Un
pittore al Circo dei Sogni
Era
l’inizio del 1901 quando a Parigi arrivò il Circo
dei Sogni.
Io e Georges, anche se eravamo ormai grandi, avevamo deciso di andare
a vedere questo strano circo di cui, già da alcuni anni, si
faceva
un gran parlare. Tutti ripetevano che apriva al crepuscolo per
chiudere all’alba e che i suoi artisti e le sue attrazioni
erano
tra i più spettacolari e incredibili che si fossero mai
visti.
Pareva ci fosse addirittura chi sapeva leggere il futuro con grande
precisione e chi, quando ne sentii parlare confesso mi venne da
ridere, il passato. Oh, questa è buona, mi dissi, cosa ci
sarà di
tanto straordinario nel leggere il passato! Invece il mio amico
Georges, guardandomi seriamente, mi ammonì: “Il
passato resta
dentro di noi, anzi, sulla nostra pelle. Noi siamo ciò che
siamo
stati, caro Edmond e non mi stupirei più di tanto se
qualcuno,
guardandoci nella delicata trasparenza di una fiamma divina, potesse
giudicare la nostra anima dalle nostre antiche azioni come si fa con
una perla per deciderne il valore”.
No,
nonostante la poesia un po’ malinconica che sapeva mettere
nelle
parole, Georges non era un poeta né, tanto meno, un mercante
di
gioielli. Era un pittore, come me. Ed amava il circo. Anzi, a dire la
verità, proprio in quel periodo aveva iniziato ad
interessarsi alla
rappresentazione del movimento e delle luci artificiali e aveva
deciso di studiarli sotto il magico tendone di un circo. E quale
magia era più grande di quella che si respirava entrando da
quel
cancello di ferro battuto che magicamente si apriva sul far della
notte? Così eravamo anche noi là fra la
moltitudine di gente che
aspettava, con un misto di desiderio e diffidenza,
l’accendersi delle luci all’interno dei tendoni
bianchi e neri
(una meraviglia a dirsi) e la comparsa sfavillante
dell’insegna le
Cirque des Reves. Gli
occhi di Georges brillarono come quelli di un bambino quando anche
l’ultima lampadina che componeva la scritta si fu illuminata.
Eppure aveva da poco compiuto trentun anni.
Entrammo
sospinti dalla folla impaziente. Notammo subito che c’erano
molti
tendoni e, negli spazi fra le tende, figure abbigliate con
sofisticati e complessi costumi. Le avrei dette statue se non avessi
già saputo che in realtà erano artisti del circo
anche loro,
insuperabile nello restare immobili per ore ed ore. Ricordo che mi
colpì soprattutto l’Imperatrice della notte, con
il suo abito
fastoso e sobrio ad un tempo, ricco di criptiche simbologie notturne,
ricolmo di rose nere e profumate come non ne avevo mai sentite in
vita mia. Il mio caro amico Georges, invece, era impaziente
d’entrare: non aveva in mente altro che le luci sfavillanti,
il
volo degli acrobati e la corsa dei cavalli.
-
Non ho tempo per passare di tenda in tenda! - sbottò infatti
quando
vide la folla dirigersi, ordinata alla bene e meglio, verso il primo
grande tendone, per poter gustare lo spettacolo dal principio alla
fine, senza salti o sbavature. - Voglio andare a vedere gli acrobati.
Vieni Edmond: chiediamo alla Regina della neve qual è
esattamente il
tendone che ci interessa.
Io
sospirai. A me interessavano anche le altre attrazioni, in special
modo ero curioso di vedere l’Albero dei desideri. Avevo
sentito
dire che la tenda in cui si trovava riuscivi a vederla solo se ne
avevi bisogno. Fantastico! Ovviamente non credevo a queste
sciocchezze per bambini, però ero davvero curioso di
vederlo, questo
“albero dei desideri”. C’era, infatti, un
desiderio che portavo nel cuore da tanto tempo... ma mi rassegnai a
tornare al
circo da solo, in un secondo tempo. Finché ero insieme a
Georges non
contavano altro che la luce, il movimento e il colore. Già,
il
colore: da un po’ mi domandavo dove il mio caro amico pittore
avrebbe trovato il colore che cercava: tutt’attorno non
c’era
altro che bianco e nero! Persino le strisce di terreno tra i tendoni
erano stati dipinti in bicromia e credo che anche Georges si stesse
ponendo qualche interrogativo perché la sua schiena si era
fatta più
rigida, le mani erano chiuse a pugno e le labbra serrate in
un’espressione di inequivocabile disappunto.
