Libertà
“I – fast Wind
driving
the Sky dressed of Storms,
sad for Summer's over,
play
with Winter weakly,
saying: 'I want the Sun'
but
still it's not Spring yet”
Giugno
1814
~Mary~
Ah,
la libertà. Ah, l'amore.
Appena
Mary era tornata dalla Scozia, mesi prima, tutti i suoi conoscenti,
amici e familiari – suo padre per primo – avevano notato
in lei qualcosa di squisitamente nuovo.
Era
stata per quasi due anni lontana da casa, ma le sembrava che
un'intera vita fosse passata quando, al suo ritorno, ritrovò
il familiare paesaggio dell'Inghilterra londinese. Un verde nebbioso
aveva accompagnato la sua traversata delle campagne, che aveva poi
lasciato il posto alla sola nebbia una volta entrata in città.
Come poteva quel luogo tetro far parte dello stesso mondo di ciò
che aveva visto in Scozia?
La
casa nella quale era stata ospitata dominava un paesaggio di montagne
– un magnifico paesaggio di montagne – ed era
dotata di una ponderata moltitudine di finestre. Perfino nella sua
stanza c'era un'enorme finestra che guardava a nord. Da lì
aveva potuto cibarsi giorno per giorno di quell'immensità
rocciosa, ma, più di tutto, aveva potuto fare la sua scoperta
più importante: aveva scoperto se stessa. Perché il
mondo non era solamente quella brutta città di Londra, e
nemmeno la più graziosa e anonima delle campagne inglesi. Il
mondo è di più! Il mondo è vento, cielo e
montagne, è mare e fuoco, è vita, dalla sua più
piccola manifestazione d'insetto alla più vasta potenza
marina. E lei si era accorta di far parte di quel mondo terribilmente
immenso e maestoso e aveva pensato alle immani forze che lo
governano. Lei, pur essendo un nulla, al pari di tutti gli esseri
umani, sapeva di poter comunque agire ed essere se stessa in mezzo a
tutto questo. Poteva essere di più della figlia del filosofo
William Godwin.
Aveva
scoperto la libertà. Aveva scoperto la vita.
Naturalmente
queste erano tutte cose che la sua odiosa matrigna non avrebbe mai
potuto capire. Per Mary era inconcepibile che suo padre avesse
sposato una donna così mediocre.
Per
Mrs Clairmont, che da quando aveva sposato suo padre si era messa in
testa di poter decidere di lei, la ormai diciassettenne Mary non
avrebbe mai dovuto interessasi agli affari del padre e al suo circolo
di intellettuali. Secondo Mrs Clairmont, una diciassettenne doveva
essere una perfetta donna di casa, pronta da anni a sposarsi ed in
grado di portare avanti una famiglia nel migliore dei modi. Per
questo, da quando Mary l'aveva conosciuta in giovanissima età,
la matrigna aveva tentato di correggerla, quasi che fosse una
ragazzina sbagliata.. Ora, dopo quei due anni di Scozia,
periodo che lei stessa definiva “un risveglio”, aveva
capito che tutti i suoi scherzi e giochi infantili, la sua
insofferenza alla rigida educazione della matrigna, erano tutt'altro
che sbagliati, erano un preludio a ciò che lei sarebbe potuta
diventare: un'anima libera.
Aveva
sempre trovato interessanti gli amici del padre, checché ne
dicesse Mrs Clairmont, e anzi spesso si intrufolava nel suo circolo
anche solo per fare un dispetto alla matrigna.
Si
ricordava molto bene la prima volta che si era trovata in una di
quelle riunioni. Si era nascosta da Mrs Clairmont che insisteva per
farle provare un qualche vestitino che lei aveva iniziato ad odiare
ancora prima di averlo visto. Aveva all'incirca nove anni. Entrando
in un passaggio della servitù, si era trovata ad aprire la
porta di servizio del grande studio di suo padre. Lui e gli altri
nemmeno si accorsero del suo ingresso, presi com'erano a dire quelle
parole che lei non riusciva a capire. Ma capiva che una fiamma
animava quelle parole. Alla fine dell'incontro, suo padre la trovò
raggomitolata su una sedia nell'angolo, che si era bevuta tutto
quello di cui avevano parlato.
