Daydreamer
Avere
l'impressione di restare sempre al punto di partenza
E chiudere la porta per lasciare il mondo fuori dalla stanza
Considerare che sei la ragione per cui io Vivo
Questo è o non è
Amore.
E ora penso
che il tempo che ho passato
Con te
Ha cambiato per sempre ogni parte di me
[Sono
solo
parole – Noemi]
Per
John Watson il giorno della caduta era paragonabile allo sbattere la
testa, una
grossa, gigantesca, indimenticabile botta in fronte, con tanto di
cicatrici.
Quando
si batteva la testa, ne era certo, c’era un momento
brevissimo in cui non si
sentiva nulla, ma si era consapevoli che nel giro di pochi attimi
saremmo
stati investiti da un dolore lacerante.
Il
momento in cui vide il suo
corpo riverso a terra in un lago di sangue, fu per
lui come sbattere la testa.
Accolse
il breve momento di tranquilla incredulità, in attesa
dell’immenso dolore.
E
ne
era tutt’oggi consapevole, con gli occhi troppo spenti per
non dare nell’occhio
in modo accecante.
C’erano
momenti, ormai rari, perché lui stava bene, in cui il
leggero velo lucido negli
occhi della signora Hudson gli faceva stringere lo stomaco in
un’incredibile
morsa mortale.
“Tutto
bene, John?” “Sì, mai stato
meglio.” “Passerà.”
Il
solito botta e risposta, la solita pacca sulla spalla, le solite strade
diverse
per tornare ognuno nei propri appartamenti.
Vuoti,
perché non c’era più nessuno sulla
quale fare affidamento, eccetto l’aria, che
strideva nei polmoni come unghie sulla lavagna.
John
Watson era convinto, ad una settimana dalla morte del suo migliore amico - la sua spalla, la sua colonna portante,
che nulla sarebbe potuto andare peggio di così.
Eppure
stava bene, nonostante la solitudine, nonostante il silenzio
oppressante,
nonostante tutto.
John credeva che le bugie potevano essere crudeli, ma a volte la
verità,
lo sapeva, lo era
molto di più, quindi faceva finta di niente, allontanava con
un finto spensierato gesto il dolore e la rabbia, in modo tale da
rendersi immune da ogni cosa ed ogni persona.
Erano
passati solo pochi giorni, John ne era consapevole perché
sentiva i secondi
grattargli la pelle ad ogni rintocco, eppure sembrava fossero passati
solo
pochi attimi.
John
portava dentro di sé cose che nessun altro poteva vedere ed
esse lo tiravano
giù come ancore, annegandolo nel mare dei ricordi.
Aveva
provato per anni il significato di morte su di sé, se
l’era sentito come
un manto, come una seconda patina che ricopriva il suo corpo.
Ci
era anche andato vicino, in Afghanistan, ma ora, ora che non
l’aveva provata, ma l’aveva
vista con i suoi occhi, ora comprendeva che la morte non era la
più grande
perdita della vita, ma lo era ciò che moriva dentro mentre
si era in vita.
John
si
sentiva proprio così, mentre si lasciava trascinare da una
parte all’altra
della strada, non osservando realmente nessuno, un morto che aveva
avuto il
privilegio –o la punizione di
restare
in vita.
Ogni
tanto guardava le facce delle altre persone, nel tragitto tra casa e
lavoro, e sentiva che la sua era uguale alle altre: facce tirate,
preoccupate,
smarrite, facce sbiadite come fiori strappati alla radice e ficcati in
un
vaso*, e se ne rammaricava.
John
Watson, nonostante tutto, non si era lasciato andare al buco nero dal
quale si
sentiva attratto, ma continuava a lavorare sotto l’occhio
vigile di Sarah,
vecchia amica, e continuava a mangiare e respirare e dormire e a fare
finta che
ogni giorno non fosse vuoto o inutile.
John
Watson stava bene, ne era convinto, lui era sopravvissuto alla guerra,
lui era stato sparato, lui aveva ucciso una persona, una morte in
più non
faceva differenza.
Pensava
a questo genere di cose quando sentiva la nostalgia assorbirlo mentre
passava
davanti ad un’edicola e leggeva la cronaca nera.
A
lui
mancava Sherlock Holmes, ma non ne sentiva il bisogno.
