Never Ending Story
1.
Prologo
Tutto quanto accade una volta
potrebbe non accadere mai più...
Ma tutto quanto accade
due volte accadrà certamente una terza...
Paulo Coelho
Fervevano
i preparativi della festa di Mezza Estate nel ridente villaggio di
Burford, immerso nella campagna inglese. Incantevole paesino celato
alla vista dei Babbani da potenti Incantesimi di Occultamento, sorgeva
su di una piccola altura i cui dolci declivi erano interamente
punteggiati di vitigni e roseti. Al limitare del centro abitato,
attraversato da un fiumiciattolo artificiale, un fitto bosco di robinie
regalava una piacevole frescura nelle torride giornate estive.
Il sole che digradava poco a poco dietro la collina, preannunciando il
calare della sera, tingeva il cielo di una calda sfumatura dorata.
Caramello fuso su nuvole
di zucchero filato.
La donna distesa in un prato di gelsomini bianchi aveva un incarnato
cereo e diafano come il colorito dei fiori che la circondavano, in
netto contrasto con il vivo fulgore dei suoi lunghi capelli fulvi. Gli
ultimi raggi del sole calante le sfioravano le mani delicate,
intrecciate compostamente sul grembo, con carezze affettuose, per poi
posarsi sfuggenti sul cestino di vimini al suo fianco. Tocchi dolci ma
elusivi, come innamorati che si bramano e si rincorrono in uno
struggente rituale di corteggiamento.
Gli echi degli schiamazzi delle donne e dei bambini, oltre il pendio,
occupati nella raccolta di erbe e piante magiche, come voleva la
tradizione del giorno di Mezza Estate, sembravano non intaccare in
alcun modo il suo riposo.
Vi era qualcosa di innaturale nell’inerte compostezza di quel
giovane corpo. Una fredda e pallida rigidità che solo una
Maledizione Senza Perdono poteva conferire, celandosi dietro
un’ingannevole maschera di quiete apparente.
L’aroma dolciastro dei gelsomini e quello più
amaro dei fiori di sambuco nel cesto di vimini si mescolavano in una
giostra di profumi intensi che pervadevano l’aria
tutt’intorno, fino a toccare le note piacevolmente soffuse
dei roseti che svettavano sul declivio orientale.
Il bambino, all’ombra di un cespuglio di mirto, non riusciva
a staccare gli occhi da quella scena, stregato dalla perfetta
immobilità e dall’ineccepibile purezza che
trasudava da quel corpo nel campo di fiori.
Innocenza. Candore. Il bianco caldo dei fiori e quello più
terso ed esangue della pelle che si perdeva nella sfumatura immacolata
e trasparente dell’abito che la fasciava.
Solo un dettaglio stonava impercettibilmente in quella cornice quasi
paradisiaca. I petali del fiore che la donna stringeva tra le dita
magre ed affusolate. Erano neri. Più scuri dei mantelli dei
Mangiamorte, protagonisti di racconti spaventosi, spauracchi per
bambini.
Era un papavero nero.
Morte. Distruzione.
Sofferenza.
Se solo il ragazzino avesse conosciuto il linguaggio dei fiori, sarebbe
scappato a gambe levate.
Una mano solcata da rughe e da cicatrici di vecchie ferite si
posò sulla sua piccola spalla. Il bambino
sussultò e si voltò sorpreso ed impaurito.
“Che ci fai qui, marmocchio?” il tono di perentoria
minaccia nella voce dell’adulto lo fece vacillare e fu
costretto ad aggrapparsi al cespuglio per non caracollare a terra.
“Io … Non sono stato io!”
piagnucolò sulla difensiva.
“Non dire a nessuno quello che hai visto!”
Il dito indice puntato in faccia gli sfiorò il naso.
Terriccio bagnato, sudore e whisky incendiario.
Quello sconosciuto sapeva di terriccio bagnato, sudore e whisky
incendiario.
Il ragazzino arricciò il naso, trattenendo una smorfia di
disgusto, ed annuì con un cenno della testa.
“E ho bisogno che tu consegni un messaggio ad Harry
Potter!”
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