Annotazioni:
il titolo è
preso da un verso di una poesia di Pascoli, L'assiuolo.
ALBA
DI PERLA
La
luce rosata a metà fra notte e giorno parlava chiaro: era
giunta l’ora di alzarsi e tagliare la corda. La prima cosa
cui pensò Paloma fu che per l’ennesima volta si
era ritrovata con un braccio indolenzito; approfittò dei
pochi spiragli di luce per mettere a fuoco la stanza e, mossa audace e
preventiva, disinnescò la sveglia digitale: non era il caso
che si mettesse a suonare e svegliasse la ragazza accanto a lei, non
dopo tutta la premura che stava usando per scivolare via dalle
lenzuola. Poggiò i piedi nudi sulle mattonelle fredde e
andò alla ricerca dei suoi vestiti; recuperò i
jeans acquattati sul pavimento, prese i calzini appallottolati e li
svolse per infilarli; compì tutte quelle operazioni di
abbigliamento con molta cura, nel tentativo di minimizzare il fruscio
degli abiti. Mentre s’infilava le scarpe le diede
un’occhiata. La tizia stava dormendo e il suo respiro non
tradiva alcuno stato cosciente. Non sapeva un bel niente di lei e non
aveva alcun motivo valido per restare in quella stanza.
«Un
incidente di percorso?» le aveva domandato la sera prima.
Era
meglio mettere le cose in chiaro e capire quanto sarebbe stata
difficile la ritirata il mattino seguente.
«Non
lo so» aveva risposto lei.
A
Paloma era sembrato che non volesse approfondire il discorso e un
po’ se n’era sorpresa. Certo rendeva le cose molto
più facili, ma non vi era abituata; non c’era
stato nemmeno il patetico tentativo di abbraccio! L’aveva
lasciata in pace e se n’era stata per i fatti suoi.
Si
prese qualche secondo in più per osservarla, con la
lucidità della mattina. Non era davvero niente di speciale,
pensò, la si sarebbe detta la più normale delle
ragazze.
Infilato
anche l’altro braccio nella manica della camicia, Paloma si
sentì autorizzata ad uscire; richiuse la porta con grande
attenzione. Quando si sentì abbastanza al sicuro si
abbandonò ad un sospiro di sollievo e accese la luce del
corridoio, onde prevenire sfortunati capitomboli. Si stupiva sempre di
essere in grado di percorrere interni di appartamenti di cui, la
mattina dopo, non ricordava nulla. Eppure era andata così:
le aveva gironzolato attorno con aria allegra per stemperare almeno un
po’ della tensione accumulata a suon di sguardi e frasi
allusive; aveva lasciato le sue cose all’ingresso per non
perdere altro tempo la mattina dopo e, con le mani finalmente libere,
le si era avventata contro con l’impazienza di chi non ha
aspettato altro per tutta la sera.
Le
venne in mente che aveva bisogno di andare in bagno e non si fece
troppi scrupoli ad approfittare dell’ospitalità.
La ragazza doveva aver dimenticato di abbassare la serranda e dalla
finestra già entrava luce sufficiente ad illuminare
l’intero ambiente. Paloma si calò i pantaloni.
Sedette, assorta nei suoi pensieri.
Le
pareti bianche e i sanitari lucidi la frastornavano un po’,
con tutta quella luce. Sulla vasca da bagno che le stava di fronte
erano allineati diversi flaconi di bagnoschiuma, shampoo e creme,
ognuno di un colore diverso e di una forma particolare. Paloma
afferrò una confezione di colore viola e la
esaminò sul davanti e sul retro, leggendo
l’etichetta e saggiandone l’odore. Spese qualche
secondo per cercare di ricordare se la ragazza avesse un profumo
particolare, ma non le venne in mente niente, a parte una camicia color
vinaccia.
«Che
ne dici se ci spostiamo di là?» aveva suggerito
lei.
Paloma
l’aveva diligentemente seguita, attaccandosi alla sua schiena
e beandosi di quel contatto.
«Aiutami
a slacciarla.»
La
ragazza si era seduta sul letto ed aveva armeggiato con la chiusura
della sua camicia-body.
«Se
non ti imbarazza troppo» aveva aggiunto, maliziosa.
