Fuoco nero, capitolo quattro
Capitolo
tre
Se
ci pungete non sanguiniamo? Se ci fate il solletico non ridiamo? Se ci
avvelenate non moriamo? E se ci fate un torto, non dovremmo vendicarci?
-Il mercante di Venezia-
Quattro anni dopo
E'
con mani tremanti che
ti scrivo questa lettera. Mia cara Annabelle, dolce bambina, la notizia
è giunta così inattesa; il pensiero di separarmi
da te mi
sconvolge, ma il Barone ha deciso di allontanarti da Chaplam e
né tu né io avremmo avuto la forza di
contrastarlo. Ci
sono così tante cose che vorrei dirti. Vorrei raccontarti
dei
tuoi genitori, della tua nascita, della gioia che ho provato
accudendoti e prendendomi cura di te. Hai riempito le mie giornate,
attenuato la solitudine, mi hai fatto scoprire cosa significhi amare
qualcuno con tutta me stessa.
Non ti ringrazierò mai abbastanza per l'affetto che mi hai
regalato, e che spero di averti restituito in egual misura. Nutro il
presentimento che non potrò mai dirti queste parole ad alta
voce, per cui perdonami se i miei ti sembreranno i vaneggiamenti di
un'anziana signora.
E troppo tardi, Belle,
troppo tardi per tutto. Ma avevo bisogno di ricordarti quanto tu sia
stata una presenza fondamentale nella mia vita. Sei una bambina
speciale: le porte di un meraviglioso futuro si apriranno dinnanzi ai
tuoi occhi, ma dovrai guadagnarti il tuo lieto fine poiché
scoprirai presto che sono poche le persone di cui ci si può
davvero fidare. Non smettere mai di combattere: il potere risiede
dentro di te, le tue scelte determineranno le sorti di Chaplam e della
nostra amata Irlanda. Il potere, mia Belle. Il potere è
tutto
ciò che conta, la sola arma che avrai a disposizione per
portare
a termine la tua missione.
Con amore, Marie.
Aggrottai
la fronte,
perplessa. Le parole di Marie erano così enigmatiche, e io
non
riuscivo a spiegarmene il significato. Pensai che il dolore l'avesse
accecata al punto da farla uscire di senno: Marie era sempre stata una
donna piuttosto particolare, molti la definivano eccentrica, altri
pensavano fosse una strega, ma non si era mai profusa in
inutili
farneticazioni. Sfiorai i solchi che la penna aveva lasciato
sulla carta; un tremulo sorriso mi fiorì sulle labbra. Erano
passati quattro anni dalla prima volta in cui l'avevo letta. Quando
sentivo nostalgia di casa la recuperavo dal fondo del materasso,
l'unico posto in cui i miei effetti personali potevano considerarsi al
sicuro. Nulla sfuggiva al controllo delle insegnanti di Frieding House.
In fondo alla lettera una piccola incisione vergata con mani tremanti: Mors tu vita mea.
La tua morte è la mia salvezza.
«Belle?
Belle, dove ti
sei cacciata?» Bridget, la mia compagna di stanza, mi
apostrofò con voce petulante, guardandomi con occhi
sospettosi.
Non potevo biasimarla: avevo la pessima abitudine d'isolarmi, sola coi
miei pensieri, lontana da tutto e da tutti, forse persino da me stessa.
Insegnanti e studenti mi consideravano una ragazza strana, bizzarra,
solitaria. La verità è che non mi ero mai sentita
naturale, mi ero impegnata per esserlo, tentativi striduli,
perchè impegnarsi per sentirsi naturali è
già una
sconfitta.
Frieding House
era un collegio
destinato ad accogliere fanciulle appartenenti all'antica
nobiltà inglese: creaturine graziose, compite, con un
parlato
colto e affettato. Conoscevano tutte le regole del savoir faire,
guai a sbadigliare senza coprirsi la bocca col ventaglio o a lasciarsi
sfuggire un'imprecazione. Il rito della mescita era considerato
l'evento più eccitante della giornata, quando un' insegnante
diceva inchinati
tu ti dovevi inchinare, quando intimava silenzio!,
nell'aria si potevano udire il ticchettio dell'orologio e il fruscio
delle gonne che si sfregavano contro le cosce nude. Io ero considerata
un pesce fuor d'acqua: quando ero arrivata a Frieding House avevo solo
tredici anni, non sapevo inchinarmi né servirmi il bianco
mangiare - gli inglesi sembravano prediligere i cibi insapore- con le
giuste posate. Non avevo una forchetta personale, nessuno mi aveva
avvertita che a Frieding House fosse obbligatorio possederne una.
