniero dei Black, Narcissa era
così leggiadra da non sembrare umana, ma una vera e propria
fata!
“Che cosa ci fai nei corridoi,
Meissa Sherton? Non dovresti avere lezione per almeno un'altra ora? (5)”
I miei ricordi si dissolsero e il mio senso di disagio si
accentuò, dinanzi al suo rimprovero; mortificata, cercai di
scusarmi, mentre le sue amiche si allontanavano sghignazzando:
rimediare una nota di demerito dal mio Prefetto, con conseguente
punizione presso Mastro Filch, sarebbe stata la perfetta conclusione di
una giornata infernale.
“Scusami... mi sono attardata
dalla Sprout e... ho trovato questo gattino in cortile e... ”
Le mostrai il piccolo, agitato per la fame, Narcissa
continuò a fissarmi severa, poi, a sorpresa,
sollevò la mano e gli fece un grattino dietro l'orecchio
(6), gli occhi illuminati da sorprendente umanità, mentre il
micio, per qualche ragione, parve riconoscerne il tocco e si
calmò all'istante.
“Hai detto di aver
“trovato” “questo”
gatto?”
“Era in cortile, miagolava per
il freddo: vorrei trovargli del cibo e cercarne il proprietario...
”
“Questo gatto è
mio: l'ho comprato, ieri pomeriggio, da Lusky, ma non potrei tenerlo,
ho già la mia Nimue; così l'ho affidato a una
persona, ma… pare non sappia prendersene cura!”
“Capisco... allora…
te lo rendo… subito... ”
Ero delusa: avevo sperato di metterci molto più tempo a
trovare il legittimo proprietario e di sfruttare quella ricerca per
giocarci e distrarmi un po': non me ne andava bene una! Feci
un'ultima carezza al micio, trattenendo un sospiro e lo porsi a
Narcissa, che mi fissò.
“E se... Riusciresti a
occupartene, se lo affidassi a te? E soprattutto... vorresti
farlo?”
“Mi piacerebbe, certo... a
Herrengton sono cresciuta tra i gatti… ma... l'hai
già affidato a un'altra persona... e... ”
“La persona alla quale l'ho
affidato non sa curarlo, quindi non ha diritto di offendersi, se
dispongo diversamente di ciò che è mio... inoltre
mi pare di aver sentito Zio Orion dire che il Ministero ha privato tuo
fratello e te di gufo e civetta, è così? In quel
caso avresti il diritto a tenere un altro animale... ”
“Sì... Dobbiamo
usare solo i gufi della scuola: Bartemius Crouch dice che nostro padre
potrebbe mandare istruzioni pericolose agli studenti del Nord e creare
problemi qui a scuola... così ha convinto il nuovo Ministro
e ha fatto pressione sul Preside... ”
“Salazar! La feccia che dirige
il Ministero è di giorno in giorno più stupida e
ridicola! E questa ne è l'ennesima prova... siete stati
aggrediti voi e vi trattano da criminali! È
inaccettabile!”
La guardai, con curiosità: una volta, a Herrengton,
quell'estate, Regulus, parlandomi di sua cugina, aveva detto che
Narcissa era la sua preferita, perché era molto
più di una meravigliosa fata, ma non avevo capito che cosa
volesse dire; ora, forse per la prima volta, percepivo anch'io, dietro
quel suo aspetto diafano e distaccato, il fervore e l'orgoglio che
rendevano i Black temibili e "affascinanti" (6).
“Allora ti va di occupartene?
Si chiama Myrddin... ma se vuoi, puoi cambiargli il nome... ”
“E perché dovrei?
Il gatto è tuo!”
“Se non avrai problemi ad
averne cura, potrei regalartelo… sono stata impulsiva, non
posso tenerlo, e ti ho sentito parlare in Sala Comune con Rigel, so che
ne desideri uno… io mi limiterei a fargli “da
madrina” finché resterò a scuola...
