Fuoco nero

di Vivien L
(/viewuser.php?uid=96680)

Disclaimer: questo testo è proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Fuoco nero, capitolo quattro




Capitolo tre





Se ci pungete non sanguiniamo? Se ci fate il solletico non ridiamo? Se ci avvelenate non moriamo? E se ci fate un torto, non dovremmo vendicarci?
-Il mercante di Venezia-










Quattro anni dopo






E' con mani tremanti che ti scrivo questa lettera. Mia cara Annabelle, dolce bambina, la notizia è giunta così inattesa; il pensiero di separarmi da te mi sconvolge, ma il Barone ha deciso di allontanarti da Chaplam e né tu né io avremmo avuto la forza di contrastarlo. Ci sono così tante cose che vorrei dirti. Vorrei raccontarti dei tuoi genitori, della tua nascita, della gioia che ho provato accudendoti e prendendomi cura di te. Hai riempito le mie giornate, attenuato la solitudine, mi hai fatto scoprire cosa significhi amare qualcuno con tutta me stessa.
Non ti ringrazierò mai abbastanza per l'affetto che mi hai regalato, e che spero di averti restituito in egual misura. Nutro il presentimento che non potrò mai dirti queste parole ad alta voce, per cui perdonami se i miei ti sembreranno i vaneggiamenti di un'anziana signora.
E troppo tardi, Belle, troppo tardi per tutto. Ma avevo bisogno di ricordarti quanto tu sia stata una presenza fondamentale nella mia vita. Sei una bambina speciale: le porte di un meraviglioso futuro si apriranno dinnanzi ai tuoi occhi, ma dovrai guadagnarti il tuo lieto fine poiché scoprirai presto che sono poche le persone di cui ci si può davvero fidare. Non smettere mai di combattere: il potere risiede dentro di te, le tue scelte determineranno le sorti di Chaplam e della nostra amata Irlanda. Il potere, mia Belle. Il potere è tutto ciò che conta, la sola arma che avrai a disposizione per portare a termine la tua missione.
Con amore, Marie.



Aggrottai la fronte, perplessa. Le parole di Marie erano così enigmatiche, e io non riuscivo a spiegarmene il significato. Pensai che il dolore l'avesse accecata al punto da farla uscire di senno: Marie era sempre stata una donna piuttosto particolare, molti la definivano eccentrica, altri pensavano fosse una strega,  ma non si era mai profusa in inutili farneticazioni.  Sfiorai i solchi che la penna aveva lasciato sulla carta; un tremulo sorriso mi fiorì sulle labbra. Erano passati quattro anni dalla prima volta in cui l'avevo letta. Quando sentivo nostalgia di casa la recuperavo dal fondo del materasso, l'unico posto in cui i miei effetti personali potevano considerarsi al sicuro. Nulla sfuggiva al controllo delle insegnanti di Frieding House. In fondo alla lettera una piccola incisione vergata con mani tremanti: Mors tu vita mea. La tua morte è la mia salvezza.
«Belle? Belle, dove ti sei cacciata?» Bridget, la mia compagna di stanza, mi apostrofò con voce petulante, guardandomi con occhi sospettosi. Non potevo biasimarla: avevo la pessima abitudine d'isolarmi, sola coi miei pensieri, lontana da tutto e da tutti, forse persino da me stessa. Insegnanti e studenti mi consideravano una ragazza strana, bizzarra, solitaria. La verità è che non mi ero mai sentita naturale, mi ero impegnata per esserlo, tentativi striduli, perchè impegnarsi per sentirsi naturali è già una sconfitta.
Frieding House era un collegio destinato ad accogliere fanciulle appartenenti all'antica nobiltà inglese: creaturine graziose, compite, con un parlato colto e affettato. Conoscevano tutte le regole del savoir faire, guai a sbadigliare senza coprirsi la bocca col ventaglio o a lasciarsi sfuggire un'imprecazione. Il rito della mescita era considerato l'evento più eccitante della giornata, quando un' insegnante diceva inchinati tu ti dovevi inchinare, quando intimava silenzio!, nell'aria si potevano udire il ticchettio dell'orologio e il fruscio delle gonne che si sfregavano contro le cosce nude. Io ero considerata un pesce fuor d'acqua: quando ero arrivata a Frieding House avevo solo tredici anni, non sapevo inchinarmi né servirmi il bianco mangiare - gli inglesi sembravano prediliger
e i cibi insapore- con le giuste posate. Non avevo una forchetta personale, nessuno mi aveva avvertita che a Frieding House fosse obbligatorio possederne una. Quando le insegnanti lo avevano scoperto, ero stata esposta a pubblica umiliazione. Tutti avevano preso a deridermi: i primi giorni avevo cercato di combattere la fame, ma quando questa aveva avuto il sopravvento sull'orgoglio mi ero accontentata di piluccare fette di pane rappreso aiutandomi con la punta delle dita. Mangiavo tenendo la testa alta, sfidando chiunque a bistrattarmi, avvelenata dal risentimento, fiera del mio essere una bastarda irlandese senza amici. E i giorni erano passati, scanditi dall'incessante brontolio del mio stomaco vuoto, finché una cameriera mossa a pietà aveva deciso di prestarmi una forchetta e un cucchiaio ammaccati appartenuti a chissà chi prima di me. Tre mesi dopo, un misterioso donatore mi aveva inviato un intero set di posate d'argento con sopra incisa una sola lettera, una C, e nient'altro.
«Allora, ti vuoi sbrigare?» Bridget contrasse le labbra in un sorriso sprezzante «I tuoi amici sembrano ansiosi di salutarti»

