erano i capei
Erano i capei
d'oro a l'aura sparsi...
Malgrado
l’inizio non fosse dei migliori, ero
convinto, in qualche modo, che potesse
essere senz’altro divertente spendere del tempo con la
piccola italiana.
A primo impatto, era
stata irruente e troppo irriverente,
ma era stato proprio quel piccolo errore causato dalla sua euforia a
portarmi a
considerarla.
Mi divertiva, anche se
la piccola Marie aveva
completamente occultato la mia mente, solitamente logica.
Non so ancora come, ma
era riuscita a convincermi ad
imparare l’italiano.
Mi dovetti ricredere,
se in un primo momento avevo pensato
che quella lingua fosse in qualche modo simile ed assimilabile alla
mia: no,
mai pensiero fu più sbagliato!
A partire dagli
accenti: Marie ben presto fu costretta a
spiegarmi che l’accento tonico nella lingua italiana non era
solito cadere
sempre sull’ultima sillaba – caratteristica della
lingua francese – ma la
maggior parte delle parole erano piane, ovvero, l’accento
cadeva sulla
penultima sillaba.
Ciò
differenziava molto le due lingue: Marie,
ridacchiando, disse che il francese sembrava una sorta di ninnananna,
mentre
l’italiano più una filastrocca.
Non era facile e mi
chiesi se anche lei avesse avuto le
mie difficoltà – all’opposto –
nell’apprendere la mia lingua, che reputavo
semplice.
Eppure, quante cose
stupide feci per lei!
Durante uno dei nostri
innumerevoli incontri, ella mi
pose sotto il viso un libro, le cui scritte dorate erano rovinate tanto
amava
quel libro.
Alzai gli occhi nei
suoi, e sul suo viso colsi
un’espressione soddisfatta, mentre continuava a fissare il
libro con una
dedizione che avrei voluto dedicasse a me.
Sembrava che mi stesse
rivelando un segreto mai detto ad
altri, e volevo che rimanesse così.
Qualcosa, per sempre.
Forse,
l’italiano mi aveva reso stupido, anche se secondo
Marie – il cui nome in italiano era
‘Maria’, e mi incoraggiò a chiamarla
così – il francese era molto
più … ‘smielato’.
«Questo
è il Canzoniere»,
mi disse, mischiando inevitabilmente le nostre lingue, per mantenere il
titolo
intatto.
Sorrisi, come se fosse
tutto ovvio anche per me.
Si sedette di fronte a
me, soddisfatta, dimentica
dell’etichetta e del nostro prendi, mordi e fuggi.
«È
di Petrarca», chiarì, cercando di nascondere un
sorriso irreprimibile ed irresistibile.
«Penso che
queste letture possano aiutare la vostra
comprensione della mia lingua. Trovo il suo modo di comporre liriche
davvero …
unico», mi disse con un piccolo gesto della mano, che
portò alle labbra
leggermente rosse, e sembrava che quell’uomo avesse qualcosa
che a me sfuggiva.
Che sfuggiva a
chiunque non fosse disposto ad accettare
che la poesia conquistava inevitabilmente il cuore di una donna
romantica, a
chi rifiutava di ammettere che ci fosse qualcosa che non sapesse fare,
ed
infine – sebbene non ultimo – qualcosa di cui non
fosse dotato per mano divina.
Qualcuno come me, ad
esempio, anche se non era un
‘qualcuno’ qualsiasi, e forse era ancora peggiore,
per questo!
«Provate a
leggerle!», m’incitò con un sorriso.
Aprii il libro con un
sospiro, e la guardai di nuovo,
mentre il suo sorriso aumentava troppo, ma non per questo era volgare.
Sfogliai rapidamente,
fino a che non iniziai a leggere
qualcosa, a caso:
«Erano i capei
d’oro a l’aura sparsi
Che ‘n mille
dolci
nodi gli avolgea,
e ‘l vago lume
oltre misura ardea
di quei begli
occhi, ch’or ne son si scarsi».
La guardai, mentre
ridacchiava.
«Che
c’è?», chiesi come un bambino!
«Il tuo
italiano!», rise, piegandosi su se stessa e
reggendosi il ventre, tanto si burlava di me.
In quel momento capii
che le avevo lasciato oltrepassare
tutti i limiti della decenza, dell’educazione e
dell’etichetta. Le convenzioni
si erano rotte come tanti specchi caduti a terra.
«Pensavo che
ormai mi fosse concesso solo di migliorare»,
annuii, imbarazzato.
Quando entrai, subito
Marie mi fece
notare il mio ritardo; ormai non potevo più correggere tutta
quella confidenza
che aveva preso, quindi annuii, notando come i suoi occhi brillassero
divertiti, prima di tornare alla pagina che aveva davanti agli occhi.
