Dirty Little Secrets

di CowgirlSara
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Sherlock DLS - 1
Ritorno su questo fandom con la mia prima long fic. La storia è in corso di lavorazione, cosa che potrebbe un po’ allungare i tempi, ma state sicuri che arriverà tutto!
Questa ff è frutto del mio amore per i racconti gialli e per la serie della BBC, che – confesso – mi ha fatto rivalutare Sherlock Holmes ^_^
Non aspettatevi una trama di chissà quale livello, il giallo sarà forse anche un tantino banale, ma quello che m’interessava era soprattutto scrivere delle interazioni tra Sherlock e John, perché li adoro sconfinatamente!
Beh, adesso basta chiacchere, vi lascio alla lettura. Aspetto i vostri commenti e spero che questo mio tentativo vi piacerà!

Enjoy!
Sara

Capitolo 1

Il dottor Watson riuscì a guadagnare la via di casa solo dopo le sei del pomeriggio. Era stata un’estenuante giornata di visite: vecchiette con l’artrosi, bambini intasati di moccio, obesi cardiopatici che non ne volevano sapere di smetterla con le schifezze fornite da ogni tipo di take away rintracciabile sul suolo londinese. Ma rientrare a casa non significava automaticamente trovare la pace ed il riposo.
L’uomo, come varcò la porta del 221B di Baker Street, si ricordò che si prospettava un week end di quasi digiuno, visto che, ad andar bene, il frigo conteneva solo provette, parti di cadavere e qualche pezzo di formaggio ammuffito. Si rassegnò ad uscire di nuovo, ma prima sarebbe stato meglio interpellare il proprio coinquilino.
Il soggiorno e la cucina erano immersi nel loro solito caos, ma privi di presenza umana. Stava per mandare un messaggio all’altro occupante dell’appartamento, quando sentì un rumore attutito nella stanza accanto.
“Sherlock?” Chiamò, aggrottando la fronte, mentre si girava in quella direzione.
“Sì.” Rispose semplicemente la voce del consulente investigativo.
Watson si diresse verso la porta socchiusa alla sua destra e si sporse dentro la stanza. Lo spettacolo era apocalittico.
Beh, ogni superficie piana, incluso il letto, erano occupati da fogli, libri, oggetti, ma non c’era niente di diverso dal solito modo in cui viveva Sherlock. I suoi vestiti, però, erano sparsi a raggiera nella stanza, come soffiati fuori dal guardaroba a muro, le cui ante erano divelte e ciondolavano contro la parete.
John spalancò gli occhi, entrando completamente nella stanza. Sherlock era con la testa ficcata nell’armadio, in mezzo a camicie che ciondolavano su stampelle rotte e calzini adagiati in cima ad un cassetto scardinato.
“Ma qui dentro è esploso qualcosa?” Domandò ironico John.
“Hn, sì.” Rispose tranquillo Sherlock, passando dall’armadio al cassettone senza guardare l’altro. Il dottore strabuzzò gli occhi.
“Davvero?” Esclamò incredulo.
Sherlock si voltò verso di lui, lo studiò serio per qualche secondo, stringendo gli occhi e alzando il mento.
“Era una battuta?” Chiese infine.
“Sì!” Fece John allargando le braccia. “È veramente scoppiato qualcosa?!”
“Sì.” Annuì l’investigatore. “Un esperimento…”
“Oh, Santo Cielo…” Commentò il medico, poi annusò l’aria. “C’è puzza di bruciato…”
“Oh, sì! Sono i miei capelli.” Dichiarò il coinquilino. “Devo farmi una doccia…” Aggiunse, prima di passargli accanto con aria assorta e scomparire verso il bagno.
John, confuso, diede ancora un’occhiata allarmata alla stanza devastata, poi scosse la testa e tornò in soggiorno. Si sentiva chiaramente lo scroscio dell’acqua in bagno.
“Sherlock, io vado a fare la spesa, hai bisogno di qualcosa?” Domandò infine, accostandosi alla porta chiusa.
“No.” Rispose l’altro. “Ma se dovesse venirmi in mente, ti mando un messaggio.” Aggiunse.
“Va bene, ma fallo prima che io sia alla cassa…”
Vivere in quella casa era una scommessa. Non sapevi mai se avresti mangiato, bevuto, dormito con regolarità, se qualcuno ti avrebbe sparato addosso, oppure rapito e imbottito di esplosivo, o se saresti riuscito ad avere un appuntamento con una persona in pace.
Proprio quando credeva di aver visto tutto, Sherlock superava di un altro poco il confine dell’incredibile. Ma dopo teste mozzate in frigo, colonie di muffe, bande di trafficanti di armi ceceni, donne che sono uomini che fingono di essere donne, ormai cosa mancava? Un gatto elettrificato e un coniglio nel forno? Anche se, quest’ultimo, con patate e rosmarino, magari non era male…
“Ricordami di non prendere mai un animale domestico.” Affermò John, parlando più a se stesso che a Sherlock dietro la porta.
“Eh?” Fece l’altro, chiaramente immerso sotto il getto.
“Niente, niente… Vado, ci vediamo tra un po’.” E, detto questo, discese le scale ed uscì in strada.

Il bislacco sms di Sherlock lo raggiunse appena uscito dal supermercato, ovviamente.

«Ho bisogno di un flacone di acqua distillata, un tubo di gomma diametro 1 cm e un piccione. SH»

Un piccione?!

Altro messaggio.

«Il piccione non è necessario che sia vivo, basta che abbia le piume. SH»

Oh, Sant’Oddio…

«Dove te lo trovo un piccione con le piume? JW»

«Leicester Square?SH»

Ma… Col cacchio che ora s’imbarcava sulla Bakerloo per prendergli un piccione! Che poi, era lecito appropriarsi di un piccione di Leicester Square per farci esperimenti di discutibile natura? Rischiava l’arresto?
Stava per rispondere al messaggio, quando le sue priorità cambiarono all’improvviso.
“John?” Lo chiamò una gentile voce femminile.
Se l’avesse chiamato un uomo non si sarebbe nemmeno voltato, ma quella voce gli ricordava qualcosa… Si girò piano.
Lei era una donna minuta, col viso ovale e due splendidi occhi blu, i capelli biondi acconciati in onde delicate, la pelle bianca, abiti eleganti ma sobri. La riconobbe subito.
“Angela… Angela Blythe!” Esclamò sorpreso.
“John Watson, quanto tempo.”

Poco dopo erano seduti su una panchina; il piccolo giardino allietato dal primo tiepido sole primaverile. I piccioni svolazzavano placidi, ignorando la minaccia di Holmes.
“Dio, sembra passata un’eternità, dai tempi della Barts.” Affermò Angela, posandosi le mani in grembo. John la guardava, era sempre bella come allora.
“Già.” Commentò placido.
“Tu che cosa fai adesso?” Gli domandò interessata la donna.
“Lavoro in un piccolo ambulatorio.” Rispose semplicemente lui. “Tu, sempre nel reparto pediatrico?”
“Assolutamente.” Annuì Angela. “Non c’è niente di più bello che aiutare i bambini.” Aggiunse, ed il suo sguardo si fece dolce, appena malinconico.
Il cellulare di John emise un suono, impedendogli di continuare a godersi il bel profilo della donna. Il dottore roteò gli occhi esasperato, poi lo trasse dalla tasca e guardò il messaggio.
 
«Dove sei? Ho fame! SH»

Sbuffò e rimise l’apparecchio in tasca. Angela lo fissava incuriosita.
“Qualcosa di importante?” Gli chiese garbata.
“Hn, no.” Fece lui vago. “Solo il mio coinquilino bizzarro.” La donna, sorpresa, sorrise appena e alzò le sopracciglia.
“Sembra strano: tu con un coinquilino bizzarro.” Commentò poi. “Sei sempre stato così…”
“Ordinario?” Intervenne lui.
“Oh, no!” Esclamò Angela, posando una mano sul suo braccio. “Solo molto ordinato, preciso, serio.” Spiegò quindi. John abbassò il capo. “Non ti ho mai ringraziato per l’aiuto che mi hai dato tante volte, se non ci fossi stato tu molti esami non li avrei passati.”
“Non sminuirti, sei sempre stata brillante.” Affermò lui, con un sorriso tranquillo.
“Non farlo tu, eri il migliore della classe!” Ribatté lei con un grande sorriso, prendendogli d’impeto le mani. John guardò le sue mani ruvide in mezzo alle sue, piccole e bianche.
“Come vanno le cose con James?” Le domandò improvviso.
Angela sussultò, lasciò la presa e si ricompose sulla panchina, guardando oltre la cancellata verde del giardinetto.
“Purtroppo, siamo un po’ in crisi…” Mormorò quindi, tormentandosi le mani. “Da qualche tempo, lui vive in un piccolo appartamento nella City.”
“Oh, mi spiace…” Soffiò sincero lui.
“No, non farlo, gli ho chiesto io di andare.” Lo interruppe la donna. “Non potevamo stare male in due.” Aggiunse, prima di tornare a guardare John sorridendo. “Abiti qui vicino?” S’informò, accennando alle buste della spesa.
Il dottore la fissò per un attimo, perplesso per il repentino cambio di argomento. “Sì, in Baker Street.” Le disse infine. “Tu cosa fai da queste parti?”
“Oh, niente di che, una visita medica.” Rispose vaga Angela.
“Spero niente di grave…”
“No, tutto a posto.” Sorrise lei, poi gli prese di nuovo le mani. “Dobbiamo cenare insieme, al più presto! Dammi il tuo numero, così ti chiamo.”
La sorpresa per quella inaspettata richiesta, rischiò di far sussultare John, ma dopo un comprensivo attimo per riprendersi, fu felice di acconsentire allo scambio dei numeri.
Non si era mai dimenticato di Angela, anzi, lei era uno dei migliori ricordi dei tempi della scuola di medicina, nonostante non avesse mai ricambiato il suo trasporto. Forse perché non lo aveva mai saputo. Ma ora era felice di poter riallacciare i rapporti.
Si salutarono pochi minuti dopo e la donna lo stupì di nuovo, baciandolo sulle guance.

Quando arrivò in cima alle scale dell’appartamento, Sherlock era fermò in mezzo al salotto. Si voltò di scatto, sentendo i suoi passi sul pianerottolo.
“Finalmente!” Esclamò il detective. “Il mio piccione?”
John alzò gli occhi al cielo e si diresse in cucina senza rispondergli; posò le buste su una sedia, visto che tavolo e pensili erano ingombri dei soliti alambicchi di Sherlock.
“Allora?” Fece l’altro seguendolo.
“Non ti ho preso nessun piccione.” Rispose John, mentre riponeva la spesa nei vari mobiletti.
“Perché?” L’interrogò autoritario Sherlock, mani ai fianchi.
“Perché non vai sul tetto e te ne prendi uno da solo?” Replicò il dottore, agitando un barattolo di pelati.
“Sei acido, John.” Commentò l’investigatore.
“Avrò Saturno contro.” Sbottò l’altro, passandogli accanto.
“Tu non credi all’oroscopo.”
“Magari oggi sì.”
“Non si crede in qualcosa a giorni alterni.” Ribatté scettico Sherlock. “E, comunque, tralasciando il piccione – che non mi hai portato – io avrei fame.”
John tornò verso la cucina, entrò, frugò in uno dei sacchetti, tornò dall’amico e gli posò una vaschetta in mano.
“Lasagne. Due minuti nel microonde. Deliziose.” Dichiarò asciutto.
Sherlock guardò perplesso la vaschetta, poi alzò gli occhi e seguì i movimenti di John nella stanza. Gli era successo qualcosa e lui, sapeva cosa.
“Hai incontrato qualcuno, fuori?” Chiese al proprio coinquilino.
John si fermò col braccio a mezz’aria, mentre metteva a posto la scatola del caffè. Merda. Pregò Dio che Sherlock non stesse per fare quello che stava per fare. Oggi non era in grado di sopportare la sua supponenza. Continuò a mettere roba nello scaffale a sempre maggiore velocità, cercando di ignorare il sorriso perfido che percepiva sulle labbra di Holmes.
“Vediamo…” Continuò il detective, avvicinandosi. Lo annusò e John strinse i denti. “È una donna, ma non è Sarah, il profumo non è il suo.” Il dottore si girò verso di lui, gli occhi bassi e un’espressione arresa. “Sarah non è una donna di classe e questo è un profumo costoso… Una vecchia fidanzata.” Ipotizzò quindi, ma John deviò gli occhi. “Oh, no, non lo è… Una vecchia amica, oppure… una compagna di studi.” John masticò a vuoto. “Sì, una vecchia compagna della Barts, la tua espressione me lo conferma, e non la vedevi da molto tempo, perché ti ha baciato… sulle guance.” Detto questo, gli passò un dito su una guancia e glielo mostrò. “Rossetto.”
John masticò, deglutì e fece una smorfia ironicamente amara, prima d’incrociare le braccia.
“Bene, hai dimostrato ancora una volta di essere il genio della deduzione.” Sherlock gongolò appena. “E allora?” Lo smontò immediatamente l’altro.
Sherlock spalancò gli occhi e lo fissò con incredulità. Cos’era questa arroganza? Dov’era la smisurata ammirazione con cui, di solito, John ascoltava le sue deduzioni?
“Hai fame? Mangia.” Concluse il dottore, indicando la vaschetta che l’altro aveva ancora in mano, poi girò i tacchi e salì nella propria camera.
L’investigatore rimase in piedi in mezzo alla cucina, con le lasagne surgelate che gli stavano pian piano incollando le dita. Poi si riscosse e lanciò il cibo sul tavolo. Doveva sapere tutto di questa donna! Santo cielo, faceva a John un effetto ben peggiore di Sarah, c’era di che allarmarsi!