Appena uscirò da qui, dovrò sposarmi e Lucius non
me lo farà certo portare a casa... ”
Guardai prima Narcissa, poi il gatto, non mi resi conto nemmeno della
nota di velato rammarico che c'era nella sua voce, ero troppo presa
dall'idea che se mi fossi occupata bene di lui... Mi sembrava,
improvvisamente, di nuovo Natale!
“Ora sbrigati e
resta in Biblioteca fino all'ora di cena, o finirà che
qualche Prefetto vedendoti in giro ti farà rapporto. Ci
vediamo in Sala Comune!”
Sorrisi e annuii, Narcissa si allontanò, raggiunse le sue
amiche e si avviò sorridendo con loro nella nostra Sala
Comune, io rimasi immobile, spalle al muro, il gatto in braccio, che
mordicchiandomi cercava di ricordarmi quanto avesse bisogno di cibo.
Gli feci un buffetto sulla guancia e lui mi leccò la
mano. Mi s’illuminarono gli occhi: avevo un gatto
con me, avevo finalmente un gatto con me, tutto per me.
“Sembrate anime affini... chi siamo noi per opporci al
destino... ”
Odiavo Lestrange, ma le sue parole in quel momento, pur in un contesto
del tutto diverso, mi apparvero veritiere: sembrava che il destino
avesse fatto di tutto perché Myrddin ed io ci trovassimo,
forse perché avevamo un profondo bisogno l'una dell'altro,
il cucciolo di qualcuno che lo amasse ed io di ritrovare il
sorriso. Guardai il gatto, fissandolo negli occhioni verdi e
mi avviai alle cucine, stampandogli ad ogni passo un bacione sulla
fronte. Forse era vero, a Hogwarts chi cercava aiuto lo trovava
sempre... Magari proprio nei luoghi e nelle persone
più impensati.
***
Bellatrix Lestrange
Morvah, Cornwall - ven. 14 gennaio 1972
Notte di novilunio. Notte di tetra
oscurità. Non c'erano luci oltre il fioco Lumos emesso dalla
Sua Bacchetta. Odiava la luce, come me, il Mio Signore. Persino le
stelle si sottraevano, celate da un cielo inchiostro solcato da
fulmini. La tempesta imperversava al largo e si avvicinava
rapida alla costa, ribollente di rabbia, gonfiava i flutti e li
scagliava impazziti contro le rocce, schizzi di spuma si levavano
dall'acqua, si facevano trascinare per metri e metri in alto, poi la
salsedine ricadeva, gelida, su di noi, mischiata alla pioggia, rendendo
tutti gli altri ancora più inquieti, esasperati,
arrabbiati. Io no. Non c'era freddo, buio, timore,
accanto a Lui. Al cospetto del Mio Signore, mi sentivo al
culmine della mia potenza, al centro degli elementi scatenati. Il vento
s’infilava nella boscaglia, fino alla radura in cui eravamo
raccolti, giocava tra i rami spogli e ritorti, scompigliava le nostre
vesti zuppe d'acqua, spezzava e celava le nostre voci. I suoi lamenti
diventavano un tutt'uno con i gemiti di dolore del
prigioniero. Un canto melodioso, per le mie orecchie.
“Crucio!”