Era
di
quello che cercava di convincersi.
Sherlock
Holmes sapeva che John Watson stava vivendo
nell’inferno da quando lui era morto.
Sherlock percepiva il suo dolore anche a chilometri di distanza,
chilometri di
sicurezza, ma che lo facevano sentire strano, quasi colpevole.
Non
mostrava a nessuno quanto in realtà gli
mancasse la sua vita, nemmeno nelle sporadiche visite di Molly; in
alcuni
momenti, però, quando il pallido sole di Londra scompariva
dietro lo skyline
fatto di case e natura ed il buio inghiottiva ogni cosa, Sherlock
pensava a John
senza più alcuna barriera.
Voleva
prendere il suo posto, voleva fargli sapere che non
era solo, che lui era lì.
L’attesa
era la nemica più dura, il suo eco l’unico
compagno
fedele di quel viaggio solitario.
Era
passato un mese preciso dal decesso, quando la chiamata della signora
Hudson lo
riportò al centro del baratro dal quale stava cercando di
trascinarsi fuori.
“Sherlock
è morto da un po’ di tempo, John caro,
è tempo che qualcuno porti via le sue
cose dall’appartamento ed io…non credo
di…sai, quindi se potresti venire…” non
l’aveva più ascoltata quando avevo compreso
in cosa consistesse quella telefonata mattiniera.
La
signora Hudson voleva che ritornasse un’ultima volta al 221B
di Baker Street,
da solo, a mettere le mani negli oggetti personali di Sherlock Holmes.
John
aveva creduto che bastasse solamente chiudere quella porta che
conteneva
ricordi troppo dolorosi da sopportare per lasciarsi tutto alle spalle,
ma era
rimasto a fissarla per tutto quel tempo, senza avere il coraggio di
riaprirla.
Senza
nemmeno accorgersene si era ritrovato davanti a quel portone
così familiare e
si era fermato lì davanti, le gambe immobili e cedevoli, il
groppo in gola che
non lo faceva respirare e lo sguardo offuscato di ricordi, impedendogli
la vista
della realtà circostante.
John
pensava che gli facesse male la gola perché era
lì che si fermavano le
tristezze, ma venne distratto dalla presenza della signora Hudson
comparsa al
posto della porta, con un sorriso così gentile e premuroso
da farlo leggermente irritare.
“Oh,
John, sono così felice di vederti! Sei dimagrito?”
“Sono felice anche io di
rivederla, signora Hudson.”
Sviare
qualunque tipo di domanda scomoda, era quella la sua missione per quel
giorno,
almeno finchè fosse uscito da quel maledetto appartamento
sano e salvo.
“Forse
è meglio che ti lasci un momento solo…con i tuoi
pensieri.” “Grazie mille.”
Quando
vide scomparire l’angolo del vestito colorato nel suo
appartamento, fissò
intensamente le scale, frastornato dalla moltitudine di dejà
vu che essa faceva
ritornare alla memoria.
Si
vergognava quasi, del fatto che qualcuno potesse essere così
importante che
senza di lui si sentiva inutile.
Ora
che
se n’era andato per non tornare mai più,
desiderava quasi di riavere tutte le sensazioni
brutte indietro, così da poter avere anche quelle belle.
Salì
le
scale con il familiare scricchiolio del legno vecchio in sottofondo,
fino a
raggiungere l’appartamento.
Camminò
per le stanze disordinate e polverose, la luce entrava timida dalla
finestra,
mischiata all’odore di chiuso.
Chiuse
gli occhi e provò a formulare un frase che avrebbe detto
Sherlock se fosse
stato lì, ma non ci riuscì.
Fu
quello il momento in cui morì veramente.
Era
rimasto lì, al centro della stanza, senza sapere
più come muoversi, sentendo le
lacrime premere con prepotenza e l’orgoglio che le ricacciava
indietro.
John
era arrivato alla conclusione che l’amore, perché
ormai l’aveva capito che di
semplice amicizia non poteva trattarsi, aveva i denti e che i denti
mordevano
ed i morsi, i morsi non guarivano.**
Era osceno che avesse il
terrore di toccare il
suo violino, o di toccare i suoi attrezzi da lavoro, perché,
rifletteva, quello era sempre
stato il loro
appartamento e distruggere tutto sarebbe stato come ritornare
all’inizio di quell’avventura, da solo e in balia
del vento.
