Il giorno seguente Zalmoxi si svegliò quando il sole era
già alto.
La febbre, si accorse, era scomparsa, così come il freddo e
il male alle ossa.
Aiutandosi con i gomiti si mise a sedere e lasciò vagare lo
sguardo per la stanza, trovandola più spoglia e piccola di
quanto si fosse immaginato. Accanto a sé notò
degli stracci umidi, sporchi di sangue e un avanzo di candela ormai
spento. Più in là c'era un altro giaciglio, vuoto.
I suoi occhi si posarono poi sulla piccola finestra alla sua destra,
che qualcuno –forse quella stessa mattina- aveva aperto. Il
brusio della gente che camminava per la via gli rammentò
ciò che era successo il giorno prima ed egli subito si
scostò la coperta da dosso, osservandosi le gambe.
Tra i peli che gli crescevano sui magri stichi, riuscì a
distinguere due grossi lividi scuri posti ognuno alla metà
esatta dei due arti. Subito provò a muoverle e il farlo gli
provocò solo un lieve prurito. Zalmoxi si prese la testa tra
le mani, affondando le dita tra i ricci capelli neri, sconcertato;
sapeva bene che le gambe gli erano state rotte. Aveva udito fin troppo
bene il rumore delle ossa che si spezzavano. E allora come era
possibile?
La porta alle sue spalle si aprì con uno scatto e Zalmoxi si
voltò.
Democède gli sorrise appena nel vederlo sveglio e il giovane
schiavo notò che portava tra le mani alcune bende candide.
Il medico gli si affiancò e poggiò le garze sul
pavimento in pietra.
«Il brusio della gente ti ha infastidito?» gli
domandò Democède e fece cenno ad una giovane
ancella di entrare nella stanza. La ragazza si fece avanti con lo
sguardo basso. Portava tra le mani una ciotola di terracotta finemente
decorata che porse al medico, quindi, ricevuto l’ordine di
andarsene, scivolò oltre la soglia, chiudendosi la porta
alle spalle.
«Affatto» rispose allora Zalmoxi, osservando la
ciotola fumante tra le mani del medico. «Se avessi dormito di
più avreste potuto credermi morto!». Si
lasciò sfuggire un largo sorriso, che però
tentò subito di nascondere.
Democède non replicò; si limitò ad
osservare il giovane per alcuni attimi, quindi gli porse la ciotola.
«Bevi» gli disse. «Ti
rimetterà in forze».
Zalmoxi accettò l’infuso caldo e lo bevve tutto
d’un fiato: era dolce, fruttato e zuccherino quasi quanto il
miele.
«Dov’è il mio padrone?»
domandò poi, restituendogli la scodella.
Democède la poggiò a terra, quindi prese tra le
garze alcune boccette che prima Zalmoxi non aveva notato. Da una di
queste estrasse un pizzico di polvere azzurrina e da un'altra un altro
pizzico di una polvere rossastra.
Le posò entrambe sul dorso della propria mano, vi
sputò sopra e iniziò a mescolarle con
l’indice della mano destra. Poi spalmò
l’unguento sul naso gonfio di Zalmoxi, che
sobbalzò e strinse i denti per il dolore.
«Il tuo padrone, giovane Zalmoxi, è andato al
sinedrio degli anziani a pronunciare un discorso» gli
spiegò il vecchio medico. «Ma tornerà
presto, non temere.»
Terminato di spargere l’unguento, Democède disfece
un rotolo di garza, ne tagliò un lungo pezzo e lo avvolse
attorno al capo di Zalmoxi, coprendogli il naso.
«In questo modo resterà fermo.» gli
spiegò, poi si alzò e, raccolte tutte le sue
cose, si accinse ad abbandonare la stanza.
«Aspettate!» lo fermò Zalmoxi. Il medico
si voltò. A quel punto il giovane schiavo
tentennò, insicuro se continuare, ma poi la sua lingua si
mosse da sola. «Ditemi, nobile Democède»
iniziò. «Le mie gambe…le mie gambe sono
state curate dal mio padrone, vero?».
A quelle parole sul volto del medico si dipinse
un’espressione di puro stupore, che egli tentò
subito e inutilmente di nascondere. Zalmoxi notò il suo
disagio, ma non volle ritirare le proprie parole: voleva sapere.
Così tacque, in attesa di una risposta.
«Non chiedermelo, giovane» arrivò alla
fine la replica. «Quando sono entrato in questa stanza sulle
tue gambe non c’erano altro che lividi. Nessun osso rotto, te
lo posso garantire».
Zalmoxi rimase un poco costernato da quelle parole, ma non volle o non
riuscì a chiedere altro.
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