«Assolutamente.»
No,
non le veniva in mente proprio nulla che avesse a che fare con un
profumo. Staccò della carta igienica dal rotolo, si
asciugò e tirò su mutande e pantaloni prima che i
ricordi della sera precedente le provocassero reazioni che, in quel
momento, sarebbero state solo d’impiccio. Abbassò
il coperchio della tazza e tirò lo scarico.
Si
domandò che marca di dentifricio usasse. Senza star troppo a
riflettere sulle curiosità insane e sul tempo che stava
perdendo, diede un’occhiata al lavandino. Trovò
una caramella alla menta. Allungò una mano, la
scartò e cominciò a succhiarla, spostando la sua
attenzione su un set per la manicure.
Accanto
al tagliaunghie e alla limetta c’era la boccetta di uno
smalto grigio perla; quello lo ricordava, sì.
«Ahia,
mi fai male!» le aveva fatto notare con voce flebile, dopo
essere stata trafitta fra le scapole.
«Scusa,
hai ragione... » lei aveva smorzato la presa.
Sì,
doveva essere un colore scuro e le sue unghie dovevano essere ben
curate, ma lunghe; ricordava ancora meglio quando lei le aveva stretto
il collo torcendo il braccio all’indietro, cercando un
qualsiasi sollievo.
«F-fortuna
che è la prima volta» aveva balbettato Paloma,
sorpresa dalla disponibilità a variare.
La
sua risposta non era stata altro che un gemito soffocato, subito
seguito da un movimento convergente delle gambe, impazienti di
stringersi attorno alle sue dita. Non era stato un problema per lei
vedersi voltata di schiena e intrappolata fra il corpo di Paloma e la
sua mano.
Il
ricordo degli ansiti riecheggianti nella camera da letto le
provocò un po’ di rossore, dal quale
tentò di distrarsi esaminando anche il resto dei cosmetici:
mascara, ombretti, fondotinta, deodoranti. Non le andava proprio
giù che fosse stato tutto così freddo, no. Le
dispiaceva ammetterlo, ma avrebbe voluto saperne qualcosa di
più; non che la ragazza avesse dimostrato di essere
più intraprendente di altre, la notte precedente –
Paloma aveva avuto le più varie esperienze in tal senso, che
spaziavano da appassionate di sadomasochismo a inquietanti feticiste
affette dalle più strane manie – ma
quell’atteggiamento tranquillo e sereno, l’augurio
della buonanotte senza una dichiarazione avventata, non tornava.
Fece
schioccare la lingua contro il palato, godendosi l’aroma
fresco della caramella, poi avvicinò al viso un lucidalabbra
ed estrasse il pennellino dal cappuccio, provando a passarselo sulla
bocca. Uno spaesato e androgino pagliaccio. Si pulì con un
altro pezzo di carta, rimuginando ancora su quel che si erano dette la
sera prima in cerca del passaggio che doveva esserle sfuggito.
«Non
sarò brava come te,» le era giunto alle orecchie
come un sussurro, appena percettibile. «Ma posso imparare in
fretta.»
Mentre
s’interrogava su quali potessero essere le
proprietà nascoste del lucidalabbra e si abbandonava ai
ricordi della serata precedente, accadde qualcosa di molto stupido la
riportò bruscamente nel presente e le fece intendere quanto
tempo avesse speso a ciondolare in quel bagno: suonò il
citofono.
Il
trillo forte e secco fu come un colpo di frusta; Paloma
lasciò subito andare il cosmetico che aveva in mano e
spezzò a metà la caramella che aveva in bocca. Si
irrigidì, in ascolto, sperando con tutto il cuore che
l’importuno visitatore decidesse di passare più
tardi, ma soprattutto che la ragazza non si svegliasse.
Il
rumore di una porta che veniva spalancata e un paio di pantofole che si
trascinavano sul pavimento la strinsero lo stomaco; quando i passi si
fecero più rapidi e lontani, non ebbe dubbi: si era
svegliata.
«Sì,
sali pure» la sentì rispondere.