John ridiscese al piano inferiore dopo pochi minuti. Aveva fame, inutile negarlo, ma non avrebbe dato soddisfazione a Sherlock. Il suo coinquilino, per fortuna, era alla scrivania con la testa infilata nel portatile.
Il dottore andò in cucina a farsi un panino, visto che ora c’erano gli ingredienti. Finito di preparare il sandwich, lo mise in un piatto, fermamente convinto di consumarlo seduto in poltrona. Arrivato in salotto, però, fu incuriosito dalle attività del detective. Forse lavorava ad un nuovo caso.
Lo raggiunse alla scrivania tra le due finestre e, da sopra la sua spalla, sbirciò lo schermo del computer, mentre masticava il primo morso del panino. Quando realizzò cosa stava studiando Sherlock con tanta attenzione, però spalancò gli occhi incredulo.
“Quella è la foto della mia classe alla Barts!” Esclamò a bocca piena.
“Hmhm.” Annuì pensoso Sherlock. “Eri carino… Un po’ un pulcino spettinato, ma carino.”
“Grazie…” Soffiò sarcastico John.
“Lei qual è?” Gli chiese allora l’investigatore.
“Dimmelo tu.” Lo sfidò il dottore; Sherlock gli lanciò un’occhiata ironicamente retorica.
“Mhhh…” Rimuginò, osservando ancora la foto. “Questa no, troppo brutta. Questa non è abbastanza raffinata. Questa… lesbica.” John lo guardò con rimprovero, ma lui non se ne accorse. “Questa è grassa e questa aveva una relazione con l’insegnante…”
“Davvero?” Intervenne sorpreso John.
“È ovvio, John.” Replicò annoiato Sherlock, poi indicò un punto in basso nell’immagine che stavano guardando. “È lei.” Decretò quindi. “Vediamo la didascalia…”
“Angela Blythe.” Lo interruppe il medico. “È lei, sì.”
“Hm, però.” Commentò Sherlock, osservando ancora la foto.
“Che vuol dire?” L’interrogò John, la fronte aggrottata, dopo essersi seduto sul bordo della scrivania. L’amico si adagiò contro lo schienale della sedia e incrociò le mani sul ventre.
“Anche se non sono interessato alla merce, non significa che non riconosca una bella donna.” Spiegò poi, con tono retorico, come spiegasse ad un bimbo che non esiste Babbo Natale.
John sospirò e scosse il capo. Lo scarso tatto di Sherlock sarebbe certamente passato alla storia.   
“Non mi stupisco che ti abbia respinto.” Affermò infatti, confermando i pensieri del dottore.
“Non mi ha respinto.” Reagì debolmente John.
“Certo.” Annuì il detective. “Perché tu non ti sei mai proposto.”
Watson alzò gli occhi al cielo. Già, doveva saperlo che l’avrebbe capito. Gli dispiacque di essere così banale ai suoi occhi.
“Lei era interessata altrove…” Mormorò abbassando il capo.
“Capisco.” Annuì Holmes. “Credo che avrebbe scelto più un tipo come… questo.” E indicò un ragazzo nella foto. John guardò di striscio e tornò ad abbassare il viso.
“James Kubler.” Decretò. “Brillante laureando, figlio di un baronetto della medicina, presidente del comitato studentesco.” E marito di Angela, ma questo lo tenne per se.
“John, non rammaricarti, non è colpa tua.” Intervenne arido Sherlock. Lui lo guardò con espressione interrogativa. “Si tratta solo di evoluzione della specie e conservazione della stessa.” Continuò l’investigatore, rendendo l’altro sempre più perplesso. “Una donna come Angela è portata a scegliere un maschio come questo James per affidargli il proprio corredo genetico, in modo che i propri figli abbiano migliori possibilità di trovare posto nella società.”
“Ah, sì?” Fece John.
“Beh, naturalmente!” Dichiarò Sherlock, allargando le mani. “Lui era più prestante ed attraente di te, a livello fisico, occupava una posizione sociale migliore e prometteva un ottimo futuro.” Aggiunse. “Ed è un maschio Alfa, cosa che tu non sei.”
“Sarà per questo che ho deciso di fare lo zerbino a te.” Sentenziò John, prima di alzarsi e tornare al piano di sopra accompagnato dal panino.
Sherlock lo seguì con lo sguardo, meravigliato per quella reazione. Oggi John era particolarmente suscettibile! E dire che, se anche fosse stato uno zerbino, sarebbe stato comunque il suo preferito, quello con scritto «Benvenuto a casa»…
“Bah!” Commentò basito, prima di tornare alle proprie indagini.

Un’ora dopo, John si era assopito sul letto, ma un inconfondibile bussare violento alla porta lo svegliò di soprassalto. Si alzò lentamente ed andò ad aprire.
“Se sei venuto a chiedermi scusa…” Esordì il dottore, senza alzare gli occhi su Sherlock.
“Scusa? Per che cosa?” Replicò quello stupito, poi alzò il cellulare mostrandogli il display illuminato. “Abbiamo un caso, sbrigati.” Gli annunciò quindi, prima di inforcare di nuovo le scale in discesa.
John sbuffò arreso. Quell’uomo era assolutamente incompatibile con la convivenza civile e Watson si disse che doveva avere qualche tara genetica per aver scelto deliberatamente di dividere una casa con lui. Si strusciò il viso e scese le scale.

Il luogo dell’omicidio era un lindo condominio in un quartiere ancora abbastanza cittadino da non essere degradato. Mattoni scuri e infissi bianchi, simile a centinaia d’altri alla periferia di Londra.
Il dottor Watson si sporse dalla balaustra in metallo scuro. Sotto: macchine della polizia, il furgone della Morgue e le familiari strisce bianche e blu della scena del crimine.
“È qui.” Gli annunciò la voce di Sherlock; lui alzò gli occhi e lo vide infilarsi dentro una delle porte bianche, poco più avanti lungo il pianerottolo.
Era un appartamento ordinato e luminoso, con mobili chiari; appena si entrava, sulla destra, c’era un piccolo cucinino pulito e sistemato. Davanti a lui, invece, un divano bianco e un cadavere sul tappeto. John sospirò, la morte violenta continuava a turbarlo.
La vittima era una ragazza esile, con lunghi capelli castano chiaro; indossava una vestaglia blu scuro e giaceva riversa scompostamente a terra con la tempia coperta di sangue, così come il tappeto inzuppato. Schizzi di sangue imbrattavano il bordo e la seduta del divano, coprivano la superficie di un tavolino di cristallo. Colpo alla testa con oggetto contundente, concluse il medico.
“Un paio di guanti?” Chiedeva nel frattempo Sherlock, allungando la sua mano elegante verso Anderson della scientifica, ma senza guardarlo.
“Mi hai scambiato per il maggiordomo?” Replicò quello piccato.
Holmes gli rivolse una lunga occhiata supponente. “Ti manca il tight.” Affermò infine, poi si avvicinò al tavolo e prese da solo un paio di guanti.
John  lo imitò, prima di salutare Lestrade con un cenno, poi guardò Sherlock, che lo invitò ad esaminare il cadavere. L’investigatore, invece, cominciò a girovagare per la stanza, aprendo sportelli, sbirciando nel frigo e nel lavabo.
“Qualche dettaglio?” Invitò quindi, gesticolando verso l’ispettore.
“La vittima si chiamava Holly Barnes, era una musicista della London Simphony Orchestra.” Esordì il poliziotto, leggendo dalla cartella che aveva in mano. “Ci hanno riferito che nella prossima esibizione avrebbe dovuto fare un assolo, quindi le era stato affidato un prezioso violino, un… Guarnieri del Gesù, che non è stato reperito nell’appartamento…”
“Cosa?!” Esclamò Sherlock, bloccandosi in mezzo al cucinino con gli occhi spalancati.
“Non abbiamo trovato il violino in casa…” Ripeté Lestrade perplesso.
“No!” Esclamò impaziente l’altro. “Hai parlato di un Guarnieri del Gesù!” Il poliziotto annuì. “Hai idea di quanto valga, un violino del genere?”
“Così tanto?” Intervenne Watson.
“Io direi, come minimo, tra il quarto e mezzo milione di sterline.” Affermò il detective. John spalancò la bocca incredulo.
“In questo caso, se il valore dello strumento fosse accertato, potrebbe essere il movente dell’omicidio.” Commentò Lestrade.
“Non credo.” Si limitò a sentenziare Sherlock, prima di sparire in camera da letto.
“Non vorrai dargli retta?!” S’informò Anderson, rivolto all’ispettore. “Se il violino vale così tanto, è ovvio che l’hanno uccisa per quello!”
“Niente è mai ovvio.” Affermò pacato Watson.
“Stia attento, dottore.” Fece allora l’investigatore scientifico, inguainato nella sua tuta blu usa e getta. “Ad andare con lo zoppo…”
John fissò per un attimo l’uomo. Aveva sempre pensato che portasse un parrucchino. Se così non era, la sua terrificante pettinatura era certamente l’opera di un parrucchiere sadico. La risposta da dargli gli venne spontanea.
“A volte si lascia il bastone.” Dichiarò, prima di seguire Sherlock nell’altra stanza.