“Esistono
persone che ti fanno rimanere senza fiato per la loro determinazione.
Sherlock
era uno di quelli, non è vero?”
John
si
girò verso l’ingresso, dove era comparsa
nuovamente la signora Hudson con un
cipiglio triste che le deformava il viso.
“Lo
era, sì. Ma ormai è morto, quindi non
c’è più niente sulla quale
rimuginare.”
Era
stato capace di non far tremare la voce, aveva fatto dei miglioramenti,
allora,
nonostante tutto.
“John,
passerà…” A quel punto la rabbia
scoppiò con una fragorosa onda d’urto dentro
di lui.
“No,
non passerà ed è questo che fa male.
Ciò che ci manca ce lo portiamo sempre
appresso.”
John
uscì velocemente dall’appartamento,
ripromettendosi di non metterci piede mai
più.
Era
forse stato troppo duro con lei? Infondo, non era colpa sua e nemmeno
di nessun
altro.
Eppure
non era riuscito a resistere all'impulso di trasmettere un po' di
quell'angoscia che si dibatteva in lui come un pesce fuor d'acqua.
Egoistico?
Magari, ma non gli sembrava corretto che solo lui patisse
così
intensamente quella mancanza improvvisa.
Troppi
ricordi eJohn non poteva più vivere nel passato, non poteva
stare legato a
Sherlock Holmes per sempre, come un bimbo al suo primo peluche.
Che
fosse o non fosse stato amore, lui doveva andare avanti.
La
pagina
di appunti scarabocchiati con la grafia di Sherlock appena rubata dal
221B che
bruciava nella sua tasca del giubbotto.
Sherlock
Holmes era stato battuto squallidamente da se
stesso.
Stava
provando sulla sua stessa pelle l’infido potere di
vedere e non essere visti, il potere dell’ombra, di non
vivere la vita ma
esserne solo spettatore.
Aveva
osservato molto, troppo in quel mese di solitudine
forzata, ed era stato in silenzio ancora più a lungo.
Continuava
a lavorare, in incognito, ma non aveva più alcun
compagno con il quale confrontarsi, nessun pubblico che mettesse in una
luce
positiva la sua deduzione.
Noioso,
squallido spettatore e lui odiava la noia.
Sherlock aveva
seguito John Watson per tutti quei giorni, lo teneva
sott’occhio come un
familiare premuroso, intuendo ogni suo pensiero e facendolo suo.
A
Sherlock Holmes mancava John Watson più di quanto il suo
cervello potesse aver preannunciato prima della recita.
Ed
ora la mancanza pesava ed il silenzio opprimeva.
Attesa.
A
due
mesi di distanza dalla morte di Sherlock Holmes, John Watson credeva di
essere
soggetto a filofobia.
Sapeva
perfettamente di non poter passare un’intera vita nella
debole speranza
del ritorno di Sherlock, ma di ragazze non se ne parlava nemmeno.
Continuava
ad allontanare le persone.
Paura
di essere delusi? Paura di essere feriti? Autodifesa?
John
non lo comprendeva, però era convinto che non sarebbe stata
una buona idea
incominciare una relazione finta, senza alcuno scopo se non quello di
farlo
sentire ancora più solo.
John,
pochi giorni prima, aveva avuto un colloquio con Sarah, preoccupata per
il suo
stato di salute notevolmente in discesa.
Dormiva
ancora nel suo ufficio e non per le notti in bianco passate a risolvere
casi,
ma bensì per gli incubi, quelli amari, quelli che non si
cancellano ma
marchiano la retina a fuoco, facendoti passare ogni sintomo di
sonnolenza.
Dopo
due interi mesi, non era forse arrivato il momento
dell’accettazione e del
proseguimento della sua vita senza eventuali rimorsi o rimpianti?
Eppure lui
era ancora alla prima fase del lutto: il dolore.
John
l’aveva rassicurata, le avevo detto che stava bene, che si era
rassegnato ed
aveva capito che era morto definitamente.
Sarah
non ne era stata convinta e nemmeno lui.
La
sveglia suonò all’alba quel giorno mentre John
Watson stava già stancamente
trangugiando la sua tazza di caffè, osservando fuori dalla
finestra le poche
macchine che sfrecciavano svelte.
