1
Guardavo l’orologio. Lo guardavo di nuovo, e ancora, e ancora e
ancora… mi sistemai di nuovo le cuffie dell’i-pod nelle
orecchie, sperando che rimanessero per cinque secondi ferme al loro
posto e premetti il pulsante ‘forward’ per ascoltare la
canzone successiva.
La fila era lunga e ancora avevo una decina di persone davanti a me,
con i loro carrelli pieni di valige, con i loro figli strepitanti e
piangenti, con le loro discussioni inutili su come avrebbero passato
quei pochi giorni di vacanza… alzai il volume e mi concentrai su
un’altra canzone…
Mi stupii di quello che sentivo, non avevo mai pensato che mio fratello
poteva conoscere gli Helloween. Cercando di ricordarmi le parole di
‘If I could fly’, trascinai il mio trolley in avanti, dato
che la fila era scorsa senza che io me ne accorgessi.
Preparai biglietto e carta di identità per mostrarli alla
hostess: odiavo il check-in con tutto il cuore, non vedevo mai
l’ora che finisse.
“Buongiorno.”, mi disse la donna, apaticamente.
“Buongiorno a lei.”, risposi io, mentre mi sforzavo di mettere la mia valigia sul nastro scorrevole.
“Vediamo un po’… altri cento grammi e avrebbe dovuto
pagare la tassa.”, disse lei, con una voce atonale.
“Meno male.”
“Ha qualche preferenza per il posto?”
“Il più lontano possibile dall’ala.” dissi io, prendendo il mio biglietto e il mio documento.
Mi sistemai la borsa a tracollo sulla spalla e andai verso la sala di
attesa. Ancora un’ora e mezza alla partenza… già
avevo le mani che sudavano freddo.
Non riuscivo mai a spiegarmi perché mi volevo convincere di non
aver paura dell’aereo, quando poi facevo impazzire le hostess per
tutta la durata del viaggio. Giocavo nervosamente con le mie dita, le
accavallavo, toglievo le pellicine dalle unghie, mi mordevo il
labbro… Andai diverse volte a lavarmi le mani nel bagno,
sperando che il getto di acqua fredda bloccasse la mia tipica
sudorazione da stress.
Tornai a sedere e vidi che il mio sportello era aperto e che qualche
viaggiatore si era già messo in coda per montare
sull’aereo.
“Ci siamo…”, dissi a me stessa. Infilai la borsa a
tracolla e mi mossi verso la hostess che, con un sorriso a cinquanta
denti, mi augurò un buon viaggio.
“Lo spero per lei.”, borbottai.
“Come?”, mi chiese lei, percependo qualcosa.
“Dicevo grazie mille.”
“Ah…”, fece l’altra, poco convinta.
Mentre camminavo sulla pista seguendo le indicazioni di un ragazzo che
continuava a sbracciarsi come un dannato per farmi capire di sbrigarmi,
un uomo, correndo, mi urtò la spalla da dietro, facendomi cadere
in avanti.
“Ehi! Siamo Sidney, non a Indianapolis!”, gli imprecai contro, con un gesto molto eloquente.
Il ragazzo con la giacca arancione ed i catarifrangenti sui pantaloni
mi aiutò ad alzarmi e si scusò per quell’uomo,
così sgarbato che non si era nemmeno voltato per vedere se stavo
bene. Era montato sull’aereo e via, era sparito nella prima
classe.
Mi sistemai al mio posto. Dannazione! Ancora una volta accanto
all’ala! Quell’hostess al check in non aveva capito un
cazzo di quello che le avevo detto!
“Signorina! Signorina!”, sbraitai, già in preda al panico.
“Si? Un attimo!”, fece una delle hostess, interrompendo le sue mansioni per soccorrermi.
“La sua collega al check dovrebbe farsi visitare da un otorino
perché non ha capito una mazza di quello che le ho detto.
E’ possibile barattare il mio cavolo di posto accanto
all’ala con un altro?”
“Non penso ci siano problemi, ma deve attendere che l’aereo sia decollato.”
“Perché? Io voglio cambiarlo adesso! Non voglio stare
accanto all’ala!”, dissi, alzando molto il tono della voce.
“La prego, si calmi.”, mi disse lei, appoggiandomi le mani
sulle spalle. “Potrà cambiare posto solo quando
l’aereo avrà lasciato la terraferma.”
Mi sedetti sbuffando e più agitata di quanto già non
fossi. I miei occhi non potevano staccarsi dall’ala…
continuavo a pensare che del fumo uscisse dal motore…
Mi rovistai tra le tasche, in cerca delle pillole che il mio dottore mi
prescriveva ogni volta che dovevo prendere l’aereo. Ne inghiottii
una e attesi che facesse effetto.
