Alla Ricerca di un Piccolo Demone
La prima volta
che la incontrai fu in stazione, in un uggioso pomeriggio di inizio
primavera.
Gli alberi,
stremati dal passato inverno rivelatosi particolarmente rigido in quell’anno, faticavano ancora a mostrare le gemme acerbe
dei primi fiori. Innervosito dal freddo di punta, cercai in tutti i modi
possibili di riparare il viso dal vento gelido proveniente dal nord, che senza
tregua sferzava i volti dei passanti in
violente folate di vento, piegando, sotto le sue discontinue ondate gelide, anche
il paesaggio intorpidito dal tempo cupo e spento.
Sfregai energicamente
le mani felpate da guanti di pelle e alzai il colletto del cappotto nero,
sperando di alleviare il rossore diffusosi sul naso e sulle guance. Voltai
frettolosamente l’angolo e mi intrufolai di gran fretta
dentro la stazione che, seppur anche li la temperatura non fosse certo tropicale,
era comunque più tiepida che quella di fuori. E quando
mi sedetti sulla panchina d’angolo nella sala d’aspetto, incrociai per la prima
volta il suo sguardo torbido come il mondo. La fissai per ore e ore,
ininterrottamente. Lei, nascosta dietro le pagine rigide di un libro vecchio e
particolarmente consumato, non mi degnò mai di una attenzione,
ne di una semplice svista. Ma io ero testardo, eccome
se lo ero testardo, forse molto più di lei! Lo stesso feci
il giorno seguente e quello dopo ancora. Non appena uscivo dal lavoro, alle sei
impunto, mi precipitavo in quel buco di stazione della mia città, quasi sempre deserta per quanto era vecchia e mal messa. Tuttavia era gradevole sedere su quelle panchine scrostate dal
tempo e osservare le scritte di vernice lungo le fiancate dei treni e dei muri;
ancor meglio se in compagnia di un buon giornale comprato nell’edicola di fianco.
Precipitavo poi nell’ozio più estremo quando,
rilassatomi ben bene, sfogliavo pazientemente le pagine del giornale in santa
pace, senza quella sfrenata impazienza che ogni mattina mi rincorreva come
un’ossessa. Infondo avevo tutto il tempo del mondo,
quindi me la prendevo comoda. Allora allargavo le gambe e mi sbracavo sul
sedile, sistemandomi alla meno meglio e cadendo
talvolta, in uno stato molto simile al dormiveglia.
E lei arrivava sempre alle sei e dieci in punto. Solitamente
mi nascondevo dietro le pagine del libro di turno, ficcando il naso così vicino
alla carta da catturarne il tipico odore della stampa, ascoltando nel frattempo
il rumore dei suo tacchi quando risaliva i gradini grigi
del sottopassaggio e registrando poi il fruscio delle sue vesti quando, con
estrema lentezza, si sedeva sulla fredda
panchina di metallo accanto alla biglietteria. Poi la vedevo estrarre dalla grande borsa a tracolla un taccuino dalla copertina bianca e
sgualcita, in alcuni punti giallina per quanto era consumata. Allora copriva i
bei lineamenti del suo volto dietro la schermata rigida del romanzo, sempre se
di romanzo si trattava dato che, talvolta, sembrava
annotare ai margini delle pagine qualche cosa con la penna. Ma
forse erano solamente scarabocchi improvvisi. Con il passare del tempo però mi
accorsi di quanto a rilento fosse la sua lettura,
fissa sempre su quello stesso scritto. E notai così anche le orecchiette ai
margini della pagine di quel manoscritto,
quotidianamente riprese e rilette. Ma la cosa che più
mi sconcertò fu scorgere il suo sguardo grigio perso tra quelle righe nere di
china, sperdute in una visione effimera e irraggiungibile per tutti. Era come
se il tempo non avesse rilevanza, anzi, nulla aveva rilevanza. Esisteva solo
lei. Il mondo perdeva di significato, divenendo pallido e inodore.
La bocca sottile
e quasi sempre socchiusa vomitava parole sorde
all’aria, le lunga ciglia ricurve erano quasi immobili, il suo respiro lento e
pacato; sembrava che non respirasse.