Aveva
una dura giornata da affrontare, una marea di pazienti da visitare a
causa di
Sarah che era entrata in malattia il giorno precedente.
Si
preparò velocemente e prese un taxi diretto
all’ambulatorio.
L’idea
di pessima giornata stava già rovinando i suoi residui di
buonumore insieme al
bruciore alla lingua causato dall’espresso bollente.
Sherlock
pensava intensamente, assorto in un’aura di
elettricità che non provava da mesi.
Erano
passati millenni, ma gli uomini non erano mai riusciti
a capire l’amore. Quanto dipendeva dal corpo e quanto dalla
mente? Quanto dal
caso e quanto dal destino? Perché certe coppie perfette
fallivano e altri
abbinamenti, per quanto impossibili, prosperavano? Non lo capiva,
Sherlock, e
intanto osservava il sole sorgere. Aveva solo compreso che
l’amore,
semplicemente, era dove era.***
E
finalmente, anche per lui, era l’ora di riprendere in mano
il controllo.
Il
buonumore che saliva ogni minuto che passava.
Sherlock
Holmes aveva la giornata piena.
I
dive in at the
deep end
You
become my
best friend
I
wanna love you
but I don't know if I can
[X&Y
– Coldplay]
Era
passata da poco la metà mattinata, ma John si sentiva
affaticato come non mai.
Probabilmente
una delle cause principali stava nelle ombre sotto gli occhi che lo
facevano somigliare ad uno spirito senza tempo né
pace.
Quando
i pazienti entravano nel grande stanzone bianco e arioso, infatti,
poteva
scorgere l’ondata di compassione nel vedere il suo volto,
nemmeno fossero loro
gli esperti di medicina e salute. Dannazione,
nemmeno un po’ di educazione?,
avrebbe
voluto urlare, dando libero sfogo ai nervi tesi fino allo stremo e al
cerchio
alla testa che non smetteva di pulsare ferocemente.
Quando,
finalmente, alla beneamata ora delle dodici e trenta entrò
in pausa pranzo, per
John fu come entrare in una sorta di paradiso terrestre, confortato dal
silenzio e dall’assenza di sguardi accusatori.
Lui
stava bene, non era lui il paziente,
continuava a pensare infastidito, mentre finiva il suo panino
recuperato alle
macchinette.
Un
panino orribile, di chissà quanto tempo prima.
Un
bussare insistente alla porta lo fece ridestare dai suoi pensieri,
facendogli
togliere i piedi dalla scrivania e togliendo le varie briciole dal
maglione
logoro.
“E’
permesso, dottor Watson?” “Certo, vieni
Elèna.” Disse, cercando di ingerire il
boccone di sandwich senza strozzarsi.
La
faccia grassoccia e professionale di una signora sui
quarant’anni comparve
all’ingresso, con un’espressione non molto
rassicurante.
“Dottore,
mi dispiace interrompere la sua pausa, ma c’è un
paziente che è arrivato qui dieci
minuti fa e dice di sentirsi molto male.”
Lo
sguardo affranto di John sembrò farla sentire colpevole di
un gravissimo reato.
“Ho
provato a chiedere alla dottoressa della stanza dodici, ma non
è nemmeno
riuscita a fermarsi un momento e allora…”
“Non si preoccupi, lo faccia
entrare.”
John
sperò per lo sventurato malcapitato che fosse davvero una
questione di massima
urgenza o avrebbe dovuto tirare fuori dalla custodia la sua Browning
L9a1 e non
sarebbe stato piacevole per nessuno.
Andò
ad
aprire una finestra, sperando che l’aria londinese lo facesse
tranquillizzare.
Sherlock
Holmes aveva imparato sin da piccolo
l’autocontrollo, la gestione misurata delle proprie emozioni
e l’osservazione
dei minimi dettagli, talvolta i più importanti.
Sherlock,
però, in quel momento si trovava in uno stato di
agitazione mista a qualcos’altro –Confusione?
Ansia? Incertezza? che gli faceva sudare le mani,
stupido Sherlock!, e seccare la gola.
“Signore,
si sente bene? Mi sembra molto pallido.” “Ho
bisogno di un dottore, con urgenza.”
Macchine,
persone, strade, negozi.
John
non riusciva a vedere nulla se non calma, pace e noiosità.