La voce secca e imperiosa di Rodolphus solcò
l'oscurità, il prigioniero urlò di nuovo, tutti
gli altri scoppiarono a ridere. Non il mio
Signore. Non Rodolphus. Non io. Restavamo
fermi, attenti, come predatori pronti a cogliere ogni singolo fortuito
dettaglio. Rodolphus si avvicinò di nuovo, fece
scivolare la Bacchetta sulla barba morbida e curata che spuntava dalle
guance dell'uomo, arrivato alla giugulare, premette, suscitando un
rantolo e costringendolo a guardarlo negli occhi, attraverso le fessure
della maschera: una qualche folle perversione lo spingeva sempre a
rischiare, sembrava volesse farsi riconoscere dalle sue
vittime. Guardai gli occhi del prigioniero: nonostante fossero
ore che lo torturavamo, manteneva un orgoglio indomito che accendeva,
come una miccia, il mio odio e la mia furia. Il Mio Signore si
avvicinò e Rodolphus si ritrasse, andò fin sotto
il volto del prigioniero, ne osservò a lungo, compiaciuto,
la consapevolezza della morte ormai prossima: dal momento in cui
l'avevamo incontrato e riconosciuto nei vicoli di Nocturn Alley e
“invitato” a seguirci, morire nel dolore
più atroce era diventato il suo unico
destino. Morire e diventare un esempio per gli
altri. Per tutti. Tutto il Mondo Magico doveva capire
che il Lord non si sarebbe fermato di fronte a niente, di fronte a
nessuno, nemmeno davanti a dei Purosangue, nemmeno davanti a degli
Slytherins. Nessuno doveva intralciare i suoi piani e il suo
cammino. Nessuno. L'alternativa poteva essere una
soltanto: la morte.
“Per l’ultima volta,
dimmi ciò che sai e tutto questo finirà...
”
“Se anche sapessi qualcosa...
preferirei affrontare la morte che dirvelo... ”
"Se è questo che vuoi... "
Il Mio Signore si limitò a sorridergli, poi fece un cenno a
Rodolphus, perché si avvicinasse di nuovo e fosse pronto ad
attaccare ancora: il prigioniero rabbrividì quando vide
l’ombra oscura del suo carnefice rientrare nel suo campo
visivo, non ne intuiva l'identità, certo, ma ormai aveva ben
chiari quali fossero la sua potenza e la sua determinazione.nGhignai
anch’io, sotto la mia maschera d'argento, tornai a studiare
la preda, un uomo sempre pieno di sé, tronfio della sua vita
perfetta, della sua ricchezza, della sua abilità, del suo
nome... E ora? Mi soffermai sui capelli spettinati,
il volto stravolto, la barba insanguinata, là dove Travers
l'aveva colpito, per sottometterlo, quando aveva provato a fuggire, poi
scesi sulla chiazza incrostata di sangue e sporcizia della tunica, era
caduto a terra e Pucey l'aveva preso a calci, avevamo sentito il suono
secco delle costole che si rompevano, ed io avevo goduto nel vederlo
vomitare sangue; infine, scivolai con gli occhi fino alla mano
sinistra, la mano colpita dalla maledizione del Mio Signore, una mano
sempre curata, ora avvizzita dal fluire del sangue torbido di Venefica
Morte. L'uomo bisbigliò qualcosa, Milord si
avvicinò, tesi l'orecchio ma non compresi, seguì
una specie di risata strozzata, sofferta, appena percettibile e vidi lo
sputo, vidi i piedi del Mio Signore lordati di sangue, vidi il Suo
livore; mosse appena la mano, Rodolphus puntò la Bacchetta,
io repressi la volontà di intervenire a mia volta, folle di
rabbia per quell'ennesimo gesto irrispettoso.
“Crucio!”
Il prigioniero non riuscì nemmeno a emettere un gemito,
stavolta, il respiro mozzato, barcollò sulle gambe instabili
per pochi, eterni, secondi, le vidi cedere sotto il suo peso,
lasciandolo appeso per il braccio ancora sano al ramo cui era
incatenato, come un pupazzo, l'istinto lo indusse, invano, a cercare di
aggrapparsi alla catena con la mano morta, di rimettersi in equilibrio,
ma era ormai privo di forze e i piedi malfermi non riuscivano
più a fare presa sul terreno sabbioso. Infine,
sentimmo il rumore secco del braccio che si disarticolava dalla spalla
e quel relitto umano urlò con il poco fiato che aveva ancora
dentro di sé, scatenando altre risa nei suoi carnefici.
