Ricordi
*-*-*
E’
da parecchio tempo che non entro in questa casa. Se lo domandassi a
chiunque altro, probabilmente mi risponderebbe che non è
così,
che in realtà non ne è passato poi
così tanto,
ma per me è un’eternità.
Appena
ho aperto la porta un forte odore di chiuso mi si è infilato
nelle narici, e per un momento la penombra in cui tutto era avvolto
mi ha confuso. Era sempre tutto così luminoso qui, luminoso
come te, uno specchio della tua
anima……Maria…..
Ho
superato la soglia e mi sono guardato attorno quasi con la sensazione
di non riconoscere le cose, con la sensazione di essere un completo,
totale estraneo in questa che dovrebbe essere casa mia. Sono stato
per quasi un mese ospite di Chris, e mi ha fatto piacere, lo giuro.
Lui
e Becky hanno fatto di tutto per farmi sentire parte della famiglia,
e non posso non apprezzare il fatto che ho avuto la
possibilità
di giocare con i bambini quanto volevo. Crescono bene, ogni giorno
che passa assomigliano sempre un po’ di più ai
loro
genitore.
Ma
sai cosa c’è, Maria? La verità
è che questa è
casa mia, casa nostra, ed è qui che voglio stare. Con te.
Ho
spalancato le finestre per fare entrare un po’ di luce e un
po’
d’aria fresca, così questo odore andrà
via e potrò
finalmente respirare di nuovo. Forse chiamerò qualcuno che
faccia le pulizie per me, non sono mai stato bravo in quello. Me lo
ripetevi sempre anche tu “Michael, se fosse per te
vivremmo in
un porcile!” , e io probabilmente non te
l’ho mai detto
abbastanza, ma ringrazio il fatto che le cose non dipendessero da me,
perché altrimenti sarebbe andata proprio così!
Qualche
volta non sopportavo la tua costante ossessione per le candele e gli
olii profumati, ma la verità è che ora darei
qualunque
cosa per un po’ di quell’ “olezzo di
lavanda”, come mi
divertivo a chiamarlo, solo per veder comparire
quell’amorevole
broncio sul tuo viso.
Sono
andato in cucina per versarmi un bicchier d’acqua, ma in
realtà
penso che opterò per il vino. C’è una
bottiglia di
rosso d’annata nella dispensa, la metterò in
fresco e più
tardi berrò alla nostra salute. Che buffo, è
strano
dirlo proprio adesso che…..
Ma
preferisco camminare per le stanze, e spalancare tutte le porte e le
finestre, così non mi sentirò più
tanto in colpa
per essermi allontanato così a lungo.
Forse
mi sono illuso, ho voluto credere in quello che dicono tutti, e ho
preteso che la lontananza potesse alleviare il mio senso di
solitudine, ma in realtà non ha fatto altro che acuirlo. E
allora sono tornato sui miei passi, e adesso sono qui, nella nostra
camera da letto che grida la tua presenza in ogni singolo centimetro.
E mi sento meglio….non lo credevo possibile ma mi sento
meglio.
Ho
aperto l’armadio per dare un’occhiata ai tuoi
vestiti. Hai sempre
trovato un modo per meravigliarmi, persino nel modo di vestire,
sempre. Così colorata, così solare e gioiosa, al
contrario di me che ho sempre amato vestirmi di nero.
“Michael,
perché non ti metti qualcosa di colorato, ogni tanto? Sembri
sempre di ritorno dal cimitero! “
Ricordo
ancora quella volta che per immergerti nello spirito natalizio
tornasti a casa tutta felice con un orrendo mantello rosso acceso
bordato di pelliccia bianca.
Ricordo
che entrai in camera da letto proprio mentre lo stavi provando. Cosa
ti dissi? Ah, si.
“Maria,
che cos’è quel coso?”
“Un
mantello, non lo vedi?”
“E
cosa ci dovresti fare? Spero vivamente che tu non abbia intenzione di
uscire con me conciata così!”.
Ricordo
il tuo sguardo. Sorridesti. Non mi aspettavo che
avresti
sorriso……ma torno sempre allo stesso punto, non
mi aspettavo
tante cose di te.
“Non
vuoi uscire con me conciata così?”, dicesti,
muovendo
qualche passo verso di me.
“No”.
“Allora,
suppongo che tu non voglia nemmeno che lo porti qui in
casa......quindi dovrei toglierlo.....”
Con
un movimento lento e aggraziato delle dita slacciasti il bottone che
lo teneva chiuso all’altezza del collo, e io rimasi senza
fiato.
Meravigliosa…..semplicemente meravigliosa, non esiste altro
termine
che riesca a descrivere quello che tu sei ai miei occhi. Anche
ora…..sempre.
“Maria,
sei senza…..”
“Vestiti?”
Annuii,
avevo la bocca secca e la lingua faticava ad articolare. Ti
avvicinasti ancora di più e mi accarezzasti il petto
infilando
le mani fredde sotto la mia maglia. La sensazione della tua pelle
morbida su di me è ancora viva come se non fosse passato
nemmeno un istante.
