Patisserie française
fragolottina's time
questo capitolo mi piace!
davvero, ci sono tante cose... e poi, ancora non avevo scritto nessun
momento in cui erano seriamente solo Veronica e Pierre, la storia alla
fine parla di loro, si sentono un po' trascurati... ed era un po' anche
che non se ne stavano tappati in cucina...
quindi, prima di dire cose che vi rovinerebbero eventuali sorprese, vi auguro buona lettura!
CAPITOLO 4
Un abbraccio che si chiama disattenzione
Quindi, oggi niente appuntamento
galante, niente trucco semplice, ma carino, niente scarpe scomode e
bellissime, niente cena pagata e chiacchiere per conoscersi meglio.
Avevo già scelto come vestirmi, mi ero perfino depilata le gambe
oltre il ginocchio – lo so, è terribile, ma quando non hai
intenzione di svestirti per nessuno smette di essere una
priorità – tutta fatica inutile.
Un altro giorno all’inferno, meglio conosciuto come ‘Pâtisserie Française’...
Con le
braccia incrociate sul petto osservo il signor ‘annulla il tuo
appuntamento’ Mureau darmi delle uova, due panetti di burro,
mezzo pacchetto di farina, un bicchiere di zucchero ed un barattolo di
marmellata di pesche già aperta. Ah già, anche un quarto
di bustina di lievito. Cosa che toglie l’effetto sorpresa alla
mia ricetta, visto che ce n’è solo una che io possa fare
con questi ingredienti.
«E se
non volessi fare una crostata?» gli domando, tanto per rendermi
conto quanto il mio effettivo libero arbitrio conti.
«Non si
può fare sempre quello che si vuole.» è la sua per
niente soddisfacente risposta. Mi piazza davanti anche una bilancia,
poi sparisce nell’ufficio di Eleonora.
Evidentemente il mio libero arbitrio non conta niente.
Sospiro di sollievo, almeno sono sola!
Mi avvicino ad uno sportello e recupero una terrina, sto anche per romperci dentro un uovo quando…
«Fai
una crostata in una terrina?» mi domanda con il tono di chi si
aspetta un ‘no’ come risposta.
Cielo, che ho fatto per meritare una simile condanna?
Mi volto a
fulminarlo, è fermo davanti all’entrata dello studio con
in mano un blocco ed una penna, c’è scetticismo e poca
stima nelle mie capacità nella sua espressione, ma non è
quella che sto guardando; mi fa strano vederlo in cucina senza divisa,
oggi indossa soltanto un paio di jeans sul grigio, una camicia a
maniche corte a quadri grigi e blu e sotto una maglia a maniche lunghe
a tinta unita, sempre blu.
«Sì,
faccio una crostata in una terrina.» ammetto fiera. Si può
fare una crostata in una terrina, viene buona lo stesso, lo so, si
evita semplicemente di fare troppo casino inutile.
Si stringe
nelle spalle recuperando una sedia e salendoci sopra per raggiungere
degli scaffali alti. «Se lo dici tu.» commenta senza
entusiasmo.
«Mi
serve il latte.» rifletto notando che non me ne ha fornito.
Intanto rompo finalmente l’uovo nel contenitore, prima che possa
interrompermi con qualche altra osservazione sgradita, e prendo a
sbatterlo con una forchetta.
Sposta i
piedi rimanendo in bilico su due gambe della sedia, io prego
silenziosamente che cada. So che è orribile, ma sono qui da
appena mezz’ora ed ho già i nervi a pezzi. Sono sicura che
tutto questo stress mi farà venire tante di quelle rughe, che
Eleonora dovrà regalarmi un lifting per contratto.
«No, non ti serve.» dice senza guardarmi e contando in punta di dita i pacchi di qualcosa.
Ma che diavolo, lo saprò cosa mi serve?
«Sì, invece.» insisto.
Lui atterra
di nuovo pesantemente sulle quattro gambe e salta giù fissandomi
stranito, si avvicina al frigo e mi porge un mezzo cartone di latte a
lunga conservazione già aperto.
«Grazie.» sorrido ipocrita.
Sbatto le uova, poi peso il burro ed inizio a tagliarlo a dadini.
«Oh, già.» inizia.
Ma perché è ancora qui? Non dovrebbe fare l’inventario?
«Ti sto cronometrando.» annuncia come se fosse una cosa normale.
Io mi fermo
ad occhi sgranati e lo fisso, completamente ed inevitabilmente
incredula. «Mi stai…» ma non riesco a finire.