Ecco, lei non appartiene a questo mondo mi
ripetevo spesso quando la spiavo. Ma
era del tutto inutile, lei sembrava non darmi alcun peso. Non esistevo nella
sua vita, come non esisteva alcuna persona proprio perché membro di un mondo che
non le apparteneva. O almeno questo era quel che mi
trasmetteva. Mi sembrava un pesce fuor d’acqua, impiantata a forza in una
società di cui non comprendeva nulla se non l’indifferenza. E
il disagio che io stesso provavo nei suoi confronti era sentimento comune per
chiunque osservasse le lune che erano i suoi occhi.
Il suo modo di
vestire stravagante attirava quasi sempre l’attenzione
dei pochi passeggeri che avevano la sfortuna di scendere a quella fermata.
Passava dal nero al viola più scuro e denso. Vestiva quasi
sempre di vestiti strani per l’appunto e di tinte dai toni cupi. Anche il suo aspetto era cupo, ma nel contempo gracile e
interessante. Aveva sempre attorno quell’aria
impenetrabile che la distaccava dal blocco della massa, risultando alle volte
asociale, ma comunque interessante. Sarebbe stato bello rivolgerle una parola,
parlarci per qualche minuto e, perché no, passarci un intero pomeriggio. Ma lei era troppo fredda, troppo distante per poter essere
raggiunta dalle mie parole forse per lei sciape, se non del tutto vuote.
Questo perché era una persona “ troppo stana”, insomma incomprensibile.
Era del tutto impensabile cercare in qualche modo di leggerle o concepire ciò
che le circolava dentro quella testolina apparentemente così vuota. Più volte
mi domandai se, durante quelle ore in stazione, la bella ragazza pensasse veramente a qualche cosa. E allora mi veniva il
dubbio che quello che lei faceva non fosse che un modo
per far scorrere la vita. Il tempo sembrava scivolarle addosso, come se tutto
il suo corpo fosse rivestito da una pellicola che la rendeva impermeabile da tutto ciò che
proveniva dal di fuori. Sembrava essere immune ai mali
del mondo, sempre che lei stessa non fosse uno di quei mali, si
intende. Questi pensieri mi spaventarono a quel tempo, tanto da
costringermi a non presentarmi più a quell’appuntamento
mai fissato in stazione per diversi giorni. Ma dopo
una settimana mi sentii già impazzire. Dovevo rivederla. E
così tornai in stazione, questa volta senza nulla in mano. Mi sedetti sulla
solita panchina di fronte a quella della sconosciuta e la osservai
ininterrottamente per un’ora. O almeno credo. E per la
prima volta dopo settimane di maniacali “ pedinamenti ”
vidi quei suoi pozzi argentati osservarmi. Le labbra dapprima serrate, si
schiusero un poco, tanto che riuscii ad intravedere
i suoi muscoli facciali tendersi in una smorfia che mi sembrò più simile a un ghigno che a un sorriso. Se
non altro però era un passo avanti! Forse in peggio, ma comunque
di un miglioramento si trattava. Insomma, se non altro ora sapevo
di non esserle del tutto indifferente; che infondo c’era un differenza, seppur
minima, tra me e i passanti della stazione. Perlomeno speravo questo. Forse ero
un po’ troppo ambizioso, o forse, dannatamente testardo come ho già menzionato
prima. Però fui immensamente felice di vederle quel
sogghigno. Chissà che non fosse un sorrido mal
riuscito di un demonietto. Anzi, di
un piccolo diavolo, scovato per caso nella sala d’aspetto di una stazione.
E un fascino demoniaco ce l’aveva davvero! Cercai di
immaginarmi la morbidezza eterea di quella pelle di porcellana priva di imperfezioni. Al posto degli occhi aveva
due spicchi di luna, cesellati da lunghe ciglia nere e ricurve, la bocca di un
rosa pallido era piccola e fina, il corpo snello seppur un po’
spigoloso. Le guance un po’ pallide ma comunque lisce,
nascoste talvolta da lunghi capelli corvini. Lo ammetto, la
desideravo oltre ogni dire. E non mi vergognai delle fantasie che in
poco tempo riuscii a scovare in testa e costruire,
anzi, esse aumentarono la mia voglia di conoscerla.
Come se attratto
da una calamita mi avvicinavo di giorno in giorno a lei che era
diventata il mio premio per tutte quelle notti insonni e per i mille
pensieri che mi sconcertavano e spaventavano insieme.
« Mi ha stregato » mi ritrovai a pensare
qualche volta quando, imperterrito, mi chinavo per affogare nell’infinito dei
suoi occhi cupi e inquinati di una pazzia fin troppo palese.
