Anything for you
Era ormai mezzogiorno e mezza quando alzò gli occhi sull’orologio
digitale appeso alla parete del reparto analisi. Si passò una mano sugli occhi
castani, strofinandoli un po’: era tutta la mattina che lavorava su alcuni
composti che la polizia le aveva fatto recapitare all’ospedale San Bartolomeo,
si era letteralmente cavata li occhi su quegli esserini minuscoli che ci
muovevano dentro e sulla materia, piccoli profughi di diverso genere e provenienti
da diversi posti, ma aveva ottenuto ottimi risultati. Una delle poche cose, se
non l’unica, che le riuscivano bene.
Si alzò dallo sgabello e ripose fiale e specchietti al loro
posto, dopo averli accuratamente lavati e disinfettati, spense il microscopio e
tutte le apparecchiature con cui aveva lavorato, prese il rapporto scritto dei
risultati delle sue analisi e li infilò in una cartella, poi si guardò intorno:
il deserto era pieno di vita se paragonato al suo luogo di lavoro. E,
allargando gli orizzonti, alla sua intera esistenza.
Passava talmente tanto tempo con molecole, batteri e
cadaveri distesi sul tavolino dell’obitorio, che spesso, per non dire sempre,
si trovava a pensare che se fosse stata una di loro tre non sarebbe cambiato
molto nel mondo; anzi: molecole, batteri e cadaveri a qualcosa potevano servire
nel mondo scientifico.
Molly Hooper: trentenne timida e riservata, assolutamente
incapace di avviare una conversazione con una qualsiasi persona, che fosse
uomo, donna o bambino, con una vita sentimentale vuota ma una cotta pazzesca
per Sherlock Holmes, l’uomo più irraggiungibile del pianeta, il più lontano
dalla sua portata, sebbene spesso e volentieri si trovasse a lavorare con lui
gomito a gomito ma a cui al massimo riportava i risultati di qualche analisi
svolta su suo ordine.
O meglio, su sua richiesta. Perché lui non le dava mai
ordini: poteva sembrare autoritario, severo, pieno di sé, approfittatore, a
volte menefreghista e molto, molto insensibile, perché in realtà lui era tutto
questo, ma sapeva perfettamente che in fondo era gentile, riusciva a
leggerglielo negli occhi chiarissimi e ombrosi. E lei cedeva sempre quando lui
chiedeva la sua professionalità, e lo faceva con piacere perché avrebbe fatto
qualsiasi cosa per lui e perché il solo sentire che lui aveva bisogno di lei la
rendeva la donna più felice della terra.
Quelli erano i momenti in cui si sentiva davvero viva: per
quei pochi minuti, in quei giorni in cui Sherlock Holmes entrava nel laboratorio
e la chiamava perché aveva bisogno di alcune analisi, la sua vita acquistava un
significato, un fine, aveva un senso. Aiutare Sherlock, fare qualcosa per lui
la faceva sentire importante: tutti sapevano quanto fosse un tipo solitario e
con cui difficilmente si poteva avere un rapporto di reciproco rispetto. Da
quando era arrivato il suo nuovo coinquilino, il dottor John Watson, la
prospettiva da cui Molly aveva sempre guardato il consulente investigativo era mutata:
se voleva e se trovava la persona giusta, Sherlock Holmes sapeva intessere un
rapporto personale più stretto. Lei non si era mai illusa che tra loro potesse
succedere qualcosa di simile, ma se cercava le sue doti lavorative significava
che in qualche modo rispettava le sue capacità e competenze, almeno in quell’ambito.
Il pensiero le risollevò un po’ il morale. Si tolse il
camice bianco e lo appese all’appendiabiti, indossò la giacchetta, prese la
borsa e uscì dal laboratorio spegnendo le luci dietro di sé. Poi prese il
cellulare: aveva ricevuto un messaggio dall’uomo che stava per incontrare,
conosciuto al pub la sera prima e con il quale aveva un appuntamento a pranzo.
Sospirò: avrebbe preferito le attenzioni di qualcun altro, ma era inutile
continuare a illudersi.
“Molly!” una voce ben conosciuta la chiamò e solo in quel
momento si accorse che nel corridoio bianco stavano camminando verso di lei Sherlock
e John. Il suo cuore prese a battere all’impazzata.
“Ciao. Stavo giusto uscendo…” li salutò riponendo il
cellulare in tasca. Con sua massima sorpresa, il braccio di Sherlock si alzò e
la prese, trascinandola di nuovo nel laboratorio.
“Non direi proprio.” Commentò lui e lei lo fissò
interrogativa.
