Oceani_6
ATTO
VI: CRUISES FEAR,
PONTE DI
COMANDO › MAR DEI CARAIBI, 1768
YO-HO-HO!
[1]
Perdemmo il conto dei giorni che passammo
in mare, nelle
settimane che seguirono.
L’ago della nostra bussola
aveva continuamente girato a
vuoto come se fosse impazzito, ed era stato difficile orientarsi senza
avere
una rotta esatta da seguire. Ovunque guardassimo c’era solo
un’enorme distesa
di acqua salata, e lo scorgere di un misero angolo di vegetazione mi
sembrava
ormai un’utopia. Mi massaggiai stancamente gli
occhi con due dita, appostato nei pressi della polena; era ormai da
parecchie
ore che non abbandonavo quella postazione, forse nella vana speranza di
scorgere almeno un lembo di terra su cui attraccare. Le provviste e
l’acqua
scarseggiavano, e non ero certo di sapere quanto tempo ancora avremmo
potuto
resistere in quelle condizioni.
Cid aveva passato le ultime tre
notti al timone e alla barra, incaricando Patrick di occuparsi delle
vele ogni
qual volta ne veniva richiesta l’occasione. Capitava difatti
molto spesso che
il clima variasse, e durante quella nostra traversata ci eravamo
imbattuti in
ben quattro temporali che avevano quasi rischiato di distruggere
l’albero
maestro e strappare le vele. Per quanto in quel momento il mare fosse
una
tavola piatta e calma che si increspava solo al nostro passaggio,
sapevo che
bisognava tenere gli occhi aperti per non rischiare di imbattersi in
spiacevoli
e improvvise sciagure. L’oceano non risparmiava nessuno.
Lo stridente richiamo di un
gabbiano mi fece alzare lo sguardo verso il cielo terso sopra di noi,
riaccendendo un barlume di speranza in tutto il mio essere; non
dovevamo essere
ancora molto distanti dalla terra ferma se quell’uccello si
era spinto a caccia
fin lì. Dovevamo dunque cercare di resistere ancora per un
po’, per quanto
sembrasse che vagassimo alla cieca fra quei mari.
Mi stavo finalmente apprestando ad
allontanarmi da lì quando la nave compì una
brusca virata, e poco ci mancò che
finissi a gambe all’aria; riuscii a mantenermi appena in
tempo alla balaustra e
ad avere al contempo una visione piuttosto ravvicinata di uno dei
cannoni
sottostanti. Cid aveva insistito con il prepararli se mai la marina ci
avesse inseguiti,
e non me l’ero proprio sentita di dargli torto. Dopo
l’ultima volta eravamo
diventati tutti un po’ guardinghi quando si trattava di certe
cose.
La Cruises virò bruscamente
ancora
una volta e caddi rovinosamente all’indietro; rotolai sul
ponte prima di andare
a sbattere con la schiena contro l’albero di mezzana,
imprecando a denti
stretti. Che diavolo stava combinando quell’idiota di Cid? Mi
rialzai a fatica
e cercai di raggiungere la cabina al di sotto del cassero,
così da potermi
accertare io stesso delle condizioni del timone e della barra.
Arrivato infine alla porta la
spalancai di malagrazia, ed fui più che pronto a sbottare
contro il mio vice
degli insulti quando mi resi conto che non era lui a manovrare la nave,
bensì
Patrick: cercava di ruotare il timone lottando contro le correnti che
trascinavano la Cruises, con la fronte imperlata di sudore e le
sopracciglia
aggrottate dalla concentrazione. «Che diamine stai facendo,
ragazzo?» lo
richiamai con uno sbuffo, vedendolo sussultare.
Rischiò di mollare il timone
ma si
affrettò a rinserrare la presa, riconcentrandosi sulla
navigazione come avrebbe
fatto un vero timoniere. «Cid non riusciva più a
tenere gli occhi aperti,
quindi l’ho sostituito», mi informò,
asciugandosi il sudore con la manica della
camicia. «Però è più
difficile di quanto pensassi».
Alzai lo sguardo al soffitto,
avvicinandomi a lui per scansarlo di malo modo e afferrare il timone
con una
mano. «La prossima volta che succede vieni a chiamarmi,
ragazzo», borbottai,
gettandogli una rapida occhiata. «Potevamo rischiare
grosso». E l’oscillazione
della Cruises ne era stata la prova lampante. Lo vidi annuire con la
coda
dell’occhio e ficcarsi le mani nelle tasche, non prima di
essersi grattato
dietro la nuca in preda all’imbarazzo.
