Moonlight
Shadow
Prima
di cominciare volevo premettere che ho letto solo il primo capitolo del seguito
di Twilight perciò abbiate pietà se vi saranno incongruenze, o altro tipo di
errori, questa storia è nata un pò per gioco, un pò per eccesso di fantasia.
Volevo però ringraziare Moon per avermi consigliato di leggere un libro così
appassionante, e per aver sostenuto la mia iniziativa di scrivere questa fic!
Capitolo 1
Sospirai
per l’ennesima volta sfilando la bacchetta dai capelli, che mi ricaddero
mollemente sulle spalle e mi fissai allo specchio.
L’immagine
che rifletteva, non mi piaceva affatto. Ero stanca, decisamente troppo stanca,
ma non era di certo quello il momento adatto per analizzarne le cause, bastavano
già le mie occhiaie a fugare ogni dubbio. Stavo lavorando troppo, questo era
assodato e c’era ben poco da poter fare.
Con
una certa premura, tirai fuori la pochette di Louis Vuitton - un vezzo di Renèe
- fosse dipeso da me avrei continuato a tenere le mie cose nell’astuccio
trovato nei cereali… quello con i pokemon sopra, ma lei aveva insistito,
dicendo che mi sarebbe stata utile. Ad ogni modo presi correttore e cipria e
cancellai quei segnacci sotto gli occhi.
In
un altro periodo della mia vita truccarmi mi sarebbe sembrato assurdo come gli
asini in cielo che volavano come uccellini, detestavo a scuola le ragazze che
sfoggiavano ciglia extralunghe e ombretti metallizzati, adesso, invece, per me
era diventata una necessità.
Non
sono vanitosa, non lo sono mai stata, ma nel momento in cui gli occhi emaciati,
per via delle numerose nottate in bianco, superate solo grazie una dose
massiccia di caffeina direttamente in vena, fanno paura al tuo capo, allora è
il caso di mettere da parte i pregiudizi e cominciare ad usare il cervello.
Presi
la spazzola e la passai tra i capelli distrattamente. Ormai erano molto più
corti di prima, arrivavano appena sopra le spalle, quindi non mi ci volle molto
a metterli in ordine. Era strano come mi venisse facile fare dei paragoni con un
passato così lontano. Non avevo più nemmeno lo stesso colore. Avevo
trasformato il mio castano chiaro in un rosso scuro… caldo..
Edward
storse il naso, tenendomi il muso per un’intera settimana quando si ritrovò
faccia a faccia con la novità. Diceva che quella robaccia chimica aveva
alterato il mio odore. In realtà credo che i miei capelli, all’inizio, non
gli fossero affatto graditi. A dirla tutta, a me piacevano molto di più, mi
vedevo diversa, ma forse per lui quella mia necessità di cambiamento
significava altro.
Fosse
stato solo quello il cambiamento!
Raccolsi
le ciocche di capelli in un morbido chignon sulla nuca, e feci per uscire dal
bagno quando sbattei contro un muro di marmo gelido dal profumo
terrificantemente invitante.
“Quando
la smetterai di farlo?” gli domandai piccata, toccando la fronte che avevo
picchiato proprio contro di lui.
“Se
tu guardassi in avanti quando cammini..”
“Se
tu evitassi di comparire dal nulla..” gli risposi imitando il suo stesso tono.
Era bellissimo.
Come
sempre d’altra parte. Con i capelli fintamente scompigliati, frutto di un
lavoro fatto con il gel assai lungo, quel sorriso splendente e quella dannata
camicia blu che gli si apriva sul collo fino a scendere appena sul petto.
Avrei
voluto essere io la vampira tra i due!
“Stai
dimenticando niente?” domandò lui con aria saccente, ma non irritata. Lo
guardai perplessa senza capire, poi mi voltai verso l’interno del bagno e mi
resi conto di aver lasciato lì l’anello.