Perché tra tutti i pasticceri che possono esserci nel mondo, il
mio capo deve essere la reincarnazione di un agente delle SS?
Solleva il
braccio e si scopre il polso, mostrandomi un orologio nero.
«Cronometrando.» ripete, poi però aggrotta le sopracciglia
riflettendo. «Si dice così, n’est-ce pas?»
C’è un limite anche alla follia. Deve esserci.
«Perché, per l’amor del cielo?» sbotto, incapace di trattenermi.
Lui mi fissa
e si tira indietro i capelli con una mano, lo odio, ma non so cosa
darei per passare le dita tra i suoi ricci. «L’eccellenza
va conquistata.» per alcuni secondi lo guardo e basta,
perché dietro alla sua follia, alle sue richieste assurde e
tutto il resto, incredibilmente, mi trovo a rispettarlo.
Sto quasi per
dirgli qualcosa che somiglia vagamente ad una gentilezza, quando:
«Tic, tac.» mi ricorda, tornando ai suoi fogli ed al suo
inventario.
Mentre
continuo ad impastare, però ci penso. Insomma, lui è un
pezzo grosso della pasticceria, so che lo invitano spesso a convegni e
corsi d’aggiornamento, Paris Hilton ha il suo numero…
davvero, è lui a dover fare l’inventario? Mi sembra
più una mansione di Eleonora, no? Quindi – potrei
sbagliarmi e sicuramente sbaglio – è qui, nel suo giorno
libero… per me. Se è vero che ha detto alla Bernardi che
sto facendo un buon lavoro, può essere motivato a farmi crescere
in abilità.
Mi fermo,
sprofondata fino ai polsi con le mani nell’impasto, in preda ad
una qualche specie di illuminazione mistica: ma allora, è buono.
Aggiungo
dell’altra farina in trance, mentre lui mi porge un mattarello ed
uno stampo. Con tanto amore – mia nonna mi ha ripetuto fino alla
nausea che ci vuole amore per far venir bene i dolci – stendo la
prima sfoglia di pasta frolla da mettere sotto, spalmo la marmellata di
pesche e guarnisco con altre striscioline di pasta. Guardo in faccia la
mia opera come se fosse mia figlia e le mando un bacio, perché
è proprio una crostatina carina.
Quando torno in contatto con il mondo, mi accorgo che Pierre mi sta fissando perplesso.
Lo ignoro, ma
arrossisco. Mi volto a studiare il forno e faccio per allungare la mano
verso la prima manopola, quella della temperatura.
«Qu’est-ce que tu fais?» e c’è qualcosa
che somiglia realmente al terrore nella sua voce.
Mi giro a
metà per lanciargli un’occhiata, lui mi sta puntando
contro il cucchiaio con cui ho spalmato la marmellata. Non scherzo, lo
sta facendo sul serio ed anche se dovrei rendermi conto
dell’assurdità della situazione, realizzare quanto sia effettivamente assurda, e scappare a gambe levate, non riesco ad impedirmi di scoppiare a ridere.
«Non. Toccare. Il mio. Forno.» sillaba, mentre io mi sbellico senza alcun controllo.
«Come
la cuocio la crostata?» gli chiedo asciugandomi gli angoli degli
occhi con le dita, ancora ridendo perché, santo cielo, quello
mi sta minacciando con un cucchiaio sporco di marmellata perché
io non alzi un dito sul suo forno. Penso che nemmeno Tiziana mi
crederebbe se glielo raccontassi; nessuno mi crederebbe se lo
raccontassi!
«Faccio
io.» si offre raggiungendomi, provo tanto per vedere la sua
reazione ad allungare di nuovo la mano, che lui prontamente
schiaffeggia con la sua. «Temperatura?» mi chiede
guardandomi, vicino e solo ora smetto di ridere, solo ora ricordo che
oggi siamo completamente soli qui.
Studio la crostata ed il forno. «Duecento gradi.»
Rimane per
alcuni secondi con le dita sulla manopola. «Sicura?»
domanda ancora fissandomi con aria di sfida, io annuisco nei suoi
occhi. «Bien.» accende tutto, poi rimane come me appoggiato
al piano di lavoro, mentre aspettiamo che si scaldi.
Oggi siamo completamente soli qui.
Osservo il
nostro riflesso sul vetro scuro, più il suo che il mio.
«Deve piacerti molto questo forno.» commento perché
non riesco a sopportare il silenzio, è così pieno di
pensieri.
«J’aime questo forno.» risponde senza guardarmi.
