Nello specchio, si annodava la cravatta.
Ne aveva scelta una di una seta blu scuro, morbida sotto le
dita, che si illuminava in elegante contrasto con la camicia bianca, anonima, e
il completo grigio perla che metteva spesso. Un buon compromesso. Non troppo
ricercato, perché non sembrasse che si preoccupava più del dovuto di quel che
aveva addosso quando erano in un momento così intricato del caso di Kira, ma con
quel tocco in più che lo rendeva… lui.
Lui.
Yagami Raito, ventitrè anni.
Fece scorrere il nodo, passò un dito nel colletto. Alzò lo
sguardo a controllare l’effetto, e improvvisamente i suoi occhi furono catturati
da altri occhi, i suoi stessi riflessi nello specchio. Lasciò scivolare uno
sguardo di distratta soddisfazione sul taglio obliquo e fine delle palpebre, le
ciocche sulla fronte, la muscolatura appena intuibile sotto la camicia,
sull’immagine della sua bellezza che contemplava se stessa nello specchio. Fu
solo questione di un attimo, non avrebbe dedicato di più al suo aspetto. Sapeva
perfettamente di essere attraente, e probabilmente, sì, doveva essere grato di
aver ricevuto in dono, oltre ad una mente ben al di sopra della media, un fisico
assolutamente adeguato. Ma la cosa finiva lì. La sua bellezza era solo uno
strumento in più, e solo in funzione di questo se ne curava, come un assassino
deve tenere sempre pulita e perfettamente oliata l’arma dei suoi delitti.
Sollevò una mano per ravviarsi i capelli, e senza nessun
motivo particolare la sua mente fu attraversata da un ricordo. Lo stesso suo
gesto, riflesso in uno specchio… e dietro le sue spalle, quella figura un po’
storta e dall’aria stralunata che lo osservava, con l’immancabile dito in bocca…
L.
Doveva trattarsi di quel periodo in cui il detective aveva
voluto tenersi ammanettato con lui ventiquattr’ore su ventiquattro, per
controllarlo. Che idiozia… A pensarci adesso, il ricordo appariva sfocato, poco
chiaro, ma non tanto per la lontananza nel tempo. Era come fosse una memoria
appartenente ad un’altra persona.
E in un certo senso, era così.
Quel Raito dai ricordi parziali, senza consapevolezza, senza
il potere di Kira, non poteva dirsi lui.
Yagami Raito non esisteva senza il Death Note.
Gli pareva ancora di poter vedere, in quello specchio, gli
occhi assurdamente spalancati di Ryuuzaki, le spalle cascanti, la sua solita
maglietta bianca.
"Raito-kun… sei ancora lì a
pettinarti?"
“Ogni tanto dovresti provarci
anche tu, sai, Ryuuzaki?”
Non riusciva a richiamare alla mente il sorriso che doveva
aver rivolto al detective, ma ricordava bene la faccia imbambolata dell’altro,
la mano che saliva tra i capelli già scompigliati all’inverosimile.
“Tu dici?...”
Quell’espressione… ancora dietro le sue spalle, nel suo
specchio…
Ma no. Il riflesso mostrava soltanto, nell’angolo, il suo
letto disfatto, e tra le lenzuola, distesa bocconi, la figura di Misa, il biondo
dei capelli sparso sul cuscino.
Aveva fatto piano apposta mentre si vestiva per non
svegliarla, per potersene andare di là a lavorare in pace, senza spiegazioni da
dare e smancerie per il buongiorno da ricevere.
Si voltò a guardarla; sì, dormiva ancora. Tra i capelli
tinti si scorgeva lo scintillio di qualcuno dei suoi orecchini stravaganti, e
aveva ancora addosso la sottoveste di pizzo nero che non si era curato di
toglierle quando la sera prima aveva fatto l’amore con lei.
Matsuda-san e probabilmente anche gli altri suoi uomini
avrebbero fatto carte false per vedere Misa così, il visetto da angelo
addormentato, le gambe lasciate scoperte dalla sottoveste cortissima, così
carina, così provocante…
Così inutile.
Sì, era carina, non c’era niente da obiettare. E poi? E poi…
non c’era niente.
Pensò per un attimo a Takada-san. Anche lei… quanti giornali
pubblicavano le sue foto tutti i giorni, quanti settimanali scandalistici
osannavano la sua bellezza, quante lettere di fans riceveva? Pensò al pomeriggio
di ieri, quando era dovuto stare con lei, rivide le sue unghie laccate, i gesti
accurati nel riassettarsi i vestiti, nel rifarsi il trucco, la rivide sistemarsi
un bracciale e controllare la pettinatura nello specchietto del portacipria.
E in quest’altro specchio, il fascino disordinato e
capriccioso di Misa.
Non gli importava niente di nessuna delle due.
E, se ci pensava fino in fondo, non gli importava niente di
nessuno.
Quella era la chiave.
Lui sapeva guardare il mondo con occhi distaccati, freddi,
più freddi di quelli degli Shinigami. Non aveva alcun sentimento che gli
offuscasse la vista, che guidasse i suoi pensieri e le sue azioni, aveva solo se
stesso con cui confrontarsi.