-
Spero proprio che questo circo non mi deluda. - mormorò,
quasi
parlando a se stesso.
-
Non essere pessimista: non abbiamo ancora visto nulla! - esclamai con
un tono forse un po’ troppo allegro. - Ora chiediamo alla
Regina e
andremo dritti dai tuoi acrobati.
Avrei
dovuto capirlo subito che le statue non possono rispondere! Chiesi in
tutte le lingue che mi venivano in mente, ma la glaciale signora non
proferì verbo. Così ci dovemmo accontentare di
girare tra i
tendoni, in quella fredda notte di gennaio, alla ricerca di quello
giusto. Quando ormai iniziavamo a dubitare della sua esistenza ci
trovammo davanti ad un’ampia tenda circolare, alta fin quasi
a
nascondere le stelle, sulla quale svettavano decine e decine di
bandierine rigorosamente bianche e nere. Sopra l’entrata un
cartello, che dondolava alla brezza invernale, recitava
“sfida alla
gravità”. Mai titolo fu più
appropriato, pensai tra me.
Dall’interno provenivano già grida di stupore e
applausi
scroscianti.
-
Presto! Speriamo di trovare ancora un posto libero. - gridò
Georges,
catapultandosi all’interno come avrebbe fatto un segugio
dietro
alla lepre.
Io
lo seguii di buon grado perché, se da un lato ero curioso
come lui
di vedere lo spettacolo, dall’altro iniziavo pure a sentire
un
freddo pinguino, passatemi l’espressione.
Di
posti liberi ce n’erano ancora diversi e, fortunatamente, lo
spettacolo vero e proprio non era iniziato. C’erano alcune
decine
di artisti seduti attorno alla pista, immobili anch’essi come
le
statue che avevamo appena lasciato, mentre sospesa a
mezz’aria,
all’interno di una gabbia dorata, una minuta figura di
ragazza
stava mimando un uccello che apre le ali. Lentamente alzava la testa,
come distendendo il collo intorpidito, poi, sempre con calcolata
lentezza, spiegava le ali immaginarie fino a far uscire le mani dalle
sbarre. Infine, alzando una gamba, imitava l’uccello
invisibile che
spiccava il volo, sbattendo le lunghe ali con ritmica
regolarità. E,
oh prodigio che ancora oggi non riesco a spiegare, improvvisamente la
gabbia divenne vuota: la ragazza era scomparsa, mentre
tutt’attorno
piume candide ondeggiavano nell’aria. L’applauso si
levò
spontaneo e scrosciante. Anche Georges applaudì con
trasporto ma la
sua gioia durò poco.
-
Devo subito farne uno schizzo: non voglio dimenticare la magia di
questo numero! - disse frugandosi le tasche interne del cappotto alla
ricerca del suo taccuino. - Ma... dov’è... Edmond,
Edmond... hai
visto il mio taccuino? Non c’è. Non
c’è...
La
ricerca si era fatta frenetica: Georges stava ormai frugando ovunque,
persino tra i piedi degli spettatori e sotto le gonne delle signore
indignate.
-
Georges, ti prego! - lo implorai, mentre cercavo di aiutarlo. - Forse
l’hai dimenticato.
-
Dimenticato? Ma no! Dove posso averlo dimenticato? Oh, cielo! - si
batté una mano sulla fronte, mentre sulla pista iniziavano a
correre
splendenti cavalli bianchi. - Al caffè! L’ho
lasciato sul tavolino
del caffè dove siamo passati prima di venire qui!
-
Non vorrai andare a prenderlo? Goditi lo spettacolo e appena
è
finito torneremo al caffè a recuperarlo e potrai fare tutti
gli
schizzi che vuoi.
-
Il mio taccuino...
-
Georges lascia perdere il taccuino adesso! Guarda! Guarda sulla pista
che magnifici destrieri.