Si
rese conto con orrore di essere bloccata nel bagno e, a meno di non
voler dare spettacolo avventurandosi fuori dalla finestra, non vedeva
altra soluzione che non fosse restare lì in silenzio e
sperare che la ragazza lasciasse perdere la toeletta per quella
mattina. Tese l’orecchio, in ascolto, sentendosi sempre
più stupida.
La
conferma l’ebbe quando la porta del bagno si
spalancò – nella sua ingenuità aveva
perfino dimenticato di chiuderla a chiave – e se la
ritrovò davanti. Tutta la sua persona le urlava:
sì, sei ridicola. Dopo un’iniziale sorpresa, la
ragazza domandò:
«Sei
ancora qui?»
«Eh,
avevo bisogno del bagno.»
Sembrava
quasi dispiaciuta. Paloma venne quindi cacciata via e relegata nel
corridoio, dove rimase, non sapendo che fare, ad ascoltare il rumore
dell’acqua che correva. Dovevano essere ormai quasi le otto;
che stupida era stata a non essersene andata subito: ora non aveva idea
di che cosa dirle, quale scusa inventare per congedarsi;
l’unica cosa sensata che le venne in mente fu di scappare
vigliaccamente, senza dare spiegazioni.
Con
l’eco dei rumori provenienti dal bagno nelle orecchie si
avviò verso la porta e si mise in spalla la borsa; non aveva
però fatto in tempo a raccogliere il giubbino fra le mani e
posare la mano sulla maniglia del portone che suonò il
campanello.
Paloma
imprecò fra i denti. Non poteva né uscire fuori
come se nulla fosse e né rimanere lì inerte.
Tuttavia fu proprio quello che fece, nell’ingenua speranza
che il visitatore scegliesse di andarsene. Al secondo trillo del
campanello la ragazza che era in bagno le intimò di aprire e
lei, posando le sue cose sul divanetto dell’ingresso,
obbedì.
«Ciao!»
Si
trovò di fronte un ragazzo con un grande sorriso sulle
labbra, le mani impegnate a reggere un vassoio proveniente dalla
pasticceria e tutta l’aria di esser venuto lì per
incontrare e corteggiare la ragazza che aveva passato la notte con lei.
Trovarsi davanti la faccia imbarazzata e confusa di Paloma lo
raggelò.
«Stavo
cercando Francesca.»
«Ah,
Francesca. È in bagno» si affrettò a
rispondere lei.
Entrambi
intuivano che c’era qualcuno di troppo. Dopo il primo momento
di silenzio imbarazzato lui domandò:
«Tu
sei...?»
«Paloma.»
«Piacere,
Bruno.»
Nessuno
dei due aveva l’aria di essere contento; Paloma
pensò che dovesse sentirsi molto ridicolo con quel vassoio
in mano. Fece un passo indietro, con l’intenzione di farsi da
parte, ma a risolvere le cose pensò la padrona di casa, che
uscì di corsa dal bagno per andare incontro al nuovo
arrivato.
«Ciao
Bruno! Come stai?»
Lo
baciò sulle guance. Prese i pasticcini e lo
invitò ad entrare.
«No
no, non volevo disturbare... pensavo che fossi da sola» fece
subito lui.
Il
modo in cui guardava Paloma non lasciava dubbi su chi fosse
l’intruso. Lei, nel frattempo, aveva recuperato borsa e
giubbino e aspettava solo il momento migliore per congedarsi; non le
piaceva per niente la piega che stava prendendo la situazione: non
sapeva chi fosse quel Bruno, non sapeva quali fossero le complicazioni
sentimentali intercorrenti fra loro ed era certa di non volerci avere
niente a che fare. Non era pronta a reggere una scenata di prima
mattina.
«No,
non ti preoccupare, entra pure!»
Mentre
parlava così, la ragazza afferrò un lembo della
maglietta di Paloma e la trasse indietro con decisione, come a dire: tu
da qui non ti muovi. Allo stesso modo prese Bruno per una mano e lo
trascinò nell’appartamento. Si trovarono tutti e
tre nell’ingresso. Pareva che Francesca non avesse aspettato
altro.
«Vieni,
andiamo in cucina» fece, invogliando Bruno a precederla.