Quando le insegnanti lo avevano scoperto, ero stata esposta a pubblica
umiliazione. Tutti avevano preso a deridermi: i primi giorni avevo
cercato di combattere la fame, ma quando questa aveva avuto il
sopravvento sull'orgoglio mi ero accontentata di piluccare fette di
pane rappreso aiutandomi con la punta delle dita. Mangiavo tenendo la
testa alta, sfidando chiunque a bistrattarmi, avvelenata dal
risentimento, fiera del mio essere una bastarda irlandese senza amici.
E i giorni erano passati, scanditi dall'incessante brontolio del mio
stomaco vuoto, finché una cameriera mossa a pietà
aveva
deciso di prestarmi una forchetta e un cucchiaio ammaccati appartenuti
a chissà chi prima di me. Tre mesi dopo, un misterioso
donatore
mi aveva inviato un intero set di posate d'argento con sopra incisa una
sola lettera, una C,
e nient'altro.
«Allora,
ti vuoi
sbrigare?» Bridget contrasse le labbra in un sorriso
sprezzante
«I tuoi amici sembrano ansiosi di salutarti»
Le
lanciai uno sguardo colmo
di disprezzo. Era semplicemente gelosa, Bridget, e con lei la maggior
parte delle mie compagne di corso.
Nonostante non fossi ancora riuscita a dare un senso alla lettera di
mia nonna, le sue ultime parole mi avevano affascinata: il potere.
Il potere rende
le persone
invincibili. Invulnerabili. Nel corso degli anni mi ero appropriata di
quella bizzarra filosofia di vita, e avevo constatato che Marie aveva
ragione: nessuno sarebbe riuscito ad ammansire il mio spirito, se io
non glielo avessi permesso. Le insegnanti mi definivano una creatura
ribelle: avevo scoperto che bastava un'occhiata sprezzante per
allontanare le mie indisponenti compagne di corso. Il potere. Erano
anni che nessuno si azzardava a prendersi gioco di me. Al tempo stesso,
crescendo mi ero accorta che gli uomini non erano indifferenti alla mia
presenza. Il potere. E allora sbattevo le ciglia, contraendo la bocca
in un tremulo sorriso, assecondando la vanità dei
miei
corteggiatori, e in quel modo ero riuscita
ad abbindolare alcuni giovani signorotti che frequentavano
clandestinamente il collegio, facendomi regalare la maggior parte degli
effetti personali di cui avevo bisogno -spazzole, ninnoli e sali
profumati-, e che nessuno, dalla scomparsa di Marie, aveva
più
provveduto a procurarmi. Mia nonna era morta, sì.
In un
caldo pomeriggio di fine giugno mi era stata recapitata una lettera in
cui si annunciava la dipartita di Marie Anne Chandler. Con lei avevo
perso non solo l'unica persona su cui sapevo di poter contare, ma anche
la possibilità di rivedere la mia amata Irlanda. Per poi
scoprire che, in mancanza di parenti che si prendessero cura di me, al
compimento dei miei diciassette anni -l'età in cui una
signorina
dabbene debutta in società, ed è quindi costretta
ad
abbandonare il collegio- il padrone della Contea avrebbe
dovuto
riportarmi a casa, accollandosi il ruolo di tutore. Ma io non avevo
intenzione di piegarmi ai voleri del Barone. Nessuno aveva ascoltato le
mie proteste, costringendomi a rassegnarmi al mio
destino: sarei
stata scortata a Chaplam dall'uomo che detestavo più di ogni
altra cosa, l'uomo che mi aveva rovinato la vita, esiliandomi
in
un Paese che non conoscevo, precludendomi la possibilità di
dire
addio a mia nonna, di assistere al suo funerale, di poterla vedere
un'ultima volta.
Mancavano poche
ore, e Richard
Connor sarebbe venuto a prendermi. I bagagli erano pronti: non avevo
nessuno da salutare, se non alcuni giovani contadini che mi avevano
aiutata nei momenti di sconforto. Non sapevo cosa sarebbe successo
dopo, e non avevo nessuna intenzione di scoprirlo.
