Waaaa!! Voi non
potete sapere che fatica mi è costata scrivere questa storia!! Sono
così inattiva in questo periodo che per me è stata un parto... lo
ammetto ç_ç Eppure, nonostante tutto sono riuscita a buttarla giù e,
con grande sorpresa ho ottenuto il secondo posto!! Certo, ammetto che
in altri momenti avrei fatto di meglio, credo (gli abbai magari non li
avrei scritti XDXDXD), però sono comunque molto soddisfatta della
trama... un tassello in più al mio personale mondo di Jun&Ken!!
Grazie mille a Melantò
per aver indetto il contest e per aver valutato e apprezzato la mia
storia!! Grazie di cuore!!!
Un grazie
speciale e Berlinene per
il betaggio e il supporto!!
Buona
lettura!!
L’espressione
del risveglio
Ho sempre odiato l’espressione
che avevo al risveglio.
Durante la giornata, la quotidianità mi assorbiva nel suo fluire
costante, sempre uguale a se stessa, fatta di sorrisi di circostanza e
belle parole, troppo vuote e poco sentite per potermi colpire. Agli
occhi degli altri apparivo come una persona matura, cosciente della propria malattia,
determinato nell’affrontarla, deciso a non farsi piegare da un cuore
malato. Come non ricordare la partita contro Tsubasa, terminata con la
mia sconfitta, ma seguita da una stretta di mano, un sorriso amichevole
e la promessa di tornare sul campo, ancora, per fronteggiare di nuovo
quel grande campione, e poterlo battere. Tuttavia, tre anni dopo,
quella speranza fu troncata sul nascere dalla partita contro il Toho di
Hyuga. Nuovamente, mi ero ritrovato con le ginocchia a terra e una mano
sul petto, come se con quel gesto avessi potuto alleviare il dolore
lancinante che avvertivo al cuore. Nuovamente
sconfitto. Ma, così come tre anni prima, affrontai tutto
con apparente tranquillità, invidiabile,
secondo molti.
“Ci hai provato, Misugi!” Mi aveva detto il mister.
“Già…” Avevo risposto io, con un sorriso.
Un sibilo sinistro fra
le labbra.
Sorridevo… ai compagni delusi dall’esito della partita, ai rivali, a
Yayoi, a mamma e papà che erano comunque orgogliosi dei miei risultati.
Per loro, un figlio malato di cuore che riesce a giocare per un quarto
d’ora a partita era qualcosa di cui andare fieri.
Fiero lo ero pure io, ai
loro occhi.
Per tutti ero e rimanevo il principe
del calcio audace e coraggioso.
Nessuno, però, poteva sapere come realmente mi sentivo, o conoscere lo
spaventoso turbinio di emozioni che, ogni giorno, mi attanagliava.
Nemmeno i miei genitori s’immaginavano cosa succedesse la sera, quando,
finita la cena e dopo la solita chiacchierata di routine, mi
chiudevo alle spalle la porta della camera, pronto per andare a
dormire. Solo e soltanto in quel momento potevo liberare il vero me
stesso. Mi avvicinavo alla finestra, e nel riflesso potevo vedere ciò
che accadeva: la pelle del viso si rilassava faticosamente, quasi le
sue parti fossero state incollate alla bene e meglio. Il sorriso che mi
aveva accompagnato durante il giorno svaniva, liberando un’espressione
sfinita, snervata.
In camera, non tenevo nemmeno uno specchio.
A stenti mi sedevo sul letto, come se avessi esaurito ogni energia, con terrore
scivolavo sotto le coperte. Già, terrore del dopo, terrore delle
braccia di Morfeo. Facevo di tutto per non addormentarmi, almeno non
subito, perché, prima avrei chiuso gli occhi, più a lungo sarebbe
durata l’agonia. A volte leggevo un libro, altre fissavo il vuoto,
remando contro la stanchezza. Lasciavo sempre un po’ sollevata la
serranda della finestra, nella speranza che i primi raggi di sole mi
strappassero al più presto dalla compagnia del dio del sonno.
Ma non c’era alcuna via di fuga. Nonostante gli accorgimenti, dopo
pochi minuti o dopo ore di veglia forzata, le palpebre si chiudevano e
i sogni incominciavano. O meglio, gli incubi.
La maggior parte dei miei sogni si svolgevano sul campo da calcio,
durante le partite, in compagnia di figure dalle fattezze di Tsubasa,
Hyuga, Matsuyama o di qualche altro membro della Generazione d’Oro.