“Credevo che questo ramo si
sarebbe abbassato per raccoglierti e rialzato consentendoti di
rimetterti in piedi… Credevo fossi un Padrone
delle Forze Ancestrali della Natura, invece sei solo un patetico
relitto umano! Che delusione!”
Ci furono altre risa, mentre il Mio Signore, scuro in volto, si rivolse
alla figura miserabile che era rimasta celata nell'ombra per tutto il
tempo, tremante per il freddo, per l'orrore, per la paura: temeva ora
più che mai di essere visto, di essere riconosciuto e di
essere maledetto.
“Costui non sa piegare la
Natura al suo volere, proprio come tu, nella tua somma saggezza di
Ravenclaw, non riesci a dirmi come sia possibile che un ragazzino
incapace e un vecchio folle spariscano... Forse non dovrei sprecare
altro tempo prezioso dietro la vostra leggendaria Confraternita, visto
che racchiude solo una massa di miserabili inetti, capaci solo di... si
può sapere cosa andate a fare nei boschi?”
L’uomo, pur preda delle fitte dolorose, sembrò
riprendersi sentendo quelle parole, seguì avido lo sguardo
di Milord: non c'era più alcuna speranza di salvezza, lo
sapeva, ma fissare negli occhi e maledire il traditore della
Confraternita poteva essere, per lui, un'ultima
consolazione. Il Mio Signore comprese e ghignò,
puntò la Bacchetta verso Emerson, illuminandolo e mostrando
al condannato il volto di uno dei suoi più autorevoli
Confratelli.
“Maledetto... che tu sia
maledetto... Lurida feccia immonda... in nome di cosa ci hai tradito?
Qual è il tuo prezzo, miserabile?”
A un nuovo cenno del Mio Signore, Rodolphus lo colpì con una
nuova Cruciatus, più violenta e prolungata delle precedenti:
la voce e le maledizioni si fusero e si alterarono fino a trasformarsi
in un sordo rantolo, intuii solo un “che Salazar...
”, poi osservai famelica quel corpo contorcersi nel dolore,
mentre scivolava nella follia o nell'incoscienza, a un passo dalla
morte. Poco dopo, perse i sensi.
“Basta così... per
ora... voglio sia consapevole della Morte, quando si
avventerà su di lui... Ben, Steven, voi due tornate a
Londra, prendete altre informazioni sul processo che si
terrà domani; Rodolphus, precedimi da tuo padre e porta con
te il nostro... amico... Emerson, lo vedo alquanto...
provato... Bellatrix... ”
Il Mio Signore si avvicinò a me, portò la mano
sulla mia spalla, in uno strano gesto, che sembrava fosse desiderio di
protezione, mi fissò negli occhi, attraverso la maschera, io
tremai per il tocco e l'intensità del Suo sguardo, talmente
potente e profondo che non riuscii a sostenerlo a lungo.
“... tu... resterai qui, con
me... ”
Con la coda dell'occhio vidi Travers e Pucey smaterializzarsi, anche
Rodolphus si avvicinò a Emerson, ma per la prima volta mi
apparve indeciso nell'eseguire l'ordine del Mio Signore: rimase
lì, di fronte a noi, mi fissò a lungo,
enigmatico, poi puntò gli occhi su Milord, con
un’intensità e una sfrontatezza che non gli avevo
mai visto, una sfrontatezza che era costata molto cara, ad
altri. E non era certo quello, per lui, il momento di fare
colpi di testa: gli altri uomini di Milord, suo padre, io stessa,
eravamo rimasti compiaciuti, per l’abilità e la
genialità con cui aveva organizzato ed eseguito l'assassinio
del Ministro, tutti noi avevano creduto che il Mio Signore gli avrebbe
elargito grandi onori; invece era rimasto maldisposto nei suoi
confronti, perché Rodolphus e Augustus se ne erano andati
senza lanciare il Marchio nel cielo, lasciando così le
Autorità del Ministero nel dubbio che uccidere Longbottom
fosse opera nostra o del fuggiasco Sherton. Ancora meno aveva
apprezzato che Gilbert Williamson, l'ex Aurors che aveva preso il
Marchio Nero, fosse ancora in vita, benché Rodolphus si
fosse impegnato a scovarlo e ucciderlo prima del processo, che si
sarebbe tenuto l'indomani.