Feci
scivolare il mantello sulle tue spalle e le mie dita toccarono il
morbido materiale di cui era fatto prima che cadesse a terra,
raccogliendosi attorno ai tuoi piedi. Sembrava velluto o qualcosa del
genere, e per un momento invidiai quel pezzo di stoffa che ti aveva
stretta e avvolta fino a quel momento. Volevo essere io a
drappeggiarmi attorno a te come una coperta, volevo essere
l’unico
calore di cui avevi bisogno.
Le
mie mani vagarono ammaliate lungo le curve del tuo corpo,
accarezzarono i tuoi seni come se fossero mondi da esplorare, e la
mia bocca le accompagnò in ogni loro spostamento, tracciando
il suo percorso dai capezzoli turgidi fino al collo, e poi
più
giù, dall’ombelico alle parti più
intime e segrete
del tuo corpo. Facemmo l’amore molte volte quella notte,
entrai
dentro di te con tutto me stesso, anima e corpo, come se dovessi
imprimere un marchio indelebile di modo che ovunque andassi tutti
capissero che eri mia. Ma quello che tu avevi di più
prezioso
me l’avevi dato senza pensarci un momento, credo che sia
stato mio
dalla prima volta che ci siamo incontrati, forse da sempre. Il tuo
cuore.
Questo
è l’armadio dove stanno anche i miei vestiti, le
mie cose,
ma ci sono cassetti che non ho mai aperto, e sinceramente, fino ad
ora, non ho nemmeno mai avuto la tentazione di farlo. Fino ad
ora…..
Mi sono accorto che non sono nemmeno chiusi a chiave.
E
ora che l’ho fatto me ne sto qui seduto sul letto, con questa
foto
in bianco e nero tra le mani, che mi fa ripiombare in ricordi che per
quanto sono lontani credevo sepolti nella memoria.
Ma
la memoria è una cosa strana, si sa. E’ un
archivio, e le
cose che sono nascoste più in fondo sono anche quelle
più
al sicuro, quelle che quando le si cerca davvero vengono sempre
fuori. Capita che non ricordi quello che ho mangiato ieri a pranzo,
ma le vecchie memorie, quelle sono tutte lì, vivide e
brillanti come una giornata di sole.
Il
bianco e nero di questa foto non fa altro che acuire il ricordo dei
colori nella mia mente…. quello dell’acqua, quello
dei salici che
crescevano sulla riva del lago, e quello dei tuoi capelli dorati che
scintillavano al sole.
Stiamo
litigando in questa foto, tu volevi andare a fare un giro sul
battello fino al paese dalla parte opposta alla riva in cui ci
trovavamo, e io, come al solito, volevo esattamente il contrario.
Ci
conoscevamo da poco, e per niente, oserei dire. Il mio migliore amico
Max si era preso una cotta per la tua migliore amica Liz, ma lo sai
com’era lei, niente sesso prima del grande passo! Mi hai poi
confessato che ti aveva pregata di andare con lei in quel fine
settimana, così avreste diviso la stanza, e Max non aveva
potuto fare altro che invitarmi. Non ero affatto felice…..di
dividere la camera con Max, ovviamente.
Ti
guardavo ogni volta che attraversavi la sala mensa del campus per
andare a svolgere il tuo lavoro part-time come aiuto cuoca, e tutto
quello che avrei voluto fare era bloccarti e baciarti davanti a
tutti….o dietro, non aveva molta importanza.
Quindi
la stanza l’avrei divisa molto più volentieri con
te.
Rimanemmo
soli a lungo quel giorno, e per quanto mi piacessi non potevo negare
che avevi il dono di darmi sui nervi come nessun’altro.
“Senti
coso….”
“Michael”
“Quello
che vuoi, non puoi impedirmi di andare dove voglio, e si da il caso
che io voglia prendere questo dannatissimo battello!”
“Si
da il caso che Max e Liz non siano ancora tornati e che non possiamo
muoverci da qui, altrimenti non ci troveremo più!”
“Non
ti ho chiesto di venire con me, anzi, se resti qui mi fai solo un
favore!”
Testarda….
“Non
ti posso lasciare andare da sola, fra poco sarà
buio”
“Oh,
insomma! Fai come vuoi, io vado!”.
Ti
alzasti e non aspettasti nemmeno un momento, comprasti il biglietto
del battello e salisti a bordo.
Ricordo
che rimasi impalato sul pontile per alcuni minuti, finché
uno
degli uomini dell’equipaggio mi disse che stavano per
salpare,
allora comprai anch’io un biglietto e ti seguii. Non
sembrasti
contenta, almeno all’apparenza. Ma ora so che lo eri, sei
solo
stata molto abile a nasconderlo.
Nel
cassetto, di fianco alla foto, ho trovato anche quella collanina col
pendente di vetro a forma di gatto che ti regalai quel giorno.
Passeggiavamo
per i vicoli di quel dannato paesino al di la del lago, e ricordo di
averlo visto su una bancarella, una delle tante che affollano sempre
i posti gettonati dai turisti. Mi fermai un momento ma credetti che
tu non mi avessi aspettato, così ne approfittai per
comprarlo
e me lo misi in tasca senza sapere ne come ne se te l’avrei
mai
dato.
Ma
lo feci. Sulla barca, nemmeno un’ora più tardi.
“Che
cos’hai lì in tasca?”, chiedesti.
“Niente”,
risposi, quasi sulla difensiva.