Uno
colpo di tosse arrivò da dietro le sue spalle, poco prima
che la voce di Elèna
interrompesse il silenzio.
“Dottor
Watson, questo è il paziente, la lascio al suo
lavoro.” “Allora, sente di avere
dei sintomi parti…”
Appena
si girò, John Watson rimpianse il suo vecchio bastone.
Lì,
davanti a lui, come se non fosse mai sparita, c’era la figura
netta e distinta
del suo vecchio e speciale migliore amico, Sherlock Holmes, con
quell’aria
imperturbabile che ora ricordava aver visto così tante volte
da perderne il
conto e di esserne stato irritato altrettante.
Impossibile.
Un
sogno, una strana allucinazione? Sherlock Holmes era morto, ci erano
voluti due
lunghissimi mesi perché questa idea si radicasse in lui,
quindi non poteva quel
tizio, chiunque fosse stato, presentarsi nel suo ambulatorio e
guardarlo così.
Con
quegli occhi e quel cappotto così stravagante che faceva
contrasto con
l’intonaco bianco delle pareti.
“John.”
“No, non…no.”
John
strinse il termosifone dietro di sé, cercando un appiglio
per non cadere.
“Lui
non può essere qui, no. E’ morto.” Con
l’altra mano si strofinò gli occhi,
cercando di non scoppiare o perlomeno di non svenire. Era morto, aveva
visto e
pianto davanti alla sua tomba e lui non poteva essere lì,
solo non poteva.
“John,
se tu mi lasciassi il tempo di spiegare…”
“Spiegare? Spiegare
cosa, esattamente? Perché ci sarebbero un bel po’
di cose,da spiegare!”
“Sono
stato costretto a uccidermi, avresti dovuto capirlo.”
“Avrei…oh,
lasciamo perdere. Esci fuori di qui.”
“Come
scusa?” Rispose Sherlock, accigliato. Aveva capito benissimo,
John lo sapeva
bene, anche accecato dalla rabbia repressa per mesi. Lui capiva sempre
tutto,
era il genio della situazione, quello che prendeva decisioni senza
consultare
il suo unico amico, quello che usava il cervello prima di qualunque
altro
organo.
“Ho
detto che devi uscire da questa stanza. Non ho voglia di parlare con un
morto.”
“John,
ma io sono vivo.”
“Sì,
ma
il problema è che non saresti mai dovuto andartene e tu non
puoi morire e resuscitare
e tornare qui come se nulla fosse successo perché sono
successe molte cose,
Sherlock, da quando ti sei suicidato cadendo da quel maledetto tetto,
quindi,
se permetti, ho voglia di rimanere da solo.” A John sembrava
di non respirare
da secoli dopo quella frase e Sherlock sembrava aver compreso il suo
stato
d’animo visto che stava avanzando verso John con le mani
alzate davanti al
petto, come un povero ladro circondato da poliziotti armati.
Si
sentiva minacciato, forse? Perché, per un’altra
maledettissima volta, il suo
intuito avrebbe visto giusto.
Doveva
solo ricordarsi dove aveva lasciato la carica della pistola…
“John,
senti, so che tutto questo è molto da assorbire per
una…”
“…per
una comune, del tutto ordinaria, noiosa persona come te. Forza
Sherlock, so che lo stavi pensando.”
“Non
è
così.” “Tu devi uscire da qui,
ora.” Disse John, scandendo bene le parole, in
modo da rendere chiaro il concetto.
Le
sue
mani cominciavano a tremare, un cattivo segno, ed il suo cervello si
stava
finalmente abituando all'idea che Sherlock fosse veramente
lì, con lui, in
carne ed ossa e cappotto, altro pessimo, orribile segno.
John
voleva
rimanere arrabbiato con Sherlock per sempre, fargli pesare tutti quei
giorni di
solitudine a cui l’aveva sottoposto fino a farlo pregare in
ginocchio che
ritornasse da lui.
John
sapeva perfettamente che non sarebbe mai successo, un
Holmes che implora?, come non sarebbe mai successo che gli
tenesse il broncio per più di un giorno.
