Adagio_2
ATTO
II
RAPSODIA CREMISI
La serata
passata a star dietro a Rufiōne sembrava aver stroncato Zoroshia.
Giacché
quell’idiota, quasi dimentico del fatto che fossero comunque
rivali, avesse
passato la maggior parte del tempo a ridere e scherzare come se fosse
stato
invitato ad una festa - chiedendo sempre più cose da
mangiare nonostante i
volti stravolti dei cuochi che aveva molestato fin troppo nelle ore
precedenti,
secondo il suo parere -, aveva potuto affrontare il motivo vero e
proprio per
il quale l’aveva convocato solo per i primi cinque minuti,
dovendo in seguito
rassegnarsi agli infantili modi di fare di Rufiōne e alle risate
divertite che
essi provocavano in Namimōre e Robīta. E sì che si
supponeva che Rufiōne fosse un capo rispettabile e serio, un uomo tutto
d’un
pezzo che non si faceva confondere da niente e nessuno. Avrebbe voluto
scovare
il bugiardo che aveva messo in giro quella voce - sebbene qualcosa gli
dicesse
che fosse stato proprio Usotūya - e tagliargli la gola per puro
capriccio.
Però, in fondo in fondo, ammetteva di provare una sorta di
rispetto per
quell’imbecille di Rufiōne. Poteva forse apparire stupido,
certo, ma c’erano
anche momenti in cui riusciva a metter su la parvenza d’un
discorso sensato;
battersi dunque a spada tratta con lui sarebbe stato un vero e proprio
onore,
ma fino a quel momento Rufiōne aveva sempre evitato in tutti i modi lo
scontro
diretto, sollecitato anche dal suo fedele Usotūya.
Per quei
pensieri si maledisse, affondando con foga la lama della katana nel
manichino
che aveva dinanzi, imprecando a denti stretti; sfilò
l’arma con uno strattone,
e, senza curarsi della sagoma che aveva ormai tagliato a
metà, rinfoderò la
spada e prese un panno per asciugarsi il sudore dal fronte e collo. Da
quanto
tempo andava avanti in quel modo, con esattezza? Era entrato in
palestra
durante le prime luci dell’alba, e da quel momento aveva poi
cominciato
ininterrottamente ad allenarsi con la katana e con i pesi, senza tener
conto
del passare delle ore. E forse era stato un bene, poiché
aveva evitato, anche
se solo in parte, di perdersi fra i propri pensieri, come gli capitava
ormai di
fare da un po’ di tempo a quella parte.
Si diede
ancora una volta dell’idiota, raggiungendo la sala attigua
che dava sul bagno.
Una doccia. Ecco di cosa aveva bisogno. Una maledettissima doccia
gelata. In
quel modo, sperò in cuor suo, sarebbe riuscito a dimenticare
tutta
quell’assurda situazione. Ma anche in seguito, con lo
scrosciare dell’acqua che
gli rimbombava nelle orecchie come una melodia gorgogliante, non
riuscì a
capire perché non si desse semplicemente una mossa e non
cercasse di far fuori
il prima possibile almeno uno dei suoi avversari.
Nemmeno
quando uscì dalla doccia e si ritrovò a camminare
senza meta per i vasti
disimpegni della villa parve essere in grado di dare un senso a quel
bizzarro
sentimento che gli attanagliava le viscere, e a nulla valse provare a
rivolgere
la propria attenzione altrove, soffermando lo sguardo sui dipinti che
adornavano le pareti o sulle vecchie armature che non venivano
più lucidate da
ormai parecchi mesi.
«È da un
po’ che non ci si vede... eh,
marimo?»
Nel sentire d’un tratto quella
voce,
quella voce che non udiva da lungo tempo ma che non avrebbe potuto
confondere
con nessun’altra, Zoroshia sguainò immediatamente
una delle katane che portava
al proprio fianco, e, con mossa fulminea, tagliò una delle
colonne che si innalzavano
nel corridoio, ignorando la breve esclamazione sorpresa che
udì provenire
dietro di essa.