Sbuffai. Quel ragazzino faceva
sorgere un lato di me che odiavo, forse perché, in fondo in
fondo, rivedevo me
stesso alla sua età. Ma di cosa mi stupivo? Seppur da poco,
avevo scoperto che
Patrick era in realtà mio fratello, per quanto ancora non
riuscissi a credere
davvero a ciò che io stesso avevo formulato
nell’ascoltare la sua
testimonianza. «Va’ immediatamente a svegliare
quell’idiota invece di
ciondolare, Patrick», gli ordinai in tono schietto,
così da provare al tempo
stesso ad allontanare la sensazione che mi aveva investito.
«Digli di occuparsi
delle vele e poi sali di vedetta; appena scorgi anche un solo sputo di
terra,
urla con tutto il fiato che hai nei polmoni».
Non ne fui realmente certo, ma i
suoi occhi sembrarono illuminarsi di un qualcosa che non riuscii a
comprendere
appieno. «Signorsì, signor Capitano!»
esclamò raggiante prima di scattare fuori
dalla cabina, e la cosa mi lasciò interdetto. Chi
l’avrebbe mai detto che
persino i lavori più insignificanti e umili
l’avrebbero mandato in fermento; dava
proprio l’impressione di essere un mocciosetto alla continua
ricerca di qualche
avventura e modo per rendersi utile, poco importava che dovesse
raggiungere il
suo scopo in modi ben poco ortodossi.
Sorrisi appena e scossi il capo,
ruotando il timone di altri venticinque gradi. Le cose sarebbero state
diverse
se il nostro villaggio non fosse stato attaccato, ne ero certo:
crescendo,
forse, Patrick avrebbe deciso di intraprendere la vita del pirata come
avevo
fatto io seguendo le orme di mio padre, e mio nonno prima di lui; ci
saremmo
imbarcati insieme e avremmo avuto un luogo a cui fare ritorno, non un
cimitero
costellato da sentieri impervi e rocce appuntite. Ma ben sapevo che
continuare
a rimuginare sul passato era inutile, dunque dovevo mettermi il cuore
in pace;
niente sarebbe stato più come un tempo, forse nemmeno se
avessi raccontato a
Patrick la verità sulla sua identità.
«Capitano!» La voce
improvvisa di
Patrick, che tra l’altro aveva fatto un po’ troppo
in fretta a tornare su,
sembrò penetrarmi nel cervello, e pochi attimi dopo
entrò in cabina come una
furia, sbattendo la porta senza rendersene pienamente conto. Respirava
a fatica
e sembrava trafelato, quasi avesse corso fin lì senza
fermarsi un attimo.
«E adesso che cosa
c’è,
ragazzo?»
sbottai, ruotando il timone di settanta gradi senza prendermi la briga
di
voltarmi. «Ti avevo dato degli ordini, mi sembra».
Si grattò un braccio, come se
fosse incerto sul da farsi. «Riguarda Cid,
Capitano», mi informò in un mormorio
sordo, e forse fu a causa dell’urgenza che avvertii nel tono
della sua voce che
stornai bruscamente lo sguardo su di lui.
Mi accigliai. «Cid?»
ripetei,
vedendolo umettarsi le labbra.
«Non so che
cos’abbia, ma appena
gli ho sfiorato una spalla per svegliarlo si è
lamentato», esalò tutto d’un
fiato, mordicchiandosi il labbro inferiore.
Dal canto mio, imprecai a denti
stretti non appena assimilai con esattezza quelle parole. Se avevo
visto
giusto, c’entrava qualcosa lo scontro che aveva avuto con il
Commodoro un po’
di tempo addietro. «Quel dannato idiota», borbottai
fra me e me, allontanandomi.
«Tieni il timone, Patrick, e cerca di mantenere costantemente
questa rotta»,
gli intimai senza preamboli. «Se siamo fortunati è
quella giusta».