“Mio Signore... Bellatrix...
dovrebbe venire via con me, non si è ancora del tutto
ripresa... e... ”
Milord restò a lungo in silenzio, poi si rivolse a lui,
lentamente, scandendo bene le parole.
“Che cosa comporta il Marchio
che porti sul braccio, Rodolphus? Fedeltà e fiducia... Voi
tutti siete la Mia Famiglia, anche la “tua”
Bellatrix ne fa parte... mi occuperò Io di lei, mentre tu
esegui l'ordine che ti ho dato... O c'è un motivo
valido per cui tu non debba eseguire i Miei ordini?”
Rodolphus continuava a fissarmi, a fissare in modo indecifrabile la
mano di Milord posata sulla mia spalla, sembrava non aver ascoltato
nemmeno una Sua parola: non si era mai comportato così,
tremai per lui, per la follia che stava facendo a causa mia, percependo
l'impazienza e l'irritazione del Mio Signore nei suoi confronti; al
tempo stesso, però, ero eccitata, perché sapevo
che Milord gli avrebbe potuto fare del male… molto
male… Ed io… Io volevo che gliene
facesse. Alla fine, stringendo i pugni e bofonchiando un “No,
mio Signore…” Rodolphus si
smaterializzò, portando Emerson con
sé. In parte delusa, rabbrividii. Ero rimasta sola,
completamente sola, con il Mio Signore: non era mai accaduto prima.
Sentii il cuore accelerare, mentre una sensazione indefinibile
iniziò a irradiarsi dalla Sua mano, gelida sulla mia spalla,
a tutto il mio corpo: immaginai fosse la Sua Magia che permeava ogni
cosa, persino l'aria che respiravo. La Sua Magia che stava
entrando in me, dentro di me, nella mia carne. La Sua Magia
che mi possedeva, che mi faceva Sua. Trattenni un sospiro e
tremai ancora: a quel pensiero, sentivo il mio corpo infiammarsi,
accendersi di lussuria, mi eccitava il pensiero che, così
vicino a me, Lui potesse leggere i miei pensieri, scoprendo che volevo
essere posseduta da Lui, non solo dalla Sua Magia. Eppure non
avevo il coraggio di alzare gli occhi su di Lui, vedere le Sue
reazioni, temendo che il Mio Signore, un Mago così grande e
potente, conoscendo i miei pensieri, potesse disprezzarmi per la mia
debolezza. Abbassò la Bacchetta,
all’improvviso, mettendo fine al Lumos: il buio si
appropriò completamente della radura, di noi, mi sentii
isolata dal mondo, immemore di tutto e di tutti e al tempo stesso
pienamente parte dell'energia che la Natura scatenava intorno a
me. Mi sentivo libera come non ero mai stata prima, libera di
lasciarmi andare. L’unica cosa che percepivo del
mondo era quella mano appoggiata sulla mia spalla, quella presa
potente, affamata, che sapeva di volontà di
possesso. Ero inebriata da quel contatto: vibravo al calore
che emetteva la sua persona, al Suo sguardo che non vedevo ma sapevo
indugiare su di me, e il mio respiro si faceva, istante dopo istante,
più corto, affannato, il cuore incredibilmente
accelerato. Sospirai, in attesa.