Col
passare del tempo, le sue strategie di evasione dalla matrigna si
erano affinate, dandole modo di accedere spesso allo studio. Suo
padre, più che altro divertito dalla cosa, la lasciava fare,
mostrandosi indifferente alle lamentele di sua moglie. Una volta Mary
aveva perfino fatto credere alla matrigna di averla preceduta al
mercato; questa, uscendo in fretta e furia di casa, aveva passato
tutta la giornata a cercarla in giro per la città, senza
sapere che lei si trovava appollaiata su una sedia nello studio.
Ma
ora che si era risvegliata, sapeva che gli amici di suo padre erano
anch'essi individui liberi e coscienti della loro libertà. Per
questo, oltre a sentirsi in diritto di partecipare, Mary aveva
capito quanto importanti fossero quelle riunioni per la sua libertà.
Eppure,
il cambiamento che tutti avevano notato in lei non era niente in
confronto a quello che avvenne quando conobbe Percy Bisshe Shelley.
Mr
Shelley aveva cominciato a frequentare il circolo di suo padre mentre
lei era ancora in Scozia, o almeno questo era ciò che le
avrebbero raccontato alcuni amici di lui. In realtà era già
un personaggio avvolto da una fama piuttosto turbolenta e misteriosa.
Chi diceva che avesse un talento e una mente incredibili, chi pensava
che fosse un cialtrone e chi diceva di conoscere con certezza la
facilità con cui si indebitava. Mary sapeva di non dover dar
credito a quelle voci, perché egli non era ancora così
famoso perché fossero vere, né tuttavia tanto
sconosciuto che fossero completamente inventate. Ma tutte queste cose
di lui Mary le apprese dopo la prima riunione “dopo il
risveglio”.
Per
partecipare all'incontro di suo padre, Mary si era preparata la
migliore disposizione d'animo possibile, pronta ad assorbire come una
spugna qualunque cosa di cui si sarebbe discusso. Il signor Percy
Shelley le venne presentato come uno dei tanti amici di suo padre.
Così per lei lui rimase, come tanti altri, solo un nome
associato ad un volto. Almeno finché non lo sentì
parlare.
L'argomento
che proponeva quel giorno il padre di Mary era stato messo in luce da
un tale che aveva scritto su un certo giornale una critica piuttosto
pomposa di una proposta di legge di qualche giorno prima. La legge
veniva giudicata dal giornalista “un utopico tentativo di
raggiungere un altrettanto utopico ideale, tralasciando
deliberatamente gli interessi dell'Inghilterra ed esponendola al
ridicolo del resto dell'Europa specialmente dopo quanto accaduto
durante la rivoluzione francese e il delirio napoleonico”.
Ignorano
lo scarso uso della punteggiatura dell'autore dello stralcio, ciò
che William Godwin voleva mettere in evidenza era il concetto di
Utopia:
«Troppo
spesso si parla di Utopia senza rendersene conto e troppo spesso se
ne parla coscientemente senza conoscerla, finendo per trattarla con
il qualunquismo interessato di questo giornalista.»
Quando
ebbe terminato di parlare, ognuno si predispose alla discussione.
Mary tese le orecchie e guardò impaziente suo padre, che
sedeva come un anfitrione alla scrivania. Ci fu chi si sistemò
meglio sulla sedia, chi aprì un libro, chi si spinse gli
occhiali sul naso; ci fu anche chi ostentò la sua sicurezza
non facendo nulla. Shelley fu uno di quelli e Mary, che era decisa a
non lasciarsi sfuggire nulla, lo notò.
Qualcuno
iniziò a parlare:
«Utopia
è tutto ciò che è impossibile.»
«Non
basta» rispose qualcun altro «un'Utopia deve essere anche
la speranza di qualcosa di bello. Volare è impossibile, ma non
basta questo a farne un'Utopia. Volare è un desiderio, prima
di essere un'Utopia.»
«Il
desiderio di una cosa impossibile è un sogno» intervenne
un terzo «Thomas More coniò la parola Utopia con precisa
valenza politica e sociale, riferendosi alla città ideale.
Altrimenti non avrebbe dato il nome di Utopia alla suddetta città.»
«Dunque
qual è la differenza tra sogno e Utopia?» chiese Mr
Godwin.
«Già,
qual è la differenza?» disse Mr Shelley. «È
importante chiarirlo. Forse sono entrambe cose che non esistono? Non
credo. I sogni esistono eccome. Provate a chiederlo ad un bimbo in
preda ad un incubo o ad un'innamorata che sogna il suo amante.
Risponderanno che è solo un sogno, ma non negheranno mai che
sia esistito. E l'Utopia? Esiste anch'essa? E, se esiste, è
solo un sogno? Occorre qualche esempio. Prendiamo le
romantiche creature che ci consegna la nostra tradizione medievale.