Ciò detto lasciai tutto nelle
sue
mani e mi affrettai a raggiungere la cabina sottocoperta, sicuro
più che mai
che Cid si fosse rintanato lì per riposare. Avanzai a grandi
falcate nel lungo
corridoio in penombra, giungendo a destinazione così in
fretta che quasi
faticai ad avvedermene; spalancata la porta trovai il mio vice seduto
sulla
branda, con il petto nudo coperto di graffi e lividi. Una sottile linea
di
sangue gli correva lungo il braccio destro, e, sebbene
l’avesse lavata con
dell’acqua e del rum, la ferita frastagliata provocata dal
colpo di pistola appariva
gonfia e rossa, come se stesse andando in suppurazione.
«Avrei dovuto
immaginarlo», sbottai, richiudendomi la porta alle spalle.
Cid non si degnò di
guardarmi,
limitandosi soltanto a bagnare la ferita con un panno. Stringeva i
denti dal
dolore, e con essi si mordeva il labbro inferiore per non lasciarsi
sfuggire
nemmeno il più piccolo lamento. «Non è
niente», rimbeccò, abbandonando il panno
sulla branda prima di allungare l’altro braccio verso i suoi
piedi, dove aveva
riposto ago di balena, spago e bende. «Ho incassato colpi
peggiori di questo».
La cosa avrebbe forse dovuto
rassicurarmi? Sollevai un sopracciglio con aria scettica, sbuffando e
poggiandomi contro il muro di legno della cabina. «Och, non
ne dubito. L’ho
sempre saputo che hai la pellaccia dura», ironizzai.
«Allora fammi il favore di
piantarla», replicò immediatamente senza cogliere
il sarcasmo delle mie parole,
infilando lo spago nella cruna prima di farci un nodo
all’estremità; portò poi
la punta dell’ago verso la candela accesa sulla cassa riposta
alla sua destra,
sterilizzandolo ben bene. Quando tempo addietro avevamo viaggiato a
bordo della
Conqueror aveva imparato dal medico di bordo le basi della medicina, ed
era
stata una vera e propria fortuna, a ben pensarci. Non ci saremmo mai
aspettati
un ammutinamento da parte della ciurma, e quei giorni passati da soli
su quella
sottospecie di barchetta sarebbero stati un sicuro inferno se uno di
noi due si
fosse ammalato senza che l’altro sapesse cosa fare.
Decisi di non prestargli
attenzione, andando a prender posto sulla cassa ormai vuota delle
vivande.
Osservai, poi, Cid apprestarsi a suturare la ferita, infilando la punta
dell’ago nella carne per ricucire i lembi; imprecò
a denti stretti lanciando
insulti a mezza voce, ma fu difficile dire a chi o che cosa si stesse
riferendo
e soprattutto contro chi
li stesse
lanciando. Quando alla fine terminò, raccattò le
bende e bofonchiò, «Non
guardarmi in quel modo, Gale. Mi fascio la ferita e torno al timone; la
nave
balla che è una meraviglia», soggiunse, e fui
più che certo che il suo fosse
sarcasmo. Beh, se riusciva a scherzare significava che tutto sommato
stava alla
grande.
Alzai lo sguardo e sbuffai.
«Non
cambierai mai, razza di idiota», replicai esasperato.
«Tu e il tuo fottutissimo
orgoglio».
Per la prima volta da quando
avevamo preso il largo, Cid sorrise. Sembrava che il buon umore fosse
tornato
sul suo viso come se qualcuno ce l’avesse appena appiccicato
sopra, visto il
repentino cambiamento che aveva avuto. «Non ti piaccio forse
per questo?»
scherzò, distogliendo la sua attenzione da me per applicare
la fasciatura; ne
afferrò un lembo con i denti e strinse il più
possibile, così da evitare che
potesse sciogliersi.
Io restai lì per
lì scombussolato
da quanto aveva appena detto, sbattendo persino le palpebre con fare
perplesso.
Bofonchiai poi qualcosa fra me e me, forse vagamente imbarazzato,
affrettandomi
a dargli le spalle e a riaprire la porta. «Non sparare
cazzate, pirata»,
sbottai al suo indirizzo, uscendo dalla cabina con la sua risata al
seguito.
Ero appena salito per raggiungere Patrick quando quella furia del mio
vice mi
sorpassò in fretta - senza che io me ne rendessi conto, tra
l’altro -, e lo
sentii esclamare «Virare a prua!» nel momento
esatto in cui mi affrettai ad
entrare anch’io; forse fu di riflesso che Patrick
eseguì e ruotò il timone
velocemente, sebbene avesse brevemente sussultato. Di certo non si era
aspettato quell’ordine improvviso, e neanch’io, a
dirla tutta.