Non
feci in tempo ad allungarmi a prenderlo che lui l’aveva già tra le dita.
Mi
irritava a volte quella sua velocità! Già ero goffa di mio, ma accanto a lui,
mi sentivo una balena arenata su una spiaggia.
“Sai
che mi secca bagnarlo, si rovina!” protestai cercando di prendere il
cerchietto d’oro bianco dalle sue mani.
“E’
un diamante. Non si rovina con l’acqua.. è per sempre.” Fece lui con una
voce intensa e allo stesso tempo con una punta di ironia, mentre prendeva la mia
mano e poi me lo infilava all’anulare.
“Lui
è per sempre…” mi lasciai scappare io a mezza bocca facendo intuire
chiaramente il mio sarcasmo, visto che io ‘per sempre’ non lo ero, quindi
abbassando il capo, passai sotto il suo braccio oltrepassandolo.
Lui
non rispose. Rimase lì impalato e forse sapeva bene che era l’unica cosa da
fare.
Stavamo
cambiando, ero cambiata.
Era
palese che ormai il piano A, quello di diventare ‘non umana’ come lui, fosse
svanito, perciò ci eravamo imbarcati nel piano B. E devo ammettere che in
qualche modo questa decisione forzata gliel’avevo fatta pagare. Come stabilito
mi ero iscritta al college, lui andava matto per quest’idea, solo che tra il
New Jersey, il Connecticut ed il Massachusetts avevo scelto quest’ultimo. Il
più lontano in assoluto da Forks.
Harvard
era di certo una delle migliori università e questo fu sufficiente dal farlo
desistere dal muovere obiezioni. In realtà era quello che volevo, non aveva
fatto ciò che desideravo. Volevo che si arrabbiasse, che gridasse, che avesse
una minima reazione, ma nel suo solito stile serafico, si era limitato a dire
che il mio bene veniva avanti a tutto. Anche se avevo scelto una facoltà,
Legge, che con me non c’entrava niente, anche se sapeva bene che la mia era
solo una provocazione, perché mi dimostrasse che veramente mi amava come diceva
e mi facesse diventare la sua compagna.. per sempre. Si era dimostrato
entusiasta e felice della mia scelta e questo mi aveva ferita più profondamente
di quanto io stessa forse sarei stata capace di ammettere.
Nonostante
tutto, nonostante la lontananza ci vedevamo spesso, o meglio mi convincevo che
così fosse; cercavo di tornare ogni weekend a Forks, lui mi mancava troppo,
avevo un bisogno quasi fisiologico anche solo di vederlo di sfuggita e sentire
il battito del cuore accelerare a velocità supersonica. La sua voce per quanto
suadente, veniva distorta da quello stupido cellulare, quindi sentirlo non mi
bastava, fortunatamente, quando pioveva su da me, sapevo che quasi certamente
l’avrei trovato all’ingresso principale, perciò ogni mattina con una sorta
di eccitazione, mi alzavo sperando di vedere grossi e pieni nuvolosi
all’orizzonte.
Tutto
sommato la distanza influiva relativamente sulla nostra relazione, quando non
ero con lui studiavo come una disperata al solo scopo di non far correre il mio
pensiero dal mio principe, dai capelli di bronzo e gli occhi incantatori. Le
cose, poi, si erano evolute, erano cambiate e quell’anello era solo una
formalità, non era ciò che volevo da lui, e non solo perché non ero avezza a
certe tradizioni, tra l’altro da sempre avevo il sentore che fosse solo una
sorta di spauracchio per eventuali malintenzionati corteggiatori. Anello,
fidanzata, capitolo chiuso.
Questo
doveva essere grandi linee il suo ragionamento.
“A
che ora verrà a prenderti?” domandò seccato guardando per un attimo
l’orologio. Era irritato. Era sempre irritato quando parlava di Martin.