Venti ore su quel cazzo di aereo… l’ala che fumava…
“AAAAAHHHHHH! AIUTO!”, gridai, con tutta l’aria che avevo nei polmoni.
Una hostess corse verso di me, mentre io continuavo a urlare come una pazza.
“Signorina! Signorina! Era solo un sogno! La prego! Smetta di urlare! Ci sono dei bambini!”, continuava a dirmi.
Quando alla fine mi resi conto di aver fatto l’incubo peggiore
della mia vita, tirai un grosso sospiro e appoggiai la testa allo
schienale.
“Vuole un po’ d’acqua?”
“Si… grazie…”, risposi. Mi asciugai la fronte
con la manica della mia felpa e mi rilassai. Già avevo
completamente dimenticato il sogno… poi, un brivido freddo mi
corse lungo tutta la schiena, lentamente, facendomi trasalire. Mi
voltai a destra e vidi l’ala… ancora intatta.
“Ecco.”, fece l’hostess, porgendomi un bicchiere d’acqua ed un tovagliolo.
Lo bevvi tutto di un fiato, poi mi alzai per andare verso il bagno a
darmi una sistemata. Mi ero addormentata subito prima della partenza e
ancora avevo indosso il piumino. Avevo un caldo terribile e, nella
stretta cabina del bagno, cercai di togliermi almeno la felpa.
Quando tornai al mio posto, l’ala era sempre lì, a
compiere il suo dovere in volo. Chiamai per l’ennesima volta la
hostess e le rinnovai la richiesta di cambio di posto.
“Guardi… non si potrebbe ma, visto che la prima classe
è quasi completamente vuota, può sedersi lì.”
La gente, invidiosa del privilegio a me riservato, mi guardava con un occhio un po’ storto.
“Allora voglio anche io andare in prima classe!”, protestò uno dei miei ex vicini di poltroncina.
La hostess si aspettava un ammutinamento ma, evidentemente, non sapeva
con quale scusa zittire quel rompiscatole. Al che, mi feci avanti io.
“Vuole sentirmi ancora urlare mentre sogno che questo cavolo di aereo precipita?”, gli sbottai.
L’uomo tornò scocciato a leggere il suo giornale economico
e io, soddisfatta, andai verso la prima classe, portandomi appresso la
hostess che si era presa la briga di trasportare il mio bagaglio a
mano. Questi cavolo di americani erano proprio degli insensibili,
pensai ridendo…
Solo tre persone erano sedute in prima classe e, tra queste, riconobbi
quel bastardo che mi aveva fatto cadere. Scelsi un posto lontano dal
finestrino e mi godetti la comodità di quelle
poltroncine… anzi, divani, ci si poteva sedere in tre, tutti
insieme, al solito posto.
Presi la mascherina che davano in dotazione e me la misi sugli occhi,
premetti il pulsante e la mia poltrona divenne un comodo letto. Chiusi
gli occhi e pregai di addormentarmi al più presto.
Il campanello di servizio suonò, era l’ora del pranzo.
Sperai che in prima classe mi toccasse qualcosa di meglio della sbobba
che davano in turistica. Invece niente, la solita solfa.
La mia specialità, in aereo, erano i panini imbottiti di burro:
barattai cotoletta per il pane ed il burro del signore che mi aveva
gentilmente sbattuta a terra e, mentre me li passava, sperai che tutto
il cibo gli andasse di traverso, così, per vendicarmi.
Mentre preparavo i miei panini, sentii una conosciutissima imprecazione
in inglese, provenire da qualche sedile più avanti. Divertita,
continuai a spalmare il mio burro: qualcuno doveva aver trovato una
brutta sorpresa nella sua cotoletta…
La hostess corse a soccorrere il viaggiatore scontento e tesi un orecchio per sentire che cosa si stavano per dire.
“Cosa cazzo ci date da mangiare? Volete avvelenarci?”, disse il passeggero
“Mi dispiace, signore… vuole qualcos’altro?”, rispose la donna, in perfetto inglese.
“No, grazie. Preferisco morire di fame.”, rispose lui, alzandosi per andare verso il bagno.
Mi passò accanto così velocemente che riuscì a
spettinarmi. Pensai che, dopo tutto, anche lui aveva il diritto a
mangiare qualcosa e lascia i miei due ultimi panini per lui.
Ritornò al suo posto molto più tranquillo e mi lanciai
verso di lui. Il mio inglese non era perfetto, ma avevo passato molte
vacanze dai miei zii in Australia e me la cavavo piuttosto bene:
adesso, che venivo via da Sidney dopo aver passato un mese nella nuova
casa di mio cugino, non vedevo l’ora di tornare a casa, nella mia
cara Italia. Ma non vi sarei rimasta per molto, perché avrei
quasi subito rimboccato la strada verso l’Australia.