“John,
avevo calcolato che qualcuno ci sarebbe andato di mezzo durante il
piano, ma
andava fatto, per il bene di tuti. L’importante non
è essere tornato?” Sherlock
Holmes si rese conto troppo tardi delle parole appena dette, dandosi
mentalmente dell’idiota per non essersi mai applicato con i
fenomeni chimici
chiamati sentimenti o con l’altruismo in generale.
“L’imp…Sherlock,
ti rendi conto di quello che stai dicendo? Io non sono uno stupido
giocattolino
che puoi manovrare a tuo piacimento né una macchina senza
sentimenti. Hai fatto
finta di essere morto, lo comprendi? Abbiamo vissuto per diciotto mesi
insieme,
giorno per giorno, ma non ti sei fatto il minimo scrupolo a inscenare
una
stupida recita per chissà quale dannato piano con Moriarty!
Io, Sherlock, io
non riesco a credere di essere stato così ingenuo da farmi
abbindolare da te.
Ho detto di starmi lontano.” Disse, quando vide Sherlock
davvero troppo vicino.
Non gli avevano insegnato a non irrompere nello spazio personale di
un’altra
persona?
“John…”
“Ho
detto fuori! Vattene, vattene e non tornare più. Io non ho
bisogno di te!”
John
non aveva molto chiaro il momento in cui si era accorto di averlo a
pochi
centimetri di distanza con le mani ancora alzate in posizione di
difesa, ed era
confuso l’istante in cui aveva semplicemente disteso le
braccia e l’aveva
abbracciato, senza pensieri e senza rimorsi.
Sentiva
il corpo di Sherlock rigido sotto le sue dita e poteva anche capirne le
motivazioni, tra sociopatia e solitudine.
Quando
John si ricordò che aveva ancora una dignità da
uomo virile, si staccò dall’abbraccio,
schiarendosi la gola e guardando in tutte le direzioni meno che dalla
parte
nella quale stava un sorridente Sherlock.
“Credo
che sia il momento di andare.” Disse tutto d’un
tratto, stroncando il silenzio
vibrante di imbarazzo e parole confuse.
Lo
sguardo impaurito di John si scontrò contro quello di
Sherlock. “Andare?”
“Andare, certo, a casa. Credo non ci vorrà molto
tempo a riportare i tuoi
effetti personali al 221B, ma per il momento ho un sacco di casi a cui
lavorare. Oh, devo ancora parlare con Mrs Hudson!”
Borbottava
ancora tra sé, con quel suo modo di fare che a John era
mancato come aria.
Sorrise appena, continuandolo ad osservare.
Arrivato
alla porta si girò nuovamente verso di lui.
“Avremo
molte cose di cui parlare, stasera.” “Ne sono
consapevole.” “Sono…” Sono
contento di essere tornato,
non
era poi così difficile, pensava Sherlock stizzito.
John
aspettò che Sherlock finisse la frase, ma il continuo non
arrivò. “Sei, cosa?”
“Nulla, dimentica quello che ho detto. Ci vediamo stasera,
prenoto da Angelo?”
“Ovviamente.”
Sorrise
ed uscì svelto dalla stanza. In un quarto d’ora
quell’uomo aveva avuto il
potere di rimescolare le carte in tavola per l’ennesima volta
e John non ne era
mai stato più entusiasta.
A
chi
importava se poi, andati al ristorante di Angelo, la gente li avrebbe
scambiati
per una coppietta che cenava al lume di candela? Quanto, questo, poi,
andava
oltre la verità?
E
a chi
importava se avrebbe dovuto rincominciare a fare le ore piccole e a
sentire
suonare il violino alle ore più improbabili della notte? A
John andava bene
così.
Uscì
dal suo ufficio, andando verso la macchinetta dell’acqua.
Troppe emozioni fanno
disidratare il corpo? Doveva chiedere delucidazioni a Sherlock in
merito.
“Buon
paziente?” La voce di Elèna lo riscosse dai suoi
pensieri. “Ottimo, direi.”
Ancora
John Watson e Sherlock Holmes, ma
con un
qualcosa in più.
You are the hole
in my head
You
are the space
in my bed
You
are the
silence in between
What
I thought
and what I said
You
are the
night-time fear
You
are the
morning when it’s clear
When
it’s over
your start
You’re
my head
You’re
my heart
[No
light No
light – Florence]
*Citazione di John Fante.
**Citazione di S. King
***Citazione di S. Meyer
Grazie a
tutti per la lettura.
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