“E’
mezz’ora che stai giocherellando con qualcosa, che
cos’è?”
Allora
tirai fuori il pendente e aprii il palmo per mostrartelo.
“Che
carino! Dove l’hai preso?”
“L’ho
trovato per terra, deve averlo perso qualcuno”. Come potevo
dirti
che l’avevo comprato apposta per te e che probabilmente non
avrei
mai avuto il coraggio di dartelo?
“Oh…”
“Lo
vuoi? Te lo do volentieri, non so che farmene”
“Davvero?”.
Sorridesti radiosa, come se ti stessi per fare il regalo più
bello del mondo. “Grazie
allora….Michael”. Il mio nome,
pronunciato dalle tue labbra, mi parve quasi una canzone. Aveva una
sua melodia.
Restammo
in silenzio per un po’, osservando la scia lasciata
sull’acqua
dal battello a motore che increspava il riflesso della luna nascente.
“Che
peccato, però, che qualcuno abbia perso questo ciondolo
subito
dopo averlo comprato”, dicesti, guardandomi dritta negli
occhi, “li
vendevano proprio su quelle bancarelle che abbiamo superato
prima”.
Ricordo
che arrossii, e che sperai vivamente che il buio mi nascondesse, ma
solo ora che vedo questa foto di cui non conoscevo
l’esistenza,
scattata probabilmente da Liz a nostra insaputa, con il ciondolo
appoggiato proprio sopra, mi rendo conto che lo hai sempre saputo,
fin dal primo momento. Hai sempre saputo che l’avevo comprato
apposta per te, hai solo trovato il modo migliore per fartelo dare
senza imbarazzarmi troppo.
Questa
è sempre stata una tua dote naturale, una dote che ti ha
resa
unica per me. Hai sempre saputo capire gli altri senza che ci fosse
bisogno di parlare. Hai sempre saputo capire me, più di
tutti,
più di quanto io sia sempre riuscito a comprendere me stesso.
Ricordo
ancora che non ci parlammo quasi per una settimana dopo quella volta,
non eravamo amici e non avevamo davvero molto in comune. Ti guardavo,
però, in ogni occasione che mi si presentava,
finché
un giorno decisi di fare la mia mossa.
Si,
decisi di farla, ma prima di capire come venni quattro volte a farmi
servire da te la zuppa di cipolle, finché ad un certo punto
non mi afferrasti per il polso trascinandomi letteralmente nel retro
della cucina.
“Hey,
che ti prende? Io….”
Percepii
le tue labbra morbide sulle mie, poi le sentii dischiudersi e la
punta umida della tua lingua mi sfiorò. Allora aprii la
bocca
e ti lasciai entrare, e tu circondasti con le braccia il mio collo
trascinandomi verso il basso per stringerti ancora più
vicina
a me. Trascorsero quelle che parvero ore ed invece si rivelarono solo
pochi…. intensi minuti, poi ci separammo, ansimando entrambi
come
se fossimo stati in apnea. Io lo ero stato davvero, non riuscivo a
credere a quello che era appena successo. Ti accarezzai un guancia, e
i tuoi occhi verdi brillarono talmente tanto che stentai a credere
che quello sguardo fosse davvero rivolto a me.
“Io
non….”. Mi interrompesti di nuovo posandomi un
dito sulle labbra.
“Michael,
nessuno può mangiare una quantità così
di quella
pessima zuppa di cipolle senza un buon motivo”.
“E
questo ti sembra abbastanza buono come motivo?”, ti dissi,
prendendoti il mento tra le mani e baciandoti di nuovo, dolcemente.
Quando
ci separammo mi sorridesti. “Mi sembra abbastanza buono. Ora
devo
tornare di la, ci vediamo più tardi? Alle dieci finisco,
puoi
venirmi a prendere qui davanti”
Annuii,
e tu facesti per rientrare, ma poi ti girasti di nuovo.
“E…..Michael?”
“Cosa?”
“Prima
di venire…...lavati i denti”
E
adesso, seduto qui sul nostro letto, non posso fare a meno di pensare
a quanto siamo stati felici da quel momento in poi.
Sul
cassettone dove teniamo le coperte e i piumoni è ancora
appoggiata la scatoletta portagioie che comprammo durante il viaggio
di nozze a Venezia. Da qualche parte dovremmo avere fotografie anche
di quello, ma come al solito io non so dove stanno le cose, sei tu
che metti a posto tutto.
“Ogni
posto ha la sua cosa, e ogni cosa ha il suo posto”.
Me
lo ripetevi sempre ogni volta che abbandonavo l’asciugamano
bagnato
sul letto dopo essermi fatto la doccia, lasciando tutte le lenzuola
umide. Dio, quanto ti arrabbiavi…Eri ancora più
bella, se
possibile.
Ma
non importa, non ho bisogno di fotografie per ricordare ogni attimo
della nostra vita.
Mi
sono avvicinato al cofanetto e passandovi lentamente la mano sopra ho
tolto lo strato di polvere che lo ricopriva. Non è nulla di
particolarmente elaborato, è solo una scatoletta di legno
con
una piccola cerniera di metallo che la chiude e una rosa intarsiata e
decorata in madreperla.
Te
ne sei innamorata appena l’hai vista.