«Che succede?» gli
chiesi quindi
trafelato, vedendolo sporgersi quel tanto che bastava per osservare il
mare.
Alzò di sfuggita lo sguardo verso lo scorcio di cielo che si
vedeva e,
umettandosi un dito, controllò con esso la direzione del
vento, scoccandomi
un’occhiata.
«Torno al timone, tu occupati
delle vele, Patrick», disse semplicemente, afferrando da una
tasca un qualcosa
che solo in seguito capii essere una bussola.
«L’ago finalmente indica una
direzione, però punta a nord-ovest; dobbiamo cambiare rotta,
o rischiamo di
continuare a vagare in mare senza una meta».
Patrick si scansò
immediatamente e lasciò tutto nelle mani di Cid, annuendo
per un breve istante
prima di scattare ed eseguire gli ordini appena ricevuti. Lo seguii con
lo
sguardo finché non sparì del tutto dalla mia
visuale, tornando a fissare il mio
vice: l’ebrezza che l’aveva sempre animato era
tornata prepotentemente sul suo
viso, rendendolo luminoso come quello di un bambino che aveva appena
ricevuto
un nuovo giocattolo; nonostante la ferita appariva pimpante e pieno di
energie,
e fu sorridendo che mi invitò a svolgere i miei incarichi di
Capitano prima di
tornare a concentrarsi sulla navigazione.
Calò la sera senza che ce ne
rendemmo conto, presi com’eravamo dalle nostre rispettive
mansioni. Il livello
del mare sembrava essersi abbassato, simbolo che non mancava molto al
raggiungimento della terra ferma; il cielo si era tinto di un cupo
violetto
frammentato solo dal grigiore di alcune nuvole di passaggio, e il solo
suono
che si udiva era il lieve cigolare della chiglia della Cruises. Avevamo
lasciato che fosse il vento a guidare la nave a dritta, e ci eravamo
finalmente
concessi qualche attimo di riposo. Cid aveva persino trasportato sul
ponte
l’ultimo barilotto rimasto e quel poco cibo avanzato,
insistendo con il dire
che c’era bisogno di festeggiare. E per una volta eravamo
stati pienamente
d’accordo con lui.
Tra risate e schiamazzi avevamo
consumato la cena e bevuto, dilettando Patrick con i racconti delle
nostre
avventure. Gli avevamo parlato di quella volta in cui ci eravamo
ritrovati ad
affrontare una flotta di navi pirata nel Golfo del Messico, e di come
avevamo
rischiato di lasciarci le penne a causa delle lame avvelenate con cui
l’equipaggio ci aveva fronteggiati; di quando eravamo giunti
per la prima volta
nei pressi del porto di Tortuga, godendo dei mille piaceri che essa
riservava
prima di rifornire i nostri bastimenti truffando un vecchio
commerciante d’armi
nei guai con la marina; gli avevamo parlato persino di quando avevamo
solcato
le coste del lontano Adriatico con la nostra Conqueror, che aveva
infranto più
onde di quante ne ricordassimo e affrontato più viaggi di
quanto non fosse
possibile. Patrick ci aveva ascoltati con stupore e meraviglia,
assimilando
quelle informazioni e chiedendoci maggiori dettagli, gli occhi luminosi
e
vogliosi di sapere. Appariva come un bambino a cui stavano narrando una
fiaba,
e la cosa mi aveva fatto sorridere non poco. Mi rammentava i giorni in
cui,
quando il nostro villaggio era ancora un luogo rigoglioso e pieno di
vita, era
la nostra compianta madre a raccontare le gesta di nostro padre,
facendo sì che
la leggenda che era stato continuasse; Jim, il cui nome era adesso
Patrick,
aveva in viso la stessa espressione che mi stava mostrando in
quell’esatto
momento.
Il momento migliore della serata -
o peggiore, a detta di Patrick stesso - fu quando Cid, dopo essersi
bevuto ben
più di metà barilotto ed essersi alzato in piedi
con fare ciondolante, ebbe la
brillante idea di intrattenerci con delle canzoni. Stonato come una
campana e
con il boccale colmo fino all’orlo ben stretto in una mano,
Cid cominciò ad
intonare “Hoist the colours [2]”
con
voce gracchiante, ridendo come un matto a causa del liquore ormai in
circolo
sebbene quella canzone fosse tutt’altro che allegra.