Ammetto che
è il primo che conosco ad amare un elettrodomestico. Studio i
suoi occhi, il suo naso, la sua bocca, avrebbe potuto fare il modello,
mi domando come un bambino – perché è molto giovane
e per essere arrivato ad un tale livello deve aver iniziato da
ragazzino – possa voler fare il pasticcere. Io da piccola volevo
fare la ballerina, come tutte le bambine.
«Da
quanto sei in Italia?» gli domando facendo due conti. Non mi sono
legata i capelli, ho solo un frontino a tenerli indietro, strano che
non abbia aperto bocca al riguardo.
Lui
deglutisce, si estranea e mi sento quasi in colpa perché non
credevo di avergli fatto una domanda scomoda; chiude gli occhi,
lasciando cadere la testa all’indietro. «Cinque
anni…» sospira. È tanto. «tre mesi e ventitre
giorni.»
Quando riapre
gli occhi per leggere la mia reazione, io lo sto fissando e non riesco
a smettere. Lui ricambia il mio sguardo senza espressione, senza
curiosità, sa a quale conclusione sto giungendo: i carcerati
contano i giorni, gli esiliati.
«Il forno è pronto.» annuncia spezzando quel momento.
Mi volto e
recupero la mia crostata, lui mi apre lo sportello, per non farmelo
toccare. «Ma fai sul serio?» chiedo scoccandogli
un’occhiata eloquente. È ridicolo, dovremo pur trovare un
compromesso prima o poi, non so, posso usare guanti scelti
appositamente da lui, può controllarmi, può tenermi una
serie di lezioni sull’uso consapevole e corretto degli
elettrodomestici da cucina; quello che vuole, ma deve farmi toccare
questo benedetto forno.
Non avrei dovuto distrarmi.
Nell’infornare il dolce, senza fare attenzione a tutte le cose
arroventate con le quali potrei scottarmi, finisco per sbattere con il
braccio sinistro, lasciato nudo dalla manica arrotolata, contro il
vetro.
«Attenta!»
Strizzo gli
occhi e lascio cadere la crostata sulla griglia per ritirare di corsa
le mani… e realizzo che il dolore non arriva. Non sono io ad
essermi scottata, è la mano di Pierre, intorno al mio braccio.
Si è
allungato dietro di me, circondandomi e coprendo la mia sbadataggine
con… sé stesso.
Sbuffa
scrollando il pungo sinistro chiuso. «Tu es comme une
fille!» mi rimprovera chiudendo il forno.
Resto
impressionata dal suo sangue freddo, da come venga prima la mia
crostata, che si assicura sia sistemata a dovere all’interno
accendendo la luce, della sua mano. Dal fatto che ha coscientemente
messo una mano sul mio braccio per non far bruciare me.
«Oh!» esclamo mortificata prendendogli il pugno ancora
chiuso. «Mi dispiace tantissimo!» continuo tirandolo verso
il lavandino, niente è efficace quanto l’acqua fredda per
le scottature.
«Imposta il timer.» mi ricorda.
«Al
diavolo il timer.» sbotto ignorandolo. Una crostata può
bruciare, anche se è la più carina del mondo, posso
prendere altre uova, altro burro, altra farina, altra marmellata e
ricominciare daccapo. Non posso fare un altro Pierre.
Apro il
rubinetto dell’acqua fredda, gli sollevo la manica – magari
ha qualche legame speciale anche con questa – e gli tiro la mano
insieme alla mia sotto il getto gelato. Ho fatto male i conti, o forse
sono stata troppo impetuosa, perché così facendo me lo
tiro praticamente addosso; tutto il suo corpo preme contro la mia
schiena, tanto che, per rispetto, mi appoggia la mano ancora buona sul
fianco per evitare contatti troppo… troppo!
Ho ancora la mano stretta alla sua.
Deglutisco e
la tiro via dall’acqua per studiarla più da vicino, sul
dorso, vicino alle nocche, è ben visibile il segno rosso che
sarebbe dovuto essere sul mio braccio.
E le sue dita circondano quasi tutta la mia, minuscola, fragile, in confronto alla sua.
«È solo una scottatura.» mormora piano, annoiato.
Non ho il
coraggio di voltarmi a guardarlo perché sento, come se fosse
ricoperto di spilli, ogni punto del suo corpo che tocca il mio:
c’è il suo torace contro la mia schiena, immagino il suo
viso sopra la mia spalla, una gamba è tra le mie, ma con
delicatezza, mi sfiora appena in un contatto non intenzionale, ma non
per questo meno reale; e la sua mano è sul mio fianco, grande
come quella che sto guardando così da vicino.