Le lanciai uno sguardo colmo di disprezzo. Era semplicemente gelosa, Bridget, e con lei la maggior parte delle mie compagne di corso.
Nonostante non fossi ancora riuscita a dare un senso alla lettera di mia nonna, le sue ultime parole mi avevano affascinata: il potere.

Il potere rende le persone invincibili. Invulnerabili. Nel corso degli anni mi ero appropriata di quella bizzarra filosofia di vita, e avevo constatato che Marie aveva ragione: nessuno sarebbe riuscito ad ammansire il mio spirito, se io non glielo avessi permesso. Le insegnanti mi definivano una creatura ribelle: avevo scoperto che bastava un'occhiata sprezzante per allontanare le mie indisponenti compagne di corso. Il potere. Erano anni che nessuno si azzardava a prendersi gioco di me. Al tempo stesso, crescendo mi ero accorta che gli uomini non erano indifferenti alla mia presenza. Il potere. E allora sbattevo le ciglia, contraendo la bocca in un tremulo sorriso,  assecondando la vanità dei miei corteggiatori,  e in quel modo ero riuscita ad abbindolare alcuni giovani signorotti che frequentavano clandestinamente il collegio, facendomi regalare la maggior parte degli effetti personali di cui avevo bisogno -spazzole, ninnoli e sali profumati-, e che nessuno, dalla scomparsa di Marie, aveva più provveduto a procurarmi.  Mia nonna era morta, sì. In un caldo pomeriggio di fine giugno mi era stata recapitata una lettera in cui si annunciava la dipartita di Marie Anne Chandler. Con lei avevo perso non solo l'unica persona su cui sapevo di poter contare, ma anche la possibilità di rivedere la mia amata Irlanda. Per poi scoprire che, in mancanza di parenti che si prendessero cura di me, al compimento dei miei diciassette anni -l'età in cui una signorina dabbene debutta in società, ed è quindi costretta ad abbandonare il collegio-  il padrone della Contea avrebbe dovuto riportarmi a casa, accollandosi il ruolo di tutore. Ma io non avevo intenzione di piegarmi ai voleri del Barone. Nessuno aveva ascoltato le mie proteste, costringendomi a rassegnarmi al mio destino: sarei stata scortata a Chaplam dall'uomo che detestavo più di ogni altra cosa, l'uomo che mi aveva rovinato la vita,  esiliandomi in un Paese che non conoscevo, precludendomi la possibilità di dire addio a mia nonna, di assistere al suo funerale, di poterla vedere un'ultima volta.  
Mancavano poche ore, e Richard Connor sarebbe venuto a prendermi. I bagagli erano pronti: non avevo nessuno da salutare, se non alcuni giovani contadini che mi avevano aiutata nei momenti di sconforto. Non sapevo cosa sarebbe successo dopo, e non avevo nessuna intenzione di scoprirlo.