«Non sono venuto qui per
litigare,
idiota, riponi le armi!» sentì sbottare attraverso
il polverone che si era
venuto a creare, e solo quando infine si diradò
riuscì a distinguere la figura
dell’ultimo uomo che, in quel momento, avrebbe mai voluto
vedere. Poté però
rendersi immediatamente conto che, in quegli ultimi due anni, era
drasticamente
cambiato: pur mantenendo la sua solita aria arrogante da sciocco
dongiovanni, si
era fatto crescere un po’ di barbetta in più e
persino i baffi, scostando il
ciuffo di capelli con cui aveva sempre nascosto l’occhio
sinistro. Appariva più
maturo di quanto ricordasse, così diverso dal ragazzo che
aveva conosciuto
prima ancora di succedere al padre per acquisire il controllo sul suo
territorio. Più volte si era domandato come sarebbero potute
andare le cose se
nessuno dei due fosse appartenuto a quel mondo, ma ormai non
c’era più tempo
per stupidi quesiti; erano rivali, doveva metterselo bene in testa.
Fu dunque per quel motivo che, puntando
la lama contro di lui, Zoroshia lo fissò intensamente,
pronto a dar battaglia
se fosse stato richiesto. «Nessuno ti ha dato il permesso di
entrare in casa
mia, Sanjīno», replicò in tono secco, avendo
l’accortezza di non mostrare sul
proprio viso, per nessuna ragione al mondo, segni di turbamento per
quell’incontro così inatteso.
Il sorriso strafottente che si dipinse
sulle labbra dell’altro, però, riuscì
soltanto ad irritarlo più di quanto già
non fosse. «Oh, adesso c’è bisogno del
permesso per andare a trovare un amico,
caro il mio spadaccino?»
«Non prendermi per il culo,
bastardo»,
sibilò, non accennando ad abbassare la propria arma. Sin
dalla tenera età gli
era stato insegnato a non abbassare mai la guardia, e sapeva fin troppo
bene
che con l’avversario che aveva dinanzi la prudenza non era
mai troppa. «Cosa ti
ha convinto a strisciare fuori dal buco in cui ti eri
rintanato?»
Le labbra di Sanjīno si ridussero ad una
linea sottile, e forse fu solo per evitare di lanciarsi contro Zoroshia
che si
portò una mano alla tasca dei pantaloni, affrettandosi ad
alzarla quando vide
il suo nemico pronto a colpirlo, avendo probabilmente creduto che
stesse per
prendere la pistola. «Sta’ calmo,
marimo», sbuffò, mostrandogli il pacchetto di
sigarette con aria spavalda. «Vuoi fare un tiro anche tu? Sei
un fascio di
nervi», soggiunse ironico, ben conscio che avrebbe dovuto
prestare più
attenzione nel rivolgersi a quell’idiota. Era un
po’ come trovarsi dinanzi ad
una tigre cresciuta in cattività, se proprio doveva fare un
paragone. Potevi
provare ad allungare la mano per carezzarla, ma dovevi stare attento
che non te
la staccasse a morsi. Infastidire Zoroshia era praticamente simile, a
ben
pensarci.
«Piantala con le stronzate,
damerino»,
lo redarguì quest’ultimo con voce aspra.
«Ti avevo fatto una domanda, ed esigo
una risposta».
Sanjīno si prese ancora un po’
di tempo
per eludere quel quesito, afferrando con due dita una stecca prima di
portarsela alle labbra. «Non sono affari che ti riguardano,
marimo», rimbeccò
poi in tono sprezzante, armeggiando con l’accendino per
provare ad accendere la
paglia. «Ho solo pensato di tornare a reclamare
ciò che mi spetta di diritto,
spadaccino. La cosa ti crea problemi?»
La reazione di Zoroshia, a quelle
parole, fu istantanea: gli fu addosso in una frazione di secondo,
ghermendogli
il braccio con ferocia per evitargli di fuggire prima di conficcargli
furente
le unghie nella carne. «Che diritto hai di intralciarmi dopo
essere sparito per
tutto questo tempo, dannato bastardo?!» sbraitò
fuori di sé dalla rabbia,
afferrandolo per la bella camicia che indossava e facendogli cadere
dalle
labbra la sigaretta; le dita erano contratte a causa dell’ira
che tratteneva a
stento, e il suo sguardo, puntato ostinatamente sul viso del biondo,
celava ben
più di un semplice gesto dettato dall’odio che li
accumunava. Orgoglio ferito,
risentimento, abbandono... sembrava che in quell’unico occhio
verde schizzasse
una vasta gamma di emozioni contrastanti, e Sanjīno non poté
fare a meno di
restarne spiazzato. E ancor più quando, senza preavviso,
sentì le grosse mani
dell’altro catturargli i polsi, circondandoglieli con dita
lunghe e sottili.