“Ho un appuntamento a pranzo.” Spiegò senza opporre troppa
resistenza, ma l’uomo non sembrò curarsene e infatti…
“Cancellalo, hai pranzo con me.” Molly si bloccò di scatto
“Cosa?” Aveva sentito bene? A pranzo con lui? Impossibile,
non con lui, almeno.
“Devi aiutarmi.” Spiegò Sherlock e un raggio di sole filtrò
tra le dense nubi grigie e nere dell’animo di Molly: la giornata iniziava a
prendere una piega migliore. “Uno dei tuoi vecchi fidanzati, lo stiamo
cercando. Ha fatto il birbante.” John Watson lo guardò.
“Moriarty?” chiese.
“Certo che è Moriarty!” ribatté il compare come se fosse la
cosa più ovvia.
“Jim non era il mio ragazzo.” Puntualizzò Molly, correggendo
il tiro: non le piaceva l’idea di chiamare James Moriarty “ex” dopo quanto
aveva fatto a Sherlock e John. “Siamo usciti insieme tre volte. L’ho lasciato.”
“Poi ha rubato i Gioielli della Corona, ha fatto irruzione
della Banca d’Inghilterra e ha organizzato un’evasione.” Continuò Sherlock
imperterrito. “Per l’amor di legge e dell’ordine, ti consiglio di evitare tutti
i futuri tentativi di avere una relazione sentimentale, Molly.” Pungente e
sensibile come sempre, pensò la donna oscurandosi, ma li seguì nel laboratorio
e iniziò ad aiutarli nelle loro analisi.
Mentre Sherlock stava al microscopio, John e Molly facevano
i soliti test di routine su quelle che sembravano schegge di legno con una
strana patina sopra. Mentre misurava l’alcalinità del composto, osservava l’investigatore
di sottecchi: non sembrava molto allegro, quanto piuttosto teso; lo aveva anche
visto lanciare un paio di occhiate al collega e amico John in alcune occasioni,
come se controllasse che stesse bene, cosa che, in qualche modo, le aveva fatto
un certo effetto fastidioso: gelosia? Quando lo sentì mormorare “IOU”, scosse
il capo per scacciare quei pensieri: erano solo amici.
“Cosa significa IOU?” gli chiese quindi. L’uomo la guardò
interrogativo. “Lo borbottavi mentre lavoravi.” Lui distolse lo sguardo
rispondendo che non era nulla, solo una nota mentale, e in una frazione di
secondo le sue iridi chiare si spostarono su John. Molly se ne accorse: le
ricordava qualcuno, suo padre. Quando gli espresse il suo pensiero, come al
solito Sherlock le chiuse il discorso.
“Molly, per favore, non sentirti in dovere di fare
conversazione, non è proprio il tuo forte.” Lei se ne infischiò e continuò a
parlare.
“Quando stava morendo era sempre allegro, adorabile, tranne
quando pensava che nessuno potesse vederlo.” Un’immagine di suo padre seduto
sul letto in una stanza vuota intento a guardare mestamente fuori dalla
finestra si fece spazio tra i suoi ricordi. “Lo vidi una volta, era triste.” Si
accorse solo in quel momento che Sherlock la stava guardando: ma c’era qualcosa
di strano in quegli occhi rivolti verso di lei, come se qualcosa si fosse
smosso in lui a quelle semplici parole. Provò a parlare ma lei lo interruppe. “Tu
sei triste, quando credi che lui non ti veda.” Accennò al dottor Watson, alle
prese con alcuni documenti poco distante ma concentrato. Anche lo sguardo dell’investigatore
si posò sull’amico. Molly lo capiva: lei faceva lo stesso, aveva preso in tutto
e per tutto dal padre quell’atteggiamento, sebbene i momenti in cui era in
compagnia si potessero contare sulle dita di una sola mano tutti i giorni. La
maggior parte del tempo stava da sola, ma lavorare la aiutava a non pensare;
ecco perché si buttava famelica sulle sue analisi. Sherlock non lo avrebbe mai
ammesso, né a se stesso e men che meno davanti a lei o ad altri, eccezion fatta
forse di John, ma non stava bene e voleva nascondere le sue preoccupazioni e i
suoi pensieri agli altri per evitare di buttarli addosso a loro e sembrare un
debole. “Non dire che stai bene, perché so cosa significa adombrarsi quando si
pensa di non essere visti.” Sherlock alzò un sopracciglio.
“Tu puoi vedermi.” Ribatté. Lei sbuffò.