Riuscii
alla fine a distrarlo dallo smarrimento del prezioso oggetto. Gli
occhi del mio caro amico tornarono a scintillare di emozione alla
vista dell’abilità di cui stavano dando prova una
giovane acrobata
e il suo compagno: lei, in piedi sulla groppa del cavallo, disegnava
ampi cerchi sulla pista mentre lui la aspettava ad ogni passaggio per
saltare con precisione cavallo e cavallerizza utilizzando la sola
spinta dei propri muscoli, disegnando in tal modo spettacolari
piroette in aria.
-
Meraviglioso! - Georges applaudiva radioso. - Ah, che materia per il
mio pennello!
Anch’io
ero rapito dalla maestria di questi giovani acrobati e, ancor
più,
dai loro costumi sfavillanti sotto le luci: pareva che brillassero di
luce propria, rivelandosi di un colore diverso per ogni spettatore.
-
Non vedi che sono rossi! - sentii infatti dire ad una donna che
sedeva di fianco a me, mentre il marito affinava lo sguardo quanto
poteva per ribadire:
-
A me paiono verdi, cara... Verde foglia.
Colpito
da quella stranezza (sono ancora oggi convinto che i costumi fossero
bianchi e splendenti come diamanti) tesi l’orecchio per udire
altri
commenti.
-
La ragazza è vestita di lilla e lui è in porpora!
- due fidanzatini
stavano litigando proprio sotto di me. - Come fai a dire il
contrario? Non distingui più un uomo da una donna, Pierre?
-
Mamma, perché la ragazza è in bianco e il ragazzo
in nero? -
chiedeva invece una bimba che stringeva il filo di un un palloncino,
strattonando la manica della madre.
Ero
ogni secondo più stupito quando Georges gridò:
-
Hai mai visto ori più splendenti di questi, Edmond? Non
riuscirò
mai a rendere lo sfavillio di quei costumi sotto la luce!
Restai
a fissarlo a bocca aperta.
Intanto
i due acrobati erano passati alla parte più difficile del
loro già
magnifico numero: la giovane doveva infatti lasciarsi cadere dal
trapezio, effettuare una spaventosa piroetta in aria e cadere dritta
in piedi sulla groppa del cavallo: richiedeva una precisione
matematica e il minimo errore significava la morte!
Trattenemmo
tutti il fiato quando si slanciò nel vuoto. Ma
atterrò come una
piuma sulla groppa, allargando le braccia per mantenere
l’equilibrio:
il numero era riuscito e fu accolto da uno scroscio di applausi.
-
Davvero impressionante! - commentò Georges, voltandosi verso
di me.
- Mi piacerebbe riprodurlo in un quadro, ma sono indeciso... Forse la
prima parte del numero, con lui che salta il cavallo e la ragazza,
è
più adatta ad un dipinto.
-
Sì, lo credo anch’io. - confermai, senza smettere
d’applaudire.
Alla
fine, infatti, Georges decise di concentrarsi su
quell’aspetto
dello spettacolo e nei giorni successivi fece molti schizzi.
Nonostante avesse dimenticato il suo prezioso taccuino e non fosse
riuscito a prendere immediatamente qualche appunto visivo, il ricordo
della serata era rimasto così vivido nella sua mente da
permettergli
di tradurlo agevolmente in pittura anche più tardi.
Lavorò al
dipinto del circo per tutti i mesi successivi e oggi è senza
dubbio
tra le sue opere più famose.
Quando
uscimmo di lì, ancora pieni di entusiasmo, accadde un fatto
molto
strano. Anzi, occorre parlare più esattamente di un
incontro, forse
voluto dal Cielo, forse solo dal caso. Ad ogni modo, più di
tutte le
cose magnifiche che vedemmo quella sera, più
dell’abilità degli
artisti e della magia dei costumi, ciò che non ho
più dimenticato
in tutti questi lunghi anni, è stato proprio quel fortuito
incontro
e le conseguenze che portò con sé.
Eravamo
appena usciti dal tendone e, immersi nelle nostre chiacchiere, non
prestavamo molta attenzione alla direzione da prendere. Non facemmo
comunque molti passi quando quella che sembrava una palla bianca
piombò fra le gambe di Georges, che si fermò di
botto. Subito dopo
arrivarono delle grida infantili che chiamavano ripetutamente un
nome: “Pillow”. Pillow era il gattino bianco che il
mio amico
raccolse da terra, un po’ impolverato, per consegnarlo alla
sua
piccola padroncina. Era minuta ma molto carina e non doveva avere
più
di cinque o sei anni. Ciò che mi colpì di
più fu la gran massa di
capelli rossi che incorniciavano un visino stranamente serio per
l’età e due grandi occhi blu che fissarono con
straordinaria
intensità Georges mentre le restituiva il gattino.