«Che diavolo fai, marimo di
merda?!»
esclamò, provando a strattonare le braccia nella speranza di
essere lasciato.
Ma Zoroshia aumentò la stretta, facendo sì che
dalla sua bocca sfuggisse un
piccolo suono acuto simile ad un lamento. Che diamine aveva intenzione
di fare,
quello sfasato? Aveva forse intenzione di frantumargli le ossa? Beh, se
la sua
idea era quella, di certo non se ne sarebbe rimasto fermo a guardare.
Fu dunque
immediatamente che alzò una gamba, pronto a colpirlo con
decisione allo
stomaco; si bloccò però con il ginocchio a
mezz’aria nel momento stesso in cui
Zoroshia si sporse verso di lui, soffocando nel fondo della sua gola
ogni
parola con la propria bocca.
Esterrefatto, stretto nella morsa letale
del suo avversario e incapace di comprendere l’evolversi
della situazione, fu
forse meccanicamente che Sanjīno rispose alla rabbia di quel bacio nel
quale si
era ritrovato coinvolto, afferrando con i propri denti il labbro
inferiore
dell’altro come se volesse strapparglielo via, avvertendo il
pressante contatto
del corpo di Zoroshia contro il proprio.
«Sta’
zitto», ansimò quest’ultimo
contro le sue labbra, schiacciandolo con la
schiena contro la parete; gli inchiodò poi le mani al muro
e, assicurandosi che
nemmeno volendo potesse liberarsi da quella sua stretta, Zoroshia gli
allargò
le gambe con un ginocchio, insinuandolo fra di esse per carezzare, al
di sopra
dei pantaloni scuri che indossava, la virilità di Sanjīno. E
il gemito
prolungato che ottenne fu capace di mandargli letteralmente in tilt il
cervello, gettando alle ortiche il suo stoico autocontrollo. Voleva
prenderlo
lì, in quello stesso istante, in quel corridoio parzialmente
illuminato nel
quale si trovavano; voleva riempirsi le orecchie dei sospiri lussuriosi
che gli
avrebbe provocato nel carezzare ogni anfratto del suo corpo, sentirlo
inarcare
contro di sé e sussurrare il suo nome in preda alla passione
più folle,
beandosi del grido d’appagamento che si sarebbe lasciato poi
sfuggire
nell’attimo supremo dell’orgasmo.
Il suo unico pensiero fu unicamente
quello quando, attirandolo a sé per cingergli i fianchi con
un braccio, lo
trascinò lungo il disimpegno che li divideva dalla sua
camera, aprendo la porta
a tentoni una volta raggiunta; e fu solo nel momento in cui
avvertì il contatto
del materasso contro la schiena che Sanjīno riottenne con fatica il
controllo
delle proprie facoltà mentali, deglutendo sonoramente
nell’osservare, disteso
com’era, la figura di Zoroshia sovrastarlo in tutta la sua
imponenza.
C’era qualcosa, nella sua
testa, che gli
diceva di andarsene da lì alla svelta, di smetterla di
fissare con ottusa
insistenza e ossessione quell’occhio che lo scrutava come se
fosse stato una
succulenta preda, di accoppare quel bastardo e di reclamare il potere
che gli
spettava di diritto; eppure, nel restare inchiodato a quella iride
smeraldina,
l’unica cosa razionale che gli venne in mente di fare fu
quella di mandare a
puttane le chiacchiere che gli affollavano la mente. Se ne sarebbe
pentito, lo
sapeva, ma per i ripensamenti ci sarebbe stato un secondo
momento.