“Io non conto nulla.” Disse abbassando lo sguardo. Seguì una
breve pausa: le parole uscivano dalle sue labbra come le acque di un fiume che,
sbarrato da una diga, era riuscito a sfondare l’ostacolo e riversarsi verso il
basso. Con molta fatica, timidezza e delicatezza lei stava aprendo il suo cuore,
senza alcun fine personale, solo quello di far stare meglio la persona che
amava. Sospirò. “Quello che sto cercando di dirti” balbettò. “è che se ci fosse
qualcosa che posso fare, di qualsiasi cosa tu abbia bisogno, ogni cosa… io ci
sono.” Arrossì. “Cioè, n-nel senso che se avessi bisogno di qualcosa, va bene.”
Non aveva il coraggio di guardarlo negli occhi: era troppo imbarazzata, era
andata oltre il limite che si era imposta per non rischiare di rovinare quella
sottospecie di rapporto che si era creato tra loro. La paura di quello che
sarebbe potuto accadere si fece sentire. E Sherlock continuava a guardarla, un’espressione
stupita e interrogativa allo stesso tempo.
“Ma…” disse senza distogliere lo sguardo. “… di cosa potrei
avere bisogno da te?” Quel po’ di autostima che Molly aveva a fatica costruito
venne abbattuto da quelle poche parole. Era vero: di cosa poteva avere bisogno
il grande Sherlock Holmes che già non aveva? Cosa poteva dargli lei che potesse
essergli lontanamente utile?
“Nulla.” Rispose, più a se stessa che all’uomo. “Non lo so.”
Gli lanciò una rapida occhiata. “In realtà, ora, potresti dire grazie…” Se
possibile, Sherlock era ancora più confuso: parole buttate al vento, si arrese
Molly. Ulteriore dimostrazione del fatto che se lei non fosse esistita, il
mondo sarebbe stato precisamente lo stesso di quello in cui viveva. “Vado a
prendere un po’ di patatine.” Cambiò discorso in fretta lei allontanandosi dal
banco di lavoro. “Vuoi qualcosa? Ok, so che non vuoi nulla.” Sherlock si agitò
sullo sgabello e seguì i suoi spostamenti con la testa, gli occhi che
sembravano voler dire qualcosa ma erano indecifrabili.
“Beh, in realtà, forse io…” disse ma non finì la frase:
Molly abbozzò un sorriso mesto nella sua direzione e mentre si dirigeva verso
la porta mormorò: “So che non vuoi.” Uscì dal laboratorio e, chiudendosi la
porta alle spalle, si incamminò verso la hall dell’ospedale.
Un enorme macigno pesava sul suo animo: si maledì per aver
tirato fuori la storia di suo padre, se non lo avesse fatto probabilmente
sarebbe andata come tutte le altre volte e lei sarebbe stata solo felice di
rendersi utile, felice del fatto che Sherlock si era rivolto direttamente a lei
per avere aiuto. Una volta nella hall deserta, si sedette su una delle sedie
della sala d’aspetto, i gomiti sulle ginocchia e la testa tra le mani.
Poi pianse.
***
Quando si ritrovò a fine giornata, alle 7 di sera, Molly si
guardò intorno: sola, come sempre. E aveva smesso di lavorare. Iniziando a
pensare. I ricordi di qualche ora prima affiorarono: Dopo aver pianto tutte le
sue lacrime sulla poltroncina della hall, si era diretta alle macchinette delle
vivande e con la sua chiave aveva preso un pacco di patatine, poi si era
rifugiata in bagno per rinfrescarsi e cancellare i segni del pianto: sapeva che
qualunque cosa avesse fatto Sherlock si sarebbe comunque accorto di quello che
era successo, ma in quel momento non gliene fregava niente. Poi fece ritorno al
laboratorio: al suo ingresso, sia John che Sherlock l’avevano guardata.
“Oh, bene! Ci andava un break, Molly!” esclamò John con un
sorriso. Lei ricambiò e gli diede il pacco di patatine: sapeva che lui la stava
guardando, anzi no, osservando e sicuramente aveva notato gli occhi ancora un
po’ rossi, il colletto umido, la sparizione di quel po’ di trucco che si era
messa per andare a pranzo e qualche goccia d’acqua sul pacchetto di patatine. Ma
non disse nulla in proposito e lei lo ringraziò mentalmente.
Un’oretta dopo, finite tutte le analisi che dovevano fare,
se n’erano andati e lei si era ritrovata di nuovo sola. Prese il telefono e
mandò un messaggio di scuse all’uomo con cui aveva appuntamento per pranzo,
dicendogli che si era dovuta fermare per una questione urgente. Non sapeva come
l’avrebbe presa, ma aveva la certezza che se avesse potuto nascere qualcosa tra
loro due, Sherlock Holmes lo aveva impedito. Anzi no: era la sua cotta per lui,
che le faceva fare qualsiasi cosa le chiedesse che lo aveva impedito. In fondo,
allora, non aveva tenuto più di tanto all’appuntamento, pensò, ma la cosa a cui
più teneva, giustamente, era Sherlock.
