Oceani_7
ATTO
VII: ST.
GEORGE’S,
PIAZZA CITTADINA › MAR DEI
CARAIBI, 1768
SCOURGE OF THE SEVEN SEAS [1]
Giungere sulla terra ferma mi era parso
come un sogno.
Dopo tutto quel tempo passato in mare, e con le
scorte di
cibo ormai ridotte all’osso, l’unica cosa che
riuscivo a pensare era il poter
rifornire la stiva. La testa mi doleva ancora a causa di tutto il
liquore che
mi ero scolato, ma gli effetti della sbronza erano fortunatamente
scomparsi. Di
quel che avevo fatto o detto non ricordavo assolutamente nulla, ma
l’espressione di Gale mi aveva fatto capire che qualsiasi
cosa fosse stata non
gli era per piaciuta per niente. Chi sembrava rilassato e tranquillo,
invece,
era Patrick. Con il sorriso sulle labbra e quell’aria
divertita dipinta in
viso, si guardava intorno assorto e meravigliato, assimilando ogni
dettaglio
della nuova città in cui ci eravamo ritrovati.
Dal canto mio, invece, quello era
uno scenario già visto e rivisto, forse perché
per me ogni città appariva
uguale alla precedente. Ognuna di esse rappresentava semplicemente un
luogo
dove poter rifornire la nave, nient’altro, e non avevo dunque
bisogno di
ricordare con l’esattezza ogni minimo particolare.
«Cerchiamo di passare il
più
inosservati possibile», disse d’un tratto Gale, e
gettandogli una rapida
occhiata lo vidi guardarsi intorno con fare guardingo, quasi stesse
controllando i dintorni. Si era persino liberato di quel suo ridicolo
cappello
piumato, lasciando che qualche ciuffo di capelli castani ricadesse a
nascondergli parzialmente gli occhi.
Mi passai una mano sulla testa,
scompigliandomi la zazzera bionda. «Siamo ricercati, non
credo sarà così facile»,
gli tenni presente, e, per quanto il fatto che avessi ragione gli desse
fastidio, si ritrovò ad annuire. «Vediamo di
comprare l’essenziale e di
svignarcela».
In risposta ricevetti solo qualche
vago suono d’assenso prima che cominciassimo ad incamminarci
nel centro della
città, dove le strade pullulavano di mercanti che
strillavano a destra e a
manca, nel tentativo di richiamare le persone che passeggiavano fra
quelle vie.
Ovunque si guardasse c’erano mercanzie d’ogni tipo,
esattamente come a Porto
Rico, ma non ci feci caso poi più di tanto,
poiché la cosa mi interessava
relativamente poco.
Ciò che catturò la
mia attenzione
fu invece un gruppetto di donne che guardava con aria assorta una di
quelle
bancarelle trasandate, ridacchiando fra loro per motivi astrusi. Una di
esse
intercettò il mio sguardo e mi sorrise, scostandosi i
capelli rossi dal viso
per ravvivarseli dietro alle orecchie in un gesto invitante e
provocatorio,
giacché nel farlo aveva scoperto una buona porzione di pelle
all’altezza del
seno.
La salutai con un gesto della mano
e ricambiai il sorriso, ricevendo subito dopo una gomitata nelle
costole. «Ricorda
l’avvertimento che ti ho fatto a Porto Rico, Cid»,
disse Gale con voce
divertita, ma si vedeva lontano un miglio che in realtà non
stava affatto
scherzando. L’avrebbe fatto sul serio, ed era dunque meglio
non dargli nessun
incentivo per fargli mettere in atto quella minaccia.
Fu quindi con un certo dispiacere
che mi costrinsi a distogliere lo sguardo, vedendo però
Patrick gettare
un’occhiata in direzione della combriccola e soffermarsi
soprattutto sulla
bionda. Quel moccioso aveva decisamente capito tutto della vita.
La giornata cominciò a farsi
uggiosa mano a mano che le ore passavano.
L’umidità nell’aria era diventata
intensa, quasi pesante, molto simile ad una gelida coperta che si
posava
lievemente sulla pelle; le persone che avevano affollato avevano
cominciato a
disperdersi a poco a poco, urtando l’una contro
l’altra per raggiungere in
fretta le proprie abitazioni. Le nuvole sopra di noi erano cariche di
pioggia,
e avrei scommesso che, se non subito, avrebbero sicuramente riversato
sulle
nostre teste tutta l’acqua che trasportavano.
Forse era soltanto una mia
impressione, ma quell’improvvisa precipitazione non mi
piaceva per niente.