Fu dopo qualche settimane che lo vidi, quel suo sorriso sarà
impossibile da cancellare. In un solo istante lei, in un gesto tanto misero come l’osservarmi, mi marchiò a fuoco l’anima, come solo un
diavolo può fare. E io non aspettavo altro poiché lo desideravo..
perché, in vero, ero alla ricerca di quel piccolo demone.
Lei mi
sconcertò, o meglio il suo sorriso, così spento e nel contempo vivo.. quel sorriso così dannatamente folle. Mi aggirò in un
istante e io feci di tutto per cadere nella sua trappola. Infuriato e gonfio di un desiderio indomabile e fino a quel momento
impensabile, mi avvicinai frettolosamente a lei, scostando il romanzo dalla
copertina bianca che teneva tra le mani gracili e la baciai con tutto l’ardore
di cui ero capace. Mi sentii tremare e vibrare al tocco delle sue labbra
fresche. Fu un contatto fugace, quasi impalpabile, eppure eccitante.
Mi sentii ardere dentro di un fuoco indomabile e furioso, troppo per poter
essere estinto.
“ Dimenticami ”
riuscì a dire lei scostandomi debolmente. La strinsi forte tra le mie braccia.
Ero troppo possessivo per lasciarla andare, per
cederla ad uno qualunque. Lei era mia, io l’avrei capita e chissà, forse un giorno amata.
“ Lasciami ” ripeté più decisa questa volta “ non possiamo stare assieme”
sussurrò poi sottovoce, adocchiando i
passanti che, spioni, seguivano maliziosi la scena.
“ Perché..” domandai implorante. Mi
sentivo così agitato e così vuoto. Stavo
male, avevo l’impulso di sbattere la testa al muro e di farmi pestare.
Avrei fatto qualsiasi cosa pur di colmare quell’insulsa
sensazione. Avrei persino potuto ucciderla lì, all’istante se fosse servito a qualcosa. Ostinato le strinsi più forte le
braccia tese contro il mio petto.
“ Perché non
posso che essere la compagnia di una seria.. nulla di
più ”
La guardai
sconsolato; tutta la furia che fin ad allora mi aveva
spinto si affievolì contro il suono di quelle parole calme e pacate. Allentai
la presa e sfiorai le sua braccia fino a toccarle la
mano calda. Inspirai profondamente l’odore dei suoi capelli, registrando in
contemporanea i tratti del suo volto affilato e magro.
Lei si alzò
tranquillamente dalla panchina, immergendosi nella folla indiscreta che popolava
la stazione. Tutto era tornato nel silenzio di sempre.
Io la seguii con
lo sguardo fin quando non la persi del tutto nella massa agitata. Solo quando
mi voltai mi accorsi della presenza del suo prezioso quadernino
bianco sulla panchina. Lo presi con una lentezza quasi esasperante. Sorrisi
debolmente e lo infilai con disinvoltura nella tasca del giaccone.
Da allora non la
vidi mai più, tuttavia il suo ricordo continuò ad infestare il mio cuore e la
mia mente. E così divenne la mia ossessione. Ora che
avevo scovato la chiave dei suoi pensieri non potevo
perderla, né tanto meno rimuoverla. Fu allora che mi misi alla ricerca del mio piccolo
demone, e giuro su tutto ciò che ho di più caro a questo mondo che un giorno riuscirò a ritrovare quel suo sguardo disinteressato.
Allora potrò anche abbandonarmi alla dolcezza della pena eterna. Infondo questa
è la giusta condanna per chi, come me, si è fatto catturare dalla bellezza
selvaggia di un piccolo demone.
E anche questa è
finita!!! Lo so, è un po’ breve come racconto, eppure
ci tenevo a pubblicarlo! Vorrei approfittare di questo piccolo angolo per
ringraziare tutti coloro che hanno commentato tutte le
mie storie passate, grazie veramente di cuore; i vostri commenti mi spronano e incoraggiano
a continuare a scrivere. Sono consapevole di non essere tanto brava, tuttavia
adoro scrivere.. che poi se si tratta di sfoghi o
trame del tutto inventate o immaginare non importa, mi piace trasmettere quel
che sogno e provo attraverso le pagine interattive del web. Bhè,
basta a buttar giù cavolate; ancora grazie!!! Ciao ciao carissimi, alla prossima!!!