“Tra
trenta secondi!” risposi, infilandomi contemporaneamente la giacca del
tailleur nero e una scarpa, mentre cercavo l’altra con lo sguardo. Scarpa che
mi si materializzò di colpo dinanzi, tenuta saldamente dalle sua dita bianche e
marmoree.
“Grazie.”
Sussurrai senza aggiungere altro. Sarebbe stato inutile intavolare un’altra
discussione sul fatto che Martin era un mio collega di lavoro, che non avevo
nessunissimo interesse per lui e non potevo scaricarlo solo perché a lui non
piaceva. Tra l’altro era anche un bravo ragazzo, oltre che un bravo compagno
di lavoro, divideva sempre equamente tutto.
“Poi
devi spiegarmi perché quando ero io a volerti accompagnare, sbraitavi per
guidare tu e adesso ti fai scarrozzare da quello senza protestare!” mi disse
acidissimo. Era geloso.
Geloso
marcio e quando lo era, perdeva un po’ in grazia.. e a me piaceva!
Piaceva
da matti, anche se non gliel’avrei mai detto!
“Edward
è solo un collega e un amico, finito lì! Non c’è nient’altro. Lo sai
benissimo anche tu, senza nemmeno aver bisogno di leggermi la mente!” gli
dissi cercando di rassicurarlo, mentre con una mano gli sfioravo piano il viso,
tracciando il contorno del suo profilo dalla tempia al meno. Chiuse gli occhi ,
ed in quel momento ebbi la sensazione di averlo nelle mie mani.
“Ti
trova attraente..” sussurrò lui, decisamente più calmo però.
“Ed
io trovo attraente te… senza nessun paragone possibile.” E senza rendermene
conto, le mie labbra erano già sulle sue, intente a sfiorare quella pelle
fredda, ma allo stesso tempo incredibilmente invitante. Totalmente presa da lui,
dal suo profumo e dalla necessità di sentirlo vicino, avevo fatto scivolare la
scarpa in terra e l’avevo abbracciato forte approfondendo quel contatto, così
dolce, così intenso.. fino a quando non si irrigidì.
Avevamo
lavorato un po’ su questo punto. La sua resistenza era aumentata, ma non si
rendeva minimamente conto di che violenza fosse per me, staccarmi così
bruscamente da lui, ogni volta che mi lasciavo andare all’istinto, e mi
abbandonavo alle sensazioni.
Non
si rendeva minimamente conto nemmeno del fatto che era assurdo che a quasi 24
anni, fossi ancora vergine, e che avevo un desiderio incontenibile di fare
l’amore con lui tanto da andare fuori di testa, ogni volta. Ogni singola
volta.
“Bell..”
sussurrò appena, forse con rammarico, forse con il mio stesso disagio e
irritazione, ma io lo presi più come un rimprovero. Fortunatamente subito dopo
il citofono di casa suonò, quindi mi allontanai da lui per rispondere.
Come
previsto era Martin. Era ora di andare. Finalmente.
“Sono
in ritardo.” Tagliai corto e questo lui lo capì benissimo.
Da
quando ci eravamo trasferiti a San Francisco, non riuscivamo più a parlare.
Avevo cominciato una nuova vita, una vita diversa, mi ero laureata, stavo
lavorando, certo sarebbe stata più adatta una città come Los Angeles o New
York per fare carriera, ma erano decisamente troppo ‘luminose’. San
Francisco, lo era meno, d’inverno il sole era assai debole, il cielo sempre
coperto di nuvole e l’aria più fredda. Estati
fresche, nebbiose e siccitose, inverni miti e piovosi era quello che la città
offriva; la corrente californiana, fredda e umida ci aveva fatto il regalo più
gradito. Io avevo una grande città in cui lavorare ed Edward un clima che non
l’avrebbe costretto in casa. Dovevamo esserne tutti felici ed invece così non
era. Prendere una casa assieme mi sembrava ciò che di più desiderabile ci
potesse essere al mondo. Nessun Charlie che sarebbe venuto a controllarmi nel
mezzo della notte, nessuna fuga di Edward per evitarlo, nessun coprifuoco o
persona a cui rendere conto.
