Something inside this heart has
died.
Non
c’era
via d’uscita da quell’incubo. Ormai neppure
tapparmi le orecchie
e chiudere gli occhi serviva a far
rimanere il dolore lontano. Quel dolore che usciva dalle labbra rosse
di mia
madre.
Urla.
Erano
urla che ti entravano nei tessuti della pelle, che bruciavano, che
stridevano e
facevano male.
Erano
otto
anni che sentivo ogni maledetto giorno quelle urla, quelle richieste
d’aiuto
che non arrivava mai. Otto anni di cuscini sopra la testa, di labbra
morse con
forza, di occhi sigillati, stanchi. Otto anni da quando io, Evie
Mcdonnell, non
avevo più potuto essere quella bambina con le trecce sui
capelli, i pantaloni
sporchi di fango, i lacci dei sandali chiusi da mamma con un sorriso
sulle
labbra.
Ad
un certo
punto le urla finivano, ed era allora che indossavo le calze rosse, il
vestito
grigio lungo fin sopra le ginocchia, le Converse alte a stringermi le
caviglie,
e uscivo di casa, senza guardare mia madre, senza guardare mio padre.
Era
allora che, frugando nella borsa, trovavo le sigarette e fumavo,
sistemandomi
il cappello nero sulla testa.
Avevo
diciassette anni, e niente avrebbe potuto suggerire alla gente come
stavo (il
mio trucco pesante poteva esser scambiato per un eccesso di
eccentricità): andavo
bene a scuola, ero gentile con i professori, salutavo gli inservienti
della
mensa. Qualche piccolo particolare come non mangia, non sorride, non
parla, non
fa niente se non guardare davanti a se, non sembravano turbare nessuno,
perché
io non ero nessuno dentro quella scuola. Dentro quella scuola eccetto
gli
spogliatoi della squadra maschile di football. Lì non
conoscevo nessuno, ma
tutti conoscevano me, Evie Mcdonnell, quella facile, la troia. Tutti
conoscevano la mia pelle, le mie labbra, la mia lingua, le mie cosce.
Quei
piccoli dettagli come non mangia, non sorride, non parla, non fa niente
se non
guardare davanti a se non li notava nessuno, perché tutto
quello che succedeva
dentro quei bagni di un metro per due, rimaneva lì dentro, e
fuori ero solo un
fantasma.
Nessuno
conosceva Evie Mcdonnell tranne me stessa. Mi riconoscevo quando in
biblioteca
lisciavo le pagine di un libro di storia seduta su una sedia scomoda,
quando
ascoltavo una canzone con le cuffiette chiudendo gli occhi e cantando a
bocca
chiusa con un sorriso, quando facevo girare un piatto di pasta precotta
nel
microonde, quando guardavo una serie televisiva giocando con le frange
della
coperta stesa sul divano. Quella era la Evie che conoscevo, e viveva
nella mia
testa, un fossile di ciò che avrei tanto voluto essere.
Avevo
chiuso
la porta pesante di metallo facendo tintinnare la campana dorata sopra
lo
stipide, e mi ero seduta al solito posto: moquette blu, angolo a
destra,
nascosta da una qualche macchinetta da gioco non funzionante, odore di
fumo
impregnato nelle perline di legno sulle quali appoggiavo le spalle.
L’inserviente,
senza davvero avvicinarsi, mi aveva posato due bottiglie davanti ai
piedi (come
ogni pomeriggio alle cinque) e senza neanche guardarlo sapevo che aveva
sorriso, che mi aveva guardato le gambe e dentro la scollatura. Non
ringraziai
e presi la prima bottiglia fra le mani. La birra era fredda, e mentre
strisciava nell’esofago sentivo quel poco piacevole senso di
smarrimento di
quando ti trovi in mezzo alla nebbia con addosso solo una canottiera, e
le
braccia cominciano a gelarsi fino a far male. Faceva male, ecco qual
era il
bello. Sapevo che quel litro e mezzo di liquido giallastro che stavo
facendo
entrare nello stomaco l’avrebbe distrutto.
Sorrisi
– un
mio sorriso, una smorfia di amarezza, tristezza e odio –
toccandomi la pancia. Ridacchiai,
felice di cominciare già a sentire la testa vuota.
Svuotai
entrambe le bottiglie e con le gambe che faticavano a rimanere erette,
tornai a
casa, mi tolsi i vestiti e mi distesi a letto, lasciando che le dita
nude dei
piedi diventassero viola a contatto con il pavimento di piastrelle.
Andai
in
bagno, raccolsi i capelli in una coda di cavallo, e riconoscendo i
segnali del
mio organismo, abbassai la testa sul water. Pulii la bocca con una mano
e feci
una smorfia: l’odore di vomito mi nauseava, e non avevo mai
retto l’alcol.
Tolsi
il
reggiseno ed entrai in doccia. Aprii l’acqua, fredda come
ghiaccio, e chiusi
gli occhi, cominciando a tremare. Mi morsi il labbro inferiore per
fermare i
denti, spostai i capelli all’indietro e mi sedetti a terra,
le spalle posate al
muro.
Rimasi
ferma,
sperando di non riuscire a muovermi più, per un
po’ di tempo, poi, a causa di
uno spasmo, sbattei le gambe (magre come bastoncini di legno) alla
parete di
vetro appannata. Allora mi alzai, avvolsi il mio corpo in un
asciugamano e mi
ranicchiai a letto.
Sembrava
terribilmente caldo, dieci volte più caldo di una pelle
febbricitante,
incandescente.
Strinsi
un
lembo del lenzuolo con le mani, fino a far diventare le nocche bianche.
Sbattei
piano gli occhi, pensando che mi fosse scesa qualche lacrima, ma
niente, gli
occhi erano asciutti. L’unica cosa che sentivo erano i
muscoli contratti per il
freddo, il battere lento del mio cuore, quello veloce dei denti.
Avevo
voglia
di fumare. Non avevo voglia di alzarmi.
Sospirai,
e
chiudendo gli occhi sentii i passi delicati di mamma avvicinarsi, il
suo bacio
umido sulla fronte, le sue mani sulle mie costole, il peso del lenzuolo
e di una
coperta a schiacciarmi sul materasso, la porta chiudersi.
Ero
sola, di
nuovo, con la mia pelle sottile, una voglia di nicotina indescrivibile
e tanto
freddo, persino dentro il cervello svuotato dall’alcol.
Attorno e dentro me
freddo, solo tanto freddo.
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