Paloma
pensò che fosse il momento buono per comunicarle sottovoce
la sua volontà di abbandonare la situazione al
più presto; non aveva nemmeno iniziato ad accennarle di
certi impegni urgenti, della promessa di chiamarla non più
tardi dell’indomani, ma fu tutto inutile: la ragazza la prese
per mano con sicurezza e se la tirò dietro.
«Senti,
scusa, io veramente dov-»
«Oh
andiamo! Resti a colazione, no?»
Paloma
non era preparata a respingere l’assalto di un paio di occhi
pietosi.
«La
colazione. Per favore.»
La
condusse dunque in cucina, dove trovarono la tavola già
abbigliata con tanto di tazze, cucchiai e biscotti. Fecero il loro
ingresso tenendosi ancora per mano e Paloma ebbe
l’impressione che a Bruno, di quel colloquio, non fosse
sfuggita una sola mossa. Sedettero. In quello stesso momento
capì di essere stata incastrata.
Francesca
teneva molto a introdurre i due ospiti. Paloma capì soltanto
che lei e Bruno erano amici d’infanzia e che lui le faceva
visita ogni qualvolta gli era possibile; ogni tanto nel suo racconto
veniva fuori la vena compassionevole per quell’amico
così chiaramente innamorato e privo di speranze.
«Così
Bruno è vittima della sindrome migratoria» diceva
la ragazza.
«Sindrome
migratoria?»
«I
miei amici studiano tutti a Pescara, Chieti, Campobasso e
così via. Nei weekend scendono tutti in massa. Vero,
Bruno?»
«Sì,
è vero. Una volta sul treno ho incontrato del tutto
casualmente quattro ragazzi che abitano qui vicino.»
«In
pratica l’Adriatica è una sezione staccata del
Gargano.»
Nel
frattempo Francesca la guardava in modo strano: ci metteva
più che qualche secondo per distogliere lo sguardo da lei.
«Sai,
non pensavo che avessi ospiti. A saperlo, sarei passato più
tardi.»
Bruno
non provava nemmeno più a mostrarsi gentile, ma nessuna di
queste esplicite ostilità l’impensieriva.
«Hai
ragione, hai ragione. È solo che anche lei è
scesa ieri e si è fermata qui a Foggia per farmi un saluto.
Visto che non ci vedevamo da un sacco di tempo... vero?»
Aveva
mentito con una naturalezza che stupì Paloma; sembrava
un’abitudine e forse lo era. Essere sua complice nella bugia
non era nei piani. Ecco, le stava proprio bene, così
imparava a perdere tempo a cincischiare nel bagno delle sue ragazze.
Una vocina le suggerì che dopotutto non era poi una bugia
così grossa e assentì col capo.
«Capisco»
fece lui.
Francesca
le rivolse un bel sorriso e Paloma vacillò. Qualcosa le
tremò nello stomaco, forse un campanello che
l’avvertiva di essere prudente, ma non se ne accorse: era
troppo occupata a ricambiare.
*
Quando
Paloma terminò il suo racconto le uniche luci rimaste ad
illuminare la strada erano quelle dei lampioni: la luna era sparita
dietro un grosso nuvolone scuro e la città se ne stava in
silenzio. Le piaceva sempre raccontare quella storia, ogni volta che
trovava qualcuno disposto ad ascoltarla non perdeva occasione per
rifilargli quelle teorie ampiamente – a sua detta –
dimostrate. Nonostante il passare del tempo, continuava a sembrarle la
cosa più assurda del mondo e s’indispettiva quando
gli altri non capivano. Il tonfo di una bottiglia di birra contro il
marciapiede la fece sussultare: non aveva la visuale molto ferma e fece
fatica a rinsavire. Batté più volte le palpebre e
mise a fuoco una, due, tre ragazze.
«Che
storia.»
«Un’esperienza
interessante.»
Paloma
era seduta sulla panchina nel mezzo del corso a gambe larghe. Intorno a
lei si era radunata una piccola folla – non sapeva nemmeno
lei quando e come si fosse creata – di ragazze che, alla
chiusura del locale l’avevano seguita ed avevano ascoltato la
sua storia per filo e per segno.
«Ma
poi era vero che eri passata a trovarla?» domandò
una delle ragazze che le stavano più vicine.
