Ehi!
Primo capitolo di una nuova storia. Non potete nemmeno immaginare la
tremarella
che ho in questo momento: Piacerà? Non piacerà?
Ma, mi son detta, buttati e lo saprai! J
Spero davvero che vi colpisca e che vi piaccia e, vi prego, di
lasciarmi una
recensioncina per farmi sapere che ne pensate. Se vi piace come inizio
e se vi
fa schifo. Se, secondo voi, dovrei cambiare
qualcosa…insomma, fatemi sapere!!
:D
Un bacione
Ele.
Ps. Consiglio musicale à
http://www.youtube.com/watch?v=ZRci-l11A0E
A new
life in Vancouver
12 novembre 2012.
Cara Sophie,
ho deciso di
partire e andarmene da qui.
Abbandono Londra, per sempre.
Sto scappando dai ricordi.
Sto scappando da me stessa.
Sto scappando verso Vancouver.
Sperando che sia più facile. Sperando di non trovare altro
dolore, altre
perdite.
Prima tu, poi i miei genitori. Ora sono sola. Sola.
Completamente sola.
Quell’ultima
parola rimbombò come se l’avessi urlata, pesante
come un macigno.
Chiusi gli occhi, impedendo all’ennesima lacrima di rigarmi
il viso, e mi
passai una mano tra i capelli rossicci. Presi un profondo respiro,
ritrovando
l’autocontrollo di sempre. Riaprii gli occhi, posai la penna
e chiusi il diario
color rosso brillante e lo riposi con cura in fondo alla borsa,
dopodiché mi
alzai e, facendo attenzione a non svegliare la signora che dormiva
beatamente
nel posto di fianco al mio, mi diressi in bagno, sgranchiendomi le
gambe
indolenzite.
Erano
già passate sette ore da quando l’aereo era
decollato.
Sette ore da quando avevo lasciato Londra e tra poco più di
due ore sarei
arrivata a Vancouver, in Canada.
Vancouver.
La città che sognavamo di visitare io e Sophie non appena ci
fossimo diplomate.
Ma
poi tutto era andato storto.
Il mondo mi era crollato addosso quando, una sera, tornando dal lavoro,
avevo
trovato mio padre, in salotto, intento a confortare mia madre in
lacrime. Si
accorsero di me e mi vennero incontro e mi abbracciarono. Restai
immobile. Non
capivo cosa stesse succedendo. Fino a quando la verità
arrivò inaspettata e
sconvolgente: Sophie. La mia migliore amica. La persona con la quale
ero
cresciuta, non c’era più. Morta in un incidente
d’auto assieme ai suoi
genitori.
Scomparsa,
per sempre.
Nei mesi successivi mi chiusi in me stessa. Non mangiavo. Non parlavo.
Mi
sentivo vuota, senza vita. Ma, senza l’aiuto di nessuno, mi
rialzai con la
consapevolezza che lei, non avrebbe mai voluto che mi lasciassi morire,
che mi
buttassi via così.
Quel
pizzico di serenità ritrovata, però, fu spazzato
via quando, un anno più tardi,
anche i miei genitori morirono.
Un incidente d’auto.
Un ALTRO incidente d’auto.
L’ENNESIMO che mi portava via le persone che più
amavo.
Mi
riscossi e osservai il mio riflesso allo specchio del minuscolo bagno
dell’aereo: ero stanca e occhiaie scure contornavano i miei
occhi verdi, quasi
lampeggiando sulla mia pelle color avorio.
Mi lavai le mani e mi sciacquai il viso per rinfrescarmi,
dopodiché uscì e,
accompagnata dal sorriso caloroso dell’anziana hostess,
tornai al mio posto.
Mi
infilai le cuffie dell’Ipod nelle orecchie e, cullata dalla
musica, mi
addormentai.
Dopo
quelli che mi parvero venti minuti, fui svegliata dalla voce del
comandante
che, attraverso l’altoparlante, ci comunicava che, a breve,
sarebbero iniziate
le operazioni di atterraggio e contemporaneamente la spia luminosa ci
informò
che era giunto il momento di allacciare le cinture.
A
poco meno di trenta minuti, mi sarei stata catapultata in una nuova
realtà.
A poco meno di trenta minuti, avrei cominciato la mia nuova vita.
Inevitabilmente agitata e
altrettanto emozionata, scesi dall’aereo e con la
navetta raggiunsi lo stabile dell’aeroporto internazionale di
Vancouver.
Scrutai il cielo e notai che la perenne coltre di nubi lasciava
scorgere il
pallido sole canadese.
Sorrisi.
Il sole mi metteva di buon umore, sin da quando ero bambina.
A Londra, proprio come a Vancouver, era raro che il sole riuscisse a
scavalcare
le spesse nuvole e si facesse vedere. Così, non appena
accadeva, correvo a
chiamare Sophie, che abitava in fondo a Pierremount Avenue, e insieme
andavamo
a giocare in giardino, fingendo di essere due principesse in attesa dei
rispettivi principi azzurri.
Raggiunti
i sedici anni però, di fiabesco, nella mia vita, era rimasto
ben poco.
Scacciai
quei pensieri malinconici.
Non volevo ricordare.
Non ancora.
Non ero pronta.
Recuperai
le mie valigie e, superati i minuziosi controlli, uscii.
L’aria
gelida di novembre mi investì e mi strinsi nel pesante cappotto color
panna
per proteggermi dal freddo.
Non
mi sembra il
caso di inaugurare la tua nuova vita con un’influenza, Kristen, mi dissi.
Fermai
un taxi e vi salii.
‘1128 Hastings Street W.
Marriott
Pinnacle Hotel, per
favore.’
dissi gentilmente all’autista. Avrei alloggiato in albergo,
fino a quando fossi
riuscita a trovare un posticino che facesse al caso mio.
‘Certamente,
signorina.’ mi rispose cordialmente e partì.
Ringraziai il cielo che mi fosse capitato un autista taciturno e
discreto,
poiché non avrei sopportato domande e interrogativi, sul
perché mi trovassi a
Vancouver, da dove venissi, perché ero partita e altri mille
bla bla bla.
Ne avevo già avuto abbastanza alla dogana
dell’aeroporto dove mi avevano
tempestato di domande, insospettiti dalla mia giovane età e
incuriositi dal
motivo della mia visita.
Ma
non era una semplice visita.
Ero
venuta per restare. E nonostante avessi soltanto diciannove anni, avevo
già
pianificato il mio futuro: mi sarei iscritta alla University of British
Columbia, frequentato la facoltà di interpretariato e
traduzione, e avrei cercato
un lavoretto part-time, aspettando di laurearmi e trovare un lavoro
vero.
Ma,
sebbene avessi le idee chiare, me la stavo letteralmente facendo sotto.
Sospirai.
Il
taxi arrivò a destinazione e l’autista,
estremamente gentile, mi aiutò a
scaricare le pesanti valigie. Gli sorrisi e gli diedi anche una buona
mancia,
ringraziandolo.
Ripartì,
lasciandomi sola e imbambolata davanti all’imponente edificio.
Alzai lo sguardo e respirai a fondo, cercando coraggio.
Bene Kristen, mi dissi, pronta per una nuova vita?
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