Solo
io e lui.
Era
ciò che volevo di più, ma i piani non erano andati esattamente ocme avevo
immaginato nel mio bel filmino rosa, tutto cuori e fiorellini. Lavoravo come una
bestia da soma da quando ero entrata come associata in quello studio di
avvocati. Ero la più piccola, la nuova arrivata era normale che passassero a me
tutte le cose più rognose e tempo per stare con Edward ce n’era davvero poco.
O forse ero anche io a non volerlo trovare. Lui non si lamentava mai, usciva al
mattino e rientrava la sera, non sapevo dove andava, non sapevo che faceva,
probabilmente lavorava anche da qualche parte, ma non me ne parlava mai. Né io
domandavo.
Non
era finito l’amore, tutt’altro, amavo Edward in una maniera talmente
viscerale e talmente profonda, da aver cominciato ad odiarlo. Odiare forse no .
E’ una parola dannatamente forte, eppure c’era una sorta di repulsione in
me, perché percepivo che lui non mi ‘voleva’.
Avevo
smesso di chiedergli di farmi diventare come lui, lo decisi il giorno del mio
ventesimo compleanno. Era evidente che non avrebbe mai ceduto e continuare a
passare il tempo a chiedergli qualcosa che non mi avrebbe dato, stava solo
rovinando la mia ‘misera vita’ che avevamo a disposizione per stare insieme.
Una quantità decisamente misera rispetto alla sua eternità.
Ad
ogni modo, sebbene non lo menzionassi a parole, quel desiderio era più che
ardente in me, non si rendeva conto che vivevo con un fastidioso senso di
precarietà, vedevo la mia vita, così stupidamente breve, e così inutile. Io
volevo lui, volevo stare con lui, e stavo rovinando il tempo che avevamo, al
pensiero di quello che avremmo potuto avere.
Infantile,
ma del tutto inevitabile.
“Ci
vediamo stasera!” gli dissi con un ultimo cenno della mano, prima di afferrare
la mia borsa con i documenti per il lavoro e varcare la porta.
Sapevo
che sarebbe rimasto alla finestra a guardare, mentre entravo in macchina, sapevo
anche che avrebbe passato al setaccio i pensieri di Martin e speravo
ardentemente che non ve ne trovasse di disdicevoli o sarebbe balzato giù dal
terzo piano e lo avrebbe spiaccicato contro il sedile della macchina. Non che
l’avesse mai fatto, però ne sarebbe stato capace.
Non
accade.
Martin
cortesemente, con quel suo sorriso gentile e gli occhi castani, mi fece
accomodare e partimmo alla volta dell’ufficio. Avevamo una riunione per
firmare gli ultimi documenti di una fusione molto importante e suppongo che
questo pensiero occupasse sufficientemente la sua mente per non badare a me.
La
mattinata lavorativa si svolse senza alcun intoppo. Il signor Richmond, il socio
fondatore era un ometto paffuto, ma molto determinato, fu lui a farmi il
colloquio quando mi presentai piuttosto inesperta e spaventata in questo studio,
ma fortunatamente non si fece impressionare dalla mia goffaggine, quanto dalla
mia capacità di rispondere in maniera tagliente, ma assai educata. Ho sempre
sospettato che il merito di ciò fosse solo ed esclusivamente di Edward, le
schermaglie quotidiane con lui erano una palestra eccellente per un avvocato, ma
poco importava, il posto era mio e tanto bastava. L’ometto dopo la riunione si
complimentò con me e Martin per l’ottima stesura dei documenti, dicendo che
non si aspettava un così buon lavoro da due novellini, se avesse saputo che ci
avevamo passato due notti intere su quegli atti forse si sarebbe ricreduto,
stranamente però la cosa non m diede particolare soddisfazione. Niente mi dava
particolare soddisfazione. Lavoravo perché dovevo, respiravo perché era
inevitabile, mangiavo… quando me ne ricordavo. O quando se ne ricordava Edward.