Entrato nella camera da letto, John si trovò davanti Sherlock che lo fissava impassibile. Il dottore assunse un’espressione interrogativa.
“Potrei amarti, John.” Dichiarò solenne Holmes. Watson spalancò gli occhi incredulo.
“Co… come?” Biascicò quindi.
“Corpo e anima.” Fece Sherlock annuendo, sempre serio.
“P… p… perché?” Balbettò John, completamente confuso. L’investigatore, palesemente spazientito, alzò gli occhi al cielo e allargò le mani.
“Per quello che hai detto ad Anderson!” Sbottò infine, prima di dargli le spalle. “E riprenditi, era una battuta!” Aggiunse, tornando vicino al letto.
John sospirò. Non si sarebbe mai abituato alle uscite di Sherlock. Era impossibile capire se fosse serio oppure no. E lo coglieva sempre di sorpresa!
“Che cosa mi dici di questa donna?” Come ora…
“Quale donna?” Ribatté, infatti, il dottore disorientato.
“Santo cielo, il mio fascino ti ha veramente devastato!” Commentò l’altro senza ironia, mentre scrutava gli oggetti sulla cassettiera. “La vittima, John! La morta, il cadavere…”
“Ho capito, ho capito!” Lo interruppe lui, prima che arrivassero la salma e il feretro. Watson si guardò intorno. “Era un tipo molto ordinato, non amava i colori forti…”
“E della sua vita sessuale?” Intervenne Sherlock, sempre dandogli le spalle.
“La sua… che cosa?!” Replicò John.
“Ti prego, cerca di essere meno inglese, per un attimo.” Lo supplicò secco il detective, voltandosi. “Cosa pensi della vita sessuale di Miss Barnes?”
“E che cosa posso saperne io!” Esclamò il dottore, cercando di nascondere l’imbarazzo. “Magari ha un vibratore nel primo cassetto del comodino!”
In tutta risposta, Sherlock si avvicinò al mobile ed aprì proprio quel cassetto, sotto lo sguardo allibito del collaboratore, poi fece un’espressione compiaciuta.
“Niente vibratori.” Affermò quindi. “Solo preservativi e…” Sollevò la mano in cui teneva un tubetto azzurro e ammiccò a Watson. “…lubrificante.”
John sospirò e scrollò il capo. “Ok, aveva una vita sessuale più fantasiosa del suo arredamento.”
“Sì, decisamente attiva.” Concordò Sherlock. “Ci sono tracce di fluidi corporei sul copriletto…”
Lestrade entrò nella stanza, proprio mentre lui faceva quell’affermazione indicando la coperta.
“Allora, concluso qualcosa?” Domandò l’ispettore.
“Concluso no, dedotto sì.” Rispose Holmes, mentre prendeva in mano una cornice. Era una foto della vittima insieme ad un uomo più anziano in una posa molto amichevole. “Devo parlare con quest’uomo.” Aggiunse, indicando la fotografia.
“Dammi il tempo di scoprire chi è…” Fece Lestrade.
“Si chiama Wolfgang Stoltz, è tedesco e dirige l’orchestra in cui suonava la Barnes.” Affermò Sherlock; gli altri due lo fissavano ad occhi spalancati. “Che c’è? Mi piace la musica classica.”
“Senti.” Esalò Lestrade, dopo alcuni istanti di attonito silenzio. “Non abbiamo molto tempo, tra poco arriva il coroner per portarla via e…”
“Quindi, veniamo alle cose serie.” Lo interruppe Sherlock, prima di battere e strusciarsi le mani, poi iniziò a camminare nella stanza. “Come concordavamo poco fa io e il dottor Watson, Miss Barnes era una donna molto ordinata, precisa, meticolosa.” Gli altri due annuirono in religioso silenzio. “Lo posiamo dedurre dalla sua casa, dalla simmetria nella disposizione dei soprammobili, dalla precisione con cui riportava i propri impegni sull’agenda – posata sul banco della cucina, come avrete certamente notato…” John e Lestrade si scambiarono un’occhiata imbarazzata. “Era così meticolosa da riportare sempre anche il giorno in cui arrivava il ciclo mestruale…”
“Scusa, e questo da cosa lo avresti capito?” Intervenne Watson curioso.
“Semplice.” Fece Sherlock allargando le mani. “Ogni suo impegno era segnato nell’agenda immancabilmente da una penna a sfera nera, ma, periodicamente, con una cadenza di circa ventotto giorni uno dall’altro, il numero indicante la data è stato cerchiato da un pennarello rosso a punta larga. E l’unico motivo per cui una donna fa questo…”
“Ok, ho capito.” Annuì John. “Continua.” Lui non si fece pregare.
“Entrando in questa stanza, mi sono immediatamente accorto della foto di Stoltz. L’uomo abbraccia con fare fin troppo confidenziale la Barnes e lei teneva quella fotografia in un posto di una certa importanza: vicino alla specchiera e, perfino, davanti a quella della propria famiglia.” Fece notare l’investigatore, indicando agli altri posizione e rilevanza della foto. “Ora, siamo sicuri che non ci siano rapporti di parentela tra i due, ma certamente c’è una relazione abbastanza importante, visto il tipo di foto, dove è messa ed il fatto che alla vittima fosse stato affidato un assolo nella prossima esibizione e la custodia di un prezioso strumento musicale.” Continuò Sherlock, mentre si muoveva ancora nella stanza, certo della completa attenzione del proprio esiguo pubblico. “Visto quello che abbiamo scoperto e, cioè, che Holly aveva una vita sessuale piuttosto attiva, possiamo supporre che Stoltz sia, o sia stato, uno dei suoi amanti. E qui torniamo all’agenda.”
“Come: all’agenda?” Domandò confuso l’ispettore.
Sherlock roteò gli occhi e poi rivolse un’occhiata compassionevole al poliziotto. “Come ho detto prima, la vittima segnava in modo regolare il proprio ciclo mestruale, ma questo non avveniva più da circa tre mesi.” Spiegò quindi. “Controllando il suo frigorifero l’ho trovato pieno di frutta e verdura fresca e questo ci dice più del fatto che era una giovane donna preoccupata della propria salute e forma fisica, anche perché…” John era pronto alla rivelazione finale. “…in uno degli armadietti ho trovato un flacone contenente un insieme vitaminico arricchito di acido folico.”
“Tu pensi che fosse incinta?” Gli chiese stupito John.
“No, io non lo penso.” Rispose Sherlock. “Io ne sono certo.”
“Questo è impossibile dirlo, prima dell’autopsia.” Affermò Lestrade.
“Oh, no, ti sbagli.” Lo corresse immediatamente Holmes. “Sul mobiletto accanto al televisore c’è un referto della clinica Brown & Ross – a due passi da Baker Street tra l’altro -  che non è soltanto specializzata in problemi della fertilità, ma offre anche servizi alle donne in gravidanza e da questo capisco che, non solo era incinta, ma voleva tenere il bambino.” Concluse quindi.
“E tutto ciò, cosa ci dice dell’assassino?” S’informò il poliziotto.
“È stato un delitto d’impeto.” Affermò Sherlock, cercando conferma nell’espressione di John, che annuì. “Sicuramente avvenuto durante una discussione. E una discussione può essere stata provocata soltanto dalla gravidanza.”
“E il violino?” L’interrogò Lestrade.
“Il violino non c’entra niente.” Si limitò a decretare Holmes, stringendosi nelle spalle. “Ma se la questione ti preoccupa tanto, vedrò di occuparmene.”
“Sì, preferirei.” Precisò l’ispettore annuendo.
“Come vuoi.” Fece Holmes stringendosi nelle spalle. “Tu fammi sapere dove trovare Stoltz.”
“Vedrò di prenderti un appuntamento.” Gli disse il poliziotto.
“Non c’è bisogno dell’appuntamento, voglio coglierlo di sorpresa.” Soggiunse immediato il detective, con uno sguardo tagliente.
“Non se ne parla!” Sbottò Lestrade. “Quello è tedesco, non vorrai far scoppiare un incidente diplomatico?” Aggiunse preoccupato.
“Come se fosse la prima volta.” Ribatté incurante Sherlock, facendo un gesto vago con la mano mentre si allontanava. John e Lestrade si guardarono e non c’era bisogno delle parole per esprimere i loro allarmati interrogativi.  
Dopo pochi altri particolari – come la testimonianza di una vicina sui rumori di una discussione proveniente dall’appartamento della vittima – Sherlock e John se ne andarono. Holmes aveva anche scattato alcune foto col cellulare, preso copia di alcuni file di Lestrade e raccomandato di fargli avere il referto dell’autopsia.

Era ormai sera quando uscirono dall’appartamento del delitto ed il telefono di Watson squillò proprio mentre scendevano in strada.
“Pronto?” Rispose il medico.
“Ciao, John.” Salutò una voce femminile.
“Angela!” Esclamò lui, piacevolmente sorpreso. “Che piacere sentirti.”
“Ti chiamavo… per quella cena…” Fece lei, un po’ esitante. John si stupì che la donna lo avesse cercato così presto, dopo il loro incontro della mattina.
“Sei ancora dell’idea di perdere una serata a parlare dei vecchi tempi?” Le chiese però, con tono scherzoso.
“Niente potrebbe farmi più piacere!” Ribatté allegra Angela. “Ti andrebbe domani sera?” Aggiunse dolcemente.
“È perfetto.” Acconsentì veloce John.
“Non vedo l’ora.” Replicò lei. “Ti aspetto alle otto.”
Quando John, con un sorriso contento, rialzò il capo dopo aver chiuso la chiamata, trovò Sherlock a fissarlo. Era appoggiato ad un lampione, con le braccia incrociate e lo trapassava con quei suoi occhi glaciali e vivissimi. Watson scosse piano il capo e lo raggiunse, mentre l’altro si voltava e fermava un taxi.  

CONTINUA

Ah, con l'occasione ringrazio coloro che hanno letto la mia one shot "The Distance" (scusatemi non riesco a mettere il link -_-), anche quelli che non hanno lasciato commenti. Grazie a tutti! A presto!

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


dls
Eccoci col secondo capitolo! Scusatemi se aggiorno di rado, però purtroppo i miei tempi sono un tantino lunghi, ultimamente...  Ringrazio ancora chi ha commentato il primo capitolo e anche quelli che seguono la storia in silenzio.
Vi lascio alla lettura e aspetto, come sempre, la vostra opinione!

Baci
Sara



- Capitolo 2 -


John si stava preparando minuziosamente. Si era fatto la barba, messo una camicia pulita e stirata – dalla signora Hudson – e ora stava tentando di pettinarsi in modo decente, nonostante la grandezza dello specchio gl’impedisse di vedersi tutta la testa insieme.
“Ci siamo profumati.” Commentò una voce fin troppo acida per appartenere al suo proprietario.
Watson girò il capo. Sherlock era in piedi nel riquadro della porta, rivestito di pigiama e della sua vestaglia azzurra; lo fissava serio, mantenendo la sua postura impeccabile.
“È così che si fa per un appuntamento.” Affermò compunto John. “Ci si lava, ci si sbarba, si mette un vestito decente e pulito…”
“Sì, sì!” Lo interruppe l’altro, mentre gli dava le spalle e gesticolava in modo teatrale. “E si comprano dei fiori, si dicono frasi insulse e si fanno un sacco di altre cose inutili…” Continuò, tornando in soggiorno.
“Arido come un deserto…” Biascicò sottovoce John, mentre scuoteva il capo.
“Come?” Intervenne improvviso Sherlock, riaffacciandosi nel bagno e facendo sussultare il dottore.
“Niente, niente…” Divagò John, negando col capo. “E puoi smetterla di stare lì, come un avvoltoio sulla carogna: non ti dirò con chi esco, ne dove vado, ne quando torno.” Dichiarò poi, deciso.
Sherlock sbuffò una risata. “Non insultare la mia intelligenza, John.” Affermò quindi. “Vai a cena con la tua vecchia amica della Barts e, quanto al dove, sarebbe fin troppo facile scoprirlo… se m’interessasse.”
Detto questo, girò i tacchi – se questo si può dire di uno a piedi nudi – e sventolando la vestaglia tornò in salotto. John restò davanti al lavandino, in attesa del ritorno trionfale di Sherlock per la sua ultima parola. Ci vollero pochi secondi.
“E tornerai se e quando io ti chiamerò.” Sentenziò infatti, prima di sparire in via definitiva. E Watson sapeva che, nonostante la cosa gli desse fastidio, era del tutto vero.

Quando John fu uscito per il suo appuntamento galante, Sherlock poté smettere di interessarsi alla disposizione dei libri nella libreria, facendo finta che niente avesse più importanza. Buttò l’ultimo volume che aveva in mano sul tavolino e si sedette mollemente sulla poltrona nera.
Gli appuntamenti rientravano in quelle cose comuni al genere umano che proprio lui non comprendeva. Se due persone si piacevano, perché fare quella guerra di accerchiamento, quella giostra d’inviti, quel gioco a “voglio stupirti”?
Le poche volte che gli era capitato di avere appuntamenti – sì, perché era capitato anche a lui – non era mai stato lui a proporlo. Le ragazze lo portavano in luoghi inutili e noiosi. Perché fare certe cose, quando quello che si desiderava era tutt’altro? Se vuoi fare sesso, dimmelo e basta, se sono della stessa opinione, possiamo concludere, altrimenti… te lo dico in faccia. No?
Probabilmente John avrebbe pensato che lui era un gretto essere materialista e completamente privo di tatto… Stupido John!
Lo stare lì a rimuginare sulle inutili opinioni del dottor Watson avrebbe sicuramente mal giovato alla sua digestione, nonché al suo umore.
Si alzò dalla poltrona in un balzo, sfilandosi teatralmente la vestaglia azzurra, poi si diresse verso la propria camera, deciso a vestirsi. Forse c’era qualcosa che poteva fare, per non pensare alle implicazioni dell’appuntamento di John.

Il dottor Watson entrò con una certa agitazione nel lussuoso appartamento di Chelsea dove viveva Angela. Era in ansia perché si era sempre sentito inadeguato all’ambiente frequentato dalla donna, dai suoi amici ricchi e belli, e alti.
Angela, fortunatamente fu così accogliente da sciogliere quasi subito la sua preoccupazione; dopo i convenevoli ed un necessario bicchiere di vino, si spostarono a tavola, senza mai smettere di sorridere. Per la prima parte della cena parlarono più che altro dei vecchi tempi, alla Barts.
“Insomma.” Esordì Angela, quando ebbero finito di gustare un ottimo arrosto di maiale che John aveva sognato praticamente ogni notte da quando stava a Baker Street. “Parlami un po’ di te, del tuo lavoro.” Lo spronò la donna.
John abbassò il capo timidamente. “Non è niente di che, la clinica è piccola, si occupa principalmente della gente del quartiere.” Affermò, prima di tornare a guardarla. “Il lavoro è di routine, soprattutto prescrizioni, piccole visite…”
“Perché non hai provato a tornare in ospedale?” Gli chiese Angela, mentre versava un altro bicchiere di vino ad entrambi.
“Beh, la clinica è un buon compromesso, è vicina a casa e poi… Mi lascia sufficiente tempo libero.” Spiegò lui, prima di sorseggiare ancora l’ottimo rosso.
“Ma come? Ti sei trovato un hobby?” Reagì sorpresa la donna.
Ecco, paragonare il suo rapporto con Sherlock ad un hobby era decisamente sottovalutarlo. Non che John avesse definizione più giusta. Ma un hobby era qualcosa di rilassante, da fare per staccare il cervello dai problemi della vita. Sherlock Holmes era uno che te li creava i problemi. Ma niente ti faceva sentire vivo come scappare con lui attraverso i vicoli di Londra.
“No, in realtà… do una mano al mio coinquilino…” Anche questo era riduttivo. “Lui… fa un lavoro un po’ particolare, si occupa di crimini, indagini, collabora con la polizia… A volte ha bisogno di un parere esterno, ecco…” Cercò di spiegare. Lei lo fissava interrogativa.
“Un parere medico?” Fece infatti.
“Non esattamente…” Il parere di una mente comune, avrebbe detto Holmes, ma John voleva sperare che la sua opinione contasse in quanto sua, che non sarebbe andato bene chiunque.
“Non capisco…”
“Ti prego, parliamo d’altro, non è così importante.” Replicò subito John, prendendole la mano sul tavolo. Lei la guardò, poi parve riscuotersi, si alzò.
“Vado a prendere il dessert, tu spostati sul divano.” Gli disse, prima di allontanarsi velocemente dal tavolo.