“Guarda
Michael, è carinissima!”
Sbirciai
nella vetrina e non vidi nulla di così invitante.
“Cosa?”
“Ma
quella scatola…..non è bellissima?”
Alzai
le spalle. “Boh, non mi sembra niente di speciale,
e…..E che
cavolo! Guarda quanto costa!”
“Cento
Euro…..non è molto!”.
“Non
è molto per una scatoletta inutile?”
Mi
prendesti la mano e te la portasti alle labbra, toccandomi il palmo
con la punta della lingua. “Michael…..”,
sospirasti, “e
dai…..sarà il ricordo più prezioso del
nostro viaggio
di nozze….e lo sai, se io sono felice, anche tu sei
felice!”, mi
dicesti, con la voce più sexy di cui eri capace.
Sospirai
e ti baciai a mia volta il palmo della mano. “Ok, compriamo
questa
scatola allora”.
Ricordo
di essere stato effettivamente molto felice quella notte.
Ho
aperto la scatola e ho trovato quel piccolo paio di orecchini
d’oro
con una minuscola pietra preziosa incastonata in ognuno…uno
smeraldo, credo, è verde come i tuoi occhi, e come
probabilmente sarebbero stati quelli della nostra bambina.
Quella
notte, a Venezia, rimanesti incinta di nostra figlia.
Ricordo
ancora il giorno in cui me lo dicesti. Cercavi di essere seria, ma il
tuo volto continuava a piegarsi in un sorriso involontario ogni volta
che iniziavi ad aprire bocca.
“Michael,
devo dirti una cosa…”
Io
stavo lavorando al motore dalla moto in garage, e ti voltavo le
spalle. “Dimmi…..Me#da, perché non
parti, maledetto!”
“Michael!”
“Che
c’è, sono impegnato!”
Ricordo
che sentii il tuo piede iniziare a battere ritmicamente sul
pavimento. Facevi sempre così ogni volta che eri irritata
per
qualcosa, e normalmente era per qualcosa che avevo fatto io!
“Allora
credo che non ti interesserà sapere che sono
incinta!”
Mi
voltai e ti fissai per un lunghissimo attimo, credo che il mio
cervello abbia avuto bisogno di quel tempo per assorbire la notizia,
per crederci veramente, ma nel preciso istante in cui incontrai i
tuoi occhi capii che era tutto vero. Sarei diventato padre.
In
due passi coprii la distanza che ci separava e ti avvolsi nel mio
abbraccio, sollevandoti e baciandoti con tutto l’impeto e la
passione che provavo per te.
“Michael,
smettila di girare in tondo, mi gira la testa!”, esclamasti
con un
sorriso.
Allora
mi fermai e ti riposai a terra con cautela, come se
all’improvviso
fossi diventata di vetro. “Scusami, è solo
che….Dio Maria,
un bambino….”
“O
una bambina!”
Ti
accarezzai il viso con la mano sporca di grasso di motore,
lasciandoti una traccia nera sulla guancia.
“Guarda
come mi hai ridotta, ora dovrò andare a farmi la doccia e a
cambiarmi…... a proposito, ho invitato mia madre a
cena”.
“Amy?!”,
esclamai.
Tu
mi guardasti incuriosita e divertita allo stesso tempo.
“Quante
madri ho? Amy, certo!”
Rimasi
in silenzio il tempo necessario per assorbire lo shock di avere la
suocera in visita, poi sogghignai.
“E
adesso che cos’hai da ridere?”
“Hai
detto che stai per andare a farti la doccia?”
Annuisti
perplessa, poi le tue labbra cominciarono ad incresparsi in un
sorriso di comprensione. “E allora?”
“Bèh,
pensavo che la doccia è grande, e che potresti scivolare, e
che ora che aspettiamo un bambino dovrei controllarti più da
vicino….”
“Soprattutto
bagnata e senza vestiti, no?”
“Se
la vuoi mettere così….”. Presi il tuo
seno nel palmo
delle mani e ti baciai. Era già più pieno,
più
grande.
Ne
ero certo, avrei amato ogni secondo di quella gravidanza!
Ho
preso gli orecchini tra le mani, sono così
piccoli…..ricordo
ancora il giorno in cui me li hai mostrati.
Entrai
in camera e ti trovai seduta a gambe incrociate nel centro del letto.
Eravamo tornati da poco dallo studio del medico, avevi fatto
l’ecografia e ora lo sapevamo. Sarebbe stata una bambina.
Mi
sedetti al tuo fianco. “Che cosa fai qui?
C’è qualcosa che
non va?”
“No,
tutto bene. Guarda.” Apristi il pugno e mi mostrasti gli
orecchini.
“Orecchini….”
“Erano
di mia madre, di quando era piccola. Una volta usava fare i buchi
alle orecchie alle bambine quasi appena nate. Sono miei da quando ero
in fasce, è un’usanza della nostra famiglia.
Ereditarli di
figlia in figlia”
“E
quindi ora saranno di…..dobbiamo scegliere il nome”
“E’
vero. Pensavo a Emma, che ne dici? Emma, o Kate”
“Mmmmmh,
Emma….Emma Guerin…..mi sembra che suoni
bene”
Mi
sorridesti radiosa e cominciasti a giocherellare con le mie dita.