Anche
quel giorno durante la pausa pranzo lui mi chiamò, sapeva che era l’unico
momento in cui potevo parlare tranquillamente, solo che non squillò il
cellulare, ma direttamente il telefono dell’ufficio.
“Sapevo
che eri ancora lì…” la sua voce appena metallica aldilà del telefono aveva
esordito così.
“Perché?”
domandai io, poi guardai distrattamente l’orologio. “Ah… l’ora di
pranzo.. ma sto mangiando!!” protestai guardandomi attorno e notando una
vecchia scatola di plastica probabilmente di qualche ciambella risalente ad una
settimana prima. Ero terribilmente disordinata in ufficio.
“Sì,
ed esattamente cosa? Lo zucchero rimasto sul fondo di quella scatola?” domandò
lui.
“Ma
come diavolo fai a sap…” ma non finì la frase, perché lo vidi entrare nel
mio studio, bello come il sole, con indosso un semplice paio di jeans, una
maglietta grigio scura, leggermente aderente, e una giacca di pelle nera. Era da
lasciare a bocca aperta e non mi ci volle la vista bionica per notare che tutta
la schiera di segretarie e assistenti fuori da quello studio, vedendolo passare
erano rimaste con tanto di bavetta alla bocca.
“Dicevi?”
domandò lui ironico, facendo scattare lo sportellino del suo telefono
cellulare, mentre io cercavo di dominare l’aritmia del mio di cuore.
“Dovevo
aspettarmelo..” commentai ironica, mentre posava una busta di carta sulla
scrivania e, per infierire ancora sul mio povero e malandato muscolo cardiaco,
mi sfiorò le labbra con le sue.
“Forse..
ma avrebbe significato che sono diventato scontato, ed io non sono scontato..”
si lasciò scappare in un sospiro, con ancora le sue labbra sulle mie.
Avrei
potuto anche morire. Questo era certo.
Edward
era tutto per me, non credevo si potesse amare così profondamente una persona,
avere bisogno di lui in questa maniera, ma per quanto lo volessi negare,
qualcosa ci stava dividendo e questo qualcosa era lui e la sua dannata
ostinazione. O almeno per come la vedevo io.
“Se
non mi occupo io di te, non lo fa nessuno e poi se torni smagrita a Forks,
Charlie darà la colpa a me!” commentò, giustificando il fatto che aveva
avuto il pensiero così carino di portarmi il pranzo. In realtà non era nemmeno
la prima volta, aveva persino tentato di cucinare per me, ma con scarsi
risultati, in fondo lo si può capire, e poi quel suo disastro aveva fatto bene
al mio sconsolato ego.. c’era qualcosa che lui non era in grado di fare.
Esisteva!
Aprì
il pacchetto, cominciando a sentire un certo gorgoglio all’altezza dello
stomaco.
“Spinaci!!”
protestai guardando il contenuto con aria schifata. La verdura non era
esattamente qualcosa che adoravo.. tutt’altro, dai tempi del college avevo
assimilato la cattiva abitudine di mangiare in qualche fast food o schifezze
varie, non avevo mai il tempo di cucinare, e con questo butto vizio andavo
avanti. Certo, a volte mi dilettavo, quando era possibile in squisite cenette,
ma era abbastanza triste doverle consumare da sola.
“Voi
umani.. siete così.. fragili! Mangia la verdura. Carlisle ha detto che la tua
dieta è assolutamente pessima!” gli feci una linguaccia. Si preoccupava anche
della mia dieta adesso?