Si
fece sera, e finalmente una
carrozza giunse ai cancelli del collegio. Ignorando i mormorii
indignati della governante «Che il diavolo ti porti, Annabelle
senza cognome!», i borbottii affettati delle mie
compagne di
corso «La bambolina se ne va, era ora! Chi la sopporta,
quella
sgualdrina dagli occhi spiritati!», i sussurri a denti
stretti
con cui mi apostrofarono le insegnanti «Cerca di non
comportarti
come una languida servetta, Belle: il barone è un uomo
importante e andrà su tutte le furie quando vedrà
che
razza di creaturina svenevole sei diventata», afferrai
l'unica
valigia che possedevo e mi precipitai da basso. Il maggiordomo mi
rivolse un cenno di commiato che non ricambiai.
La pungente aria
autunnale mi
sferzò il viso, strinsi le labbra, socchiudendo gli occhi e
incamminandomi verso l'austero profilo della carrozza. Il veicolo messo
a disposizione dai Connor era di gran lunga il più
lussuoso in cui avessi viaggiato, coi finestrini coperti da tende di
velluto, l'esterno laccato decorato con motivi ornamentali in oro e
l'interno foderato di pelle.
Il valletto mi
fece entrare
nell'abitacolo, non prima di avermi lanciato un lungo sguardo ammirato.
Il cuore mi batteva all'impazzata: non vedevo l'ora di affrontare
Richard Connor, di guardare in faccia la causa della mia
infelicità. Tuttavia, quando mi accomodai all'interno
incontrai
gli occhi supplichevoli di una fanciulla che non doveva avere
più di diciotto anni.
Ero stupita, e
lei dovette
notare la mia espressione stranita poiché si
affrettò ad
allungarsi verso di me. Mi strinse le mani fra le sue, e un pallido
sorriso fiorì sul suo volto. Aveva i denti ingialliti, i
capelli
sporchi, neri come la notte, dita ruvide e nodose, nonostante la
giovane età.
«Mi
chiamo Francine e sono qui per servirvi, Madame»
Scossi il capo
«Piacere
di conoscerti, Francine» fece per parlare, ma io continuai
«Ti prego di chiamarmi semplicemente Annabelle. Non
c'è
bisogno di darmi del voi: sono soltanto una serva, esattamente come te.
Immagino sia questo il motivo per cui il Barone si è
premurato
di venirmi a prendere»
Si
rilassò,
afflosciando le spalle «Come ti pare, Belle»
partì a
tutto spiano «Sono contenta di non aver trovato una
spocchiosa
signorina inglese. Proprio non le sopporto, le inglesi» una
fossetta le solcò il mento.
«A
proposito, come mai lui non è qui? Pensavo si sarebbe
precipitato di persona» mormorai sarcastica.
Francine
sghignazzò e tacque. Non c'era bisogno di aggiungere altro;
era una domanda retorica, la mia
, e nonostante la giovane
età Francine pareva sapere che alle domande retoriche non
si doveva rispondere.
Il silenzio scese su di noi, intensificato dal nitrire dei cavalli e
dalla pioggia che aveva preso a ticchettare sul tetto della carrozza.
Fu col cuore in subbuglio e la mente piena di angosciosi ricordi che
dissi addio all'Inghilterra.
Il
viaggio si rivelò
stancante, ma ero talmente ansiosa di tornare a casa che quasi non me
ne accorsi. Ci fermammo un paio di volte; in entrambe le occasioni il
cocchiere insistette per farmi entrare in una locanda e consumare un
pasto caldo. L'eccitazione non mi impedì di approfittare
della
generosità del mio accompagnatore. Mi mancava tutto della
mia
terra, persino le cose più elementari come il cibo -non
più insipido pane bianco e fettine di vitello, ma ceci e
fagioli
e carne generosamente speziata- e la torbida aria autunnale che
frustrava le chiome degli alberi, sibilando minacciosamente.
La contea di
Chaplam e i suoi
dintorni erano esattamente come li ricordavo, con grandi pascoli,
terreni incolti e paesini con ponti che scavalcavano le rive dei fiumi.