Poco dopo, un imbarazzato e rigido John, ricevette il suo piattino con un’ottima zuppa inglese. La mangiò distrattamente, mentre guardava Angela versare il caffè nelle tazze di fine porcellana bianca. L’atmosfera si era fatta improvvisamente più intima, le loro ginocchia si sfioravano e il dottore ripensava, con pena, ai pomeriggi passati a studiare con lei senza il coraggio di dirle che era cotto come un prosciutto.
“È stata una fortuna averti incontrato di nuovo, così per caso.” Affermò Angela, porgendogli la tazza; lui la prese per riappoggiarla subito sul tavolino.
“Già.” Annuì poi.
“Le notti passate a studiare con te, sono tra i più bei ricordi che ho della scuola di medicina.” Confessò la donna, guardandolo negli occhi.
“Permettimi di dubitare.” Replicò disilluso John. “Tu avevi un sacco di amici, andavi a certe feste, frequentavi il circolo del tennis…”
“Oh, John, non farlo!” Esclamò Angela, prendendogli il braccio. “Non sminuirti! Lo hai sempre fatto e non l’ho mai sopportato. Sei sempre stato intelligente e dolce, una persona sensibile, dall’animo nobile…”
“Non farmi tutti questi complimenti.” Ribatté lui, abbassando lo sguardo.
“John.” Mormorò la donna, prima di prendergli il mento con le dita per fargli rialzare il viso.
Si guardarono, lei aveva una luce strana negli occhi. Una luce che forse Sherlock avrebbe interpretato nel modo giusto, ma che riuscì solo a confondere John. Angela, ormai, gli teneva il volto tra le mani e lo fissava intensamente.
“John, se solo tu avessi creduto più te stesso, io…” Sussurrò Angela.
“Non dirlo… non…” Tentò di replicare lui.
Ma non finì la frase, perché lei gli strinse le braccia intorno al collo, baciandolo appassionatamente. John si ritrovò schiacciato contro lo schienale del divano, con il corpo soffice e caldo di Angela aderente al proprio. Dopo un attimo di smarrimento, le posò delicatamente le mani sulla vita sottile e rispose al bacio. In fondo, lo aveva sognato per anni.
Il contatto fu lungo e sensuale, o forse lo sembrò a lui, perché quel gesto inaspettato gli fece perdere la cognizione del tempo. Poi, però, all’improvviso Angela si fece rigida e si staccò da lui, abbassando il capo e tenendo John lontano con le braccia.
“Mio Dio, cosa ho fatto…” Esalò la donna, quindi si alzò in piedi, continuando a non guardare lui.
“Angela, io…” Provò John.
“Dio, non so cosa mi sia preso, scusa!” Lei continuava a rammaricarsi senza ascoltarlo. “Io… è un periodo difficile, però… Santo cielo! Forse è meglio se vai a casa, adesso.”
John, con la testa che ancora gli girava un po’, si alzò dal divano, aggiustandosi la camicia, quindi seguì Angela verso l’atrio, dove lei gli consegnò la sua giacca.
“Angela, io… Ecco…” Balbettò il dottore, incerto su cosa dire per la repentina fine della serata; era imbarazzato e incredulo. “È stata una bella… cena, grazie.”
“Scusami ancora.” Mormorò timidamente la donna, mentre gli apriva la porta. “Buona notte.”
“Buona… notte.” Fece lui, ma finì la frase che la porta si era già richiusa davanti alla sua faccia.
John scrollò il capo sconsolato, dicendosi che quella non era che la sua ennesima serata sfigata della quale Sherlock gli avrebbe letto i segni addosso per almeno tre giorni. Arreso, si diresse verso la via principale, deciso a fermare un taxi.

Sherlock, nel frattempo, era reduce da un’uscita ben più fruttuosa e stava tornando verso Baker Street con qualcosa che, se non era una prova, era per lo meno un immenso tesoro.  

Il mattino dopo John fu svegliato dal suono armonioso di un violino. Non ne era infastidito, come a volte capitava con le performance di Sherlock, che sembrava ingegnarsi per stridere l’archetto sulle corde. Il suono, quella mattina, era più profondo, più vibrante, più delicato.
Incuriosito, il dottore scese le scale ancora in pigiama.
Sherlock era in piedi davanti alla finestra e suonava apparentemente molto preso. John sorrise, mentre metteva sul fuoco l’acqua per il the. Lo sorprendevano sempre piacevolmente queste mattinate tranquille e familiari. Il finale della serata precedente era quasi dimenticato.
Quando il the fu pronto, John si mise a sorseggiarlo appoggiato allo stipite della cucina, gustandosi la musica che ancora stava producendo il suo coinquilino.
Uno svolazzo di melodia più acuto concluse la privata esibizione, seguita da un sorriso più ampio del dottore, mentre Sherlock toglieva lo strumento da sotto il mento e scuoteva i riccioli.
“Complimenti.” Esordì John. “Stamattina sei stato particolarmente bravo.”
“Sarà stato merito del violino.” Replicò Sherlock, ancora voltato verso la finestra.
John spalancò gli occhi, nell’esatto istante in cui il suo cervello fece il collegamento; si avvicinò immediato al coinquilino.
“Non sarà quel violino?!” Domandò allarmato.
“Naturalmente.” Rispose tranquillo l’altro, riponendo lo strumento nella sua custodia.
“Mio Dio, Sherlock! Hai toccato il violino! E se c’erano delle prove, delle impronte…”
“Stai tranquillo.” Lo rassicurò lui, con quella sua flemma schifosamente britannica. “Sullo strumento non c’erano impronte, è stato pulito. Ce ne sono alcune sulla custodia, ma scommetto che risulteranno assolutamente irrilevanti al fine del caso, anche dopo l’analisi della scientifica.” Aggiunse, dopo essersi versato a sua volta una tazza di the.
John si avvicinò alla scrivania, dove era stato posato lo strumento. Il legno rosso e lucido brillava quasi, colpito dal sole proveniente dalla finestra. Era veramente bello, si capiva che era prezioso. Il dottore non ebbe il coraggio di toccarlo.
“Dove lo hai trovato?” Domandò a Sherlock. Lui sospirò, tornandogli vicino.
“Ieri sera sono uscito per dimostrare la mia teoria e, infatti, ho riscontrato la conferma che cercavo.” John lo guardò, spronandolo con gli occhi a proseguire, qualcosa che Sherlock adorava. “Ho trovato la custodia in un sottoscala a qualche isolato dalla casa della vittima.”
“Nessuno che lo avesse rubato per il suo valore, uccidendo per giunta, lo avrebbe mai buttato via così.” Commentò il dottore. Sherlock lo fissò sorpreso.
“Vedo che sei brillante anche tu, stamattina.” Affermò poi compiaciuto. John avrebbe mentito a se stesso, dicendosi che i suoi complimenti non gli facevano particolarmente piacere. “Ad ogni modo…” Riprese l’investigatore. “…chi ha abbandonato il violino, o non ne conosceva il valore, o lo ha semplicemente fatto per intorbidire le acque e confonderci sul movente del delitto.”
“Già.” Confermò John annuendo. “Quindi sei sempre più convinto che il delitto sia legato alla gravidanza?” Sherlock semplicemente annuì, mentre cercava qualcosa sulla scrivania.
“È per questo che dobbiamo cominciare col lavoro serio.” Dichiarò quindi, rialzandosi con sguardo trionfante; si girò verso John e gli mise in mano due biglietti. “Tira fuori lo smoking, stasera andiamo a teatro.”
Il dottore abbassò gli occhi sui due tagliandi per il concerto della London Simphony Orchestra, diretto da Wolfgang Stoltz. Sospirò.
“Sherlock, io… non ho uno smoking.” Ammise infine, con una smorfia.
Il suo coinquilino si voltò di scatto verso di lui con un’espressione incredula e un po’ sconvolta.
“Non hai uno smoking?” Ripeté. “Oh, andiamo! È come dire che non hai un tight per le cerimonie!”
John fece un sorrisetto retorico. “Veramente non hai un tight?”
“Io non so dove sei cresciuto tu.” Ma bastava vederlo per dire «buona famiglia, buone scuole», pensava John. “Però dove sono cresciuto io, non si mette molto il tight…”
“Hm.” Fece Sherlock, con uno svolazzo di mano. “Non importa puoi prendere lo smoking in affitto.” Aggiunse, mentre si dirigeva in camera.
“Sh… Sherlock, io… Mi costerà mezzo stipendio, cazzo…” Biascicò arreso il dottore.

Il teatro, tirato a lucido per la serata di gala, era luccicante e pieno di gente sofisticata grondante di abiti firmati e gioielli. Il dottor Watson aggiustò la giacca del suo smoking senza riuscire a togliersi la sensazione di disagio che aveva addosso. Il completo, oltre ad essergli costato 250 sterline di cauzione, gli andava un po’ corto di cavallo, cosa che lo stava infastidendo più del dovuto. In più…
Lanciò un’occhiata a Sherlock, che osservava attento e curioso la folla. Si muoveva elegante e padrone della situazione e lo smoking gli stava tanto bene che ci sembrava nato dentro.
Merda… Sospirò John nella propria testa. Moriva dalla voglia di grattarsi le parti basse, ma non sarebbe stato esattamente da lui, ne adatto alla circostanza…
“Penso che dovremo agire nell’intervallo, ho già valutato la situazione e le possibilità sono…” Esordì Sherlock, tanto vicino all’orecchio di John che lui poteva quasi sentire la condensa.
“Devo andare in bagno.” Mormorò il dottore.
“Sì, ma sbrigati, non mi va di entrare da solo.” Ribatté l’investigatore.
“Ah… Vuoi che ti prenda a braccetto?” Fece Watson ironico.
“Non mi sembra il caso, ancora non siamo sposati.” Replicò serio l’altro; si scambiarono uno sguardo e risero.
“Conserva la tua virtù, torno subito.” Affermò infine John, allontanandosi verso la toilette.