“Ciao.”, gli dissi, sedendomi accanto a lui e porgendogli il panino farcito di burro su un fazzoletto di carta.
“Ciao…”, rispose lui, molto disinteressato e scocciato.
“So che non mi hai mai visto in vita tua, ma questo panino non
è avvelenato ed è la migliore cosa che si possa ricavare
con quello che ci danno sugli aerei.”
“Grazie, non ho fame.”, fece lui, sistemandosi la mascherina sugli occhi.
“Eppure sono buoni…”, dissi io, dando un morso ad
uno dei due panini, “Sai, sono quasi sicura che il burro che ci
danno sia un ricavato del petrolio.”
Lui non rispose.
“Però è l’unica cosa che non mi fa star male una volta a terra…”
“Senti, ti dispiace lasciarmi in pace?”, sbottò il ragazzo, togliendosi la mascherina dagli occhi.
“Ma siete tutti psicopatici su questo aereo?”, protestai, tornandomene a posto.
A fare del bene…
Il comandante ci informò delle condizioni temporali al di fuori
dell’abitacolo e ci augurò per l’ennesima volta un
buon viaggio; per assicurarmi che lo divenatasse, presi una doppia
razione di calmanti. Nel torpore chimico in cui mi trovavo, sentivo due
persone che discutevano dicendosi parole che non riconoscevo…
Uno scossone improvviso mi fece aprire gli occhi ma le palpebre erano
così pesanti che si richiusero subito: un senso di angoscia
innaturale mi prese e iniziai a respirare affannosamente, il classico
attacco di ansia che mi prendeva nei casi di panico pesante.
Una spia sonora intermittente mi entrò nelle orecchie ma io non
avevo la forza di reagire. Ma che calmanti mi aveva prescritto
quell’imbecille? Ah, già… adesso mi
ricordavo… stavolta mi aveva dato dei veri e propri
sonniferi… ecco perché prima mi ero addormentata prima.
Non riuscivo a vedere niente, ma sentivo qualcuno correre per il
corridoio. Poi la voce del capitano: ci ordinava di allacciarci le
cinture perché la turbolenza era molto forte. Presi con un
grande sforzo i lati della cintura, ma le mie dita erano così
molli che non riuscivo ad agganciare la chiusura.
Mentre cercavo con ogni volontà di non farmi sopraffare dal
sonnifero, qualcuno mi agganciò la cintura e mi infilò
qualcosa sulla faccia. Cos’era…. Forse una maschera?
La medicina fece il suo effetto e mi addormentai.
“Avanti! Svegliala! Svegliala!”
“Non ci riesco… Ma non è svenuta… sta dormendo…”
“Allora vedi di svegliarla, non è proprio il caso di dormire!”
“Signorina… signorina…”,
Sentivo una voce ovattata che entrava delicatamente nel mio cervello,
ancora sotto l’effetto di quella droga legale. Non mi sentivo
ancora le gambe e le braccia, come ogni volta che mi svegliavo quando
ero ancora intontita dai sonniferi. Quando quella voce si fece
più chiara, riconobbi in sottofondo dei rumori strani… mi
sembrava di sentire un pianto, poi un rumore metallico raccapricciante,
come quelli che si sentivano nei film horror che tanto mi piacevano.
Biascicai qualcosa che, evidentemente, risultò incomprensibile
per quella persona che aveva tanto a cuore il fatto di svegliarmi.
“Signorina… si svegli… la prego!”, mi diceva.
Mi resi conto che mi parlava in inglese e io, che mi ero espressa in
italiano, lo stavo mettendo in difficoltà.
“Cosa… c’è…”, dissi, con un filo di voce, ma in inglese.
“Cerchi di svegliarsi… almeno di mettersi seduta…”
“Ci provo… ma ho preso… sonniferi…”
“Deve farcela. Adesso la lascio un attimo, non faccia brutti scherzi.”
E che cosa avrei dovuto fare? Feci uno sforzo immane solo per riuscire
a ritrovare il controllo delle mani. Appena mi ripresi, mi accorsi
subito di trovarmi distesa su qualcosa di umido e bagnaticcio. Quando
collegai il cervello ai miei piedi, li sentii totalmente zuppi
d’acqua. Un odore salmastro entrò prepotentemente nelle
mie narici… ma come era possibile sentire l’odore e,
soprattutto, il rumore del mare, in aereo?
Facendo leva sui gomiti, mi misi faticosamente seduta e, quando i miei
occhi smisero di piangere per la forte luce, vidi una grande distesa di
acqua e di onde.
Il sonnifero prese di nuovo il sopravvento su di me e mi accasciai di nuovo a terra.
|