“Allora questi saranno di Emma”, dicesti,
allungando la mano
verso di me.
Io
presi i due piccoli gioielli e li guardai.
“Però…..potremmo
non farle i buchi nelle orecchie così presto? Non so, mi fa
impressione pensare di farli ad una bambina così
piccola…”
Tu
ti sollevasti sulle ginocchia e ti aggrappasti al mio collo
trascinandomi sul letto, praticamente sopra di te. “Ok
papà,
come vuoi”, ridacchiasti, schioccandomi un bacio sulle labbra.
Questi
orecchini la nostra Emma non li ha mai indossati.
La
nostra Emma non è mai nata.
Arrivai
a casa tardi quella sera, mi avevano trattenuto allo studio a causa
di una riunione non programmata con i finanziatori del cantiere di
cui mi occupavo in quel periodo, e appena misi piede
all’interno
sentii una specie di miagolio.
“Maria….”.
Niente. Poi sentii di nuovo quel rumore e capii che non si trattava
di un miagolio, ma di un lamento sommesso.
“Maria!”,
gridai, e salii le scale di corsa. La porta del bagno era accostata e
quando la aprii ti vidi lì, sdraiata sul pavimento in
posizione fetale mentre ti stringevi la pancia e gemevi dal dolore.
Corsi
immediatamente da te e mi inginocchia al tuo fianco in preda al
panico. “Cristo Maria, cos’è
successo?!”.
“Michael….fa
male…aiutami, ti prego!”
“Ok,
ok, aspetta qui….vado a chiamare i soccorsi, torno
subito…”.
Non so come le gambe mi ressero fino al telefono, ma pochi minuti
dopo mi precipitai di nuovo da te. Solo in quel momento mi resi conto
che stavi perdendo sangue. Ti colava dalle gambe, e aveva formato una
chiazza scura sotto al tuo bacino. Pregai….pregai che non ti
rendessi conto di quello che stava accadendo, e pregai per la nostra
bambina. Ma in realtà non ho mai creduto che potesse servire
a
qualcosa.
Abbiamo
parlato spesso della fede. Tu mi hai sempre detto che le preghiere
sono desideri particolari, sono i desideri più profondi del
nostro cuore, quelli che ci fanno andare avanti e che ci danno
speranza per il futuro. E che se nell’esprimerli mettiamo
tutti noi
stessi, allora, anche se ci sembrerà di essere rimasti
inascoltati, in realtà ne nascerà comunque
qualcosa di
buono.
Sono
felice che tu sia sempre stata convinta di questo, davvero.
E’
solo che non potevo accettare allora, e non posso accettare adesso il
fatto che le mie preghiere non siano bastate quella sola, unica
volta. Cosa significa? Che non ci ho messo abbastanza cuore? Che non
desideravo abbastanza la salvezza di mia figlia? Della mia famiglia?
Non
posso pensare una cosa del genere, non la posso accettare.
Quando
entrai nella stanza di ospedale dove eri stata portata rimasi fermo
sulla soglia a guardarti dormire. Eri pallida, e le tue labbra, di
solito così rosse e vive, erano dello stresso colore del
lenzuolo, secche e screpolate come se fossi disidratata.
Ricordo
che presi la sedia e la misi di fianco al letto. Non volevo
svegliarti, ma probabilmente anche quel minimo rumore raggiunse il
tuo subconscio tormentato, e apristi gli occhi.
Muovesti
le labbra impercettibilmente. “Michael….”
“Sssh.
Non parlare amore mio, sei ancora debole”
Trovasti
la forza di sollevare il braccio e mi toccasti la guancia. Mi
guardasti dritto negli occhi e ricordo di avere avuto paura.
E’
stata una delle poche volte nella mia vita in cui ho avuto veramente
paura. La seconda, per l’esattezza. La prima risaliva solo a
poche
ore prima.
Il
tuo sguardo penetrò il mio come una lama, e le lacrime
cominciarono a scorrerti libere lungo le tue guance, come tanti
piccoli torrentelli che attraversano una valle.
Mi
sedetti al tuo fianco e ti abbracciai stretta, tentando di farti
capire che non eri sola, tentando di sentirmi meno inutile di quello
che ero.
Tu
ti divincolasti e rimanesti seduta , appoggiata alla testata del
letto con le braccia senza più forza, abbandonate lungo i
fianchi. Non sapevo cosa dire, finché non fosti tu a parlare.
“Perché?”
“Maria,
non è il momento di….”
“Perché?”
Sospirai
e sedetti di nuovo sulla sedia. Avevi alzato un muro attorno a te, e
sentivo di non poter penetrare quella barriera, sentivo di non averne
la forza. Chinai la testa per evitare di incontrare il tuo sguardo
assente. “Il dottore ha detto che l’aborto
è stato causato
dal distacco della placenta. Ha detto che capita abbastanza di
frequente nelle donne alla prima gravidanza, e che non si poteva fare
niente per evitarlo”.
Rimanesti
in silenzio, sembrava quasi che stessi assorbendo le mie parole
goccia a goccia, e quando ti voltasti verso di me sperai di nuovo.
Sperai davvero che avremmo potuto affrontare le conseguenze del
nostro dramma assieme, ma non fu così.