Credo che nessuno di voi le definirebbe mai un'Utopia. Dunque sono un
sogno, ma un sogno divenuto arte, perché di loro non ci
interessa la verità oggettiva, ma ciò che possono
raccontarci. Eppure la fate non esistono. Nessun cavaliere ha mai
sconfitto un drago. Prendiamo invece un mondo giusto, privo di
violenza, ignoranza e povertà. Questa sì che può
essere un'Utopia. Quando mi dicono: “sì, certo, sarebbe
un bel mondo, ma non esisterà mai. Non sono tutti sognatori
come te” sbagliano. Io non sono un sognatore, sono un'utopista.
La differenza sta nel poter e nel non poter fare. Perché le
fate non esistono? La colpa è della natura, che non le ha
partorite insieme alle altre creature. Noi non abbiamo alcun potere
in questo. Ma perché non esiste un mondo giusto? Perché
l'uomo non ha la forza di crederci, non vuole crederci, e ritiene che
sia una cosa impossibile e irrealizzabile… un'Utopia. Ma
l'uomo può. Ha la facoltà di agire su se stesso e sul
mondo che si costruisce. L'uomo è capace di modificarsi. Per
questo, se l'uomo di applica in qualcosa di suo, ha la possibilità
di compiere quel qualcosa. Guardate dalla finestra: il mondo pieno di
portenti e forze grandiose che sta là fuori, noi lo
comprendiamo e ci emoziona. Se siamo capaci di questo siamo capaci
anche dell'Utopia. Per questo non credo che esista davvero l'Utopia,
perché essa è realizzabile.»
Con
un respiro Mary prese la parola: «Voi dunque, che vi siete
definito utopista, credete nell'Utopia, che sempre voi stesso avete
detto non esistere. Dunque credete in qualcosa che non esiste?»
«Esatto.
Ed è proprio qui che sta la poesia, Miss Godwin.»
«E
non vedete anche la poesia dei sogni, Mr Shelley? Non credete che le
creature dei boschi o il sentimento del volo non siano soltanto
desiderio e tradizione, ma contengano anche un ideale? E cosa c'è
di più ideale dell'Utopia?»
«Mi
trovate d'accordo. Poesia, certo. Arte. L'arte deve essere viva e un
cibo dell'arte sono gli ideali. Ma sono gli ideali a servire l'uomo,
Miss Godwin, o l'uomo a servire gli ideali?».
“È
brillante”. Questo era stato il suo primo giudizio su Shelley.
Ma, più lo aveva ascoltato, più si era resa conto che
quella era un'anima molto più libera di lei, molto più
libera di qualunque altra persona avesse mai conosciuto. Perfino di
suo padre. Fino a quel momento le consapevolezze alle quali Mary era
giunta in Scozia le erano sembrate immense come le montagne che aveva
visto. Aveva creduto di aver raggiunto una meta, ma si rese conto che
le sue consapevolezze lui non solo le aveva già raggiunte da
tempo, ma le aveva anche superate, demolite e ricostruite a suo
piacimento, diventando ciò che tutti gli riconoscevano: un
poeta.
Lei
si sentiva all'improvviso piccola piccola di fronte a quell'anima
nobile e gigantesca e si vergognava di essersi creduta grande anche
lei. Ma, contemporaneamente a quel sentimento, nacque nel suo animo
estasiato l'abitudine a ripensare a tutte le parole che uscivano
dalla bocca di lui. Quando rimuginava sulla riunione di suo padre,
non riusciva ad immaginare come Shelley avesse potuto diventare la
persona che era. “Chissà quanto deve aver viaggiato”
diceva a se stessa “e chissà quanti libri deve aver
letto, per essere a questo punto”. Era davvero una persona
d'eccezione, assolutamente al di sopra dell'ordinario.
Eppure,
nonostante lo considerasse inarrivabile, Mary proprio non capiva come
avesse potuto avere la meglio sui suoi argomenti. Le erano sembrati
ragionevoli, eppure lui ne aveva fatto ciò che aveva voluto,
perfino con ottima retorica e con parole incomprensibilmente
squisite.
Qualche
giorno dopo, proprio mentre stava rimuginando su questo, lo incontrò
per caso nel soggiorno, venuto a far visita a Mr Godwin.