Lo desideravo. Sì, lo desideravo,
lì. Sotto la pioggia, tra gli alberi, sulla terra
gelida. Sentii il calore della Sua mano sulla mia spalla, la
Sua presa che si faceva ancora più forte. Sempre
più forte. Perché Lui
sapeva. Sapeva come avevo coltivato per anni, fin da
ragazzina, l'ammirazione per Lui, Mago potente e inarrivabile: avevo
sognato con le Sue imprese, avevo desiderato far parte della Sua
cerchia e fatto di tutto, anche fidarmi di Mirzam Sherton, per
riuscirci... Ricordavo la prima volta che L’avevo visto,
sentivo ancora il brivido provato quando avevo percepito tutto attorno
a me la Sua potenza, il Suo carisma, quando avevo sentito la Sua voce,
che sapeva ammaliare come la più dolce delle promesse o
sferzare come la più crudele delle frustate. Sapeva
che avevo sentito di appartenere a qualcuno al Suo primo sguardo, non
al primo amplesso con Rodolphus, o a quelli successivi, via via
più folli e coinvolgenti. Che mi ero sentita una vera donna
e avevo conosciuto la vera me stessa, solo quando Lui, il Mio Signore,
aveva inciso a fuoco il Suo segno nella mia carne. E ora,
quando il mio pensiero volava a Lui, i miei non erano più i
sogni di una ragazzina, misti d’indefinita
necessità carnale e romanticismo, propri di chi non conosce
la vita; non erano neanche la semplice aspirazione a quella
passionalità sfrenata, ferina, fatta di umori e corpi
avvinghiati, cui mi abbandonavo con Rodolphus, fino a sfinirlo e farmi
sfinire da lui. Spesso solo per dimenticare. Quando
pensavo al Mio Signore, invece, riuscivo persino a placare l'odio e la
rabbia che mi divoravano, i miei demoni, le mie paure; concentrandomi
sul pensiero del Mio Signore, riuscivo a diventarne padrona, sfruttando
tutto ciò che mi faceva soffrire per diventare
più forte e temibile. Il Mio Signore traeva il
meglio da me, mi apprezzava non per il mio nome, il mio sangue e il mio
passato, ma per me stessa, per la mia potenza e la mia Magia, per le
mie aspirazioni: quando il Suo sguardo si posava su di me, avevo la
consapevolezza del mio posto nel mondo, sapevo di essere nata per
essere al Suo fianco. Ero il devoto e letale strumento con cui
poteva rendere reale il Mondo che stava cercando di creare.
Ora in quel buio, in quell’improvvisa solitudine,
così voluta e cercata proprio da Lui, non da me,
così vicini, mi chiedevo se almeno per quell'unica notte,
potessi trasformare in realtà anche il mio desiderio:
diventare un tutt’uno con Lui. Quando sentii la mia
maschera Evanescere al Suo tocco e il Suo calore avvicinarsi ancora di
più alla mia pelle, tremai come una foglia; quando sentii la
mano del Mio Signore salire dalla spalla al collo, seguendo la
pulsazione del mio sangue, l'odore della Sua pelle mi travolse di
languore. Socchiusi le labbra senza riuscire a trattenere un sospiro,
preda del desiderio, in attesa, come la ragazzina che aspetta il primo
bacio, di essere presa e posseduta e sbranata, lì, che
facesse ciò che voleva di me, del mio sangue, delle mie
membra, della mia anima. No, non avevo più alcuna
memoria e consapevolezza, di nulla: esistevamo solo Lui ed io.