«Mi dispiace, sono un disastro.» mi scuso ancora.
Ridacchia.
«Oui, mais regarde!» lascia il mio fianco per allungare
l’altra mano ed in un modo o nell’altro mi trovo tra le sue
braccia. Si libera anche della mia stretta e si indica tutta una serie
di discromie su dita, palmo e dorso, cicatrici di anni di pasticceria,
intrappolandomi ancora di più nel suo abbraccio. Non lo si
dovrebbe chiamare così, in fondo, si tratta soltanto di
disattenzione. «Non farne una tragedia.» mi tranquillizza
facendo un passo indietro.
Io rimango
ferma per alcuni secondi, il cuore mi batte più forte, se ne
è accorto? Forse hanno ragione Tiziana e gli altri: è
troppo tempo che non sento sul mio corpo l’abbraccio di un uomo.
Immagino di essere un in crisi d’astinenza ed il mio cuore
scintilla per ogni piccolo contatto con un bel ragazzo… mi sento
un po’ patetica e tanto disperata.
«Controlla la crostata!» mi ricorda.
Chiudo il
rubinetto e mi passo la mano bagnata sul viso per placare i bollenti
spiriti: inconscio, hai retto un anno e tre mesi, non puoi piantarmi in
asso proprio adesso! Appena posso ti porto a cena con Matteo, ça va?
La crostata è pronta.
Armata di
guanti questa volta, la tolgo dal forno – che ha aperto Pierre,
ovviamente – e la poso sul piano d’acciaio. L’aspetto
è ottimo, bella dorata, promette proprio bene.
«Che ne pensi?» gli chiedo sorridendo.
«Che somiglia realmente ad una crostata e non è poco.»
Gli scocco un’occhiata indispettita, che lui volutamente ignora.
Prende un
coltello e ne taglia uno spicchio con disinvoltura, la solleva con una
mano sola, la studia. «La consistenza c’è.»
proclama, per un attimo me lo immagino con vestiti rinascimentali a
leggere un comunicato di qualche nobile, su pergamena. Sospira.
«Courage.» si dice prima di addentarla.
Mastica.
Mastica.
Mastica.
«Allora?!» domando nervosa, strizzando tra le mani il guanto che mi sono sfilata.
Alza
l’indice facendomi segno di aspettare, concentrato. «Troppo
dura. Cottura sbagliata, duecento gradi sono troppi per una crostata,
mais tu non conoscevi le four, quindi ça va.»
«Va bene?» domando eccitata, sconcertata ed incredula.
«No.» mi sembrava strano. «Manca il burro, pourquoi
il latte?» mi domanda infastidito. «Il latte non è
burro, il burro fa frollare la pasta frolla, la pasta frolla deve
frollare.»
Sbatto le palpebre dubbiosa: voce del verbo ‘frollare’? Ma esiste?
«Perché è più salutare.» mi giustifico lamentosa.
Lui mi
guarda. «Seduta.» ordina e sarà perché per
colpa mia si è fritto una mano o perché… non lo
so, avrò il morbo del cagnolino addestrato! Balzo a sedere sul
tavolo d’acciaio. Lui posa quel che resta dello spicchio di
crostata accanto allo stampo. «La signora Evelina Torindi viene
qui una volta a settimana.» lo osservo perplessa, e staremmo
parlando esattamente di cosa? «È sovrappeso, il dietologo
le ha concesso soltanto un dolce da poche calorie alla semaine.»
appoggia le mani sulle mie ginocchia ed io deglutisco sbirciandole di
sbieco, chiedendomi quanto sia un contatto intenzionale. «Lei non
mangia dolci per tre settimane, accumula le calorie e la quarta semaine
si mangia un mio tortino che ordina su misura per non…» si
morde il labbro inferiore interrompendosi, poi mi stringe il ginocchio
sinistro, per attirare la mia attenzione... come se non ce l'avesse
già. «Com’è quella parola?»
«Superare?» provo ad indovinare.
«Esatto!» esclama. «Superare… alors, per non
superare il limite. Se io le servissi la tua crostata si sentirebbe
insultata, perché ha faticato tre settimane per potersi gustare
qualcosa di buonissimo, non per qualcosa di...» fa una smorfia
schifata. «salutare.»
No, ho capito
il senso del suo discorso, nonostante continui a scrutarlo dubbiosa.