«Yo, ho, haul together, hoist the Colors high. Heave,
ho, thieves and beggars, never say we die [3]!»
Il
suo schiamazzare sguaiato si diffuse nel silenzio della notte,
perdendosi nella
vastità dell’oceano. «E voi
perché ve ne state zitti? Cantiamo e balliamo fino
alla fine del viaggio!»
Beh, aveva decisamente bevuto
troppo. Però per una volta lo lasciai fare, comprendendo
l’entusiasmo che lo
animava. Il nostro viaggio stava andando a gonfie vele, dunque non
avrei
frenato quella sua voglia di festeggiare né avrei permesso
che lo facesse
qualcun altro. Andava bene anche così.
«Quando beve sembra
un’altra
persona», costatò Patrick, lo sguardo fisso su Cid
come se il boccale che aveva
in mano non esistesse. Sorrideva, come se, in fondo in fondo, quella
situazione
lo divertisse. E dovevo ammettere che divertiva parecchio anche me.
Gli diedi una pacca su una spalla,
tornando a guardare il mio vice. Non aveva smesso un secondo di cantare
quella
dannata canzone, a parte quando si bagnava la gola con il liquore.
Ancora mi
chiedevo come facesse a non riversarlo completamente sul ponte, visto
il modo
in cui continuava a sbracciarsi. «Tranquillo, è
uno spettacolo che fortunatamente
non si ripete spesso», lo
informai, sentendolo sospirare di sollievo.
«Quell’idiota preferisce essere
vigile e sobrio».
«E scommetto che lo fa
soprattutto
per il suo bene, Capitano», replicò semplicemente,
al che io mi accigliai non
poco per quelle sue parole. Riuscii a vedere l’espressione
sgomenta che mi si
era dipinta in viso riflessa negli occhi di Patrick, che mi osservava
con estrema
attenzione. «Quando eravamo a Roseau e ha visto che lei non
tornava... si è
agitato talmente tanto che non ci ha pensato due volte a correre a
cercarla.
Cid ha piena fiducia in lei, Capitano. E’ un uomo che farebbe
di tutto per
proteggerla».
Boccheggiai come un pesce fuor
d’acqua, probabilmente stupito da quelle sue costatazioni.
Con poche e semplici
parole aveva colto i passaggi essenziali del legame che avevo con Cid,
rapporto
che andava ben oltre a quello che mostravamo agli altri e persino a noi
stessi.
Feci dunque per rispondere, ma il peso di una grossa mano sulla mia
testa
richiamò la mia attenzione; il cappello piumato che portavo
mi venne
schiacciato sul capo e una risata mi riempì le orecchie,
prima che quell’idiota
di Cid si chinasse verso di me e mi cingesse le spalle con un braccio.
«Fatti
un bel goccio», parve ordinarmi con voce gracchiante,
agitando il proprio
boccale e facendo sì che la maggior parte del liquore in
esso contenuto gli si
riversasse addosso. «Allenterà anche i tuoi nervi,
credimi».
Lo allontanai da me con uno sbuffo
sotto lo sguardo parecchio divertito di Patrick. «Vedi
piuttosto di piantarla
tu, idiota ubriacone», ironizzai, sentendo il suo fiato caldo
sul collo e il
suo ansimare; raggelai nell’avvertire la pressione delle sue
labbra contro la
pelle e il suo insistente avvicinarsi, ma fu soprattutto nel vedere
l’espressione incuriosita e al contempo stralunata del
ragazzo che mi sentii
sbiancare. Aveva sollevato un sopracciglio e incurvato un po’
le labbra verso
il basso, come se si stesse domandando cosa diavolo stesse succedendo.
Mi alzai così in fretta che
Cid,
che nel frattempo aveva provato ad accostare il suo petto alla mia
schiena,
crollò con la faccia sul ponte della nave, lamentandosi per
la botta ricevuta e
imprecando al mio indirizzo; aveva anche lasciato andare il boccale di
liquore,
che era rotolato sulle assi di legno rovesciando il poco contenuto
rimasto. Non
diedi minimamente peso all’espressione contrariata con cui mi
osservò, dando le
spalle ad entrambi per dirigermi a grandi falcate verso il ponte,
sentendo però
i passi di qualcun altro far eco ai miei.
