«
Sofronov! » esclamò il coordinatore mentre io,
sorridente, osservavo quel ragazzino che sghignazzava con una certa e
incomprensibile foga con altri compagni, che acconsentivano a quelle
simpatiche e grossolane battutine.
« Sofronov, smettetela! » Lo stesso uomo
che lo interpellò precedentemente, un uomo tarchiato con gli
occhi iniettati di sangue, sembrò quasi imbestialirsi
maggiormente quando, per un misero secondo (forse per errore) il
ragazzino si voltò e gli rivolse uno sguardo divertito, e
non solo, aveva anche abbondante riso in bocca.
Quel fare, burlone e menefreghista, sinceramente, era da
tempo ormai poco apprezzato dai coordinatori e da alcuni compagni, che
sembravano stargli attorno solo per un tornaconto personale; questa era
una delle teorie. Io stesso, scrivo di quest'ipotesi con confusione,
poiché, correttamente e minuziosamente, posso solo parlarvi
di ciò che passava nella mia, di testa, quando mi limitavo
ad osservare da lontano e con devozione quel mio coetaneo
dall'apparenza seria, quello che, subito dopo, si rivelava esilarante e
quasi improbabile. Insomma, era un personaggio pieno di contraddizioni.
Quel Roman, quel maledetto, mi aveva stupito, ma non riesco
ancora a comprendere se in negativo, o in positivo.
Comprendere me stesso, le mie parole su di lui, i miei
pensieri impossibili e indecifrabili su di lui, la mia opinione su di
lui, insomma, tutta quella robaccia nella mia mente, spesso era
un'impresa ardua ed astrusa. Non riuscivo a mantenere un'idea costante,
una a cui credere fermamente perché capii che osservare,
anche se con attenzione, ciò che una persona appare, non
è assolutamente uno dei modi migliori per riconoscerla, non
è assolutamente il metodo corretto, eppure, spesso si pensa
che l'esteriorità sia una parte integrale dell'essere.
Eppure, non è così.
Per quanto cercassi di capire la sua personalità
dai suoi lineamenti, espressioni e quant'altro, dovetti accettare che
tutto ciò che faceva parte della sua esteriorità,
non corrispondeva un bel niente con sua interiorità,
complicata, ma che non riuscivo a non adorare e stimare.
Questo fatto mi rattristò, poiché,
appena firmai le prime presenze al K.O.M.S.O.M.O.L, alcuni incontri
erano già stati effettuati e tutti i compagni sembravano
essersi coalizzati in vari gruppi, oppure, certi, sembravano avessero
trovato il proprio collega favorito: quello con cui scambiarsi opinioni
-ovviamente, favorevoli- sulla politica del nostro governatore supremo,
quelli con cui parlare dei valori comunisti, oppure, se si desidera
allungare la lista di quegli individui, vi erano anche quei compagni
malsani che avevano già qualcuno con cui fumare le loro
prime sigarette. Questo, non solo mi provocò un'angoscia
agonizzante, una di quelle che riducono l'essere a qualcosa di inutile,
ma, addirittura, nella mia mente vi passarono dei pensieri strani, di
quelli che è decisamente meglio allontanare seduta stante.
Quali sarebbero quei pensieri, vi chiederete, se siete arrivati fino a
questo punto della vostra lettura; beh, quello di lasciare il
K.O.M.S.O.M.O.L: ma, guai se avessi proferito simili parole. Ma almeno,
cercate di comprendermi. Se voi vi sentiste praticamente degli esseri
indesiderati in un luogo che neanche voi amate nel profondo non
provereste un desiderio costante, anche se dannoso, di fuggire da quel
luogo che per voi è una campana di vetro? E non finiscono
qui, i miei sfoghi. Ora, più che di un desiderio, desidero
parlare di quella sensazione di repulsione per ogni cosa che trattasse
di questo dannato K.O.M.S.O.M.O.L.
Deliravo, quando dovevo semplicemente mostrare la mia
tessera, di uno stupido rosa, al coordinatore per farsi trascrivere la
sua firma. Certe volte, mi vennero voglie malsane come quella di
stracciarla.
Deliravo, quando mia madre mi informava di tutte le
agevolazioni che avrei avuto partecipando a quel circolo.
Deliravo, quando mi chiedevano interessati come andasse la
mia frequenza lì.
Ma comprendetemi, e siate sapienti, lettori miei; quella
frequenza mi stava quasi opprimendo, e i miei parenti, compresi
genitori, sembravano trarre piacere nel vedermi sempre tendente anche a
scatti di rabbia, quella che cercavo di attenuare con dei respiri
profondi, quella che cercavo di opprimere chiudendo gli occhi, ma
spesso, dall'inconscio, delle immagini disturbavano la mia
tranquillità, e non riuscivo a trovare momenti di quiete. Le
parole da sopportare, erano ormai troppo pesanti, soprattutto, come
già detto, quelle della mia famiglia. Loro, ormai
russificati, soprattutto i miei zii, erano, a mio parere, una delle
peggiori tipologie di persone. Loro, ormai, avevano un non so che di
esageratamente russo: il loro accento yakuto -quel nostro accento
spesso duro, spesso cantilenante, a causa della nostra lingua a tratti
spigolosi-, stava scemandosi così dando spazio ad una
parlata inconfondibilmente moscovita; ormai, avevano perso quasi quasi
la loro importanza che davano alle nostre millenarie tradizioni, e, se
vogliamo dirla tutta, si rifiutavano di pregare il dio Sole durante lo
Ysyakh*, e di festeggiare al villaggio il capodanno; ormai, le loro
menti si erano perse in un mare di ideologie social-comuniste, il
governo aveva provocato, con la sua potenza, un danno, a parer mio,
permanente nell'animo e nella logica delle persone. Se vogliamo dirla
tutta, anche io, da piccolino, avevo rischiato di essere corrotto dalla
politica e dalle teorie dei miei parenti. Mi stavano crescendo
inculcandomele, e passai alcuni anni della mia vita credendo di essere
convinto di esse, addirittura, mi dissero, parlando del passato, che
cercavo di propagandare quelle ideologie anche tra i miei compagni di
classe. Ma, non spaventatevi, con il tempo, persi logicamente
quell'attaccamento e quell'amore per la politica, e me accorsi quando
cominciavo a proferire non più parole basate sull'ideologia
comunista, ma su basi che potevano suonare pericolose, incitanti alla
rivoluzione o reazionarie, anche se non mi rendevo conto di
ciò a cui potevo andare incontro.
E' da lì, che
iniziò il mio percorso di rieducazione.
*Lo Ysyakh è una festività tengrista celebrata
ogni anno a Luglio, con grande zelo, nella regione del protagonista
(Yakutia).
|