Mi sedetti al mio
posto, mentre lei si
girava per sedersi di fronte a me.
«Vedo che
questa lettura vi ha molto
catturato», sorrise, scostando il libro dal viso.
«Quale?»,
sorrisi, non poco preoccupato.
Ella non disse nulla
che potesse
indirizzarmi a capire di quale segreto fossi stato derubato, ma spinse
delicatamente il libro fino a me.
Ed eccolo, Petrarca! Prima non leggevo bene le sue
poesie, e poi mi tradiva di
nuovo!
Chissà dove
l’avevo lasciato …
Sospirai, e lo spinsi
di nuovo verso di
lei, per poi sedermi meglio nella mia poltrona.
«Vi
è piaciuta molto?»
Sorrisi, non volendo
rispondere.
«Non mi
rispondete?», chiese sorridente,
sporgendosi verso di me.
«Sì,
mi piace», ammisi, più per non farmi
torturare che per reale convinzione. Chiusi gli occhi, leggermente
stanco.
La sentii reprimere
una risata: doveva
essere soddisfatta.
«Ho un
favore da chiedervi, se
possibile», e con una sola e semplice frase, aprii gli occhi.
Appena i nostri
sguardi s’incatenarono
per qualche secondo di troppo, concedendoci sguardi che non
c’erano usuali,
Marie abbassò lo sguardo, concentrandosi su un dettaglio
della mia scrivania.
«Ditemi»,
pronunciai, vagamente freddo,
sfogliando un libro che avevo davanti, senza nemmeno notare una parola.
«Vi prego di
non piegare le pagine: si
rovinano. E poi, se volete leggerla, basterà aprire il
libro, e troverete
subito la poesia, visto che anche io la amo molto e sono solita
leggerla», mi
chiese, alzando appena gli occhi ad incontrare i miei.
«Allora
siete sicura di non volerlo
indietro?»
«Sicurissima».
Il silenzio
imbarazzante che scese mi
mise a disagio, e capii che se volevo finirlo, dovevo essere io a
prendere
iniziativa.
«Ed ora,
sono io a volervi chiedere un
favore», dissi con un sorriso.
Subito la vidi
animarsi: «Dite!», esortò.
«Che ne
dite, di leggermi voi questo
componimento?», chiesi.
«Come
volete», acconsentì, sebbene fosse
estremamente felice di quella richiesta.
«Vi
piacciono le favole?», mi chiese,
interrompendo la lettura.
«E a
voi?», chiesi, con un piccolo cenno
del capo.
Sì, ero re
e le favole non mi spiacevano.
Che cosa stupida. In fondo, le favole erano piene di re e principi.
«Io le
amo», mi rispose con uno dei suoi
sorrisi più belli.
Strinsi un poco la
presa sulla sua vita:
«Questa è solo una scusa per non leggere
più nulla?», la presi in giro.
Marie, fingendosi
sdegnata, si alzò dalle
mie gambe: «Come potete accusarmi di siffatta …
ingiusta calunnia?», disse,
cercando le parole giuste.
«Io non vi
accuso»
Mi guardò
incuriosita: «Non oserei mai!»,
mormorai, sporgendomi verso di lei e porgendole la mano.
Il suo sguardo si
addolcì così tanto che
vidi le sue pupille tremare tra lacrime cristalline, poi mi
afferrò la mano, si
voltò e si sedette di nuovo sulle mie gambe.
«Bene,
riprendiamo la lettura», disse,
riaprendo il libricino consunto, mentre io mi sporgevo oltre la sua
spalla.
Si voltò
verso di me, con un sorriso e lo
sguardo che gèmmea: «Siete bellissima,
Marie».
Lei rise, come se
avessi detto una cosa
sciocca, oppure una cosa ovvia.
E ai miei occhi era
cosa ovvia. Si voltò,
scuotendo la testa e ripresa la sua lettura:
«Non era l'andar suo cosa
mortale
ma d'angelica
forma, e le parole
sonavan altro che
pur voce umana;
uno spirto celeste,
un vivo sole
fu quel ch'i' vidi,
e se non fosse or tale,
piaga per allentar
d'arco non sana.
»
«Marie, vi
prego di rileggere ancora una
volta».
Si voltò
verso di me, enigmatica, ma
acconsentì: «Come volete».
Rilesse una seconda
volta, lentamente,
lasciandosi trasportare da quelle parole che spesso aveva sognato in
notti
troppo fredde per essere scaldate da una tazza di the.
Mi parve di intuire
che lei avesse capito
ciò che le carpivo.
Dopo alcuni minuti di
silenzio, dissi:
«Sapete …», e le spostai una ciocca
bionda di capelli dalla tempia, « … sai, la
prima volta che ti ho visto, ho pensato proprio così, mia regina d’Italia!».