«Buongiorno»
disse lui. Lei fu colta così alla sprovvista che l'imbarazzo
la confuse totalmente, impedendole di biascicare altro che non fosse
brandelli di parole. Una volta che ebbe trovato rifugio nella sua
stanza, Mary si accorse di essere stata assolutamente incapace di
comunicare con lui, e questo la fece inferocire con se stessa.
Rimuginò ancora e ancora, finché si risolse a
concedersi una rivincita, decisa a prepararsi una risposta coi
fiocchi alla domanda che Mr Shelley aveva lasciato in sospeso.
Lo
incontrò ancora a cena, la sera stessa. Lui e suo padre
stavano ancora portando avanti la discussione che li aveva impegnati
per tutto il pomeriggio. Così, anche a tavola, Mary non
riusciva a trovare il modo di proferire parola. In uno stato di ansia
crescente, continuando a guardarsi intorno per verificare che nessuno
se ne accorgesse, il suo imbarazzo rendeva ancor più difficile
mettere in atto la sua idea. Fu suo padre ad accorgersi del suo
stato.
«Ah,
caro Percy» disse interrompendo il discorso «siamo
proprio maleducati a protrarre le nostre speculazioni fino a cena!
Rimandiamo la discussione e godiamoci i commensali. Guarda per
esempio la mia splendida figlia. Non trovi che sia di ottima
presenza?».
«Certamente.
Miss Godwin, colgo l'occasione per ringraziare anche voi
dell'ospitalità».
«Siete
il benvenuto, Mr Shelley».
La
cena e la conversazione proseguirono in modo canonico e cortese, ma
né Mary né Percy sembravano fatti per essere canonici e
cortesi. Così fu molto agevole per Mary portale il dialogo
dove voleva lei.
«Ho
pensato alle vostre parole dell'altro giorno».
«Allora
avrò l'ardire di compiacermene».
«Credo
che se davvero vogliamo considerare libero l'uomo, egli non debba
servire nessuno. D'altronde gli ideali sono idee e costruzioni umane,
dunque possono servire a ben poco. Credo quindi che né l'uomo
debba servire gli ideali, né gli ideali l'uomo».
«No?
E cosa credete, allora?».
«Credo
che l'uomo libero debba vivere col respiro, con il cuore e con
l'anima: deve respirare il mondo, provare emozioni e poterle
raccontare.»
«Molto
bene, Miss Godwin. Molto bene. Vedo che avete compreso la poesia».
Al
termine della a cena,, quando ormai Mr Shelley aveva lasciato la casa
e lei si era ritirata nella sua camera, Mary si sentiva girare la
testa. Gli aveva parlato. Non solo: avevano
parlato, tutti e due. Uno che rispondeva all'altro.
Non
le sembrava possibile, non le sembrava vero. Aveva improvvisamente
caldo, così aprì la finestra. Una folata fresca la
investì, ma lei non riusciva a uscire dal suo stupore
euforico. L'aria fredda avrebbe dovuto convincerla che fosse vero, ma
non ci riusciva. La cosa che la stupiva di più, tuttavia, fu
che a quell'incontro ne seguirono altri. Lo incontrò in città,
nel parco, poi ancora in città e molto spesso in casa. E ogni
volta che parlavano, era un viaggio nel mondo e nella libertà
dell'uomo. E pian piano lei si convinse che quegli incontri erano
reali, che era lei quella che parlava con il poeta Percy Bisshe
Shelley; e si accorse che quell'anima inarrivabile le stava accanto,
quasi come se fosse dimentica della sua magnificenza e della sua
grandezza.
Quell'euforia,
quel calore intimo non le scomparve dal petto. Si abituò a
quella sensazione mistica, imparò a conoscerla, finché
si scoprì ad averne bisogno, a desiderarla. E lui era sempre
lì, a parlare con lei.
Ah,
la libertà. Ah, l'amore.
Luglio
1814
~Percy~
Lo
sapeva, ci aveva scommesso. Ci credeva.
Aveva
conosciuto la bruciante forza dell'amore e per questo era conscio di
poter ben affidarsi ad una delle potenze del mondo, mentre si era
lasciato sedurre. Il fatto di essere già sposato non era
stato un grosso problema. E nemmeno a Mary, che sicuramente lo aveva
saputo da qualcuno, questo sembrava importare. Lui non credeva nel
matrimonio. Credeva nell'amore e nella libertà. Ed Harriet
questo lo aveva ben chiaro quando lui aveva accettato di sposarla.
Certo, si erano innamorati, lui era stato pazzo di lei, ma il
matrimonio era stato solo un mezzo per toglierla a quel delinquente
di suo padre.