«No,
era una scusa, non hai capito niente!» spiegò
un’altra ragazza, infervorandosi. «Era un modo per
far capire a Bruno che non aveva proprio nulla da fare,
lì!»
«Chi
è Bruno?»
Tutta
la compagnia appariva molto distante e in evidente stato di
ubriachezza; l’unica ad aver ascoltato il suo racconto con
attenzione sembrava essere la ragazza alla sua sinistra, dotata di un
grazioso giubbotto beige e di un paio di lunghe ciglia.
Paloma
era un po’ confusa. Sbadigliò e, poggiando un
gomito contro lo schienale, si resse la testa che le ciondolava di
lato. Lo scenario della città notturna e deserta le piaceva
molto e al contempo la rattristava grandemente: era bello andare in
giro per il corso privato del rombo delle auto e della moltitudine di
passanti, ma al contempo quel vagare senza meta le generava un senso di
solitudine a tratti spaventosa. Se ricordava bene, era uscita quando
mancava poco alla mezzanotte e si era stabilizzata in un locale
qualsiasi, provando un inspiegabile desiderio di lasciare la sua casa e
il suo letto. Se n’era stata per i fatti suoi, col mento
poggiato sul bancone e tutta l’aria di non aver voglia di
parlare con nessuno, quando le si era avvicinata una ragazza
– o forse due, chissà – che le aveva
domandato cos’avesse.
Lì
aveva cominciato a raccontare e raccontare, snocciolare nomi e cognomi
a casaccio, straparlare di una relazione che non le piaceva per niente
e che tutto sommato le faceva comodo, di una serie di coincidenze, di
un vassoio di pasticcini e di un citofono che aveva suonato troppo
presto.
Una
volta giunta a nominare il profumo di albicocche dello shampoo della
sua ragazza la folla attorno a lei si era fatta tanto numerosa da
costringerla a voltarsi totalmente dalla loro parte. Ancora una volta
nessuno voleva capire che era qualcosa di eccezionale.
«Insomma,
in fondo chi l’aveva detto che doveva andare così?
Non c’era stato nessuno sfarfallio la sera prima, nessuna
scintilla... voglio dire, niente di speciale! Doveva essere una cosa
tranquilla, una serata come migliaia di altre!»
«E
invece...»
«Invece...
non so, è stata tutta sfortuna!»
«Sfortuna?»
«Sfortuna
sì! Se quel campanello non avesse suonato proprio in quel
momento, io me ne sarei andata via subito e non l’avrei
probabilmente mai più rivista. Mai
più...»
«Be’,
nessuno t’impediva di andartene.»
«Tu
cosa le avresti detto? Dovevi vedere con che occhi mi
guardava!»
«Ma
che c’entra, se sei rimasta è perché
qualcosa è scattato, no?»
«No.»
«E
allora cosa?»
«Io...
non so, ho scelto per convenienza. Sì, per
convenienza!» affermò, felice di aver trovato il
giusto termine. «Lei non aveva niente di speciale, lei non ha
niente di speciale!»
«E
allora lasciala, cosa vuoi?»
«Lasciarla?»
Paloma
avvertì qualcosa dentro di sé tremare mentre
ripensava all’effetto che le aveva fatto quella domanda.
«Come
sarebbe a dire lasciarla?»
«Lasciarla.
Se non c’è motivo perché stiate
insieme...»
Quei
passaggi li ricordava distintamente ed anzi le sembrava che fossero
stati gli unici momenti veramente significativi di quella notte;
sforzando di più la memoria, anche se con la testa ovattata
e pesante, riusciva a riprodurre il balbettio che le era salito alle
labbra di fronte a parecchie paia d’occhi in attesa di
risposta.
«C-che
cosa? No-non... che cambierebbe?» aveva risposto, facendo
seguire uno sbuffo divertito, in cerca di consenso.
Si
stropicciò un occhio, estraniandosi dal ricordo, e
notò che gran parte delle ragazze che prima le stavano
attorno erano svanite nel nulla. Una ragazza però le era
rimasta accanto, quella con il giubbino beige. Si accorse che la stava
guardando con molta attenzione e che si era spostata in modo da farsi
più vicina; chiedendosi fra sé da quanto tempo la
stesse fissando a quel modo, domandò:
«Che
ore sono?»