Personaggi che rimanevano sullo sfondo, a osservare il mio dolore e la
mia inerzia. Infatti, molto spesso ero incapace di muovermi, gli
avversari mi sfrecciavano ai fianchi e io non riuscivo a fare un passo,
i piedi inchiodati a terra, come se la gravità si concentrasse solo sul
mio corpo. Così finivo sempre sconfitto, senza aver mosso un dito. Mi
sentivo impotente e piano piano quella sensazione si trasformava in
disperazione, fino a che non mi accasciavo in terra, il petto che
iniziava a farmi male, troppo male. Non solo non potevo alzarmi, non ci
riuscivo, ma attraverso i miei occhi socchiusi dal dolore dovevo anche
subire la commiserazione delle persone attorno. Tali spettatori
sfumavano poi in figure prive di una fisionomia conosciuta, fino a
diventare fantocci tutti uguali… a volte ridevano di questo
ridicolo ragazzo che s’intestardiva a giocare.
D’un tratto, tutto diventava vuoto, e io rimanevo da solo, in uno
spazio indefinito e infinito, spalle in terra e petto rivolto al cielo.
La mano protesa verso il nulla, nell’estremo tentativo di tendere io
stesso a qualcosa che mi salvasse, ma afferrando, alla fine, soltanto
la mia profonda disperazione. Il cuore, poi, cominciava a battere
sempre più velocemente e avevo l’impressione che il battito si facesse
più violento e che qualcosa, a quell’altezza, si muovesse. Il mio cuore
era un mostro che voleva venire fuori, riuscendoci a volte, squarciando
il petto o divorandolo da dentro. Talvolta soffocandomi. E io potevo
solo subire, urlando senza voce, puntando le unghie in terra, temendo
di… morire.
Solitamente, a quel punto mi svegliavo, agitato e spaventato, la
sensazione di soffocamento ancora viva nel corpo. Gridavo davvero?
Forse no, poiché nessuno si era mai precipitato in camera, pertanto
nessuno mi aveva mai sentito. Era quasi sempre l’alba,
difficilmente quei sogni mi accompagnavano a lungo, anche perché io
stesso combattevo una battaglia interiore per svegliarmi il prima
possibile. A volte, mettevo una mano sul cuore, per controllare che
battesse ancora, per
assicurarmi di essere ancora vivo.
Mi era bastato osservare poche volte la mia immagine al risveglio, per
decidere di eliminare qualsiasi specchio dalla camera. Atterrita,
sgomenta. Così avrei potuta definire quell’espressione. Ma non solo. La
bocca leggermente più aperta su un lato, il pallore nel viso, gli occhi
arrossati come se non avessero mai preso sonno, i muscoli del corpo
contratti. Sembravo trasformato in un agglomerato di pura paura.
Acquistavo la prima lucidità quando riprendevo a respirare, perché al
risveglio d’istinto trattenevo il fiato. A volte sentivo
brividi di freddo.
Fortunatamente, non sempre mi svegliavo in quelle condizioni, poiché
talvolta, e per fortuna, gli incubi mi lasciavano in pace. Però, quando
questo avveniva, sapevo di non poter uscire dalla camera in quello
stato, quindi mi sforzavo di scendere dal letto per dare il via al rituale. Raggiunto
il bagno privato della stanza, per prima cosa aprivo il rubinetto
dell’acqua e, non appena la sentivo gelata, mi sciacquavo il viso, più
e più volte e già quello mi faceva stare meglio. Solo allora riuscivo a
sollevare gli occhi verso la specchiera e a guardarmi. Rimanevo a lungo
a fissare la mia immagine riflessa, senza compiere il minimo movimento.
In quegli istanti raccoglievo tutte le energie che mi avrebbero
richiesto la giornata e le persone che avrei incontrato. Le energie
necessarie alla recita che ogni giorno inscenavo.
Con un primo, piccolissimo sforzo, tendevo gli angoli delle labbra, le
vedevo stirarsi, le pupille, poi, si dilatavano e le gote si
sollevavano. Sì, mi sforzavo di sorridere, mi allenavo a farlo ogni
mattina, perché quella sarebbe stata l’espressione che avrei dovuto
conservare durante tutta la giornata.
Il sorriso è
l’espressione della felicità, no?
Se qualcuno mi avesse visto in quei frangenti, di sicuro avrebbe
pensato che fossi pazzo. Io, invece, ero lucidissimo, sapevo gestire
sapientemente quella consapevole schizofrenia. Il mostro che nei sogni
mi trapassava il petto, ora era lì, di fronte a me. E sorrideva,
felice.
Solo io sapevo che
l’espressione che avevo al risveglio, era la mia vera espressione.