Come adesso, che era solo con la perfezione della sua
immagine sul vetro.
Sorrise.
Non poteva fare a meno di irritarsi per le stupidaggini di
Misa, per la gelosia e l’aria da primadonna di Kiyomi, oppure per gli entusiasmi
di Matsuda-san, così come in passato gli avevano dato sui nervi tutte le
assurdità di Ryuuzaki e la cieca rigidità di suo padre. Ma aveva sempre saputo
passare sopra a tutto questo, senza troppo sforzo. Sapeva osservare le persone
con obiettività, senza che la sua visuale venisse deformata da qualsiasi
affetto, né tremasse sotto il calore dell’odio o della semplice insofferenza.
Sorrideva ancora, immobile.
Perché era in grado di studiare il mondo con gli occhi di
una macchina perfetta, ma in tutte le finezze che solo gli esseri umani possono
possedere. Per questo aveva la padronanza di sfruttare ciascuna delle persone
che aveva intorno, individuando le loro capacità e gli aspetti per cui potevano
essere utili, soppesando ogni cosa su una bilancia assoluta.
Divina.
E così, era capace di impiegare e rivolgere a suo favore la
prontezza di mente di Takada-san e la lealtà di Matsuda, allo stesso modo in cui
teneva in conto che Misa non era poi una stupida e alcune volte poteva
addirittura trovare piacevole qualcuno dei suoi gesti d’affetto. Così come aveva
apprezzato l’integrità, il coraggio di suo padre, e anche l’intelligenza
sfrenata di L, che era stata all’altezza della sua.
Quasi
all’altezza della sua.
Perché, alla fine, L aveva perso.
Il sorriso di Raito si fece più largo, raggiunse lo
scintillio obliquo delle sue iridi.
Sorrideva al volto inerte del detective che gli sembrava di
vedere ancora alle sue spalle nello specchio, con quegli occhi perennemente
smarriti che lui aveva visto vuoti di sguardo e di vita e poi chiusi per sempre.
Sorrideva a quell’espressione stranita capace di tirare fuori conclusioni
geniali nei momenti più inaspettati, a quell’insignificante, trascurabile
ossessione che rimaneva sullo sfondo, stampata nel vetro.
Lui era stato il suo nemico. Lui e nessun altro.
L.
Adesso, L era ancora in gioco, sotto altri nomi e altre
sembianze. Un ragazzino dall’altra parte di un computer, con la stessa acutezza
del suo predecessore, e un altro da poco uscito dall’adolescenza, imprevedibile
come solo Ryuuzaki sapeva esserlo.
La lotta con L continuava. Sin dall’inizio, tutta la storia
era stata un confronto tra lui e L.
Eppure…
Quando guardava gli unici ritratti in loro possesso dei suoi
due oppositori, poche linee che fermavano i volti ma nessuno sguardo, sentiva
l’adrenalina salire, e ognuno di quei tratti incidersi a fuoco nei suoi
pensieri, per poi incendiarsi nella fiamma della sfida. Venite a prendermi.
Eppure…
Eppure quando pensava “L”, la prima immagine che gli veniva
alla mente era sempre quella dello strano detective seduto in pose improbabili,
con le solite occhiaie e qualche dolce da sgranocchiare sottomano. Era quello,
il suo nemico.
Forse perché allora il duello era stato anche qualcosa di
immediato, di fisico. Nascondere i pensieri, le soddisfazioni e le imprecazioni,
fingere in ogni istante. Il serial killer e l’investigatore che lavoravano
fianco a fianco. Era un’idea troppo elettrizzante, una situazione che richiedeva
ogni briciolo delle sue capacità e metteva alla prova al grado più estremo il
suo ingegno. Era quello che voleva.
Adesso, invece, la partita si giocava sul filo del rasoio,
nel sospetto, aumentavano a dismisura le variabili tra cui lui si doveva
districare. Questo lo esaltava. Ma il non vedere il suo nemico, il confrontarsi
soltanto dietro gli schermi di computer, dall’altra parte della Terra, senza
poter spiare le reazioni l’uno dell’altro, senza il fiato sul collo in senso
vero e proprio… Sì, era più sicuro, forse in qualche modo anche più semplice.
Ma…
Di Ryuuzaki conosceva tutti gli strambi modi di fare e la
precisa sensazione del suo sguardo addosso, poteva sentire la sua voce
quando esponeva le sue congetture o colpiva nei punti giusti, conosceva
l’intonazione delle parole, i suoi gesti. Poteva ripercorrerli uno ad uno, e in
qualche modo indovinare le sue seppur imprevedibili contromosse.
Adesso, lottava con fantasmi, fantasma lui stesso. Non
riusciva ad immaginare il volto dall’altra parte del computer, i lampi di quello
sguardo, il guizzo dei pensieri. Adesso, era libero di sogghignare beffardo
quando tutto andava secondo i suoi piani, ma forse aveva provato più
soddisfazione nel sorridere dentro di sé, nell’unico posto solo suo che nessuna
telecamera avrebbe mai potuto spiare.