Si fece sera, e finalmente una carrozza giunse ai cancelli del collegio. Ignorando i mormorii indignati della governante «Che il diavolo ti porti, Annabelle senza cognome!», i borbottii affettati delle mie compagne di corso «La bambolina se ne va, era ora! Chi la sopporta, quella sgualdrina dagli occhi spiritati!», i sussurri a denti stretti con cui mi apostrofarono le insegnanti «Cerca di non comportarti come una languida servetta, Belle: il barone è un uomo importante e andrà su tutte le furie quando vedrà che razza di creaturina svenevole sei diventata», afferrai l'unica valigia che possedevo e mi precipitai da basso. Il maggiordomo mi rivolse un cenno di commiato che non ricambiai.
La pungente aria autunnale mi sferzò il viso, strinsi le labbra, socchiudendo gli occhi e incamminandomi verso l'austero profilo della carrozza. Il veicolo messo a disposizione dai Connor  era di gran lunga il più lussuoso in cui avessi viaggiato, coi finestrini coperti da tende di velluto, l'esterno laccato decorato con motivi ornamentali in oro e l'interno foderato di pelle.
Il valletto mi fece entrare nell'abitacolo, non prima di avermi lanciato un lungo sguardo ammirato. Il cuore mi batteva all'impazzata: non vedevo l'ora di affrontare Richard Connor, di guardare in faccia la causa della mia infelicità. Tuttavia, quando mi accomodai all'interno incontrai gli occhi supplichevoli di una fanciulla che non doveva avere più di diciotto anni.
Ero stupita, e lei dovette notare la mia espressione stranita poiché si affrettò ad allungarsi verso di me. Mi strinse le mani fra le sue, e un pallido sorriso fiorì sul suo volto. Aveva i denti ingialliti, i capelli sporchi, neri come la notte, dita ruvide e nodose, nonostante la giovane età.
«Mi chiamo Francine e sono qui per servirvi, Madame»
Scossi il capo «Piacere di conoscerti, Francine» fece per parlare, ma io continuai «Ti prego di chiamarmi semplicemente Annabelle. Non c'è bisogno di darmi del voi: sono soltanto una serva, esattamente come te. Immagino sia questo il motivo per cui il Barone si è premurato di venirmi a prendere»
Si rilassò, afflosciando le spalle «Come ti pare, Belle» partì a tutto spiano «Sono contenta di non aver trovato una spocchiosa signorina inglese. Proprio non le sopporto, le inglesi» una fossetta le solcò il mento.
«A proposito, come mai lui non è qui? Pensavo si sarebbe precipitato di persona» mormorai sarcastica.
Francine sghignazzò e tacque. Non c'era bisogno di aggiungere altro; era una domanda retorica, la mia
, e nonostante la giovane età Francine pareva sapere che alle domande retoriche non si  doveva
rispondere.  Il silenzio scese su di noi, intensificato dal nitrire dei cavalli e dalla pioggia che aveva preso a ticchettare sul tetto della carrozza. Fu col cuore in subbuglio e la mente piena di angosciosi ricordi che dissi addio all'Inghilterra.

 


Il viaggio si rivelò stancante, ma ero talmente ansiosa di tornare a casa che quasi non me ne accorsi. Ci fermammo un paio di volte; in entrambe le occasioni il cocchiere insistette per farmi entrare in una locanda e consumare un pasto caldo. L'eccitazione non mi impedì di approfittare della generosità del mio accompagnatore. Mi mancava tutto della mia terra, persino le cose più elementari come il cibo -non più insipido pane bianco e fettine di vitello, ma ceci e fagioli e carne generosamente speziata- e la torbida aria autunnale che frustrava le chiome degli alberi, sibilando minacciosamente.
La contea di Chaplam e i suoi dintorni erano esattamente come li ricordavo, con grandi pascoli, terreni incolti e paesini con ponti che scavalcavano le rive dei fiumi. La carrozza abbandonò la strada principale per imboccarne  una molto più piccola, costeggiò la periferia di Chaplam e s'introdusse in una lunga strada privata. Superammo i cancelli della tenuta dei Connor  che, come spiegò Francine, aveva un'estensione di circa ottocento ettari. Mezz'ora dopo la carrozza giunse in paese, e anche lì i luoghi mi erano così familiari, tutto sapeva di casa, di appartenenza, del dolce sapore dei ricordi: la bottega del pescivendolo, la piazza costeggiata da arcate di cemento, il mercato dei fiori, le bancarelle di frutta e verdura, i portici gremiti di ambulanti, aristocratici, ladri, gente di teatro e prostitute.
Lacrime di nostalgia mi riempirono gli occhi, ma non mi lasciai sopraffare dalla tristezza. Pensai che il cocchiere mi avrebbe scortata sino alla vecchia capanna in cui io e mia nonna avevamo abitato, ma non fu così.

