Titolo:
Annie, are you okay?
Personaggi:
Santana Lopez-Pierce, Brittany
Lopez-Pierce, Sugar Motta come Sugar Lopez-Pierce e Annie Lopez-Pierce.
Avvertimenti:
AU, non per stomaci delicati,
One-shot.
Rating:
PG13/Arancione
Disclaimer:
Glee non è mio, ma se lo fosse
Santana e Brittany sarebbero più importanti di Rachel e
Finn. Da questi
vaneggiamenti non guadagno un centesimo.
NdA:
Sì, Sugar Motta è la figlia di
Santana e Brittany venuta dal futuro, e nessuno mi
convincerà del contrario (e
Harmony è la Fababy ò.ò). Naya Rivera
uccide in questa canzone e odio il
Sebtana :D. Godetevi lo sclero che segue.
«Annie,
are you ok?»
La
vita, da poliziotto, era una merda. Orari impossibili,
superiori stronzi con cui combattere ogni giorno e noiosissimi verbali
da
compilare dopo ogni operazione, senza contare il dover rischiare faccia
e vita
quasi ogni giorno. Aveva collezionato più occhi neri di un
pugile
professionista e aveva abbastanza cicatrici da far invidia a un
domatore di
leoni. C’erano momenti, tuttavia, in cui ringraziava chiunque
fosse lassù di
possedere una pistola e, soprattutto, un fottuto porto d’armi
per usarla.
Come
quella sera.
La
porta era aperta. E non era questo che l’aveva allarmata:
se qualcosa poteva essere chiusa, Brittany l’avrebbe lasciata
aperta, che si fosse
trattato di barattoli o portoni. Era sempre toccato a Santana ovviare
alla sua
mancanza, ma ormai c’era talmente abituata che non le pesava
neanche. Quello
che l’allarmò, quella sera, fu l’assenza
degli acuti stonati di Sugar. In
genere a quell’ora della sera nel suo appartamento
c’era un gran casino –
casino mai confermato da sua moglie o dalle sue figlie, ma ampiamente
lamentato
dai vicini – di strumenti e di voci. In genere Annie si
metteva al violoncello
e improvvisava qualche melodia o ripeteva Bach, Sugar tentava invano di
raggiungere il fa alto di Defying Gravity
– non avrebbe mai più permesso a Berry di parlare
con sua figlia – e Brittany
le osservava in silenzio, talvolta facendo commenti incoraggianti
oppure
sistemando la sua collezione di soprammobili in ceramica a forma di
papera. In
sostanza occupavano allegramente il tempo aspettando che Santana
tornasse dal
lavoro.
Niente
di questo c’era quella sera. E il rendersene conto le
fece mancare un battito.
Tirò
fuori la pistola e aprì lentamente la porta, imprecando
fra i denti quando questa emise un leggero cigolio. Sperò
vivamente che non
avesse rivelato la sua presenza.
La
cucina era un bordello: le sedie rovesciate, i piatti a
terra, rotti. Ma, da quello che poteva vedere attraverso la porta del
soggiorno
aperta, il resto della casa era ridotta anche peggio. Il violoncello di
Annie
era a terra, le corde spezzate e la tastiera a pezzi. I soprammobili di
Brittany erano sparsi a terra, alcuni mancanti di un’ala,
altri decapitati.
Sentì
un rumore proveniente dalla camera da letto e, tenendo
la pistola ben alta, si accinse ad attraversa il soggiorno. Sentiva il
cuore
batterle forte in gola e il sangue pulsare alla testa, come un sordo e
costante
rumore che ovattava tutto intorno. Non era mai stata così
nervosa, neanche
durante i pattugliamenti al Bronx con Puck e Sam, e per essere calmi
con quell’idiota
di Puck alla guida era necessaria una grande tempra morale. Prese un
profondo
respiro per impedire alla sue mani di tremare ed entro nel corridoio
buio.
Smythe.
Quel fottuto stronzo di Sebastian Smythe era in casa
sua. E sua figlia Annie, di appena otto anni, era a terra. Una macchia
scura
che si allargava sinistra sul tappeto.
Santana
aveva ucciso due persone in vita sua. La prima appena
due mesi dopo il matrimonio con Brittany: era stata una nelle nottate
peggiori
della sua vita. Non poteva chiudere gli occhi senza che
l’immagine della
pallottola che raggiungeva l’uomo e esplodeva quasi in
schizzi di sangue le
apparisse davanti. Aveva passato la notte abbracciata a Brittany, a
occhi
sbarrati e fissi sulla parete bianca. Sua moglie non aveva detto
niente, e
Santana le era stata grata per questo. Quando poi Brittany aveva dovuto
lasciarla per andare alla sua scuola di musica, si era raggomitolata in
una
coperta che aveva ancora il suo profumo e, in stato quasi vegetativo,
aveva
lasciato che le immagini proiettate dalla televisione le scorressero
davanti
agli occhi senza prestarvi attenzione.
La
seconda era stata una donna. Non aveva inferto lei il colpo
mortale, era stato Smythe. Era una settimana che giocava a nascondino
con la polizia
e, quando finalmente erano riusciti a individuarlo in un fottuto
edificio
abbandonato da Dio, aveva scoperto che aveva un ostaggio. Non era
riuscita a
salvarla: Smythe l’aveva accoltellata appena prima di
fuggire, con un ghigno
strafottente e uno sguardo sprezzante, proprio davanti a lei. Non aveva
avuto
il coraggio di guardare il padre della donna negli occhi il giorno dopo.
In
quel momento, tuttavia, il desiderio di uccidere Smythe la
travolse come una cascata. Prese possesso dei suoi sensi e la spinse a
spingere
il grilletto. E come sempre quando lo faceva, il tempo
sembrò curvarsi intorno
alla pallottola, assumendo una consistenza molle e viscida e
permettendole di
osservare al rallentatore l’impatto che il proiettile ebbe
sul corpo di Smythe.
L’aveva preso al cuore, il bastardo. Santana provò
per un secondo una gioia
selvaggia, che scoppiò come una bolla quando vide la figlia
per terra inerme.
«Annie!
Annie, amore, stai bene?» non poté impedirsi di
urlare preoccupata, scuotendo lievemente il corpo della bambina. Il suo
cuore
batteva rapido come quello di un uccellino, ma il respiro era affannoso
come
mai l’aveva sentito. La prese delicatamente in braccio e,
ancora oggi non se ne
capacitava, guidò come una pazza fino all’ospedale.
Era
ancora scossa quando Sugar e Brittany l’avevano
raggiunta nella sala d’aspetto. Erano andata a prendere la
pizza e avevano
lasciato Annie da sola. Sapeva che avrebbe dovuto essere arrabbiata, ma
in quel
momento riuscì solo ad abbracciarle più forte che
poteva.
«Annie
sta bene?» avevano chiesto, entrambe con voce
tremante.
«Non
lo so.»
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