Lui
era già uno spirito libero allora, e anche per questo Harriet
l'aveva amato. Quel legame era stato una poesia, aveva sollevato il
suo animo fino al più remoto dei cieli. Quel legame era stato
tutto, ma era finito. Ora era Mary la poesia. Non era bella, non come
Harriet, forse nemmeno così intelligente come credeva lui, ma
era una poesia che si librava tra le nubi, alta sopra il mondo. Come
lui.
Essere
libero per lui doveva essere la cosa più importante. Il mondo,
la terra, quella era la cosa più vera che esistesse. Quella, e
non le città. Le città erano false, convenzioni
obsolete che allontanavano gli uomini dalla verità, ossia che
è davvero possibile essere felici in questo mondo, che è
possibile vivere tutti insieme pur conservando ciascuno la propria
libertà. Purtroppo, questo Harriet non lo aveva mai capito.
Si
erano incontrati per la prima volta grazie alle frequentazioni delle
quattro sorelle di Percy, m non si sarebbero mai conosciuti se non
fosse stato per gli studi di lei. Lui era stato espulso da Oxford per
aver pubblicato una polemica in favore dell'ateismo. Aveva sorpreso
tutti, perfino suo padre, ed era stato proprio quello il suo scopo:
non riusciva più a sopportare quella gabbia di accademico
conformismo, ricettacolo di conservatori aggrappati alle proprie
convinzioni e interessi.
Quando
aveva saputo che Harriet mal sopportava l'educazione accademica, era
nata in lui una particolare affezione per quel fiorellino schiacciato
dagli obblighi paterni. Perché era suo padre che la obbligava,
che la costringeva allo studio contro il suo volere, mentre lei
avrebbe potuto sbocciare in mille altri modi.
Cominciarono
a frequentasi spesso, nonostante Percy fosse già impegnato in
un altro fidanzamento. Per sua natura, egli era irresistibilmente
attratto da lei, bellissima vittima innocente del mondo. Sul fatto
che Harriet fosse innamorata di lui non c'erano dubbi, si vedeva da
come gli parlava, da come lo circondava con le sue braccia, da come
gli sorrideva. E anche Percy finì per innamorarsene.
Fu
per questo che lei riuscì a convincerlo a sposarsi. Nemmeno
allora lui aveva fatto mistero della sua disapprovazione del
matrimonio e delle altre inutili convinzioni sociali, eppure si
convinse che quella fosse la soluzione migliore per il bene di lei.
L'avrebbe tolta dal padre, l'avrebbe fatta sbocciare.
Così
si erano sposati e si erano amati. Ma l'amore di Percy li faceva
viaggiare, li faceva conoscere persone sempre nuove e idee sempre più
rivoluzionarie. E questo Harriet non lo tollerava.
Percy
si rese conto che Harriet aveva preso molto più sul serio di
lui il matrimonio. Harriet pensava che, una volta sposato, Percy
avrebbe potuto essere suo, suo e di nessun altro. Ma Percy non poteva
essere di nessuno, perché per Percy doveva essere la libertà
la cosa più importante.
Così
aveva iniziato a viaggiare da solo, lasciando Harriet - e i due figli
che nel frattempo nacquero - da qualche parte, ogni volta soli. Non
ruppe il matrimonio, semplicemente se ne disinteressò. E con
esso si disinteressò di sua moglie e dei suoi figli, finché
conobbe William Godwin, il filosofo.
Anche
Mary si sentiva stretta dalle regole convenzionali quanto lui. Ne
parlavano spesso, senza mai venirne a capo. Come poter vivere in un
mondo che ha le sue regole, senza voler obbedire? Il matrimonio ad
esempio – anche di questo parlò con Mary – non è
un'istituzione negativa in quanto se stessa, ma in quanto causa la
pubblica infamia a chiunque non voglia sottostargli. Percy invece
credeva nell'ideale forma dell'amore libero, in cui una donna non è
di un uomo, ma una donna ama ed è amata,
non importa da quante persone. Come nello stato ideale di Platone e
come nell'Utopia di Thomas More, la proprietà e il dominio
dovevano essere aborriti. Mary era d'accordo con lui, perfino
sull'amore libero, cosa che lo sorprese non poco. Così
decisero di comune accordo che tra loro non dovessero esistere
gelosie, ma che interessamenti altrui andassero considerati un
esempio di amore libero e disinteressato.
Forse
era questa la vera differenza con Harriet. Mary lo capiva e Percy si
sentiva capito, non più in colpa per aver abbandonato la sua
irritabile moglie da qualche parte.