Sentii l'agitazione farsi strada dentro di me, e guardai Francine con espressione atterrita. La ragazza sorrise: «Non pensavi che ti avremmo portato in quella lurida capanna, vero?»  disse «Per tutti i diavoli dell'inferno, certo che no! Annabelle, il Barone non ha intenzione di mettere in pericolo la tua vita e la tua reputazione: non puoi vivere da sola. Sua Signoria si è rivelato un uomo previdente, considerando la bellezza che sei diventata» ridacchiò «Il Barone è stato così buono da chiedere a una sua lontana parente di ospitarti. Lady Philippa è vedova e non ha figli, sarà felice di prendersi cura di te. Non è particolarmente ricca e la sua tenuta non è neanche lontanamente paragonabile a quella del nipote, ma...»
«Non preoccuparti, Francine
» mormorai a denti stretti. Apprezzai le premure del Barone, nonostante il mio odio non si fosse affatto attenuato. Il pensiero di dover abitare in una casupola isolata senza la protezione di nessuno mi atterriva.  Fu così che, venti minuti dopo,  varcai la soglia di una piccola abitazione tutt'altro che lussuosa, ma dall'aspetto caldo e confortevole. Una donnina vestita di nero mi accolse stringendomi in un abbraccio materno, guardandomi con occhi prima curiosi, poi ammirati. Resistetti all'impulso di scostarmi: non ero abituata agli abbracci, né a simili slanci di benevolenza.
«Una vera bellezza-ah» mormorò con voce accorata. Il suo tono aveva una cadenza singolare, quasi pomposa. Notai una vaga somiglianza coi lineamenti decisi di Richard Connor, ma i modi della donna erano molto più amichevoli «Vallo a sapere che saresti stata così attraente, bambina!» ridacchio, incurante della mia espressione smarrita «Ti dovrò nascondere se non vorremo avere a che fare con un'orda di giovanotti innamorati» notando la mia confusione le sue labbra si schiusero in un dolce sorriso «Io sono Philippa, la tua nuova tutrice. Conoscevo tua nonna, anche se solo per sentito dire» sghignazzò «E adesso vieni con me» raccolse le mie mani fra le sue e mi fece fare un giro della casa, cincischiando sugli abiti che mi avrebbe voluto confezionare «Sono un'ottima sarta-ah» disse, «e tu saresti un modello perfetto per le mie creazioni», sul fatto che avesse proprio bisogno di qualcuno che vivacizzasse le sue giornate «Da quando è morto mio marito mi sento così sola-ah!», su libri e musica e argomenti che non conoscevo. Fu così che conobbi la mia protettrice, la donna che si sarebbe presa cura di me solo come mia nonna avrebbe saputo fare. Fu così che il pensiero di riprendere in mano le redini della mia vita fece divampare una scintilla di speranza nella mia mente.





 



















Non mi sono mai sentita naturale, mi sono impegnata per esserlo [...], frase tratta dal libro Venuto al mondo, di Margaret Mazzantini.
L'idea di enfatizzare le parole di Philippa mi è venuta in mente leggendo un libro di S.King, Cose preziose.


E' tardissimo e sto praticamente crollando sul pc, quindi rimando i convenevoli al prossimo capitolo. Un grazie speciale a chi legge e recensisce, a chi preferisce, segue e ricorda e ai lettori che mi hanno inserita fra gli autori preferiti. Il prossimo capitolo sarà il vero inizio di questa storia.
Risponderò ai commenti entro domani sera, giuro :). A presto, Elisa.








Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=915514