“Per
favore, lasciami sola”.
Esitai,
incerto se dare seguito alla tua richiesta o rifiutarmi di farlo, ma
poi ti girasti di lato voltandomi la schiena e io uscii senza
parlare. Riuscii solo a darti un bacio sulla fronte gelata.
Scendendo
le scale per tornare in cucina, con questa fotografia in bianco e
nero ancora tra le mani, mi rendo conto che in effetti non siamo
sempre stati felici. E’vero, non tutte le coppie lo sono, per
lo
meno non tutto il tempo, ma quello che è successo a noi ha
rischiato di portarci sull’orlo del baratro.
Ho
tolto la bottiglia di vino dal frigorifero e me ne sono versato un
bel bicchiere pieno. Penso che andrò a bermelo sulla
poltrona
in soggiorno, è più comodo che restare qui,
seduto su
una sedia.
Ripensare
a quel periodo della nostra vita, però, a distanza di tempo
mi
fa capire quanto siamo stati forti, e quante cose siamo riusciti a
superare.
Non
a gettarci dietro le spalle, però, questo mai. Ancora adesso
penso alla nostra Emma, penso a quanto avrebbe potuto essere bella,
proprio come sua madre. Avrebbe avuto i tuoi occhi e i miei capelli,
o i tuoi capelli, i miei occhi e il tuo naso. Si, il tuo naso
è
decisamente molto meglio del mio, almeno per una ragazza!
E
ora che sto facendo ondeggiare questo liquidi rosso rubino nel
bicchiere penso a quella sera in cui tutto avrebbe potuto finire.
Ricordo
che erano passati più di otto mesi da quel maledetto giorno
in
cui ti trovai riversa sul pavimento del bagno in un lago di sangue.
Otto lunghi mesi nei quali non riuscii a sfondare quella corazza che
avevi indossato e che ti impediva di svuotarti, di liberarti dal peso
che ti stava opprimendo e che, a poco a poco, stava uccidendoci.
Tu
eri in camera da letto, avevi preso l’abitudine di salire su
appena
finita la cena, mentre io rimanevo in salotto a guardare la
televisione. Otto mesi in cui non ho sentito una sola delle parole
che uscivano da quella dannata scatola. Rimanevo solo lì
seduto, a fissare il bagliore che produceva e ad arrovellarmi il
cervello cercando di capire, tentando di comprenderti.
Di
solito aspettavo a raggiungerti, salivo tardi in camera con
l’unico
scopo di trovarti già addormentata e non dover sopportare la
tua indifferenza, perché quando dormivi eri ancora la mia
Maria, e non quel simulacro che eri diventata.
Ma
non quella sera.
Aprii
la porta e ti trovai sdraiata su un fianco, rannicchiata su te stessa
come se tentassi di scomparire, di implodere.
“Maria…”,
mormorai, toccandoti la spalla.
Tu
sussultasti e ti ritraesti ancora di più, come se la mia
mano
ti bruciasse la pelle.
Ma
non potevo lasciare perdere, l’avevo fatto per troppo tempo,
ormai.
Insistetti.
“Maria,
ti prego. Dobbiamo parlare”
“Parliamo
tutti i giorni, Michael, adesso sono molto stanca”
Sentii
una tale rabbia montare dentro di me che non mi sarei stupito se il
petto mi fosse esploso in mille pezzi. Allora ti afferrai
energicamente per la spalla e ti girai, poi ti presi i polsi e ti
costrinsi a sederti.
“Michael,
sei impazzito?”, gridasti.”Mi fai male!”
“Male?”,
urlai io. “Se ti facessi male vorrebbe dire che sei ancora in
grado
di sentire qualcosa dannazione! Ti rendi conto di quanto male stai
facendo tu a me? A Noi?”
Tu
mi guardasti con occhi supplici, e io quasi cedetti, per poco non ti
lasciai libera. Ma non lo feci, non potevo. Ti amavo troppo, ed ero
sicuro che da qualche parte in fondo al tuo cuore anche
l’amore che
tu provavi per me fosse ancora vivo.
“Michael,
ti prego….”
“No!,
non ti lascerò andare, non lascerò che le cose
tra noi
vadano a puttane in questo modo. Otto mesi Maria, otto mesi in cui
non mi hai parlato una sola volta di quello che provi, di come ti
senti. Sono otto fottutissimi mesi che non oso nemmeno toccarti per
paura di turbarti”.
Tu
cercasti di divincolarti ma io tenni la presa salda sui tuoi polsi.
Domani avresti avuto i lividi, ma in quel momento non me ne importava
niente. “Tu non capisci!”, gridasti,
“Emma non c’è
più, la mia bambina non c’è
più!”
“Lei
non era solo la tua bambina cazzo! Era anche la mia, anch’io
l’ho
persa, anch’io non la vedrò mai crescere,
anch’io, Maria”.
Lentamente
allentai la presa e sentii le lacrime riempirmi gli occhi.
“Perché
mi hai chiuso fuori dalla tua vita? Perché non possiamo
vivere
insieme questo dolore, eh?”, singhiozzai. Mi vergognavo di
piangere
davanti a te, di mostrarmi così debole quando in
realtà
avrei dovuto essere forte, avrei dovuto essere in grado di caricarmi
il peso di questo dolore sulle spalle anche per te.