*********
Drin drin drin drin drin
La sveglia suonava da chissà quanto tempo, ma lui non riusciva a
destarsi. Stava bene, anche perché sotto le coperte c’era un dolce
tepore e la luce della camera non era così fastidiosa da svegliarlo.
Mugolò contrariato, quando avvertì un brivido di freddo, mentre
qualcosa si muoveva fra le sue braccia, ma non appena sentì un bacio
scoccare sulla sua fronte, Jun Misugi si decise ad aprire gli occhi.
“… ‘ngiorno Ken” Bofonchiò, agganciandosi alla maglia del portiere per
tirarlo a sé, dato che, per qualche oscuro motivo, il ragazzo stava
tentando di uscire dal letto. Wakashimazu, dopo un primo tentativo di
liberarsi, parve arrendersi. “Buongiorno…” Sussurrò, rubandogli un
bacio. “Volevo portarti la colazione a letto, come si fa coi veri
principi… ma qualcuno me lo impedisce!”
Jun si sorprese, notando solo in quel momento il profumo di caffè e di
pane tostato che permeava l’aria. Lanciò quindi all’altro uno sguardo
interrogativo, al quale questi rispose con un sorrisino furbetto. “Beh,
dormivi così bene… non volevo svegliarti” ma al principe del calcio non
sfuggì il rossore che ravvivò le sue guance.
Il cuore accelerò i
battiti, emozionato, ma lui fece finta di nulla.
“E poi c’era qualcuno che desiderava la pappa prima del solito!”
Aggiunse Wakashimazu, addolcendo intenzionalmente il tono. Naturalmente
si riferiva a Genzo che, sentitosi chiamato in causa, fece la sua
comparsa dalla cucina, cominciando a scodinzolare festoso. Jun batté
due volte la mano sul letto e subito il cagnolino, con un bel balzo, fu
sulle sue gambe, pronto a lasciarsi accarezzare. “Ma guardalo, il
ruffiano!” Brontolò il portiere. “A me non ha fatto di certo tutte
quelle moine, quando mi sono alzato all’alba per sfamarlo… tsk!
Cagnaccio ingrato!”
Misugi si sforzò di non ridere… la mattina Ken era particolarmente
permaloso! Notò poi che, in effetti, il suo ragazzo non indossava la
maglia del pigiama, bensì la vecchia felpa del Toho che utilizzava solo
in casa. Forse gli stava un tantino piccola, ma la forza dei ricordi,
in quel caso, superava il suo senso estetico! Capì allora che
Wakashimazu si era alzato per dare da mangiare a Genzo e per
preparargli la colazione, poi si era rimesso a letto… e l’aveva abbracciato.
Ancora battiti veloci
all’altezza del suo cuore.
“Eh, eh, eh… allora mi sa che ti lascio andare!” Ridacchiò Misugi,
cercando il suo sguardo. “Così mi faccio servire e riverire!”
“Uuuuh, come siamo approfittatori!” Esclamò Ken, sollevandosi dal letto
per incrociare le braccia, in segno di finta offesa, ma l’attimo dopo
gli stava toccando la fronte col palmo della mano. “Come stai?”
Jun lo osservò dapprima sorpreso, poi subito si ricordò che la sera
prima non era stato bene, aveva avuto mal di testa accompagnato da
brividi di freddo e il termometro gli aveva segnato quasi 38 di febbre.
Con molta probabilità aveva preso una freddata durante gli allenamenti,
quei giorni c’era un gelo polare!
“Ma…” Cominciò Misugi, concentrandosi sulle sue condizioni “… veramente
mi sento benissimo! Credo che la febbre sia passata!”
“Mh… pare anche a me!” Concordò contento il portiere, togliendo la mano
dalla sua fronte.
“… credo solo… di aver fatto un sogno strano…” Riflettè il principe del
calcio, sforzandosi di ricordare.
Wakashimazu parve sorpreso. “Che sogno?”
Misugi scrollò le spalle, i ricordi offuscati. “Mah… qualcosa di…dei
tempi delle elementari o, forse, delle medie…”
“Mmmmh, di quando eravamo solo dei mocciosi esagitati che inseguivano
un pallone e si facevano la guerra?” Propose il portiere, strizzandogli
un occhio.
“Può darsi…” Rispose incerto Misugi.
“Secondo me era un bel sogno! Mi hai abbracciato stretto stretto tutta
la notte, di sicuro io facevo parte di quel sogno!” Stabilì
Wakashimazu, ammiccando e incrociando le braccia per simulare un forte
abbraccio.