Così
Percy decise di fare un altro viaggio, questa volta non da solo. Mary
sarebbe venuta con lui e probabilmente sarebbe stata anche uno dei
motivi del viaggio. Perché vedere il mondo con lei... non
sarebbe stato un altro vagabondaggio per l'Inghilterra. No, questa
volta voleva fare sul serio. Voleva andare in Francia, in Italia,
voleva uscire dal quell'ipocrita società ammuffita e vederne
delle altre e magari scoprire che anche le altre non erano da meno,
ma voleva farlo. Voleva esercitare la sua libertà pienamente.
E Mary con lui.
Lei
fu entusiasta all'idea di passare l'estate in giro per l'Europa con
Percy. Suo padre, i suoi amici e chiunque altro un po' meno.
Ovviamente la stessa società ammuffita non vedeva per nulla di
buon occhio che un uomo sposato viaggiasse per il mondo con una
ragazza più giovane di lui. Ma a lui non interessava. A lui
interessava soltanto lei.
Organizzare
il viaggio non fu difficile, nonostante l'astio generale. Quello che
fu difficile fu parlare del viaggio col padre di Mary. Ormai William
era diventato un suo caro amico, e l'idea che lui potesse
disapprovare gli aveva messo addosso un lieve timore. Sarebbero
partiti lo stesso, certo. Ma Percy voleva che William
approvasse. Si decise ad andare a parlargli poco prima della
partenza, con la carrozza pronta nel cortile e Mary che stava finendo
di prepararsi nella sua stanza. William osservava dalla finestra del
suo studio: Percy andò a farsi ricevere là.
«Entra.»
«Grazie
William.»
«Che
sei venuto a fare?»
«A
sapere cosa ne pensi.»
«Non
ti interessa nulla di quello che penso. Altrimenti me l'avresti
chiesto monto prima di oggi.»
«Se
non mi interessasse non sarei venuto affatto. So che non le hai
impedito di partire. Eppure non mi sembra che tu sia d'accordo.»
«Io
non sono d'accordo infatti. Ma lei sì. Non credo che questa
bravata possa portarle alcunché di buono. Ma lei sì.
Non credo che tu le stia facendo del bene, ma lei sì. E cosa
posso fare io, dunque? Nulla.»
«Puoi
darci il tuo consenso.»
«Cosa
ve ne fate del mio consenso? State partendo lo stesso! Quindi non
venire qui a chiedermi il consenso, visto che non ha valore per te.»
«Invece
ne ha.»
«La
sto lasciando partire. E visto che Mary ha insistito
così tanto lascio partire con voi anche la sua sorellastra. Ma
non ti darò mai la mia benedizione per quella che penso sia
una follia.»
«Che
differenza c'è con il suo viaggio in Scozia?»
«Non
sei uno stupido, Percy! Non puoi paragonare la Scozia a questo! In
Scozia Mary ha alloggiato da un mio fidato amico, a pochi giorni di
viaggio da casa, senza dover pensare a come pagarsi il l'alloggio! Tu
la stai portando dove nemmeno tu sai, senza un patrimonio decente! E
ti ricordo che sei ancora sposato! Quindi vattene e abbi almeno la
decenza di non chiedermi il mio benestare!»
«Non
capisco. Tu parli di libertà e poi non la assecondi.»
«Sei
tu che non capisci, Percy. Puoi viaggiare finché ti pare. Puoi
essere libero quanto ti pare. Ma prima o poi devi fermarti e usarle
la tua libertà per costruire qualcosa, o finirai per morire
con niente. Ti saluto, e spero che tu possa goderti il viaggio. Ora
esci dal mio studio.»
Febbraio
1816
~Harriet~
Fuori
sulla neve c'era l'azzurro dell'alba, ma il sole non era ancora
spuntato.
I
bambini dormivano ancora, lei era in cucina vicino al fuoco che
faceva bollire dell'acqua. Non aveva mai voluto una domestica, non la
voleva nemmeno ora che Percy aveva i mezzi per farsene carico. Anche
se era incinta di cinque mesi, Harriet non avrebbe mai accettato di
lasciarsi servire da qualcuno; era una cosa che l'avrebbe fatta
sentire inutile. E poi a lei piaceva occuparsi delle faccende di casa
e dei suoi figli. Era un modo per sentirsi davvero padrona di quella
casa troppo piccola. Aveva scelto lei la disposizione dei mobili in
modo da riuscire a gestire figli, servizi ed eventuali ospiti.