-
Grazie, signor Seurat. - mormorò appena lo ebbe tra le mani.
Ma non
se ne andò.
Georges
rimase impietrito: come poteva una bambina così piccola, che
non lo
conosceva, sapere il suo nome? Certo lui era un pittore, iniziava ad
avere anche un po’ di notorietà ma non ancora
così tanta da far
sì che anche i bambini piccoli lo riconoscessero a vista,
nel buio
della notte.
-
Chi sei, piccolina e come sai il mio nome? - le chiese, chinandosi
per guardarla in viso.
-
Lo so perché l’ho visto mentre mi porgeva Pillow.
-
Cosa significa “l’ho viso”? - Georges era
molto serio. Segno
che la faccenda lo turbava.
-
Quello che ho detto: ho visto il suo nome davanti a un grande quadro
con un’acrobata sul cavallo mentre mi passava Pillow...
-
Un grande quadro?
La
piccola annuì soltanto, stringendosi al petto il gattino che
voleva
scappare di nuovo.
-
Con il circo?
Annuì
di nuovo. Poi aggiunse, come se si trattasse di una cosa di nessuna
importanza – Sì, ma non è finito...
cioè non farà in tempo a
finirlo.
Vidi
che Georges si irrigidiva.
-
Perché dici che non farò in tempo?
-
Non lo so di preciso. Non vedo mai bene le cose... è come
quando si
guarda in una pozza d’acqua dopo che vi si è
appena gettato un
sasso: le immagini sono confuse.
-
Vuoi dire che... vedi il futuro?
Mi
stupii nel sentire Georges continuare quell’assurdo dialogo.
Non
era mai stato il tipo di persona che crede ai poteri paranormali, ai
fantasmi o alle predizioni, eppure sembrava prendere molto sul serio
le parole di quella piccola sconosciuta. Ammetto che anch’io
ne fui
molto colpito: possedeva un misto di dolcezza infantile e sicurezza
della maturità e parlava di cose importanti con grande
tranquillità,
come se le avessimo chiesto dove abitava o se quella sera faceva
freddo. Non aveva per niente l’aria di chi si sta inventando
una
bugia molto grossa.
-
E quindi hai visto che non finirò il mio quadro con il
circo? Ma sei
sicura che ne farò uno...
Lei
annuì di nuovo. Poi aggiunse: - Fra poco, anzi in un certo
senso mi
sembra ci stia già lavorando... non so...
-
Poppet! - un’altra voce infantile giunse ad interrompere il
dialogo. - Poppet, eccoti qui finalmente! Ti sto cercando da un bel
po’.
-
Pillow era scappato, Widget. - rispose la piccola voltandosi verso
quella che pareva la sua copia maschile: un bambino dai grandi occhi
blu e dalla massa di capelli rossi che incorniciavano un bel visino
appena un po’ paffutello.
-
Con chi stai parlando, Poppet?
-
Oh lui è il pittore Georges Seurat e quello è il
suo amico Edmond
Aman-Jean, anch’egli pittore. - a quelle parole io e Georges
ci
guardammo negli occhi. - E questo è mio fratello Winston...
cioè
Widget.
-
Anche tu vedi il futuro? - gli chiese Georges.
-
No, io vedo il passato.
-
Per carità, Georges! Andiamocene subito! Uno vede il futuro,
l’altro
il passato: sono semplicemente dei gemelli un po’ sciocchini
che
vivono nelle loro fantasie. - gridai esasperato, attirando
l’attenzione di tutti. I bambini mi guardarono come se fossi
stato
una cosa disgustosa appiccicata alla suola delle loro scarpe. I loro
occhi erano fiammeggianti: probabilmente non li avrei feriti di
più
se li avessi schiaffeggiati. Georges invece aveva uno sguardo carico
di commiserazione. Anche se avevo sentito dire che al Circo
dei
Sogni c’era
qualcuno in grado
di vedere il futuro e qualcuno che leggeva il passato non ero
disposto a credere che proprio in quel momento fossero lì
davanti ai
miei occhi e, soprattutto, che fossero solo due bambini. -
Non
crederai...