Marie rise, ricordando
il nostro
incontro: «Se fossi davvero regina d’Italia, mio
caro, sareste davvero
fortunato, perché potrei farvi vedere come padrona un Paese
che ho lasciato per
servirne un altro», mi disse, forse dimentica del fatto che
il Paese cui
accennava alla fine era quello di cui ero re.
Mi sorrise, un poco
tristemente,
accarezzandomi dolcemente il profilo della mandibola e la guancia.
«Io
vi amo, Marie», rise, del mio tentativo di parlare
nella sua lingua natia.
«Vi
ringrazio, Maestà …», disse, fingendo
stanchezza per allontanarsi e alzarsi da quella situazione che stava
diventando
troppo intima ed informale, «ma se dovete parlarmi in
italiano, vi prego di
chiamarmi Maria».
«Come
volete, Maria!»,
le risposi, per
nulla deciso a lasciar cadere la questione, e la abbracciai,
ridacchiando nel
suo orecchio destro.
All’inizio
la sentii divincolarsi sotto
la mia presa, poi però lasciò correre la
situazione, si rilassò contro il mio
petto ed iniziò a ridere, prima delicatamente, poi sempre
più forte.
«Perdonatemi,
perdonatemi»
«Non
è colpa vostra», disse, cercando di
convincerci, stringendoci le mani.
«Non dite
così, sapete che non è
così!»,
le risposi, quasi isterico. Nei miei confronti, certo!
«Vi prego,
non crediate che sto cercando
di alleviare solo la vostra pena!», strinse ancora
più forte le mie mani, che
mi ritrovai a guardare: le sue, così piccole, cercavano di
contenere le mie,
così grandi rispetto alle sue, e mi sorreggevano. Mi
sostenevano.
Incredibile.
«Maria, cosa
posso fare?», chiesi, cercando
qualsiasi cosa che potesse alleviare il mio tormento ed il mio caos
interiore.
Lei scosse la testa,
chinandola e
poggiandola sulle nostre mani congiunte.
«Nulla,
Louis. Nulla. Cosa potete fare o
non potete fare non sono io a dirvelo. Moi,
je ne suis pas la reine d’Italie», disse,
alzando gli occhi lucidi di lacrime
nei miei, in un vano tentativo di scherzare.
Abbozzò un
sorriso, a cui risposi per
riflesso.
Mi si
avvicinò un poco, mormorando poche
parole confuse, in un italiano troppo veloce e impastato
perché potessi capirlo
perfettamente, e più passava il tempo, più nella
memoria perdevo le tracce
delle sue parole, come piccoli tasselli che lentamente perdevano la
loro forma,
e di conseguenza, il loro posto.
«Ricordatevi
sempre, e dico sempre, che vi amo e vi amerò»,
mormorò al mio orecchio, per
poi poggiare la sua guancia contro la mia, e accarezzare
l’altra con una mano.
Mi scostai di poco,
chiedendole: «Cosa
avete detto?».
In
quell’attimo, vidi nei suoi occhi la
luce della comprensione: non avevo recepito le sue parole, anche se il
significato mi era chiaro lo stesso, in qualche modo.
Come quando si sa
qualcosa, ma non la si
sa spiegare.
«Niente»,
mi rispose, «niente. È solo una
sciocca filastrocca».
Mi disse
così, sebbene sapesse che non ci
avrei creduto.
Continuò ad
accarezzarmi per qualche
altro secondo, fissandomi e percorrendomi con lo sguardo, come per
fissare
nella memoria ogni particolare legato a me.
Mi cantò
una ninnananna senza parole in
quella lingua che lei aveva definito come una filastrocca, e mi lasciai
cullare, forse per l’ultima volta, dalla sua voce.
Non era l'andar suo
cosa mortale
ma d'angelica
forma, e le parole
sonavan altro che
pur voce umana;
uno spirto celeste,
un vivo sole
fu quel ch'i' vidi,
e se non fosse or tale,
piaga per allentar
d'arco non sana.
Qualcuno,
più tardi, avrebbe detto che le
favole si scrivono anche da adulti, e forse è proprio
così: il re e l’orfana,
l’italiana e il francese, il padrone e la serva.
Alcune favole
finiscono bene, così piene
di buoni propositi; altre rimangono tragicamente sospese a
metà, senza il lieto
fine che tanto agognano, come un affogato il cui ultimo sospiro rimane
bloccato
in gola per sempre.
Storia scritta per la Maritombola di
Maridichallenge
con il prompt 73. "Le favole sono la cosa più importante della nostra vita. Anche da grandi si scrivono favole." (Roberto Benigni).
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