John dovette ammettere che lo spettacolo era stupendo. Gli orchestrali erano veramente dotati e, pur non capendo niente dell’argomento, doveva esserlo anche il maestro Stoltz, per riuscire a fargli produrre tali armonie.
Si godette la musica per tutta la prima parte, accanto ad uno Sherlock concentrato e, all’apparenza, compiaciuto. I suoi occhi chiari brillavano nella penombra. John si distrasse un attimo osservandoli e trasalì, quando la mano di Sherlock gli afferrò il polso. Il detective, senza staccare gli occhi dal palco, si abbassò lievemente verso di lui, per sussurrargli.
“Agiremo tra poco.” Gli disse. “So per certo che il maestro esce velocemente dal retro alla fine del concerto, quindi dobbiamo farlo prima.”
“O… ok…” Balbettò John.
“Stammi dietro, appena comincia l’interruzione.” Ordinò Sherlock, prima di lasciarlo e tornare a dedicarsi alla musica.
Quando, però, arrivò l’intervallo, i due furono separati dalla folla. John ricevette un messaggio scocciato di Sherlock che gi comunicava di aspettarlo al bar, così il dottore si spostò in quella direzione. Ed ebbe una bella sorpresa.
“Angela…” Mormorò, stupito davanti all’amica.
“John! Che sorpresa…” Replicò lei, splendida nel suo abito da sera color petrolio.
Si salutarono con un bacio sulla guancia, poi il dottore le offrì da bere e si spostarono al bancone. John si era già colpevolmente dimenticato dell’accordo con Sherlock.
“Vorrei scusarmi di nuovo con te, John.” Riprese la donna, mentre aspettavano di essere serviti.
“E per che cosa?” L’interrogò lui, retoricamente, perché sapeva bene di cosa stava parlando lei.
Angela abbassò gli occhi e si tormentò nervosamente un anello. “Il modo in cui mi sono comportata ieri sera è stato inopportuno e spiacevole…” Affermò quindi.
“Oh, no.” Rispose lui. “Forse un tantino imbarazzante, ma di certo non spiacevole, anzi.” Aggiunse, ripensando al corpo profumato della donna contro il proprio ed al bacio che li aveva uniti.
“Non so proprio come farmi perdonare per essere stata così spudorata, io di solito…” John la interruppe, prendendole la mano. Lei lo guardo e lui le sorrise dolcemente.
“La prossima volta forse dovremmo uscire in pubblico, così sarà più facile controllare i nostri istinti.” Suggerì garbato, ma con un filo di malizia.
“Oh, John…”
“John, ti voglio adesso.” Intervenne una voce profonda, interrompendo il discorso. Un’ombra alta aveva coperto la luce alle spalle del dottore e lui roteò gli occhi arreso.
“Dobbiamo farlo ora, l’intervallo durerà ancora poco.” Era normale che il suo tono fosse così allusivo e calcante sui doppi sensi della frase?
“È l’unico momento in cui possiamo agire senza troppi fastidi…”
“Stai disturbando la mia conversazione.” Dichiarò John infastidito. Sherlock alzò la testa dando un’occhiata vaga alla situazione.
“Non è importante.” Sentenziò, prima di afferrare il medico per un braccio.
“La mia vecchia amica Angela Blythe, il mio coinquilino Sherlock Holmes.” Presentò velocemente Watson, cercando di non essere strappato via dallo sgabello.
La donna si sporse incuriosita, ma anche l’investigatore, sentito il nome dell’interlocutrice del dottore, alzò un sopracciglio chiaramente interessato. Allungò una mano, quasi scostando il dottore.
“È un piacere.” Affermò, stringendo delicatamente la mano che gli veniva porta da Angela.
John si accorse immediatamente dello sguardo scanner che era partito dagli occhi di ghiaccio di Holmes. Conosceva troppo bene quel tipo di analisi e non gli piaceva affatto che il soggetto fosse Angela.
“John mi ha parlato di lei, Signor Holmes.” Disse la donna, mentre lui le lasciava la mano e si aggiustava elegantemente la giacca.
“Spero non troppo male.” Replicò garbato. E ruffiano come solo lui sapeva essere.
Angela rise appena. “Oh, no! Però non ho esattamente capito di cosa si occupa…”
“Sono un consulente investigativo.” Rispose Sherlock.
“Stiamo collaborando con la polizia per il delitto della violinista.” Intervenne John, che era piuttosto infastidito dalla piega che stava prendendo la faccenda.
“Dio mio, ho letto… che tragedia…” Commentò colpita la donna.
“Sì… a tal proposito… Non abbiamo qualcosa da fare, Sherlock?” Riprese il dottore, scostando l’amico dal bancone.
“Oh, sì…” Mormorò l’altro, colto di sorpresa.
“Mi dispiace, ma è urgente.” Aggiunse il dottore rivolto alla donna. “Ti chiamo domani, Angela, buona serata.” E detto questo, portò via Sherlock quasi di peso.
Camminarono sbrigativamente verso la porta del backstage e, seppure questo non dispiacesse al detective, era curioso di sapere da dove era uscita tutta quella fretta.
“Non sembravi così pronto ad abbandonare la tua chiacchierata, prima che arrivassi io.” Affermò Sherlock, quando si fermarono.
“Lo so che cosa stavi facendo con lei.” Sibilò il dottore. Holmes fece un’espressione innocente. “Oh, sì! Le stavi facendo la radiografia e non mi sta bene!”
“Invece, ci sono due o tre cose che…”
“Tienile per te!” Sbottò John, interrompendolo. “Non voglio sapere niente di quello hai capito di lei, non voglio conoscere le tue deduzioni e le tue certezze, voglio vivere questa cosa così come viene, quindi ingoia il rospo e taci.”
Sherlock alzò incredulo le sopracciglia, ultimamente John stava diventando un po’ troppo suscettibile. L’investigatore, ad ogni modo, decise di tenere per se le conclusioni tratte dalla sua osservazione di Angela, potevano tornargli utili in un altro momento. C’era Stoltz di cui occuparsi.
“Bene.” Assentì quindi, glissando sulla permalosità del dottore. “La porta del backstage è laggiù, se tu riuscissi a distrarre per qualche secondo la guardia, io potrei entrare e…”
John lanciò un’occhiata al nerboruto uomo vestito di scuro che stazionava proprio sotto il cartello indicante il backstage. Era più alto di Holmes e pesava almeno cinquanta chili di più.
“Forse ho un’idea per entrare entrambi.” Affermò, dopo qualche attimo di osservazione.
“Davvero?” Fece Sherlock; lui lo guardò male.
“Guarda che non sono un totale idiota, come credi tu.” Replicò offeso.
“Oh, John, caro… Sottovaluti sempre la considerazione che ho di te.” Scherzò sarcastico l’altro.
“Se fai così, me ne vado subito…”
“Non farmi perdere altro tempo!” Sbottò autoritario il detective. “Vai e dimostrami il tuo genio.” Aggiunse, spingendo il medico verso la guardia.
Sherlock guardò il dottore partire un po’ esitante e raggiungere l’uomo in scuro, ci parlò per qualche secondo, indicandogli l’investigatore. L’espressione della guardia mutò da diffidente a sorpresa, ad interessata, mentre Watson continuava a parlargli. Infine, anche il dottore si girò verso Holmes e lo invitò a raggiungerli. Lui si avvicinò subito.
“Milord, il Signor Jones, qui, ci permette di parlare qualche minuto col Maestro Stoltz, solo in considerazione della sua posizione.” Affermò il medico. Sherlock lo guardò un po’ strano, ma come sempre si capirono al volo e lui si preparò ad interpretare la parte.
“Oh, la ringrazio veramente molto Signor Jones!” Esclamò Sherlock, all’apparenza estremamente riconoscente. “Stia certo che la menzionerò… nelle alte sfere…” Aggiunse allusivo e ammiccante.
La guardia sorrise compiaciuta. “È stato un onore, My Lord.” Disse compito, prima di aprirgli la porta e far entrare entrambi nel backstage.
Quando la porta si richiuse alle loro spalle, John ridacchiò, mentre precedeva Sherlock verso il camerino di Stoltz.
“Come hai fatto a convincerlo?” S’informò il detective.
“A quanto pare tu sei il figlio di un visconte, molto ben introdotto in… certi ambienti, e appassionato di musica classica.” Spiegò il medico.
“E tu?”
“Addetto alla tua sicurezza.” Si presentò John con un inchino. Ridacchiarono. “Avanti.” Spronò poi Watson, indicando la targhetta del direttore d’orchestra.

La porta del camerino era leggermente scostata, ma il dottore bussò ugualmente. Nessuno rispose ma, dopo uno scambio di sguardi, i due decisero di entrare.
“Che diavolo volete?” L’interrogò una voce brusca dal chiaro accento teutonico.
Wolfgang Stoltz era un uomo di mezz’età poco più alto di John, coi capelli brizzolati. Stava davanti allo specchio sopra al lavandino e si era tolto la giacca dello smoking.
“Il mio nome è Sherlock Holmes.” Esordì il detective. “Sono un consulente investigativo e questo è il mio amico…”
“Collega.” Lo corresse John.
“…il Dottor John Watson, stiamo collaborando con Scotland Yard nelle indagini sull’omicidio di Holly Barnes.” Concluse Sherlock.
Durante la presentazione, il direttore d’orchestra aveva finito di asciugarsi il viso ed ora li stava fissando con la fronte aggrottata. Posò l’asciugamano e si portò dietro la scrivania.
“Ah, la povera piccola Holly…” Sospirò. “Era una dolce, talentuosa ragazza, la sua morte è stata una grande tragedia.” Nonostante le parole sentite, il suo tono rimase freddo, forse anche per colpa dell’inflessione tedesca.
“Lei la conosceva bene?” Provò a chiedere il medico.
“Era una persona molto aperta e disponibile.” John non si stupì della scelta delle parole, visto quello che avevano scoperto sulla vita privata della vittima.
“Parliamoci chiaro, Maestro.” Intervenne Sherlock, che stava camminando per la stanza in raccolta d’indizi. “Il vostro rapporto era di natura più… personale?”
L’uomo fece un’espressione tra lo stizzito ed l’incredulo. “Non ho niente da nascondere, Signor Holmes, sono un uomo libero, divorziato, e non ho paura di ammettere che, sì, abbiamo avuto una relazione, mesi fa, ormai terminata.” Rispose poi, autoritario, senza trasmettere un’emozione, con il volto di pietra. “I nostri rapporti erano rimasti amichevoli, ma del tutto professionali.”
“Quindi non avrà problemi a dirci dove si trovava ieri mattina prima delle nove.” Soggiunse Watson. Stoltz lo guardò male.
“Ero al telefono col mio agente negli Stati Uniti, sto organizzando un tour.” Rispose sintetico, poi abbassò gli occhi sulla scrivania in cerca di qualcosa. “Questo è il suo recapito.”
“La ringrazio.” Fece Watson, quasi intimidito dall’atteggiamento spiccio del direttore d’orchestra.
“Se volete sapere di più, riguardo a Holly.” Riprese Stoltz, mentre si rimetteva la giacca. “Dovreste chiedere a Gwendolyn Parker-Lloyd, secondo violoncello, era la sua migliore amica.”
“Lei ci è stato davvero molto utile, Herr Stoltz.” Affermò improvviso Sherlock, prendendo per un braccio John e tirandolo verso la porta. “Ci perdoni per averle fatto perdere tempo.” Così dicendo, senza guardare l’uomo, portò entrambi all’uscita del camerino.
“Aspetti un attimo, Holmes.” Li fermò Stoltz. “Mi vorrei assicurare della cosa più importante.”
“Ancora non abbiamo un sospettato…” Affermò John.
“Ma cosa ha capito… Io parlavo del violino, spererei che il Guarnieri sia restituito all’orchestra il prima possibile.” Dichiarò glaciale il direttore. A Watson venne quasi da vomitare per la sua mancanza di considerazione per la vittima.
“Il violino è un elemento di prova, non sappiamo quando potrà essere restituito.” Affermò freddo; era bene che Stoltz penasse un po’. Quindi spinse Holmes fuori dalla stanza.
Quando furono nel corridoio, John guardò Sherlock; lui camminava sicuro fissando dritto davanti a se. Se faceva così, voleva dire che aveva qualche nuova certezza.
“Perché mi hai trascinato via? Non c’erano altre domande da fare?” Gli chiese quindi.
“Non hai notato la sua sudorazione eccessiva, il rossore della pelle e le pillole sul ripiano del lavandino?” Rispose Holmes.
“Ehm, no… Ero impegnato a fare le domande ed ascoltare le risposte…” Biascicò John.
“Non è il nostro uomo.” Affermò l’investigatore. “Ha subito, negli ultimi sei mesi direi, un intervento alla prostata.”
“Ah, prostata…” Soffiò il dottore, mentre uscivano nuovamente nel ridotto del teatro. “Quindi non può essere il padre del bambino.”
“Già, niente più pesciolini nell’acquario.” Scherzò Sherlock senza umorismo. “Piuttosto, pensiamo ad altro, ora. Domani vedi d’informarti su questa Parker-Lloyd, voglio parlarci.”
“Me ne occuperò.” Annuì John.
“Adesso vado a godermi la seconda parte.” Riprese Holmes. “Il nostro secondo violoncello sarà all’opera… Tu, se vuoi, puoi raggiungere la tua amica.” Aggiunse. John lo guardò con tanto d’occhi.
“I… io… lei… noi…” Balbettò il dottore.
“Oh, tranquillo John.” Lo rassicurò Sherlock posandogli una mano sulla spalla. “So che avete avuto un incontro piuttosto ravvicinato la scorsa notte, niente sesso, ma un bacio decisamente intenso probabilmente sì… Anzi, dal colore della tua faccia adesso, direi senza dubbio sì.”
Detto questo, dopo una pacca abbastanza vigorosa sulla sua spalla, Holmes lasciò John in mezzo al salone, immobile e con la faccia sconvolta, dirigendosi in sala.
C’erano dei momenti, come questo, in cui John avrebbe voluto essere tornato dall’Afghanistan con una gamba di legno, pur di avere a portata di mano qualcosa con cui picchiare Sherlock.

CONTINUA



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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


DLS
Eccomi qua con il terzo capitolo di questa storia. Forse ci vorrà un po’ di tempo per il quarto, ma dovete perdonarmi per la mia lentezza!
Magari questa storia non tratta degli argomenti più amati su questo fandom, però è la prima cosa che scrivo qui (cioè, la seconda, ma la prima era talmente breve…) e sto ancora, diciamo così, sperimentando. Mi farebbe comunque molto piacere sapere cosa ne pensate!

C’è un leggerissimo spoilerino della 2.03, ma c’è davvero qualcuno che ancora non l’ha vista?!
Io, per precauzione avverto, eh.