Sapevo che il tempo, in quel periodo dell’anno, era
instabile, ma avevo come
l’impressione che ci fosse sotto qualcos’altro.
Scossi il capo, cercando di
allontanare da me quegli stupidi pensieri. Tutto ciò che era
successo mi aveva
rimescolato il cervello, non c’era altra spiegazione.
Superammo una taverna già
chiusa
nonostante l’ora, e ci dirigemmo verso la piazza cittadina,
convinti che
avremmo così trovato altre locande per rifocillarsi e un
negozio per alimentare
le scorte della stiva. Avevo anche la ferma intenzione di comprare da
bere, ma
mi sarei ben guardato dal tracannare un barilotto intero di liquore,
stavolta.
Quando la raggiungemmo, trovammo la
piazza quasi completamente vuota, e la cosa mi apparve quanto meno
strana. Per
quanto il tempo promettesse pioggia, essa non era ancora caduta ad
abbattersi
sulla città, dunque non vedevo il motivo di quello
sfollamento. Giusto qualche
madre indaffarata si intratteneva ancora in essa, tirandosi dietro i
figli. Un
bambino di circa tre anni dai vivaci capelli rossi ci venne in contro
e,
regalandoci una linguaccia, ci sorpassò come se nulla fosse,
lasciando dietro
di sé la genitrice che lo richiamava e lo inseguiva. La
donna corse verso di
noi, ma non si degnò di gettarci neanche
un’occhiata, pensando probabilmente che
fosse più saggio non immischiarsi; raggiunto il figlio lo
riacciuffò in fretta
e lo trascinò via, ignorando i suoi piagnistei per aumentare
soltanto il passo.
Non ci volle molto prima che la
piazza fosse del tutto sgombra, e fu sbuffando che Gale ci fece cenno
di
seguirlo in direzione delle stradine laterali, più che
intenzionato a sbrigare
le nostre faccende ed andarcene. E, beh, su quel punto ero
perfettamente
d’accordo con lui. Non avevamo tempo da perdere, e finalmente
quell’idiota
l’aveva capito.
Fu nello svoltare l’angolo che
sentii correre un brivido lungo la schiena, poi un fruscio e un veloce
suono di
passi. «Credevate di potermi sfuggire, pirati?»
Mi
si gelò il sangue nelle vene
nel capire a chi appartenesse quella voce. Mi voltai nella direzione da
cui
proveniva quasi a rallentatore, aprendo la bocca senza che da essa
uscisse
alcun suono. Il Commodoro Waine, per quanto apparisse deperito e
pallido in
viso, era esattamente a pochi metri di distanza da noi, con il volto
stravolto
da una tale soddisfazione che mi ricordò un falco che aveva
appena adocchiato
la sua cena. Come poteva essere possibile che fosse ancora vivo?
Sgranai gli occhi quando lo vidi
puntare la pistola verso Gale, e non ci pensai due volte: mi parai
dinanzi a
lui a braccia spalancate, sentendo un dolore lancinante bruciare al
fianco
destro. Mi accasciai su me stesso, sentendo nelle orecchie le grida di
Patrick
e i suoi passi veloci; un altro colpo di pistola risuonò
nell’aria, e non ci
misi molto a rendermi conto che era stato proprio Gale a sparare verso
il
Commodoro.
«Dannazione!»
imprecò,
facendo
fuoco ancora una volta. Premendomi una mano sul fianco mi rialzai
faticosamente
in piedi, vedendo il Commodoro armeggiare con la propria arma; sembrava
che la
pistola gli si fosse inceppata, ma anche Gale non se la passava meglio.
Pronto a lanciarsi contro
l’ufficiale munito solo d’arma bianca, mi frapposi
nuovamente davanti a lui e
drizzai la schiena, ansimando. «Vattene, Gale»,
soffiai a bassa voce,
osservando ogni minimo movimento del Commodoro. Aveva estratto a sua
volta la
spada e, sebbene faticasse a respirare, appariva più che
determinato a non
farsi scappare l’occasione di ammazzarci.
«Non ti lascio qui,
idiota»,
sbottò, ma nel vedere con la coda dell’occhio il
viso stralunato di Patrick,
che se ne stava in disparte per non restare coinvolto, non ci pensai
due volte;
afferrai Gale per il colletto del giaccone e lo allontanai di malo
modo,
ignorando le sue imprecazioni per sguainare la mia spada.
«Che diavolo stai aspettando,
Gale?» dissi poi. «Porta via il ragazzo!»
gli urlai contro, lo sguardo puntato
ostinatamente sull’avversario che avevo dinanzi. Sapevo che
se avessi distolto gli
occhi anche solo per un secondo sarebbe stato tutto perduto.