La carrozza abbandonò la strada principale per
imboccarne una
molto più piccola, costeggiò la periferia di
Chaplam e s'introdusse in una
lunga strada privata. Superammo i cancelli della tenuta dei
Connor che, come spiegò Francine, aveva
un'estensione di
circa ottocento ettari. Mezz'ora dopo la carrozza giunse in paese, e
anche lì i luoghi mi erano così familiari, tutto
sapeva
di casa, di appartenenza, del dolce sapore dei ricordi: la bottega del
pescivendolo, la piazza costeggiata da arcate di cemento, il mercato
dei fiori, le bancarelle di frutta e verdura, i portici gremiti di
ambulanti, aristocratici, ladri, gente di teatro e prostitute.
Lacrime di
nostalgia mi
riempirono gli occhi, ma non mi lasciai sopraffare dalla tristezza.
Pensai che il cocchiere mi avrebbe scortata sino alla vecchia capanna
in cui io e mia nonna avevamo abitato, ma non fu così.
Sentii
l'agitazione farsi
strada dentro di me, e guardai Francine con espressione atterrita. La
ragazza sorrise: «Non pensavi che ti avremmo portato
in quella lurida capanna, vero?» disse
«Per tutti i
diavoli dell'inferno, certo che no! Annabelle, il Barone non ha
intenzione di mettere in pericolo la tua vita e la tua reputazione: non
puoi vivere da sola. Sua Signoria si è rivelato un uomo
previdente, considerando la bellezza che sei diventata»
ridacchiò «Il Barone è stato
così buono da
chiedere a una sua lontana parente di ospitarti. Lady Philippa
è
vedova e non ha figli, sarà felice di prendersi cura di te.
Non
è particolarmente ricca e la sua tenuta non è
neanche
lontanamente paragonabile a quella del nipote, ma...»
«Non
preoccuparti, Francine
»
mormorai a denti stretti. Apprezzai le premure del Barone, nonostante
il mio odio non si fosse affatto attenuato. Il pensiero di dover
abitare in una casupola isolata senza la protezione di nessuno mi
atterriva. Fu così che, venti minuti
dopo, varcai la
soglia di una piccola abitazione tutt'altro che lussuosa, ma
dall'aspetto caldo e confortevole. Una donnina vestita di nero mi
accolse stringendomi in un abbraccio materno, guardandomi con occhi
prima curiosi, poi ammirati. Resistetti all'impulso di scostarmi: non
ero abituata agli abbracci, né a simili slanci di
benevolenza.
«Una
vera
bellezza-ah» mormorò con voce accorata. Il suo
tono aveva
una cadenza singolare, quasi pomposa. Notai una vaga somiglianza coi
lineamenti decisi di Richard Connor, ma i modi della donna erano molto
più amichevoli «Vallo a sapere che saresti stata
così attraente, bambina!» ridacchio, incurante
della mia
espressione smarrita «Ti dovrò nascondere se non
vorremo
avere a che fare con un'orda di giovanotti innamorati»
notando la
mia confusione le sue labbra si schiusero in un dolce sorriso
«Io
sono Philippa, la tua nuova tutrice. Conoscevo tua nonna, anche se solo
per sentito dire» sghignazzò «E adesso
vieni con
me» raccolse le mie mani fra le sue e mi fece fare un giro
della
casa, cincischiando sugli abiti che mi avrebbe voluto confezionare
«Sono un'ottima sarta-ah» disse, «e tu
saresti un
modello perfetto per le mie creazioni», sul fatto che avesse
proprio bisogno di qualcuno che vivacizzasse le sue giornate
«Da
quando è morto mio marito mi sento così
sola-ah!»,
su libri e musica e argomenti che non conoscevo. Fu così che
conobbi la mia protettrice, la donna che si sarebbe presa cura di me
solo come mia nonna avrebbe saputo fare. Fu così che il
pensiero
di riprendere in mano le redini della mia vita fece divampare una
scintilla di speranza nella mia mente.
Non mi sono
mai sentita naturale, mi sono impegnata per esserlo [...], frase tratta
dal libro Venuto al
mondo, di Margaret Mazzantini.
L'idea di enfatizzare le parole di Philippa mi è venuta in
mente leggendo un libro di S.King, Cose preziose.
E' tardissimo e sto praticamente crollando sul pc, quindi rimando i
convenevoli al prossimo capitolo. Un grazie speciale a chi legge e
recensisce, a chi preferisce, segue e ricorda e ai lettori che mi hanno
inserita fra gli autori preferiti. Il prossimo capitolo sarà
il
vero inizio di questa storia.
Risponderò ai commenti entro domani sera, giuro :). A
presto, Elisa.
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