Conosceva ogni angolo di quella casa e ogni suo soprammobile, sapeva
quali erano i punti difficili da spolverare e quale fosse la migliore
organizzazione della cucina. E aveva anche capito a sue spese che le
cose fragili andavano tenute fuori dalla portata dei suoi figli,
quindi si era fatta costruire dal falegname un ripiano per la
credenza del soggiorno.
I
primi tempi era stato difficile. Percy non tornava mai a casa e non
guadagnava mai abbastanza, così la casa in cui avevano abitato
all'inizio era diventata troppo grande e troppo costosa. Percy aveva
preferito traslocare piuttosto che diminuire il personale di
servizio, ma quando era stato davvero in crisi finanziaria, anche
nella casa piccola era stato necessario ridurre la servitù
alla sola balia e alla cuoca. Harriet, invece, aveva insistito con
Percy per fare a meno anche di loro due. Lui probabilmente non aveva
mai capito il significato di quel gesto, ma tanto erano diventati
quasi degli estranei, quindi la cosa che non aveva nessuna
importanza. Alla nascita del secondo figlio, Harriet riusciva
incredibilmente a badare da sola a quella casa; per cui, tra la cura
dei figli e tutte le faccende domestiche di cui si occupava riusciva
a stento a pensare a Percy, sempre più assente, sempre più
lontano a vagabondare. Non voleva pensarci, non doveva pensare a lui
,perché sapeva che se lo avesse fatto troppo a lungo, sarebbe
caduta in uno stato dal quale non si sarebbe più ripresa. Era
stato così che era sopravvissuta alla notizia del suo viaggio
in Europa di due anni prima con la figlia del filosofo. Fu solamente
grazie a quell'abitudine a mostrarsi imperturbabile al destino che la
notizia le sembrò scivolarle addosso come qualsiasi altro
aneddoto privo di rilevanza. Ma Harriet sapeva che la sua era solo
una fragile maschera di gesso. Così cucinava, spolverava e
lavava con ancora più convinzione, considerando i suoi figli
la miglior cosa che le fosse accaduta. Quando li metteva a letto, le
sembrava quasi di essere in pace con se stessa.
Anche
in quel momento di quiete intima accanto al fuoco, col freddo fuori e
il caldo dentro e il brontolio della pentola vicino, le sembrava che
avrebbe potuto essere in pace.
Eppure
presto avrebbe dovuto prendere quella domestica, almeno una, perché
al quinto mese faceva fatica a fare quasi tutto, specialmente a
salire le scale. Doveva rassegnarsi all'idea.
Era
stanca di stare in piedi, così si sedette su una sedia che
protestò scricchiolando. Ripensò per un attimo a Percy,
cercando di non farsi prendere dalla rabbia. Era stufa di arrabbiarsi
per lui, non se lo meritava. Non si meritava nemmeno che lei si
chiedesse dove fosse in quel momento. L'aveva lasciata sola con due
figli e una misera rendita, nonostante la fiducia cieca che lei aveva
avuto nel sposarlo. Solo il Signore sapeva quanto lei lo avesse amato
e quanto avesse creduto il lui. E a lui non interessavano nemmeno i
loro figli.
Pian
piano l'aveva conosciuto davvero. Aveva imparato a vedere oltre il
bel visino e le belle parole, aveva imparato ad essere in disaccordo
con lui, a fargli notare che il suo punto di vista poteva essere
sbagliato. Eppure, nonostante i suoi sforzi di dare un senso a
quell'unione che le sembrava sempre più una follia giovanile,
lui non era cambiato di una virgola. Per lui, la libertà
rimaneva la cosa più importante. Anche di lei, anche dei suoi
figli. Aveva imparato a piangere e a soffrire per lui senza che lui
riuscisse a capirlo, così immerso nelle sue convinzioni da
essere sordo a qualunque altra cosa. Harriet aveva perfino provato ad
odiarlo, ma era l'unica cosa che non gli era riuscita di imparare. Si
era accorta che, nonostante tutto, non poteva smettere di amarlo.
Perché quel matrimonio, i loro figli, il loro tempo insieme,
erano un un legame che lei mai avrebbe potuto spezzare, nonostante
adesso sapesse che era stato un errore.
Era
questo a farla infuriare: che non riuscisse ad abbandonare l'idea di
lui nonostante tutto quello che lei aveva dovuto passare a causa
della sua dannata libertà.