«Esiste davvero una signora Evelina Torindi?» gli chiedo
seriamente curiosa.
Lui si
allontana e, senza più il contatto con le sue mani calde, dalle
ginocchia mi parte un brivido di freddo. «Oui, una mia grande
fan.» si stiracchia incrociando le braccia dietro la testa,
languido. «Muoviti, ce ne andiamo.» salto giù dal
tavolo e recupero le mie cose tra cui anche la mia crostata, che mi
premuro di sistemare in una busta: Pierre ti odia, ma io ti voglio
bene, crostatina.
«Sono promossa?» domando, raggiungendolo mentre mi abbottono il cappotto.
Lui sta
fissando il piano di lavoro vicino al suo adorato forno.
C’è un capello, un capello scuro e lungo, un capello mio.
«No.» dice fingendo di non essersene accorto, spinto da
qualche spirito caritatevole. «Ma se c’è uno che
può fare il miracolo, c’est moi.»
Tiziana addenta la mia crosta e la mastica con calma.
«Secondo me è buonissima.» dice coprendosi la bocca con la mano. «Sam?»
La sta assaggiando anche lui. E Laura. E Simone. Tutto il mio fan club, insomma.
«La
crostata è buona, è stato deciso.» annuncia Sam ad
alta voce. «Perché non ci dici qualcos’altro?»
«Tipo?» domando candidamente.
«Non
so…» inizia Simone riempiendo un boccale di birra.
«che avete fatto mentre cuoceva, ad esempio.» spiega
malizioso.
Mi stringo
nelle spalle, seguendo con un dito la traccia umida che il mio
bicchiere di coca ha lasciato sul bancone. «Si era
scottato.»
«Scottato?!» ripete curiosa Tiziana. «In posti sconvenienti?»
La fisso
eloquente. «E come dovrebbe aver fatto a scottarsi in posti
sconvenienti?» le domando ironica, a volte la mia amica vuole
così tanto ascoltare un racconto interessante e piccante da
fregarsene del realismo.
«Beh,
se non eravate vestiti…» insinua Laura posando il vassoio,
con il quale ha appena servito le bevande, sul bancone.
Alzo gli
occhi al cielo e mi tiro su in piedi. «Ok, ok.» comincio.
«Per evitare ulteriori incomprensioni in futuro, siamo sempre
vestiti quando lavoriamo.» dico, intenzionata a non tornare ancora
su questo punto. «Si era bruciato la mano per non far bruciare
me.» concludo per soddisfare la loro necessità di
pettegolezzi.
«Davvero?!» mi sento chiedere da quattro voci in coro.
Strabuzzo gli occhi sorpresa. «Ah-ah.» mormoro timorosa e mi siedo di nuovo.
«Ma che carino!» squittisce Tiziana.
«Non
è carino, è presuntuoso.» borbotto ricordando come
ha demolito la mia adorata crostata, che poi non aveva niente che non
andava.
«Belle mani, però, vero?» domanda Laura con un’occhiata eloquente.
Non rispondo,
sa da sola cosa direi, dubito che servi la mia conferma a chi
probabilmente l’ha visto tutto.
Tiziana mi da
di gomito. «Sicura che non ci sia niente, niente, niente, che
valga la pena raccontare?» mi domanda indagatrice.
Mi tiro i
capelli dietro l’orecchio destro – più
un’abitudine che una necessità – pronta a
rispondere, ma mi blocco passandomi di nuovo le dita tra la mia chioma
lunga. «Mi tagli i capelli?» domando di punto in bianco
alla mia amica guardandola seria.
«Come?» chiede scrutandomi incredula.
«Cos’hanno che non va i tuoi capelli?» continua
adattandosi al mio repentino cambio di argomento.
Non le rispondo. «Per favore, fino alla spalla.»
«Ma… io…» tentenna. «Potrei fare un pasticcio.»
«Sai
che per alcuni secondi siamo stati praticamente abbracciati?» la
tento sventolandole sotto gli occhi una mia ciocca.
Lei si scola
l’ultimo goccio di birra rimasta nel suo bicchiere e si pulisce
la bocca con il dorso della mano con enfasi, facendomi scoppiare a
ridere. «Sam? Forbici.»
secondo voi a Pierre piaceranno i capelli corti?
lo scoprirete nella prossima puntata...
come vedete qualcosa si muove nella pasticceria... nella prossimo
capitolo si muoverà qualcosa anche in casa di Daniele e
Veronica...
nel frattempo se mi dite che ne pensate di questo mi farete felice!
baci
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