“Scemo!” Lo ammonì Jun, sbuffando alla sua boria, ma in realtà
parecchio imbarazzato per quella rivelazione. Fece per scendere dal
letto, ma il compagno gli afferrò al volo un braccio. “Che diavolo fai?
Sei malato!”
Quell’esclamazione gli suscitò un lieve fastidio. “Ma quale malato,
Ken! Sto benissimo, fammi scendere!” Protestò risentito il principe del
calcio, ma l’altro non volle sentire ragioni. “Ora te ne stai qui al
caldo che io vado a prenderti la colazione! Con l’influenza non si
scherza!”
Già, l’influenza. Wakashimazu non si riferiva al suo cuore… quello era
guarito da anni, ormai. Allora perché si era sentito toccato dalle sue
parole? Aveva l’impressione che dipendesse dal sogno fatto durante la
notte, ma non riusciva a ricordare.
“Dai, Ken, non esagerare, ti ho detto che sto bene!” Stavolta un tono
più blando.
“Non mi interessa, tu te ne stai qui nel letto!”
“No!”
“Sì!”
“No!”
Dopo diversi minuti di battibecco, scanditi dall’abbaiare di un Genzo
confuso, Jun, con un lungo e pesante sospiro, si arrese alla
testardaggine del portiere, rimase nel letto e osservò il compagno
dirigersi in cucina fischiettando allegro, seguito dal cane che gli
zampettava dietro. Certe volte, pensò, Ken era proprio ostinato e
insopportabile! Però, nel sentirlo armeggiare in cucina e
nell’immaginarlo indaffarato, alternando espressioni soddisfatte ad
altre nervose, non poté impedirsi di sorridere. Il suo sguardo si posò
così sulla parete di fronte, laddove erano appese le divise del
campionato delle medie. Quelle erano la prima cosa che vedeva al
risveglio e che, ogni giorno, gli ricordavano quanto fosse bello stare
con Wakashimazu. Non si era mai pentito di quella relazione, cominciata
ai tempi del liceo. La scelta, poi, di andare a vivere insieme li aveva
uniti ancora di più. Certo, non tutti lo sapevano, c’erano diversi
problemi riguardanti la loro visibilità in quanto calciatori famosi, il
fatto che Ken fosse ancora restio ad ammettere la loro relazione
specialmente con Hyuga, eppure, nonostante tutto… Jun era felice.
“Aaaaah! così mi piaci proprio!” L’improvvisa esclamazione di Ken lo
fece sussultare.
“Che… che diavolo stai dicendo?”
Wakashimazu avanzò; reggeva un vassoio con caffè, fette biscottate e un
bicchiere colmo di spremuta d’arance. “Che adoro la tua espressione
mattutina!”
Misugi lo guardò sorpreso. Ken, intanto, appoggiò il vassoio sul letto,
sedendosi di fianco al compagno. “… i tuoi capelli arruffati….”
Cominciò, indicandogli i ciuffi castani che gli cadevano sul viso “…
gli occhi assonnati, le guance rosse…” il dito del portiere scendeva
lungo il viso, per fermarsi poi sulle labbra del compagno. “Non è come
quando stai in mezzo agli altri, durante le partite, le riunioni. Lì
sei sempre così serio, calmo, diligente… che palle!! Io so bene che
quello non sei davvero tu!” Wakashimazu gonfiò le guance e sbuffò
seccato, ma nel guardare ancora il suo principe fu travolto da un moto
d’ilarità. “Sì, questa è la tua vera espressione, e io ne vado pazzo!”
Quelle parole scossero Jun che, improvvisamente, ricordò il sogno fatto
durante la notte. Senza fiatare saltò fuori dal letto e corse verso il
bagno, senza che il compagno riuscisse a fare nulla per fermarlo.
Spalancò gli occhi per la sorpresa non appena vide la sua immagine allo
specchio: pelle distesa, occhi vivaci, guance arrossate e i capelli in
condizioni assurde. Eppure… il sorriso che aleggiava sulle sue labbra
era spontaneo, vero. Il principe del calcio si portò una mano sul viso
e lo accarezzò. Era la prima volta che lo vedeva… così.
Sulla porta, Ken lo guardò sconvolto distendere le labbra, stringere
gli occhi e sorridere ancora e ancora, come un bambino che fa le
smorfie allo specchio. “Jun… sei impazzito?” Domandò, ma
l’altro sembrò non ascoltare le parole della persona che l’aveva
cambiato.
Già. Ora n’era più che
sicuro: l’espressione che aveva al risveglio era proprio la sua vera
espressione.
FINE
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