Nello specchio, non poteva vedere i volti di Near e di
Mello, ma solo quello di Ryuuzaki.
E Ryuuzaki era morto.
Kira aveva vinto.
Ed era per salire al vertice della sua vittoria che avrebbe
sconfitto i due ragazzini. Sarebbe giunto al colmo del suo bicchiere d’ambrosia,
per sorseggiarlo lentamente, in tutta l’eternità di un mondo perfetto, da lui
plasmato, di cui lui era l’unica, assoluta divinità.
Una divinità dagli occhi di uomo, affacciati sul mondo
mortale nella luce del sole e nell’ordinario prodigio di uno specchio.
E andava bene così.
Perché se non poteva vedere i suoi avversari, allora
significava che anche lui era inafferrabile come loro, e si sarebbe servito di
quello specchio che non gli rivelava alcuna verità per riprodurre e deformare la
sua stessa immagine, nascondersi negli angoli ciechi delle successioni di piani
lucidi, capovolgersi, apparire per poi scivolare via di nuovo, nell’ingannevole
gioco dei riflessi.
Era quello che aveva sempre fatto. Riflettere, speculare.
Non c’era stato momento della sua vita che fosse stato vuoto di pensieri, ma
tutto era stato disegno su disegno, attacco, parata e contrattacco, un assedio
infinito a un castello di illusioni.
Aveva moltiplicato se stesso in inesauribili prospettive. Lo
studente modello, il figlio devoto, il ragazzo-prodigio, il sospettato numero
uno per il caso di Kira, l’innocente, il fidanzato di Misa, l’amico di L, L
stesso, il capo dell’indagine, il dio di un mondo nuovo. E ogni volta giocava
con quella al momento più adatta, indossando l’identità che ogni suo diverso
interlocutore si aspettava di vedere, così come chi si avvicina ad uno specchio
sa già quale volto incontrerà nel vetro.
E dietro i mille riflessi di cui tirava i fili, c’era il suo
vero io.
C’era Kira.
E c’era un frammento di Kira in ognuno di quei differenti
riflessi.
Per questo tutti lo cercavano senza trovarlo pur avendolo
sotto gli occhi, perché sbattevano l’uno contro l’altro traditi e delusi dal
gioco di rifrazioni. Si fidavano troppo della realtà, non sapendo di trovarsi
dentro ad un immenso caleidoscopio, nell’imponderabile effetto di centomila
angolature divergenti.
Per questo…
Avrebbe vinto lui.
Yagami Raito osservò la sua figura dare l’ultimo tocco alla
cravatta e infilare la giacca, con i gesti solenni e impassibili di un cavaliere
che indossi l’armatura per il giorno della battaglia.
Lontano, nelle stanze vuote, squillò il campanello.
Era Aizawa-san che si presentava per primo al lavoro,
probabilmente insonne dopo una notte di sospetti, ed ecco, Misa si era
svegliata, ora lo chiamava con la voce ancora addormentata e lui sarebbe dovuto
passare a darle un saluto frettoloso, e poi sarebbero arrivati Mogi-san con
qualcosa per la colazione, e Matsuda-san e il suo sorriso che chiedevano di
Misa.
Iniziava un altro giorno, con la sua ordinaria routine.
Un altro giorno della battaglia.
Superò il letto, si districò dalle mani della ragazza che si
erano aggrappate alla sua giacca, aprì la porta e uscì.
Lo specchio, adesso, non mostrava più nulla.
Lo specchio non poteva riflettere la figura dello Shinigami
che, con passo tranquillo, attraversava la porta per seguire, come sempre,
Yagami Raito.
[Le varie riflessioni (^__^) di questa “storia” sono quelle
che mi sono sempre girate nella testa durante e dopo la lettura di “Death Note”,
ma l’idea di inserirle tutte insieme in un’unica cornice, quella dello specchio,
mi è venuta principalmente in questi giorni che ho riletto “Se una notte
d’inverno un viaggiatore” di I.Calvino –in cui, vi ricorderete, uno dei dieci
racconti inseriti nella trama, “In una rete di linee che s’intersecano”,
è proprio il romanzo geometrico degli specchi.
Poi, che altro c’è da dire… poco o niente. Spero che vi
troverete d’accordo con le mie valutazioni, ma se così non fosse, una bella
discussione su “DN” è sempre la benvenuta!!
Considero i
numerosi accenni al grande L una parte importante di questa fic perché in vari punti della parte
più avanzata della trama mi sembra che Raito abbia la tendenza a continuare a pensare
a Ryuuzaki, quasi considerasse lui il suo nemico per eccellenza (e così
sottovaluta, in un certo senso, Near…). Oddio, ora mi auguro che gli amanti
dello shonen-ai non interpretino la cosa a modo loro! Allora lo dico
chiaramente: NON FRAINTENDETE!! La coppia Raito-L mi fa veramente andare su
tutte le furie, quindi…
Vi ringrazio moltissimo di
avere letto -anche perchè questa è una delle poche fic a cui tengo davvero.
Shu]
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