«L’ha proprio messo
di cattivo
umore», mi disse in tono vagamente divertito Patrick. Gli
gettai appena una
veloce occhiata prima di stornare lo sguardo in direzione di Cid, che
si era
sdraiato sul ponte di schiena a braccia e gambe spalancate, gli occhi
annebbiati rivolti verso il cielo sopra di lui.
Giocherellando con il mio capello,
replicai, «Che dormisse, quell’idiota. Almeno le
nostre orecchie saranno salve
fino alla sua prossima bevuta».
Patrick inclinò la testa di lato,
grattandosi dietro al collo. «Non si arrabbi, Capitano. Non
vede com’è ubriaco?
Probabilmente non si rendeva nemmeno conto di ciò che
faceva».
Ah, beata innocenza. Quello
stupido del mio vice lo sapeva fin troppo bene ciò che
faceva, in qualsiasi
momento e in qualsiasi modo. Era impensabile il contrario, piuttosto. E
il modo
in cui aveva tentato di agire parlava da solo.
«Posso farle una domanda,
comunque?»
Bofonchiai qualcosa fra me e me,
per niente propenso ad ascoltarlo. Però gli chiesi in tono
scorbutico, «Sarebbe?»
«Perché
è diventato un pirata,
Capitano?» Si poggiò a braccia conserte contro il
parapetto della Cruises,
guardando oltre esso. Sembrava assorto nell’osservare
l’incresparsi del mare,
che appariva come una vasta distesa nera illuminata solo parzialmente
dalla
luce della luna, i cui raggi facevano timidamente capolino dalle nubi
che ci
sovrastavano.
«Per realizzare un mio
sogno»,
risposi in tono schietto e immediato, vedendolo con la coda
dell’occhio portare
la sua attenzione su di me.
«E si è
avverato?»
A quella domanda sorrisi
inconsciamente, non sapendo cosa rispondere con l’esattezza.
Forse si era
avverato per davvero, quel mio sogno, sebbene io stentassi ancora a
crederci.
Optai dunque per una mezza verità, adagiandomi a mia volta
contro la balaustra.
«Chi lo sa».
Patrick alzò un angolo della
bocca, divertito. «Sa, Capitano, a volte stento a credere che
lei sia davvero
un pirata», buttò lì, richiamando la
mia attenzione.
«E cosa te ne fa
dubitare?»
«Il fatto che non avesse una
nave
e che quando l’ha ottenuta non ha neanche tentato di metter
su un equipaggio»,
disse distrattamente, alzando finalmente lo sguardo verso il cielo.
«Ha
soltanto Cid, che ci fa da navigatore, cuoco e, purtroppo, anche da
musicista»,
soggiunse, enfatizzando con tono ilare l’ultima mansione.
Sbuffai appena, allontanandomi da
lì il più in fretta possibile. «Un
giorno capirai il perché della mia
decisione. Credimi, ragazzo».
Sentii il suo sguardo puntato
sulla mia schiena, come se mille pugnali mi stessero trafiggendo senza
pietà. «Un
giorno, forse, ma non oggi».
Non mi voltai, limitandomi solo a
calcarmi il cappello sulla testa mentre mi incamminavo verso il
cassero. «Già»,
replicai semplicemente. Però, dentro di me, qualcosa mi dava
la certezza che il
giorno in cui avrei dovuto spiegargli la verità si stesse
avvicinando sempre di
più.
[1] Esclamazione
tipicamente associata ai pirati.
La scelta sarà chiara
andando mano a mano avanti con il capitolo, o almeno è
questa l’intenzione.
[2] La
traduzione letterale sarebbe “Issa i colori”,
sebbene in questo contesto si intenda la bandiera; il titolo, dunque,
diventa
per l’appunto “Issa la bandiera”.
La canzone è il tema
principale del film “Pirati dei Caraibi: Ai confini del
mondo”, e oltre a
rappresentare i pirati stessi e la loro ideologia di
libertà, racconta di come
Calypso venne imprigionata in un corpo umano dal Re dei Pirati.
[3] Strofa
della canzone “Issa la bandiera”.
La scelta di lasciarla
in inglese è voluta, e tradotta reciterebbe: “Yo,
ho, trasportare insieme,
issare la bandiera. Solleva, ho, ladri e accattoni, non dite mai che
moriremo”.
C’è inoltre un altro
motivo di fondo per cui è stata scelta proprio questa frase,
ma esso sarà
intuibile solo alla fine della storia, o almeno questa è
l’intenzione.
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scrittori.
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