Vi lascio quindi alla lettura e aspetto!
A presto!
Sara

Capitolo 3

Il taxi li lasciò davanti ad un elegante palazzo vittoriano di una zona piuttosto elegante della città. Il breve giardino era dominato da due grandi querce dalle foglie verdi e lussureggianti.

John e Sherlock si avvicinarono al portone con passo deciso, ma quando l’investigatore fece per suonare il campanello, il dottore lo chiamò. Holmes si voltò verso di lui spronandolo a parlare, ma con un’espressione chiaramente infastidita.
“Sherlock, stamattina c’è stato il funerale.” Lo informò il dottore; lui aggrottò le sopracciglia perplesso.
“Il funerale di chi?” Chiese infatti.
John spalancò la bocca incredulo: nemmeno si ricordava della vittima? E, soprattutto, perché lui si stupiva ancora che il suo amico rimuovesse certe informazioni…
“Di Holly Barnes!” Esclamò John.
“Ah…” Fece Sherlock. “E allora?” Commentò poi.
“Santo Dio, Sherlock! Era la sua migliore amica!” Sbottò il dottore, tenendolo per un braccio. “Immagino che sarà sconvolta, sarà meglio andarci delicati…”
“Potrebbe essere la colpevole.” Affermò gelido l’altro.
“Ma potrebbe anche non esserlo.” Ribatté John. “Chi vorrebbe essere duramente interrogato in un momento del genere?”
“Non so, non mi è mai capitato…”
“A me sì.” Lo interruppe John. “Ed è stata una delle cose peggiori della mia vita.”
Si fissarono per un lungo momento. Watson sapeva che Holmes, da qualche parte, in un’oasi in mezzo all’arida razionalità del proprio cervello, si sentiva ancora in colpa, lo vedeva ogni tanto affiorare sotto la superficie ghiacciata dei suoi occhi. Era un punto debole di Sherlock che lui si permetteva di usare, ogni tanto. Odiava fargli del male, ma sentiva di non essere ancora in pari col male che gli aveva fatto lui.
“Mi perdonerai mai per quella… cosa?” Domandò infatti Sherlock, più titubante di quello che sarebbe stato normalmente.
“No.” Rispose sbrigativo John. “Ma se ora ti comporti bene, potrei essere più tenero.”
Sherlock sbuffò e scosse il capo, tornando ad occuparsi del campanello, il quale suonò profondo, vibrando all’interno della casa.
Venne ad aprire una bella ragazza castana, un po’ trafelata, con begl’occhi scuri leggermente sfuggenti. Indossava una gonna nera al ginocchio e un maglioncino chiaro.
“La signorina Parker-Lloyd?” Domandò garbatamente il dottore.
“Sì.” Rispose lei, vagando con lo sguardo da un all’altro degli interlocutori. “Voi siete?”
“John Watson.” Si presentò il medico. “Il mio collega Sherlock Holmes.” Aggiunse, indicando l’altro uomo. “Collaboriamo con la polizia per il caso di Miss Barnes.”
“Oh…” Fece la ragazza sorpresa, poi abbassò gli occhi con una leggera smorfia della bocca, che non sfuggì al detective. “Accomodatevi.” Li invitò quindi lei, aprendo di più la porta.
John e Sherlock si scambiarono un’occhiata, prima di entrare in casa. Quando la porta si fu richiusa, seguirono la ragazza in un salone e lei gli offrì del the, che loro accettarono.
Dopo che una linda cameriera ebbe portato un vassoio con un servizio di finissima porcellana e la padrona di casa ebbe versato il the, tutti i presenti aspettavano che qualcuno iniziasse la conversazione.
“Sono ancora un po’ provata.” Esordì Gwendolyn, aggiustandosi un ciuffo sfuggito alla perfetta pettinatura. “Stamattina c’è stato il funerale di Holly.”
Sherlock non si era seduto sul divano come aveva fatto John, ed osservava attento la stanza e la donna dalla sua posizione accanto al camino dai pregiati stucchi bianchi.
Famiglia agiata. Buone scuole. Abiti firmati. Controllata. Non veramente sconvolta. Anello di fidanzamento con pietra di poco valore. Calli ed escoriazioni alle mani dovuti al violoncello. Non il graffio sotto l’orologio. Dovrebbe essere triste invece è arrabbiata.
“Capiamo il suo dolore.” Riprese John. “Ma siamo costretti a farle alcune domande…”
Le sue affermazioni furono interrotte dall’arrivo di un ragazzo. Era alto, i capelli castani chiari e corti. Portava una camicia bianca e dei pantaloni caki.
“Tesoro, va tutto bene?” Domandò a Gwendolyn, per poi osservare per un attimo i presenti.
“Sì, amore. Il mio fidanzato, Matthew Stevens.” Rispose lei, presentando poi il giovane. “I signori aiutano la polizia nelle indagini su… Holly.” Aggiunse la ragazza.
Il ragazzo spalancò gli occhi, che si fecero lucidi, poi appoggiò una mano sulla spalliera del divano su cui sedeva la fidanzata.
“Mio Dio…” Soffiò, prima di sedersi accanto alla donna. “Ci sono delle novità?” Chiese quindi.
“Purtroppo, per ora no.” Rispose Watson. “Siamo qui per chiarire alcune cose.”
Sherlock, nel frattempo, chiuso in un ascetico silenzio, osservava tutto con l’attenzione di un predatore in caccia, lasciando il lavoro sporco nelle mani fidate di John.
Fisico atletico, è uno sportivo. Abbronzatura naturale, lavoro all’aria aperta. Maestro di tennis, probabilmente. Realmente addolorato. Abiti curati ma non di valore. Bracciale di platino, regalo di lei. Matrimonio conveniente. Uomo in trappola.
“Diteci, se possiamo essere utili alle indagini.” Li incitò Matthew.
“Beh…” Fece incerto il dottore, lanciando un’occhiata a Sherlock che lo spronò con un cenno. “Volevamo sapere quando avete visto Miss Barnes per l’ultima volta.”
“Io l’ho vista domenica sera, dopo lo spettacolo, a cena.” Disse il ragazzo; Sherlock non mancò di notare l’occhiata scettica che gli dedicò la fidanzata. “Però lei e Gwen si vedevano ogni giorno per provare insieme, vero tesoro?”
“In realtà, io l’ho vista l’ultima volta mercoledì sera, alle prove in teatro.” Si sbrigò a precisare lei. “Aveva fretta di tornare a casa, forse aveva un appuntamento…”
Stavolta nemmeno a John sfuggì lo sguardo deviante di Matthew, prontamente riportato in riga dalla mano di Gwen che afferrò la sua.
“Noi…” Accennò Watson.
“La ringraziamo, Miss Parker-Lloyd.” Intervenne la voce di Sherlock, interrompendolo. John lo guardò perplesso e interrogativo. “È stata molto gentile, ma ora dobbiamo proprio andare.” Il dottore continuava a fissarlo stupito. “John.” Lo richiamò quindi e lui si alzò dal divano.
“Ehm, ci dispiace di avervi disturbato…” Biascicò incerto il dottore, rivolto agli ospiti. “Grazie.” Anche i due fidanzati li stavano guardando piuttosto esterrefatti.
Pochi istanti dopo, John e Sherlock erano già fuori, sulle scale dell’ingresso. Watson era certamente abituato ai repentini cambi di velocità, di umore, di obiettivo di Sherlock, ma a volte erano così immediati da causargli lievi capogiri.
“Sherlock, che diavolo…” Tentò il dottore esasperato.
“Devo andare al laboratorio del Barts.” Dichiarò l’investigatore, mentre si dirigeva in strada per cercare un taxi.
“A fare cosa?” Domandò John seguendolo.
“Tu vai da Lestrade, procurami una copia del rapporto del medico legale.” Continuò Sherlock, ignorando la domanda dell’amico; una macchina nera si fermò davanti a lui. “Ti aspetto entro le cinque.” Aggiunse il detective, prima di sparire dentro il taxi.
John si ritrovò solo sul marciapiede. Come al solito le spiegazioni di Sherlock si facevano desiderare. Il dottore sapeva che le sue conclusioni lo avrebbero stupito ancora una volta, ma non prima di averlo fatto penare fino all’esasperazione. Si sporse sulla strada e chiamò un altro taxi.

Quando il dottor Watson varcò le porte del laboratorio, Sherlock era seduto davanti al microscopio e non dette segno di averlo visto arrivare. Molly, invece, sobbalzò, sollevando il capo dal computer e sorrise al medico.
“Buonasera, John.” Lo salutò garbatamente; Sherlock fece una smorfia.
“Buonasera, Molly.” Rispose tranquillo Watson, avvicinandosi al grande tavolo illuminato. “Ho preso dei panini, anche per te… vista l’ora.” Aggiunse l’uomo, sollevando una busta bianca.
“Oh, è stato molto gentile!” Esclamò colpita la ragazza. “Allora, se permette, sarò io ad offrire il the.” Continuò lei sorridendo.
“Ti ringrazio…”
I convenevoli furono interrotti da uno schiarimento di voce di Sherlock. La giovane ricercatrice sussultò e John storse la bocca, quindi la ragazza farfugliò alcune scuse ed uscì dalla stanza per prendere il the per tutti. Watson si avvicinò all’altro uomo.
“Sono le cinque e un quarto, John.” Esordì Holmes, con gli occhi fissi nel microscopio. “Ma immagino tu abbia perso tempo a comprare inutili panini.”
“Io sono un essere umano, Sherlock, ho fame.” Rispose infastidito lui. “Non so di cosa vi nutriate voi, sul pianeta Vulcano…(*)” Aggiunse sarcastico, meritandosi un’occhiataccia.
Sherlock, quindi, si spostò verso il portatile posato affianco al microscopio, cominciando a confrontare dati o chissà che.
“Ultimamente sei molto gentile con Molly.” Affermò poi, senza voltarsi.
“Quella ragazza ha rischiato il posto e la carriera per te, ma ho perso la speranza che tu abbia con lei più delicatezza di quanta potrebbe averne un nano da giardino, quindi cerco almeno di non farle pesare la tua austerità.” Spiegò asciutto il dottore.
“Ho ringraziato Molly molte volte.” Replicò arido Sherlock, sempre intento allo schermo.
“Sì, certo, vorrei vedere…” Commentò John.
“Il fatto che tu non fossi presente, non significa che non sia successo.” Dichiarò l’altro. “Il rapporto?” Chiese poi, allungando una mano.
“Prima…” Soggiunse John, esitando in modo che Sherlock fosse costretto a guardarlo. Aveva il fascicolo in mano, ma insisteva a non volerlo dare al detective.
“Cosa?!” Sbottò infatti, spazientito.
“Lestrade mi ha chiesto di riferirti queste esatte parole: «hai un’idea di quanti sederi ho dovuto lucidare per farti avere questi documenti?»” Cantilenò il medico.
Sherlock lo fissò indifferente per un istante. “Spero che fossero sederi più piacevoli di quello di Anderson.” Commentò infine, acchiappando al volo il fascicolo di cartoncino beige.
John sbuffò e lui si mise a studiare immediatamente il rapporto del medico legale riguardante la morte di Holly Barnes.
Molly tornò in quel momento, reggeva le tre tazze di the in equilibrio precario. Le posò sul primo piano a portata di mano, poi ne prese una con delicatezza e si avvicinò alla postazione di Sherlock. Lui le dedicò un’occhiata distratta, tornando subito alle carte.
“Latte e due cucchiaini di zucchero, vero?” Chiese la ragazza al detective; lui la guardò di nuovo, stirando le labbra in una bizzarra imitazione di sorriso.
“Sì.” Le rispose poi. “Grazie, Molly.” Sottolineò quindi, rivolto a lei ma con uno sguardo significativo per John, fermo alla sua sinistra.
“Le schegge sono state sufficienti?” Domandò ancora la giovane ricercatrice.
“Sì.” Annuì nuovamente l’investigatore. “Grazie, Molly.” Fece di nuovo, con lo stesso tono di prima e guardando John allo stesso modo. Lui roteò gli occhi.
“Quali schegge?” S’informò quindi il dottore, cambiando argomento.
“Quelle che Molly ha estratto per me dalla ferita della Barnes.” Spiegò velocemente Sherlock. “E per cui l’ho debitamente ringraziata.”
John ne aveva abbastanza di quel battibecco infantile. Sherlock, quando ci si metteva, poteva essere peggio di un moccioso pedante. Sbuffò, levando gli occhi al cielo.
“Non avrebbe dovuto pensarci la scientifica, o il coroner?” Riprese Watson, continuando ad ignorare le ripicche del suo coinquilino.
“Oh, ma ce ne erano ancora molte.” Intervenne Molly annuendo. “Ne ho estratte alcune prima che il corpo fosse portato via dalle pompe funebri, come mi aveva chiesto Sherlock.” Aggiunse, senza evitarsi un tono sognante sul nome del detective.
John fu preso da un sospetto. Osservò la ragazza, poi Holmes, aggrottando la fronte. Il detective era ancora intento tra il rapporto ed il computer.
“Voi due…” Iniziò il medico, indicandoli con un gesto. “…vi sentite per telefono?”
Molly arrossì con la velocità di una fiammata. Sherlock rimase impassibile e occupato nelle sue cose. John incrociò le braccia.
“Ogni tanto…” Ammise la donna. “A volte… mi chiama.”
Il dottore spostò gli occhi su Sherlock, fissandolo intensamente. Sapeva che lui non avrebbe ignorato uno sguardo del genere, infatti poco dopo alzò gli occhi nei suoi con espressione interrogativa.
“Tu… tu sei…” Fece John.
“Cosa?” Replicò Sherlock. “Affascinante, carismatico e bellissimo?”
John sbuffò un risolino sarcastico e scosse la testa. Lui avrebbe usato altri aggettivi, ma in quel momento ritenne opportuno lasciar cadere il discorso.  
“Che cosa hai scoperto?” Domandò allora, spingendo volutamente la conversazione sull’argomento preferito di Holmes: le sue geniali deduzioni.
“L’arma del delitto.” Enunciò il detective, girando il proprio sgabello in direzione di John. “È un oggetto in legno – abete rosso, specificatamente – ricoperto da diciotto strati di vernice e risalente alla prima metà del diciannovesimo secolo, milleottocentoquarantacique-quarantasei, direi.”
“Hm, bene.” Annuì Watson. “Quindi è stata uccisa con un oggetto di legno, antico.”
Sherlock emise una specie di grugnito spazientito e lo prese per le spalle. “È stata uccisa con uno strumento antico!” Sbottò quindi, scuotendolo appena.  
John spalancò gli occhi. “L’hanno uccisa col Guarnieri?!” Esclamò quindi, sbalordito.
“Ma no!” Sberciò l’altro, levando le mani in aria e spostandosi di fretta oltre il dottore. “No, John! Il Guarnieri è molto più antico! Ed usa tutt’altro tipo di vernice…”
“Sì, scusa la mia ignoranza in fatto di liutai.” Scherzò amaro l’ex soldato.
“Mhhh….” Mugolava nel frattempo Sherlock, gesticolando in giro per il laboratorio.
“Però…” Soggiunse John, pensieroso. “La Barnes era una violinista, è probabile che possedesse un altro violino, visto che il Guarnieri lo aveva in prestito dall’orchestra…”
Sherlock si fermò dall’altra parte del tavolo e fissò con sguardo assente la parete di fronte, poi fece un aggraziato dietrofront e raggiunse il dottore, prendendolo nuovamente per le spalle.
“Ho voglia di baciarti, John.” Dichiarò serissimo. L’altro sbuffò arreso, mentre a Molly precipitava la mascella sul pavimento e li fissava sbigottita.
“Aspetta, prima di scambiare liquidi corporali con me.” Lo bloccò il medico. “Questo ipotetico violino non è stato trovato in casa sua, mi risulta.”
Sherlock lo guardò, aggrottando le sopracciglia. “Dobbiamo verificare l’esistenza del secondo violino.” Dichiarò quindi, lasciando Watson e facendo due passi indietro.
“Potrebbe averlo lasciato in teatro, oppure potrebbe averlo portato via l’assassino, sapendo che era l’arma del delitto.” Ipotizzò John.
“Io controllerò in casa della Barnes, tu vai a teatro.” Annunciò Sherlock, poi guardò l’orologio. “Lo spettacolo inizia tra circa un’ora e mezza. Se il violino non è lì, chiedi a Lestrade.”
Finita la frase, Holmes s’infilò cappotto e sciarpa e prese elegantemente la via d’uscita, ma rientrò dopo pochi secondi.
“Buona serata, Molly e… grazie.” Affermò, sottolineando l’ultima parola, quindi guardò John e gli strinse l’occhio, prima di sparire di nuovo.
Il dottore ridacchiò, esasperatamente divertito. Sherlock era impossibile, ma c’era da dire che aveva senso dell’umorismo, a modo suo. Ad ogni modo, le disposizioni erano date e John doveva rimettersi al lavoro. Pensò che, forse, fosse meglio prendersi uno di quei panini.
“Dottore.” Lo chiamò Molly, mentre lui apriva la busta dei sandwich.
“Sì?” Fece lui, prendendosi il necessario.
“Io la invidio da morire.” Dichiarò la ragazza, lui la guardò perplesso. “Com’è vivere con lui?” Chiese quindi, esplicando il motivo della sua invidia. John sospirò.
“Non per stomaci delicati.” Rispose infine, prima di ficcarsi in tasca l’involucro di un panino e salutare uscendo.