La pioggia riprese a scrosciare ancora più violenta, io
scivolai con i miei occhi sul Suo volto, incrociai il Suo sguardo
nell'esplosione di luce di un fulmine più vicino: sembravano
ossidiana nera, rilucente di una luminosità propria,
malvagia e perversa, braci ardenti capaci di bruciare e distruggere e
dannare, illuminati dal fuoco della Sua anima nera e della Sua Magia
Oscura. Rabbrividii. Sì, Lui sapeva, Lui
sapeva tutto di me, anche il desiderio che avevo di Lui, che mi stava
rendendo folle, percepiva la forza dell'attrazione che provavo per
quello che per anni era stato solo un sogno lontano e irrealizzabile e
ora... ora era a un passo da me... E mi sfiorava, solo con il
Suo sguardo enigmatico. Se solo avessi avuto l'ardire di
prendere la Sua mano e guidarla sul mio corpo, se
solo... Tutto il mio essere si tese a Lui, volevo carpire quel
tocco, quel respiro, quel bacio, lo desideravo, un desiderio ardente
come i Suoi occhi, ma avevo timore, troppo timore di Lui. Timore di
guardarlo e vedere riflesso nel Suo sguardo non un desiderio
paragonabile al mio, ma solo derisione, per una ragazzina come tante,
pronta a gettarsi ai Suoi piedi, a farsi creta nelle Sue mani, a
sfamarLo come semplice carne. E la Sua
delusione. Perché non era questo che Lui voleva da
me. No, non era Solo questo. Mi ritrassi, i Suoi occhi si
fecero ancora più profondi, la Sua mano scivolò
dal collo, alla mia spalla giù, fino alla mia mano, la
raccolse, la chiuse tra le Sue.
“Libera la tua Magia...
Bellatrix... liberala per me... stanotte… qui... adesso...
”
Ero in trance, preda di quel desiderio inappagato, di quella voce che
mi avviluppava, pronta a fare ogni cosa, qualsiasi cosa per Lui. Mi
guardai intorno, come una belva a caccia, vidi il prigioniero, si stava
riprendendo. Il Mio Signore desiderava che si rendesse conto
della Morte mentre lo coglieva. Compresi. Voleva che fossi io a
privarlo della vita, sì, io. Era questo il motivo per cui mi
aveva trattenuto lì, voleva essere presente la prima volta
che avessi ucciso un uomo, voleva lo facessi per Lui, era in questo
suggello che voleva unire per sempre le Nostre anime. Fissai
il Mio Signore negli occhi, mentre la pioggia rigava le mie guance e
appiattiva i Suoi capelli corvini sul Suo volto
scarno. Sollevai la Bacchetta nell'oscurità. Il Mio
Signore sorrise, compiaciuto. E le mie labbra si piegarono in quelle
due parole, mai pronunciate prima di allora. E fu allora che
l'odio, il desiderio, la fame di vendetta, il compiacimento, tutto
ciò che provavo, nel Bene e nel Male, si fuse rendendomi
ancora più potente ed io fissai quegli occhi atterriti, che
potevano infine guardarmi senza più la maschera a celarmi il
volto. Occhi che mi guardavano, mi riconoscevano, mi
ricordavano, ma solo ora, per la prima volta, mi vedevano nel pieno del
mio splendore, della mia potenza. Ero padrona della vita e
della morte. Il lampo verde, potente e immenso, molto
più grande e rilucente delle fontane di luce che avevo visto
generare dagli Avada dei miei compagni, illuminò tutta la
radura, colpì in pieno l’uomo, lo travolse, gli
rubò la vita, disperdendosi infine nell’aria,
morendo nell'oscurità del mare in tempesta. Guardai
quel corpo ormai inanimato, per alcuni minuti restò a
vibrare e roteare appena, inerme, simile a un manichino,
finché, con un colpo di Bacchetta, Milord tranciò
la catena che lo correggeva e il cadavere si afflosciò a
terra, come un sacco vuoto; si piegò su di Lui,
spezzò il dito avvizzito, s’impossessò
dell'anello del Nord e, pulitolo dal fango, lo indossò.
“Non abbiamo ottenuto
nient'altro che quest’inutile anello, da lui, mio Signore...
”
“Abbiamo ottenuto molto...
molto di più… abbiamo instillato il dubbio...
l’odio… E abbiamo in pugno un altro
insospettabile… ”
“Mio Signore... ”
“Non avere fretta, Bellatrix,
otterrai la vendetta che cerchi e ogni altra cosa che ti ho promesso...
questa notte ne hai avuto un piccolo assaggio… quanto a
ciò che resta del venerabile Decano delle Terre del Nord, in
attesa di prenderti anche la vita di suo nipote Jarvis, spetta a te
decidere cosa farne... ”
Mi voltai, puntai la Bacchetta e, senza attendere oltre, feci
Evanescere quel corpo martoriato. In mezzo alla pioggia, nel rombo
della tempesta ormai scatenata, scoppiai a
ridere... Sì, li avrei cancellati dal mondo
così, con le mie mani, uno dopo l'altro. Avrei
preso le loro vite, e li avrei cancellati.