«Le
quattro e qualcosa.»
Tirando
un sospiro e reggendosi coi gomiti sulle ginocchia, Paloma si
sentì inquieta e a disagio. Si domandò che cosa
stesse facendo lì e comprese
l’inutilità di quella nottata passata in bianco.
Ebbe voglia di tornare a casa.
«Non
hai sonno?»
Vide
la mano della ragazza poggiarsi sulla sua gamba e provò
l’impulso di ritrarsi, disgustata. Per sfuggirle si
poggiò contro lo schienale, alzando il capo verso il cielo a
controllare la presenza di qualche nuova stella.
«Di’,
non hai sonno?» riprovò quella.
«No,
non tanto.»
«Come
no, ti si chiudono gli occhi.»
Era
vero, doveva fare una gran fatica per tenerli aperti. Per fortuna
c’era qualcos’altro, un pensiero più
urgente, a tenerle occupata la mente.
La
ragazza allungò una mano oltre la schiena di Paloma e le
spostò qualche capello dalla fronte, incoraggiata dalla sua
aria catatonica.
«Se
ti va ce ne andiamo a casa mia.»
Le
tornò in mente l’ultimo frammento della sua
arringa tenuta alla folla.
«In
che senso cosa cambierebbe? Che vuol dire, che le ragazze sono tutte
uguali?» le avevano domandato.
«No...»
aveva replicato lei a fatica, confondendosi. «Che andare con
un’altra ragazza significherebbe ripetere tutto daccapo, non
ci sarebbe niente di particolare! Il senso è che... dunque,
non è che sono tutte uguali...»
«Ma
va’ che è ubriaca, non capisce nemmeno quello che
dice.»
S’innervosiva
a ripensarci; non avevano capito. A un tratto si divincolò
dalla presa della sua aspirante seduttrice e decise che ne aveva
abbastanza di stare seduta su quella panchina.
«Dove
te ne vai?» domandò la ragazza, allungando una
mano per trattenerla.
Paloma
le voltò le spalle e iniziò a camminare a passo
sostenuto in una direzione qualsiasi. Le sembrava di udire qualche cosa
nell’aria, probabilmente richiami misti ad insulti, ma non vi
badò. Fu molto lesta a ritornare sui suoi passi, le
sembrò che le strade conosciute le si presentassero davanti,
invogliandola a seguire quel percorso; mano a mano che camminava
accelerava il passo e non vedeva l’ora di giungere a
destinazione.
Finalmente
comparve il portone del suo palazzo, il familiare marciapiede ai piedi
del quale era parcheggiata la sua macchina. Infilare le chiavi nella
serratura, spingere il portone e salire di corsa i due piani di scale
fu semplicissimo, quasi quanto fiondarsi nell’appartamento
con il fiatone e un mal di testa crescente.
A
quel punto, tranquillizzata dal silenzio della casa, dal calore e dalla
familiarità dell’ambiente, Paloma
avanzò a tentoni verso la camera da letto; la
guidò la debole luce dell’abat-jour, che
lasciavano sempre accesa. Corse verso il letto, salendovi vestita di
tutto punto e stringendo a sé la vita della ragazza
addormentata fra le coperte.
Il
contrasto fra le sue mani fredde e il corpo caldo, unito al profumo dei
capelli su cui posò un bacio, la rassicurò a tal
punto da indurla a chiudere gli occhi e dimenticare tutto quello che le
era capitato quella notte; non uno solo dei pensieri e delle domande
che si era posta tornò a farle visita.
Il
fiatone che aveva accumulato nella sua frenetica corsa si
placò piano piano, finché Paloma non
regolarizzò il respiro secondo quello della sua fidanzata e
si addormentò, vinta dalla stanchezza.
Francesca,
a quell’abbraccio inaspettato, ebbe un sussulto che la
ridestò da un sonno leggerissimo: per tutta la notte si era
rigirata nel letto, conscia dell’assenza di Paloma; si era
concessa solo qualche sprazzo di sonno, dal quale si era risvegliata
con sempre maggiore inquietudine. Quella volta poggiò una
mano sulle sue e richiuse le palpebre. Anche se l’angoscia la
tormentava ogni volta, lo sapeva: tornava sempre.
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