“Maria,
io non ce la faccio ad andare avanti così”, dissi
tra le
lacrime. “Rivoglio quello che avevamo….la mia
famiglia. Sei tu la
mia famiglia, non ucciderla….ti prego….”
Non
avevo quasi il coraggio di guardarti in faccia. Temevo che facendolo
l’unica cosa che avrei visto sarebbe stata indifferenza, una
porta
chiusa. Di nuovo.
Ma
poi sentii i tuoi singhiozzi e per la prima volta in tanto tempo i
tuoi occhi e la tua voce riuscirono ad esprimere tutto il dolore che
covavi. Gridasti disperata, accasciandoti sulla coperta, e quando ti
strinsi tra le braccia e ti cullai come una bambina non mi
scacciasti. Ti abbandonasti alla sofferenza insieme a me, e
finalmente piangemmo la morte di una creatura che avremmo amato
più
della nostra stessa vita.
Dopo
quelli che parvero secoli ti sollevasti e ancora con gli occhi gonfi
di pianto mi accarezzasti una guancia. “Mi dispiace Michael,
mi
dispiace tanto. E’ stata tutta colpa mia”.
Non
riuscivo a capire. “Cosa è stata colpa
tua?”
“Ho
perso la bambina, non sono stata in grado di farla
sopravvivere…..è
stata colpa mia…”
Dio mio….era questo che avevi pensato in
tutti quei mesi? Che Emma non ce l’avesse fatta
perché in te
c’era qualcosa di sbagliato? “Maria, non puoi
parlare sul serio.
Lo sai che non è stata colpa tua, non hai fatto niente per
farlo accadere….è stato un caso, una
fatalità”.
“Ma
è successo, e forse succederà di
nuovo”. Stavi per
ricominciare a piangere, allora appoggiai la schiena alla testata del
letto e ti feci sedere in mezzo alle mie gambe, con la schiena
appoggiata contro il mio petto e le mie braccia avvolte attorno alla
tua vita.
“Maria,
il dottore ha detto che non c’è nulla che non va,
che
potremo avere altri bambini”.
Tu
sospirasti e abbandonasti il capo contro di me. “Lo so quello
che
ha detto il dottore, ma io…..io ho paura”.
Non
so cosa ti aspettavi che dicessi. Probabilmente non questo.
“Anch’io
ho paura. Ho paura di perdere un altro bambino, ma soprattutto ho
paura che se dovesse succedere di nuovo perderò te. E questo
non potrei sopportarlo”.
Ti
girasti e mi guardasti quasi stupita, poi, lentamente, mi
abbracciasti e mi baciasti sulle labbra, delicatamente, e in quel
momento mi resi conto che il peggio era passato.
“Voglio
che mi abbracci questa notte. Ho bisogno di sentirti”,
mormorasti
vicino al mio orecchio.
“Non
chiedo di meglio”.
Ricordo
che non facemmo l’amore quella notte, rimanemmo solo
abbracciati,
ma dopo quello che avevamo passato lo sentii come il contatto
più
intimo che avessimo mai condiviso.
Quello
è stato il momento più difficile di tutto il
nostro
rapporto, vero?.
Non
sono mancati i litigi, i battibecchi e i pianti, ma mai nulla di
paragonabile.
Un
anno dopo rimanesti incinta di Chris, e per fortuna tutto
funzionò
alla perfezione, e quando entrai nella tua stanza di ospedale, questa
volta trovai ad attendermi il ritratto della gioia.
“Amore,
come ti senti?”
Seppure
al colmo dell’estasi riuscisti a lanciarmi uno sguardo
raggelante.
“Michael, vuoi un pugno? Come mi sento secondo te? Come una
che ha
appena espulso un bambino di ben quattro chili da un buco di dieci
centimetri. Sono dolorante, e tu non ti avvicinerai a me per i
prossimi sei mesi, te lo assicuro!”
Mi
sedetti al tuo fianco inscenando un broncio d’autore, allora
tu mi
accarezzasti i capelli, rassegnata. “Ok, facciamo
tre”.
Sorrisi
e ti baciai. Eri tutta spettinata e stropicciata….eri
meravigliosamente bella.
L’infermiera
aprì la porta e spinse dentro la culla. “Qui
c’è un
giovanotto che non vede l’ora di conoscere i suoi
genitori!”,
disse.
Io
mi avvicinai e lo guardai dall’alto. Era rosso e pieno di
pieghe.
Non molto bello, in verità, sembrava un coniglio senza pelo.
Non avevo il coraggio di toccarlo, pareva così fragile.
Sembrava
che tu sapessi come fare, però, perché lo
prendesti in
braccio con invidiabile maestria e lo baciasti sul naso.
“Ciao
Chris, amore….assomigli al tuo papà”.
Davvero?
E da cosa si capiva?
“Michael,
prendilo in braccio”
“Ma
veramente io non so se…”
“E’
facile, sistema una mano qui, per sostenergli la testa, e con
l’altro
braccio gli sorreggi il corpo”. Facile dicevi…..mi
sentivo come
il classico elefante nel negozio di cristalli.
Ma
finalmente eri di nuovo felice. Finalmente eri di nuovo te stessa.