Tutti.
*continua*
NdA:
Ringrazio tutti al solito per le recensioni, le letture, le preferenze,
ecc.
L'immagine di inizio capitolo è stata realizzata per
me da Ary Yuna
(che ringrazio), potete trovare i suoi lavori su DeviantArt
e nella sua pagina
Artista su FB.
Riguardo a Rabastan, ho aperto questo capitolo con la parte dedicata ai
suoi pensieri, come dire, un po' ripetitivi, ma il personaggio
è quello che è, psicopatico, violento, capace
anche di interessanti intuizioni. La richiesta fatta a Narcissa era
quella di acquistare un gatto per Meissa ma lui non è tipo
da fare le cose in maniera lineare... Ho anche approfittato del suo PoV
per raccontare il famigerato incidente tra Lucius e il piccolo Rigel e
per quale motivo gli abiti di Lestrange fossero stropicciati e
il suo aspetto sconvolto, quando incontrò per la prima volta
Meissa a Lacock. Quanto a Bellatrix, uno
dei motivi per cui ci ho messo tanto a pubblicare è stato la
difficoltà
a immaginare i pensieri di questo personaggio che non amo molto (sapete
com'è, da devota del Canide non ho un'accesa ammirazione per
chi ha causato il passaggio al Velo
di Sirius Black),
ma mi sembrava importante descrivere il
suo primo vero omicidio attraverso un suo PoV. Spero
di essere riuscita a nascondere il più possibile
quest’antipatia.
E
infine le note più specifiche:
1) Griffonia
Semplicifolia, usi;
2) cit. Albus Silente, "Harry Potter e la Camera dei Segreti, cap.14 -
"Cornelius Caramell";
3) Ho usato come spunto queste
piante di Hogwarts, non sono ufficiali, nel senso non sono
state disegnate dalla Rowling, ma sono quelle presenti nell'Hp Lexicon;
4) A proposito del gatto: Myrddin (nome gaelico, tanto per cambiare, di
Merlino)
è un omaggio al mio dolce miciotto di un anno e mezzo,
tigrato, grigio, con occhioni verdi;
5) Può sembrare strano che Narcissa sappia gli orari delle
lezioni di Meissa, ma avendole dato il ruolo di Prefetto, ho immaginato
che tra gli altri compiti ci fosse quello di conoscere gli orari delle
lezioni degli studenti della propria Casa, sia per sapere quando si
trovano in giro senza autorizzazione, sia per essere di aiuto e
supporto, soprattutto alle matricole;
6) Ho sempre cercato di attenermi al canon, con Narcissa, descrivendola
come l'emblema della perfezione Black, meravigliosa, composta,
perfetta, distaccata, aggiungendo caratterizzazione per quel che
riguarda gli aspetti più "personali" : la passione per i
gatti è uno di questi dettagli di cui parlo fin dall'inizio,
infatti durante il ricevimento per il matrimonio di Bellatrix vediamo
Meissa a Lacock in un cortile di casa Black che gioca con uno dei gatti
di Cissa; non deve stupire neanche la familiarità che la
terzogenita di Cygnus Black mostra per
Meissa, perché Mei proviene da una famiglia di
lignaggio pari a quello dei Black e le due famiglie sono legate da
vincoli di amicizia e familiarità; inoltre Narcissa sa che
zia Walburga ha un forte interesse personale a tenere legata Meissa
alla loro famiglia.
Bene, ora vi saluto. Ancora Buone Feste, non strafogatevi di panettoni.
A presto.
Valeria
Scheda
Immagine
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