Con la coda dell’occhio, vidi
il
suo viso trasfigurarsi in una smorfia, ma fu socchiudendo gli occhi che
imprecò
a denti stretti e afferrò Patrick per un braccio,
lanciandomi un grido
d’avvertimento che, nonostante tutto, mi fece abbozzare un
sorriso sarcastico.
Quell’idiota. Era in pericolo quanto me e si preoccupava
delle mie condizioni.
Deglutii sonoramente, aggrottando
la fronte con la mia arma in pugno. «E ora a noi,
Commodoro».
Intorno a me avevo notato che il
silenzio era diventato così fitto da apparire quasi irreale,
dovuto anche all’aria
satura di pioggia che ci circondava. Non avevo ancora mosso un solo
muscolo,
troppo impegnato a tener d’occhio il mio avversario e a
concentrarmi sui passi
sempre più rapidi di Gale e Patrick, nella speranza che si
allontanassero il
più in fretta possibile da quel luogo.
Puntavo la lama della spada verso
il Commodoro, che brandiva a sua volta un’arma bianca di
notevoli dimensioni.
Aveva il respiro pesante e sembrava stare in piedi a malapena, ma
neanch’io ero
messo meglio: la ferita al fianco che mi ero procurato per proteggere
Patrick e
Gale mi doleva in modo pazzesco, e a causa della gran
quantità di sangue che
avevo perso la mia vista era sfocata. Ma non mi sarei mai fatto battere
da quel
marinaretto da quattro soldi, non con tutta l’esperienza che
mi portavo dietro.
Prima di conoscere Gale non mi era mai capitato di imbarcarmi in
un’avventura
del genere, e l’avrei vissuta fino all’ultima
goccia prima del raggiungimento
della nostra meta. Il momento era ormai giunto, e io non avevo il
potere di
rimandarlo ancora per molto.
Trassi un lungo respiro e, sebbene
sentissi il furente pulsare del sangue nelle orecchie e il respiro
affannoso e
irregolare, alzai il braccio con cui reggevo la spada quel tanto che
bastava
per portarmi la lama piatta dinanzi al viso, incurvando un
po’ la schiena e
allargando le gambe, così da mettermi in posizione
d’attacco. Il Commodoro,
seppur con movimenti più lenti, gettò via la
propria pistola e mi imitò,
squadrandomi con aria battagliera. Anche da quella distanza potevo
leggere nei
suoi occhi l’ira e la sfrontatezza, quasi avesse la certezza
di uscire
vittorioso da quel nostro scontro. Beh, si sbagliava di grosso. Non gli
avrei
permesso di fare più un passo, anche a costo di ammazzarci a
vicenda.
Prima ancora che potessi rendermene
pienamente conto, però, mi fu addosso con una
velocità sorprendente, compiendo
un affondo nel tentativo di trapassarmi lo stomaco; riuscii a fermare
quel
colpo appena in tempo con la mia spada, e il cozzare delle due lame
risuonò
nell’aria come un sinistro tintinnio. Ci guardammo per un
istante prima di
scattare all’indietro nello stesso momento, sforzando
l’aria con colpi che si
susseguivano ad intervalli sempre più irregolari; con un
grido rabbioso mi
gettai contro di lui e lo costrinsi a scartare di lato, venendo subito
contrattaccato prima di riuscire a colpirlo, anche se di striscio, alla
guancia.
Il viso del Commodoro si trasfigurò in una maschera iraconda
e, con il sangue
che cominciava a stillare dalla ferita, sporcandogli la pelle, mi
colpì con il
dorso della spada sulla schiena, facendomi barcollare; indietreggiai di
qualche
passo per cercare di ristabilire le distanze iniziali, ma il Commodoro
mi venne
dietro e, con una rapida scoccata, mi ferì al braccio, poco
al di sotto del
punto in cui settimane prima mi aveva centrato con la pistola. Sibilai
dal
dolore, e mi sarei anche portato una mano alla ferita se non fossi
stato
costretto a scartare velocemente di lato per evitare un altro affondo.
Parai la lama che mirava al mio
cuore con rapidità e scioltezza, ma ormai avevo come la
netta sensazione che
ciò non bastasse. L’acciaio delle lame
cozzò ancora una volta, sprizzando
scintille; l’umidità nell’aria sembrava
appesantire i nostri vestiti e impedire
i nostri movimenti, o forse era soltanto un’illusione
provocata dalla
stanchezza che dilaniava i nostri corpi.