Scosse la testa, scacciando quei pensieri: ormai se n’era
andato e chissà quando lo avrebbe rivisto. Riprese il rapporto che aveva
scritto la mattina per completarlo con i risultati delle ultime analisi, si
risedette al tavolo da lavoro e ricominciò a fare il suo dovere, quello che più
le veniva meglio, senza alzare gli occhi finché non ebbe finito. Soffiò sorpresa
quando scoprì che aveva lavorato per tre
ore e mezza senza aver guardato l’orologio neanche una volta.
“Beh, almeno ho finito.” Borbottò rimettendo il rapporto
nella cartella e infilandosela in borsa. Uno strano scricchiolio attirò la sua
attenzione. Allarmata guardò davanti a sé ma non vide nulla. “Chi c’è?” domandò
ma non ebbe risposta e si calmò: lavorare tutto il giorno senza grandi pasti e
pause le faceva male, si trovò a pensare. Come sempre, spense tutti i macchinari,
appese il camice all’appendiabiti, prese la borsa e si avvicinò all’uscita,
spegnendo dietro di sé le luci. Aveva appena messo una mano sulla maniglia
quando una voce profonda uscì dal’oscurità.
“Ti sbagli, sai?” Molly trasalì e guardò nel punto da cui
proveniva la voce. Il cuore che le martellava in petto sprofondò quando
riconobbe il profilo dell’uomo che stava nascosto nell’ombra, il colletto
alzato come sempre, il naso dritto, le labbra sottili e gli occhi chiari
incorniciati dai riccioli neri. Le iridi saettarono verso di lei.
“Sherl…!” esclamò sorpresa ma lui non le permise di finire.
“Tu conti.” Disse lui uscendo dall’ombra lentamente. Quelle
due parole fermarono i battiti della donna: che cosa...? “Sei sempre contata e
io ho sempre avuto fiducia in te.” Non era possibile… Sherlock Holmes si stava
davvero aprendo a lei? Ma soprattutto le stava davvero dicendo quello che lei
aveva sentito o era la sua immaginazione che le giocava brutti scherzi? Chiuse
gli occhi e quando li riaprì l’investigatore si era fatto più vicino. Lo guardò
negli occhi, ancora sorpresa e in attesa. “Ma avevi ragione: non sto bene.”
“Dimmi che cos’hai.” Disse lei di getto: quello era tutto
ciò che voleva, farlo aprire, farsi dire cosa non quadrava, i suoi problemi, le
sue preoccupazioni, le sue angosce. Sherlock non abbassava lo sguardo e lei lo
sostenne con forza.
“Molly…” la sua voce, in compenso, si era affievolita. “Penso
che presto morirò.”
Il mondo si fermò, così come il cuore martellante della donna: morire? Sherlock Holmes non poteva
morire, non doveva morire… come faceva a dire una cosa tanto sciocca, tanto
esagerata, tanto… perché proprio quello? Lo guardò confusa e spaventata, ma non
chiese spiegazioni: se avesse voluto, gliele avrebbe date lui di sua spontanea
volontà.
“Di cosa hai bisogno?” Sherlock
avanzò lentamente, arrivando a un metro da lei.
“Se non fossi quello che tu pensi
io sia,” mormorò. “tutto quello che io penso di essere… vorresti ancora
aiutarmi?” Molly aveva letto i giornali e sapeva quello che si diceva in giro,
ma non credeva a una sola parola: credeva in lui, aveva fiducia in lui e lo
avrebbe fatto per sempre.
“Di cosa hai bisogno?” chiese
ancora. Erano a pochi centimetri l’uno dall’altro: Molly poteva sentire il suo
calore, il suo profumo, le sue paure…
“Di te.”
Per lui avrebbe fatto qualsiasi
cosa.
E così Molly Hooper fece: gli
diede tutto quello che poteva dargli, tutto quello che lui le chiedeva. Agì per
lui, mentì per lui…
Adoro
il personaggio di Molly Hooper e spero sempre in qualcosa di buono tra
lei e Sherlock, anche se dubito avendo letto i libri di Doyle e vedendo
come vanno le cose nella serie. Beh, si può sempre immaginare!
:D Soprattutto dopo l'ultimo episodio della seconda stagione!!!
ç____ç
A voi la scelta su come interpretare le ultime righe :D
Spero vi sia piaciuta: ho fatto del mio meglio per rendere la figura di Molly ^^
Ogni commento è bene accetto, come sempre!!
Monipotty
|