“Ecco i miei due uomini!”
Tanti
anni sono passati da quel giorno, tante cose sono successe.
E’
trascorsa una vita intera. Chris è cresciuto, si
è
laureato e si è sposato. Abbiamo dei nipoti, adesso,
finalmente c’è una bambina in famiglia cui
trasmettere
questi benedetti orecchini. A Maggie staranno benissimo, ha preso gli
occhi della nonna. Gene recessivo, suppongo, visto che Chris li ha
come i miei e quelli di Becky sono azzurri.
Eppure
speravo di avere ancora molti anni a disposizione da vivere con te,
anni in cui saremmo stati di nuovo solo noi. Vecchi, si, ma mi pare
di ricordare una canzone che dice che i sentimenti non invecchiano
quasi mai con l’età. I miei non sono invecchiati,
sono
rimasti tali e quali a quelli di quando avevamo vent’anni e
ci
baciavamo nel retro delle cucine del campus.
Ci
sono cose che non perdonano, cose che a volte sono troppo forti per
poter essere combattute.
Due
anni fa ti sei ammalata di cancro.
Abbiamo
tentato tutto il possibile, ma non c’è stato nulla
da fare,
e alla fine non hai voluto più continuare.
“Michael,
ti prego…non fare così”
“Così
come? Non desiderare che tua moglie lotti? Che tua moglie rimanga con
te?”
Mi
accarezzasti la mano teneramente, e io non potei credere che anche in
questo frangente fossi tu a consolarmi, a tentare di darmi la forza
che non riuscivo ad avere da solo.
“Non
ti chiederei mai di lasciarmi andare se sapessi che ci sono speranze.
Io non ti lascerei mai andare se sapessi che ci sono speranze. Se ce
ne fossero vorrei vivere, e vorrei soffrire pur di continuare a stare
con te…ma non ce ne sono”.
Appoggiai
la fronte sul letto, incapace di accettare quello che mi stavi
dicendo.
Mi
stavi dicendo addio.
“Come
faccio a vivere senza di te, me lo spieghi?”. Volevo
piangere, ma
mi trattenni. Non volevo che mi vedessi in quello stato, tu che eri
l’unica ad avere il diritto di farlo.
E
allora perché eri così serena? Perché
riuscivi
ancora a sorridere, nonostante tutto?
“Tu
vivrai finché non arriverà il tuo momento, e fino
ad
allora sarai il padre meraviglioso che sei sempre stato, e il nonno
migliore che dei bambini possano desiderare. E rimarrai il mio
Michael, l’uomo con cui ho passato tutta la vita e con il
quale ne
trascorrerei altre mille. Non ho rimpianto un solo giorno trascorso
con te. Se non fossi bloccata qui giuro che vorrei fare ancora
l’amore con te!”
Non
potei evitare di sorridere. Se avessi potuto avrei fatto
l’amore
con te fino al giorno del giudizio.
“E
adesso vieni qui, sdraiati di fianco a me”, dicesti,
spostandoti un
po’ di lato per farmi spazio. Mi sdraiai e ti abbracciai. Eri
così
piccola, così fragile che avevo paura di farti del male.
Fosti
tu a farmi capire che era quello che volevi, così ti strinsi
e
rimanemmo così finché non ci addormentammo.
Sei
morta tre giorni dopo.
Ti
sei spenta nel sonno, me ne sono accorto solo quando ho percepito la
stretta della tua mano allentarsi. So che non avresti voluto vedermi
piangere al tuo funerale ma lo sai, per certe cose sono sempre stato
un pappamolla…un vecchio pappamolla, oserei dire.
Poi
Chris mi ha pregato di andare a stare da lui. Ho tentato, ma ho
capito che il mio posto è qui, fra le nostre cose e fra i
nostri ricordi. E ora che sono seduto su questa poltrona, con questo
bicchiere praticamente vuoto e questo pezzo di carta tra le mani,
capisco che anche il resto della mia vita, breve o lunga che sia,
sarà così, come una fotografia in bianco e nero,
bella
forse, ma spenta……. carica di nostalgia per le
cose che non
ritorneranno. A questa fotografia in bianco e nero che sarà
il
resto della mia esistenza mancherà il cuore.
Mancherai
tu, Maria, l’amore della mia vita.
Sto
cominciando a sentirmi stanco, dev’essere l’effetto
del viaggio
che si fa sentire, ma mentre scivolo lentamente nell’oblio
sai che
c’è di strano? Mi sembra quasi che tu sia qui con
me, e che
mi tenga la mano sussurrandomi dolci parole all’orecchi,
proprio
come eri solita fare quasi ogni sera, prima che ci addormentassimo.
Buonanotte
Maria, amore mio, ovunque tu sia.
*-*-*
E
la figura traslucida di una ragazza bionda, di poco più di
vent’anni, sfiorò la fronte dell’uomo
anziano prima di
posargli sulle labbra un bacio leggero come un petalo di rosa.
Sorrise
al suo sorriso e gli strinse la mano, poi si chinò per
baciargli il palmo, e avvicinandogli il viso al petto
ascoltò
la melodia del suo cuore.
“Buonanotte
Michael, amore mio,“, sussurrò, “Ci
vediamo presto”.
FINE
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