Flettendo le gambe provai a
colpire il Commodoro ad un fianco, ma lui, ruotando il polso con cui
sorreggeva
la spada, parò facilmente il colpo e
contrattaccò, piroettando di lato prima di
piegare le ginocchia; non ebbi il tempo di rendermi conto delle mie
intenzioni
che sentii un dolore acuto alla coscia destra, cadendo riverso di
schiena
quando venni spinto in terra dal mio avversario.
Tentai di rimettermi in piedi il
più in fretta possibile, ma prima ancora che potessi farlo
una manciata di
terriccio mi accecò, costringendomi a strofinarmi
furentemente gli occhi nel
tentativo di vedere; le sagome intorno a me apparivano sfocate, e
dovetti
sbattere violentemente le palpebre per cercare di riacquistare la
vista. Non
riuscii a capire immediatamente cosa fosse ciò che mi si
stava avvicinando a
velocità sorprendente che un peso mi si poggiò
sul petto, mozzandomi il
respiro; con la coda dell’occhio catturai la fugace e
distorta visione di una
lama che veniva infilata nel terreno, tra l’altro molto
vicino alla mia faccia,
prima che il Commodoro piantasse lo stivale in mezzo alle mie costole,
togliendomi quel poco fiato che mi era rimasto nei polmoni.
«Sei stato un osso
duro, pirata», sussurrò ansimante, e attraverso le
palpebre socchiuse potei
vederlo sorridere con fosca soddisfazione, «ed è
per questo che ti renderò
onore infliggendoti immediatamente il colpo di grazia. Un vero peccato
che in
questo modo la tua taglia sarà dimezzata, ma ci
penserà quella del tuo
amichetto a compensare il vuoto».
Boccheggiai, afferrandogli la
caviglia prima di stringere la presa intorno alla mia spada; provai ad
alzare
il braccio il più velocemente possibile, ma il Commodoro
parve intuire le mie
intenzioni e si allontanò compiendo un salto
all’indietro, stupendomi. In vita
mia non avevo mai visto tale abilità, e la cosa, seppur si
trattasse di un
nemico, riuscì a sorprendermi positivamente. «Sei
più tenace di quel che
credessi, pirata», disse con fare vagamente divertito,
puntando la lama contro
di me. «Ma questi giochetti non funzionano con il
sottoscritto».
«Va’
all’inferno!»
biascicai,
poggiando una mano a terra per rimettermi in piedi, ma nel momento
esatto in
cui ci provai il Commodoro ritornò all’attacco,
approfittando della debolezza
che stavo dimostrando. Riuscii a rotolare via per un soffio, sentendo
il tonfo
sordo della lama nel punto in cui pochi istanti prima mi ero trovato
io; alzai
la mia arma per fronteggiare il Commodoro da quella posizione,
indietreggiando
ogni qual volta mi era concesso. Più tentavo di scappare
più gli affondi
divenivano rapidi e precisi, e non ebbi più via di scampo
quando la mia schiena
andò a sbattere contro un muro.
Alzai lo sguardo per puntarlo sul
viso del Commodoro, scorgendo nei suoi occhi il mio riflesso. Apparivo
teso e
stralunato come non lo ero mai stato, e la cosa mi spaventava. Io, che
avevo
sempre avuto il controllo sul mondo che mi circondava e sulle mie
azioni, mi
sentivo adesso come un bambino sperduto... era impensabile. Non mi
sarei però
arreso, avrei combattuto fino alla fine senza risparmiare un solo
colpo. E fu
proprio a quei pensieri che tentai ancora una volta di colpire il mio
avversario, mirando dritto al cuore; ebbi appena il tempo di vedere la
sua
espressione confusa prima che con un movimento fulmineo della sua spada
intercettasse la mia e la scansasse, facendomi
allentare la presa.
Fu con orrore che la vidi roteare
in aria prima che si piantasse a terra, esattamente a pochi metri di
distanza
da me. Inerme e disarmato, con il sangue che già cominciava
a coagularsi
intorno alle mie ferite, l’unica cosa che riuscii a fare fu
stringere forte le
palpebre e serrare le labbra nel tentativo di bloccarlo a mani nude,
prima che
la lama del Commodoro mi si conficcasse nelle carni, riducendo il mio
mondo ad
una macchia di sangue.
L’ultima cosa che sentii fu
«Ci
sono già stato all’inferno», poi...
più niente.
[1] Letteralmente
significa “Flagello dei sette
mari”.
Rappresenta un pirata
noto per la sua natura estremamente violenta e brutale.
La scelta del titolo
sarà chiara mano a mano che si procederà con la
lettura del capitolo, o almeno
questa è l’intenzione.
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Farai felici milioni di
scrittori.
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