Per Sherlock fu piuttosto semplice violare i sigilli ed entrare nell’appartamento della Barnes. La scientifica, a quanto poteva vedere, aveva rivoltato il salotto da cima a fondo, portando via i cuscini del divano, il tavolino e il tappeto. Oh, la solita noiosissima presunzione di Anderson! Tanto era incapace, anche se si metteva ad interrogare tutti gli acari di quel tappeto.
Il detective sbuffò e, dopo essersi guardato intorno con una giravolta, decise che la sua ricerca poteva cominciare dalla camera da letto.
La casa, in definitiva, non era molto grande, quindi gli ci volle poco tempo per rendersi conto che il violino non era lì. Probabilmente era a teatro, John avrebbe avuto più fortuna.
Si fermò di nuovo in mezzo al salotto, le mani in tasca, scrutando lo spazio in penombra. Doveva pensare. Riflettere sugli elementi raccolti finora. Doveva entrare nel suo palazzo mentale. Ma per farlo aveva bisogno del suo divano.
Sospirò, prima di uscire come era entrato. Sperava che John ritardasse, così avrebbe avuto modo di immergersi nei suoi pensieri in tranquillità.
 
John gironzolava da ormai venti minuti intorno al teatro. Senza il biglietto non c’era stato verso di entrare ed approfittare della vecchia conoscenza col body guard. Ora stava davanti alla porta esterna del backstage, sperando di approfittare di qualcuno che usciva.
Quando la porta di metallo dipinta di rosso si aprì sul vicolo umido, il dottore rimase stupito di trovarsi davanti proprio Matthew Stevens.
Si fissarono per un momento. Il ragazzo sembrò riflettere qualche istante, probabilmente gli sfuggiva dove si erano visti prima.
“Ma lei è…” Mormorò infine.
“Dottor Watson.” Si ripresentò l’uomo, porgendogli la mano. “Ci siamo visti oggi pomeriggio, a casa di Miss Parker-Lloyd.”
“Oh, sì.” Annuì l’altro, stringendogliela. “Lei collabora con Scotland Yard… E’ un medico legale?”
“Una cosa del genere.” Glissò John. “Potrei farle una domanda, Mister Stevens?”
“Glielo ho detto anche oggi, se posso essere utile alle indagini sono a sua disposizione.” Rispose, ed era così sincero che non era necessaria nemmeno la deduzione di Sherlock.
“La ringrazio.” Fece Watson. “Lei, per caso, sa se Holly Barnes possedesse un altro violino, oltre al Guarnieri?” Domandò quindi.
“Beh, certamente.” Affermò Stevens, mentre si accendeva una sigaretta. “Il Guarnieri appartiene alla Fondazione dell’orchestra, lei ne aveva un altro che era appartenuto a sua nonna, ci era molto legata.” John si chiedeva come il giovane sapesse certe cose private, evidentemente gliele aveva raccontate la fidanzata. “Ultimamente lo lasciava qui, nel suo armadietto, non voleva dare nell’occhio prendendo la metro con due custodie.”
“Lei pensa che potrei vederlo? Il violino, intendo…” Soggiunse il medico.
“E per quale motivo?” Replicò Stevens.
“Devo fare una verifica necessaria alle indagini.” Spiegò sbrigativo John, non voleva approfondire troppo.
“Vediamo cosa si può fare…” Tentennò l’altro. “Venga con me.” Lo invitò poi, tornando verso la porta. Watson lo seguì.
Dopo una certa resistenza dell’addetta ai camerini, i due uomini riuscirono ad ottenere la chiave dell’armadietto di Holly. Fu Stevens in persona ad aprire lo sportello.
All’interno c’era qualche effetto personale: una boccetta di deodorante, un golfino verde pallido appeso al gancio, un asciugamano… Nella parte bassa, appoggiata trasversalmente, c’era una custodia da violino rivestita con una decorazione fatta con articoli di giornale incollati.
Matthew rimase per un attimo davanti all’armadietto aperto, con la mano ancora sullo sportello, fissando attonito il contenuto.
“Stevens…” Lo chiamo delicatamente il dottore. Lui sussultò.
“Oh, sì, mi scusi!” Esclamò quindi, poi si strusciò il viso e si allontanò di un passo dall’armadietto. “Mi scusi, ma… c’è ancora il suo profumo…” Mormorò quindi.
John lo fissò per un istante, sembrava veramente turbato. Il giovane si appoggiò a capo basso contro un tavolo, mentre il dottore cominciava a controllare il contenuto.
“Particolare, questa custodia…” Commentò John, prendendo tra le mani il violino.
“Era rovinata, il cuoio intendo.” Spiegò Stevens. “Ma Holly ci era affezionata, perché era di sua nonna, così decise di ricoprirla… Glielo ho visto fare.”
John gli dedicò un’altra occhiata sorpresa e curiosa. Quel tizio non gliela raccontava giusta. Lui non era Sherlock, ma certo non ci voleva un genio dell’intuizione per capire che il giovane e la vittima avevano una relazione. E, a quanto pareva, più seria di quanto faceva pensare la reputazione della Barnes.
“Le dispiace se prendo il violino? Sa, ci sarebbero degli accertamenti scientifici da fare.” Chiese quindi Watson; era sicuro che Sherlock avrebbe voluto esaminarlo di persona.
“Non capisco cosa possa esserci da scoprire sul violino, sarà qui da molto prima della sua morte, ma certamente lei ne sa più di me.” Replicò perplesso Matthew. “Faccia pure.”
John lo ringraziò e annuì, quindi uscirono dai camerini, tornando nel corridoio del backstage. Il dottore aveva il violino sotto braccio.
“Holly aveva dei parenti?” Domandò John, quando furono in direzione dell’uscita.
“Soltanto una sorella in Australia, sarà qui a giorni, purtroppo non è potuta tornare prima…” Rispose l’altro, ma la conversazione fu interrotta dall’arrivo di un gruppo di persone.
“Greg!” Esclamò il medico, quando si trovò di fronte l’ispettore, seguito da Donovan e un paio di agenti in divisa.
“John… Che diavolo ci fai qui?” Ribatté il detective perplesso.
“Io… beh…” Balbettò Watson, cercando una buona scusa, mentre provava a non far notare il violino.
“Il cagnolino da cerca di Holmes, immagino.” Commentò acida la Donovan, il dottore la guardò male.
“Voi, piuttosto…” Riprese John, indicando col capo la combriccola di Scotland Yard. “Volete spiegarmi perché arrivate in forze?”
“Riguarda il signore che ti accompagna, John.” Rispose Lestrade, poi si spostò davanti all’altro uomo. “Matthew Stevens, la dichiaro in arresto per l’omicidio di Holly Barnes.”
“Cosa?!” Esclamò il giovane, del tutto incredulo.
“Ne siete certi?” Ipotizzò il dottore, intervenendo nel discorso.
“Ci sono prove scientifiche che dimostrano la presenza del signor Stevens nell’appartamento della vittima.” Spiegò soddisfatta Sally. “Impronte, sperma e capelli.”
“Io non ho fatto niente!” Gridò Matthew, mentre gli agenti lo ammanettavano e gli leggevano i diritti. “Chiamate Gwendolyn!” Aggiunse, mentre lo portavano via.
“Quello che cos’è?” Si sentì domandare John, mentre stava ancora osservando l’arresto di Stevens; si voltò trovandosi davanti Donovan con gli occhi puntati sulla custodia.
“Ehm, un violino.” Rispose titubante John.
“Ah, e lei lo suona da quando?” Continuò la poliziotta.
“Beh, non io, ma Sherlock…”
“Oh, mi faccia il favore!” Sbottò la donna. “Stiamo cercando anche noi il violino della Barnes!”
John si voltò verso Lestrade con espressione quasi supplicante, sperando che comprendesse a cosa sarebbe andato incontro se non avesse riportato lo strumento a Holmes.
“Mi spiace, John, è una prova.” Affermò il poliziotto, vagamente dispiaciuto.
“Lo metta qui, Dottore.” Lo incitò Sally, porgendogli un sacchetto della scientifica.
Watson, riluttante, sollevò la custodia e la pose all’interno del grande sacchetto di plastica, poi sospirò arreso. Ora cosa avrebbe detto a Sherlock?
Prima di andare, Greg gli si avvicinò. “Dì a Sherlock che deve farci riavere al più presto anche il Guarnieri, non reggo più quel tedesco.” Sussurrò a John, prima di seguire i suoi agenti fuori dal teatro.
Il dottore sospirò di nuovo e si mise le mani in tasca. Cercò di vedere il lato positivo della faccenda: avevano arrestato Stevens, almeno aveva qualcosa da raccontare a Holmes.