Represse un gemito nel sentire la lingua
di Zoroshia scivolare lentamente lungo il collo, avendo persino la
maledetta
audacia di scansargli la camicia per scoprire un capezzolo e succhiarlo
con
avidità, vezzeggiandone la pelle ruvida con i denti.
«Credevo fossi ormai...
sposato con Namimōre, marimo»,
esalò infine con il fiato corto e ansante, socchiudendo gli
occhi nel momento
esatto in cui avvertì il morbido peso
dell’erezione dell’altro contro le
proprie cosce. Stava succedendo davvero? Gli sembrava impossibile da
concepire,
eppure le sensazioni che stava cominciando a provare fra le braccia di
quello
stupido erano assolutamente... magnifiche.
Non avrebbe saputo trovare aggettivo migliore, accidenti.
Le mani di Zoroshia corsero rapide lungo
i suoi fianchi, scivolando verso le cosce per afferrare saldamente
l’incavo
delle sue ginocchia e sollevargli di poco le gambe. «Essere
davvero sposato con
lei cambierebbe le cose?» sentì dire da
quest’ultimo, assimilando le parole con
una lentezza esasperante.
Avrebbe voluto rispondere di
sì, che non
avrebbero dovuto trovarsi lì su quel letto dalle lenzuola
ormai strappate, che
ciò che stavano facendo era dannatamente sbagliato
perché, oltre ad essere due
uomini, erano anche rivali, ma le parole che sussurrò
spiazzarono persino lui. «No»,
soffiò con un fil di voce.
Le labbra dello spadaccino si
appropriarono voraci delle sue, mordendo furentemente quello inferiore
fino a
fargli sentire sulla lingua il sapore del suo stesso sangue quando quel
cozzare
di bocche e denti si trasformò nella parvenza di un bacio.
«Allora sta’ zitto,
ricciolo», sibilò Zoroshia con voce roca e
ansimante quando si separarono,
premendo maggiormente il corpo contro di lui per far sì che
avvertisse
l’eccitazione che aveva cominciato ad animarlo.
La sua mente continuava a ripetergli che
avrebbe dovuto fermarsi, che avrebbe fatto meglio a concludere quella
pazzia
prima che fosse stato troppo tardi, ma il suo corpo non sembrava per
niente
d’accordo con la sua parte razionale; fu difatti senza
riflettere che,
catturando fra le proprie labbra il lobo di un orecchio di Sanjīno,
Zoroshia
fece risalire entrambe le mani fino al limitare dei suoi pantaloni,
afferrando
saldamente la cintura per liberarla dai passanti. Gli calò i
calzoni fino a
metà coscia insieme all’intimo che indossava,
ignorando deliberatamente il
suono soffocato che il biondo si lasciò scappare quando la
sua erezione, ormai rigida
e dolente, fu esposta alla vista senza vergogna.
Zoroshia sfiorò la sua
virilità con la
punta delle dita, sorridendo con fosca soddisfazione quando un sospiro,
tra il
voglioso e l’insoddisfatto, risuonò
prepotentemente nella stanza buia, facendo
sì che un brivido d’eccitazione corresse senza
remore lungo la sua spina
dorsale.
Il
tempo dei giochi era appena cominciato.
_Note conclusive (E
inconcludenti) dell'autrice
Questa
volta l'immagine a lato c'entra abbastanza con la storia, lol, anche
se vedere Sanji che sovrasta Zoro fa un certo effetto, soprattutto se
si pensa che in questa immagine pare essere lui l'attivo di turno
Anyway! Sclero mio iniziale a parte, in questo capitolo niente lemon,
mi spiace. Le regole del contest me lo impedivano - e non avevo nemmeno
tanto voglia di scrivere una storia erotica, dato che mi volevo
concentrare specialmente sulla psicologia dei personaggi e sulla
situazione che si cela dietro tutto -, dunque ho solo accennato il
momento. Per chi fosse interessato, però, posterò
a parte
la one-shot “Yakuza
no Allegretto”,
spin off che comprenderà la scena a rating rosso che ho
dovuto
saltare e che ho deciso di scrivere per l'ormai passata p0rn fest, dato
che il prompt era proprio su questo otherverse e non potevo dunque
farmelo scappare.
Al prossimo
capitolo. ♥
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Farai felice milioni di
scrittori.
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