“Cos’è
temi che il colesterolo mi faccia fuori prima del tempo?” domandai ironica. La
mia frecciatina era stata molto pungente e lui ne aveva compreso chiaramente il
senso, però non rispose. Quando l’argomento non gli stava bene, taceva, o
meglio quando si trattava di un certo argomento, taceva. Per parte mia lo
trovavo un pochino ipocrita che volesse salvaguardare la durata della mia
sopravvivenza su questa terra, quando poi avrebbe potuto regalarmi l’eternità
con lui.
Tuttavia
era stato gentile e non me la sentivo di litigare, quindi con la forchettina di
plastica presi quella robaccia verde e me la infilai in bocca.
“Brava
bambina..” gli feci un’altra linguaccia da manuale, e lui ridacchiando si
avvicinò alla finestra. Pioveva. O pioveva o era nuvoloso. In tutte le serie
che avevo in visto tv, San Francisco non sembrava così uggiosa, cominciai a
pensare che forse Londra sarebbe stata meno.. ‘bagnata’.
Ad
ogni modo, Edward era bellissimo così intento a guardare fuori, sembrava sì un
Dio greco, però in quello sguardo c’era qualcosa, qualcosa che non capivo.
“Partiamo.”
Disse poi di punto in bianco inchiodandomi con la sola intensità dei suoi occhi
alla poltrona. Lo guardai sulle prime perplessa, poi mi resi conto che
l’uomo.. il vampiro che avevo accanto non era affatto uno stupido, e di certo
aveva cominciato ad intuire qualcosa che non andava. Era troppo intelligente ed
io una pessima attrice.
“Scappare,
dici?” lo pungolai.
“E’
recuperabile, Bella.” Rispose lui con una decisione disarmante. Rimasi in
silenzio senza riuscire a controbattere o dire niente. I miei turbamenti erano
rimasti solo miei, non ne avevo parlato con nessuno, sia perché nemmeno io
riuscivo a divincolarmi in quel marasma che avevo in mente, sia perché lui
avrebbe potuto leggere la mente di chiunque mi fosse accanto, compresa Alice, la
mia confidente, eppure nonostante tutto, aveva capito.
A
salvarmi ancora una volta, fu l’interfono. “Avvocato Swan, il Signor Johnson
è arrivato.” Era la mia segretaria. Strano quasi a pensarci che ne avessi
una. “Sì, Kendra fallo attendere un attimo.”
Ma
Edward aveva già compreso, si allontanò dalla finestra, ma stavolta ad una
velocità ‘umana’, quasi stanco, e stava per andare via, solo che a quel
punto fui io ad alzarmi dalla sedia e trattenerlo. Si fermò davanti a me, dopo
che avevo allungato le mani a prendere le sue, e scosse la testa, con il suo
solito sorriso sul viso. Ed ora che gli prendeva? Senza che potessi porgli la
domanda, come se avesse letto la mia mente, mi fissò i piedi.
“Sei
senza scarpe.” Al che arrossì. ed anche piuttosto violentemente.
“Sarei
caduta se le avessi tenute.” Mi giustificai, consapevole della mia
imbranataggine.
“Ti
avrei presa io.” Rispose lui distogliendo lo sguardo con un tono che
significava ben più di quello che le sue parole dicevano. Era come se sentisse
che non avevo più bisogno di lui, che la goffa ed impacciata ragazzina che
riusciva a mettersi continuamente nei guai, fosse sparita, ma non era così, era
esattamente davanti a lui e teneva le sue mani strette tra le sue, era solo un
po’ più grande. Il bisogno di lui però era esattamente lo stesso, anzi forse
era anche più grande, più intenso.
“Vorrei
solo poter essere io per una volta a dover sostenere te..” gli risposi
fissandolo dritto negli occhi, mentre il mio cuore batteva talmente forte da
poterlo sentire rimbombare nella stanza.
Era
quello che volevo, essere come lui, e non solo una piccola creatura indifesa,
incapace di capire cosa avesse dinanzi, che lui aveva il compito di proteggere
dal mondo… e da se stesso.
continua..
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