-
Questa bambina è sincera, Edmond. E non dimenticare che ha
saputo
dire anche il tuo nome e quello che fai.
-
Ma Georges... - ero combattuto, lo ammetto. Anch’io ero
convinto
che la bambina fosse sincera e non riuscivo a dare una spiegazione
razionale alle sue capacità se non che effettivamente poteva
vedere
il futuro. Però la cosa mi spaventava. Sì, ero
spaventato. Proprio
la noncurante sicurezza con cui parlava la piccola Poppet mi metteva
in soggezione: ero sicuro dicesse la verità e temevo le sue
visioni
offuscate del futuro. Le temevo soprattutto perché avevo
capito
perfettamente a cosa alludesse dicendo “non farà
in tempo a
finirlo”.
-
C’è altro che vedi? - le chiese Georges.
-
Andiamo via, Poppet! - borbottò il fratello, prendendola per
un
braccio.
-
No, signore.
-
Andiamo, non ci credono! - Widget iniziò a strattonarla
finché la
convinse a seguirlo, anche se recalcitrante. Mentre spariva nel buio
si voltò un’ultima volta verso di noi e poi
scomparve.
Restammo
in silenzio per alcuni minuti, immobili, a fissare il vuoto. Non so
cosa stesse pensando Georges e non osai chiamarlo, né dirgli
alcunché. Attesi finché non fu lui a parlare per
primo e quando lo
fece, con mia grande sorpresa, aveva la voce allegra:
-
Beh, caro Edmond, sembra che dovrò sbrigarmi a ultimare il
progetto
che ho in mente, tu cosa ne dici?
-
Ah Georges... - feci un gesto in aria con la mano, come per scacciare
una mosca fastidiosa.
-
Sì, sì, non ti preoccupare! - si
affrettò ad aggiungere lui. - Sto
solo scherzando, ma ho davvero fretta di mettermi al lavoro! Se tu
sei d’accordo tornerei al caffè a riprendere il
taccuino.
-
Sì, andiamo via di qui. Per questa notte ne ho avute
abbastanza!
Ci
incamminammo in silenzio, passando accanto ad artisti che si
esibivano fra i tendoni e agli spettatori che andavano e venivano in
ogni direzione. Guardandolo di spalle Georges mi sembrava sereno, non
so perché. Non parlammo neppure mentre attraversavamo i
cancelli
lasciandoci alle spalle il magico Circo dei Sogni
ma, fatti
alcuni passi, Georges si voltò e, fissando il tendone
più alto con
le sue bandierine che ondeggiavano nell’oscurità,
mormorò:
-
Il futuro è un’immagine confusa come quella che
vediamo in una
pozzanghera dopo avervi gettato un sasso... Per me, che vedo solo il
presente scorrermi davanti agli occhi, è semplicemente una
fanghiglia indistinta. Però mi chiedo se questa notte un
angelo
pietoso non abbia voluto darmi la possibilità di
intravvederne un
frammento.
Nelle
settimane seguenti Georges si dedicò con grande ardore al
dipinto
del circo: eseguì moltissimi bozzetti e lo studio
preparatorio. La
versione finale raffigurava una curva all’interno di un
tendone e
le gradinate sulle quali sedevano piccoli gruppi di spettatori che,
ammirati, seguivano il numero sulla pista: una giovane acrobata,
avvolta in un meraviglioso costume dorato, si reggeva in equilibrio
sulla groppa di uno stupendo cavallo bianco, mentre alle sue spalle
un altro acrobata (anche’esso in oro) atterrava sulle mani
dopo un
salto mortale. Tutto era luce, colore e gioia.
Quando
in marzo si aprì il Salon des
Indépendents, Georges
decise di esporlo ugualmente, anche se non era ancora del tutto
ultimato. Poco dopo si mise a letto per un brutto raffreddore e nel
giro di pochi giorni morì, lasciando Il
Circo per
sempre incompiuto. La piccola Poppet dai grandi occhi blu aveva visto
davvero il futuro attraverso la torbida acqua del tempo.
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