Sì
alzò di scatto dalla sedia per non piangere, ma ebbe un
mancamento e fu costretta a sedersi di nuovo. Poi riprovò ad
alzarsi – più piano – e si diresse alla porta.
Quella mattina doveva preparare il pranzo e fare il bucato, oltre a
cambiare le lenzuola dei bambini. Ma lei si era svegliata presto e i
bambini dormivano ancora: forse poteva approfittarne per prendere una
boccata d'aria. Si aggirò per la casa con passo felpato per
fare il minor rumore possibile; raccattò degli indumenti
pesanti e tornò alla porta. Il pensiero di uscire la fece
rabbrividire, m ma era decisa a non rimanere in casa e a non
piangere. Uscì sulla soglia, fece qualche passo sulla strada
innevata. C'era già del via-vai, la vita le ronzava intorno.
Non doveva allontanarsi, non poteva lasciare i bambini da soli.
Avrebbe fatto solo due passi, sarebbe tornata subito indietro.
La
sentiva. Sentiva quel senso di libertà che si prova andando in
giro senza una meta. Cosa aveva di tanto speciale? A cosa serviva, se
non poteva essere condiviso? Ecco, quello sì, riusciva ad
odiarlo: quel senso di superiorità degli uomini liberi, che
credono di sapere tutto. Cosa se ne fanno loro della libertà?
Lei
la libertà la sentiva entrare dai piedi nella neve, dalla
scelta di non avere una domestica, dai suoi figli. Per lei la libertà
si trovava in queste piccole cose che preoccupano l'animo, non nelle
grandi cose di cui si occupano i filosofi. Eppure era sola, per cui
questa sua strana libertà le risultava del tutto inutile.
Percy probabilmente nemmeno pensava più a lei, o la
considerava una sciocca.
Harriet,
camminando per le vie in risveglio, non si sentiva affatto sciocca.
Tirò su col naso. In troppi troppo spesso pagano per la
libertà di altri, per qualcosa che nulla ha a che vedere con
la loro vita. Percy aveva lasciato i suoi figli senza un padre per la
sua dannatissima libertà! Era questo che odiava con tutta se
stessa, non Percy. Con lui, questo davvero non le riusciva.
Si
rese conto di essersi allontanata troppo. Era arrivata al un canale
semi congelato. Tutti i pensieri, tutta la stanchezza del mondo
sembrarono calarle addosso come un randello. Basta. Non doveva più
soffrire. Percy doveva uscire dalla sua mente, lei doveva essere
libera da lui.
In
quel momento, il richiamo dell'acqua ghiacciata del canale le sembrò
il più allettante brandello di libertà che avesse mai
avuto. E la stanchezza spinse i suoi passi verso l'acqua.
Si
sentiva leggera, risoluta. Le veniva da sorridere per la facilità
di quel gesto, perfino al primo contatto con l'acqua, gelata
all'inverosimile.
La
corrente del canale dava forza alla sua decisione. Finalmente la sua
vita, pur alla sua fine, le appariva chiara, limpida. Si immaginava
che in un momento come quello avrebbe avuto un'eternità di
tempo per pensare, e questo le aveva fatto paura. Invece tutto stava
accadendo in fretta. Arrivò ad avere l'acqua alla cintola, e
con orrore guardò il suo ventre rigonfio. Sì ricordò
di cosa stava gettando via per quel suo ultimo, folle gesto di
liberazione: i suoi figli, i suoi bambini.... e l'ultimo
brandello di umanità. Si girò dall'altra parte,
disperatamente cercò la riva, ma ormai la corrente aveva dato
troppa forza alla sua decisione.
Pianse,
mentre lottava con la corrente con tutte le sue forze ormai
congelate. Pianse perché stava uccidendo suo figlio, perché
ne stava lasciando orfani altri due, esattamente come aveva fatto
Percy. Pianse, perché infatti non era migliore di lui, anzi
era esattamente come lui, troppo impegnata a distruggere ciò
che le stava intorno per la sua libertà per poter davvero
creare qualcosa... E pianse, perché ora la sua vita non le
pareva per nulla limpida, ma piuttosto un orrido liquame di scelte
sbagliate e stupide e... libere. Non le rimaneva più niente,
tranne la libertà di quel questo assurdo, la libertà
con cui aveva condannato i suoi figli, quella libertà che la
faceva piangere, anche sott'acqua.
“I – fast Wind
driving
the Sky dressed of Storms,
sad for Summer's over,
play
with Winter weakly,
saying: 'I want the Sun'
but
still it's not Spring yet”
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