John tornò a casa che era ormai notte. Salì le scale lentamente, cercando di preparare qualcosa da dire a Sherlock, sempre che lui non capisse tutto da solo.
La porta del soggiorno era come sempre aperta; lui entrò e si sedette pesantemente sulla poltrona, sospirando. Sherlock era steso sul divano, gli occhi chiusi e le mani giunte sotto il mento, probabilmente immerso nel suo Palazzo Mentale.
“Dov’è il violino?” Chiese però l’investigatore, dimostrando di essersi perfettamente accorto del suo arrivo ma senza cambiare minimamente posizione.
“Era nel suo armadietto, a teatro.” Rispose John.
“Intendo: dov’è ora.” Precisò seccato l’altro.
“L’ha preso Lestrade.” Spiegò il dottore. “Ma ho controllato, non c’erano tracce evidenti.”
“È ovvio.” Commentò lapidario Sherlock.
“Hanno arrestato Stevens.” Riferì allora John.
“Il fidanzato della Parker-Lloyd?”
“Sì.” Annuì Watson. “Cosa pensi che ci facesse Greg a teatro? Ci sono prove della presenza di Matthew nell’appartamento della vittima…”
“Hanno scoperto l’uovo sodo!” Sbottò infastidito Sherlock, portandosi seduto di scatto. “Era l’amante della Barnes, sarà pieno di sue tracce!”
“Ti dirò di più.” Intervenne John. “Secondo me era innamorato di lei.”
“Questa è una deduzione brillante, John, seppure fatta da te.” Fece l’altro.
“Grazie…” Mormorò sarcastico lui; non si poteva lamentare, i complimenti di Sherlock erano sempre di quel tipo e già capire che lo erano necessitava un certo sforzo.
“Dobbiamo tenere anche conto della probabilità che Stevens sia il padre del bambino, diciamo al novantotto per cento.”
“Novantotto?” Soggiunse John.
“Se avessi detto cento mi avresti rimproverato un’eccessiva autostima.” Replicò sostenuto Holmes.
“Andiamo, dillo. So che muori dalla voglia…” Lo spronò il dottore, con un sorrisetto divertito.
“Stevens è, al cento per cento, il padre del bambino di Holly.” Proclamò infine Sherlock.
“Ora sei soddisfatto?” Gli chiese il dottore.
“Molto.” Annuì Sherlock. “Meglio del sesso.”
“Oh, non direi!” Esclamò John ridacchiando.
“Un giorno ti darò la possibilità di smentirmi.” Affermò serio lui. “Quando sarò particolarmente annoiato.”
“Vabbene, ne riparliamo.” Asserì convinto  John. “Adesso, però, che facciamo?”
“Devo pensare.” Dichiarò Sherlock. “Mi serve un po’ di tempo… Tu vai pure a dormire.” Gli disse poi.
“E come ci comportiamo con Stevens?” Domandò il medico.
“Ah, non è lui il colpevole!” Rispose Sherlock, mentre cercava qualcosa sulla scrivania.
“Ma tu hai detto che l’omicidio è legato alla gravidanza, quindi…” Tentò John.
“Lascia stare.” Lo interruppe il detective. “Non sforzare le possibilità limitate del tuo cervello, fai lavorare una mente superiore, vai a letto.”
Una delle solite rispose di Sherlock, ormai non si offendeva nemmeno più, sapeva che il suo coinquilino non gli voleva meno bene solo perché pensava che lui fosse un idiota. Chiunque oltre Sherlock Holmes lo era.
“Vabbene, ho capito.” Affermò arreso il dottore, alzandosi e allargando le braccia. “Ci vediamo domattina.”
“E chiudi la tua porta, se russi mi disturbi.” Gli ordinò Sherlock, rimettendosi sul divano.
“Tranquillo.” Replicò lui rassegnato, mentre raggiungeva le scale. “Mi coprirò anche la testa, per non fare rumore!”

CONTINUA


NOTE:
(*) non potevo tralasciare un riferimento a Star Trek! Io amo questa serie da quando ero bambina e non potevano sfuggirmi le analogie tra il nostro amato Sherlock ed il popolo del pianeta Vulcano, la cui caratteristica principale è il controllare e reprimere le emozioni. Ma come sono soliti dire i Vulcaniani, reprimere le emozioni non significa non averle… Facci i conti, Sherlockino!

Vi saluto come farebbe il mio adorato Mr. Spock!
Lunga vita e prosperità.

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


DLS
C’è voluto un po’ di tempo, ma sono riuscita a finire anche questa storia! Sono contenta.
Certo, non sarà una trama gialla degna di un vero scrittore e l’intreccio magari si risolve un po’ in fretta, però quello che m’interessava di più non era il giallo, bensì le interazioni tra i personaggi. Spero di essere riuscita a mantenere tutti abbastanza IC ed aver reso decentemente quello che m’interessava… Sta a voi dirmelo!
Il capitolo è lunghetto, ma spero che non vi annoi!

Buona lettura, a presto!
Sara


Capitolo 4

John scese le scale ancora un po’ assonnato. Erano quasi le otto del mattino e lui era stupito che Sherlock non avesse ancora cominciato col suo solito casino.
Arrivato in soggiorno lo vide sulla sua poltrona, in una posizione degna di un contorsionista del circo cinese. La Adler si sarebbe lamentata di come le sue doti fisiche fossero usate solo per dare la caccia ai criminali sui tetti di Londra. Ad ogni modo, Sherlock era arrotolato come un gatto e fissava il vuoto con espressione concentrata.
John lo raggiunse, fermandosi davanti a lui e piegandosi poi sulle ginocchia per incrociare con i propri occhi il suo campo visivo. Dopo un secondo di perplessità, rivelato dalla fronte aggrottata, lo sguardo trasparente di Sherlock ridivenne limpido e fissò gli occhi blu divertiti di John.
“Hai pensato abbastanza?” Gli domandò dolcemente il dottore.
“Hm, credo di sì.” Fece tranquillo il detective, prima di rimettersi seduto normalmente. Watson si tirò su, mettendo le mani sui fianchi.
“Ti faccio un paio di uova?” Domandò quindi.
Holmes piegò leggermente il capo di lato, come se stesse ponderando l’offerta, poi annuì. “Ho fame.” Affermò quindi.
“Bene.” Sentenziò il medico, mentre si dirigeva in cucina. “Toast e uova in arrivo.”
“Cosa farei senza di te.” Ironizzò nel frattempo Sherlock.
“Probabilmente moriresti di fame.” Affermò John ironico. “O finiresti disidratato, avvelenato da un tassista pazzoide, oppure avvinghiato ad uno psicopatico su un tetto, o…”
“Ho afferrato il concetto della tua indispensabilità nella mia vita, John, grazie.” Lo interruppe l’altro, mentre lui ridacchiava davanti al tostapane.
Pochi minuti dopo erano seduti uno davanti all’altro e Sherlock stava mangiando la sua colazione con particolare gusto. John lo fissò perplesso per un attimo.
“Da quanto era che non mangiavi?” Si trovò a chiedergli.
“Mangiare è noioso.” Biascicò lui a bocca piena, mentre un’altra forchettata si avvicinava già alle sue labbra.
“Da come lo stai facendo, non sembra.” Fece il dottore, divertito, sorseggiando il suo the.
“Purtroppo, pare che sia necessario alla sopravvivenza di questo corpo e non posso permettere che la mancanza di nutrimento privi l’umanità di una mente come la mia.” Replicò tranquillo Sherlock, versando nella tazza un paio di cucchiaini di zucchero.
“Ottimo.” Commentò il dottore. “Hai concluso qualcosa con le tue riflessioni di stanotte?” Chiese poi, cambiando argomento.
“Hmhm.” Annuì il detective, mentre finiva le sue uova e ripuliva il piatto con l’ultimo pezzo di toast. “Riassumiamo i fatti.” John annuì.
“Holly Barnes è stata trovata morta nel pomeriggio di giovedì.” John annuì ancora seguendo attento il ragionamento di Sherlock. “La morte risale con tutta probabilità a quella stessa mattina - tre le otto e trenta e le dieci, afferma il medico legale – cosa sappiamo di quello che ha fatto la vittima tra le prove in teatro del mercoledì sera e l’ora della sua morte?”
“Potrebbe aver avuto un appuntamento con Stevens o un altro dei suoi amanti.” Ipotizzò John.
“No, non potrebbe.” Sottolineò l’amico. “Noi sappiamo che ce l’aveva.”
“Lo sappiamo?” Fece interrogativo il dottore.
“Certo!” Sbottò Sherlock con una manata sul tavolo che fece vibrare i piatti. “Quando abbiamo parlato con Gwendolyn e Matthew, lei ha affermato che Holly dichiarò di avere un appuntamento, la sera delle prove… Gliela hai fatta tu la domanda…”
“Oh, sì!” Esclamò John ricordandosi. “Scusami…”
“Tranquillo, non pretendo…” Replicò serafico l’altro, appoggiandosi contro lo schienale della sedia. “Tra l’altro, da quella domanda, abbiamo scoperto anche un’altra cosa…”
“Sì?” L’interrogò John.
“Gwendolyn sapeva della relazione tra la sua amica ed il suo fidanzato.” Rivelò glaciale Sherlock. “Quello che, ancora, non possiamo sapere è se ne fosse a conoscenza da prima o lo abbia scoperto di conseguenza alla morte di Holly.”
“Cosa cambia?” Domandò Watson.
“Molto.” Rispose drastico Holmes. “Se lo sapeva da prima, sarebbe un ottimo movente, se lo ha scoperto dopo, le ragioni…” Si bloccò all’improvviso.
“Sherlock?” Lo chiamò l’amico aggrottando la fronte, si preoccupava sempre quando faceva in quel modo.
Sherlock si alzò dal tavolo velocemente, poi si diresse verso la sua camera da letto.
“Sherlock!” Lo chiamò ancora il dottore, seguendolo.
“Conosco il mio nome, John!” Sbottò l’altro, tra rumori di ante che sbattevano e cassetti aperti con foga. Watson si affacciò nella stanza, giusto per vedere Sherlock togliersi la maglietta e cercare d’infilarsi una camicia pulita il più velocemente possibile.
“Che stai facendo?” Gli domandò poi, stancamente.
“Devo parlare con Stevens, c’è da chiarire qualcosa riguardo ai tempi” Affermò il detective. “Vestiti, andiamo a Scotland Yard.” Gli ordinò poi.

Sherlock fece la sua entrata nell’ufficio investigativo di Scotland Yard sventolando il suo cappotto tra le scrivanie, senza preoccuparsi di urtare qualcosa o qualcuno. Sally Donovan sentiva di odiarlo perfino di più, quando arrivava come se fosse il padrone di casa.
Il Freak era uno stronzo, pieno di se da far vomitare e davvero non capiva come Lestrade gli perdonasse ogni cazzata, uscita improbabile o cattiveria arrivasse da quella bocca impertinente. Il dottore c’era da capirlo, povero Cristo, praticamente pendeva dalle sue labbra; era come uno di quei cagnolini scodinzolanti e fedeli che tentano di morderti appena allunghi una mano verso il padrone.
Cosa mai ci trovavano in lui? Sì, ok, le costava ammetterlo ma il Freak era sexy. E il dottore voleva decisamente scoparselo. Quanto a Greg, beh, non si poteva mai sapere al giorno d’oggi…
Non c’erano, altrimenti, motivi validi per cui quei due prendessero per oro colato ogni cazzo di sentenza emettesse il dio degli strambi. Il fatto che, poi, le sue deduzioni si rivelassero credibili era relativo. Non era mica del tutto convinta che quella storia del finto Moriarty fosse una bugia…
Holmes era un pazzo. Un pazzo sexy e con un bel culo, ma pur sempre da manicomio. E un giorno li avrebbe trascinati tutti nella merda con se. Per questo se ne teneva ben lontana.
La poliziotta sbuffò, quando lo vide spalancare la porta dell’ufficio di Greg e farlo saltare sulla poltrona mentre aveva il caffè in mano. Per un pelo non si sporcò i pantaloni.
“Santo cielo, Holmes!” Sbottò l’ispettore, pulendo la scrivania dal liquido marrone. “Sono ancora a stomaco vuoto…”
“Devo solo parlare con Stevens.” Annunciò Sherlock.
Greg sbuffò e si appoggiò allo schienale della sedia. “Stamattina alle otto è comparso davanti al giudice, che gli ha concesso la libertà su cauzione.” Spiegò poi.
“Cosa?!” Esclamò il detective. “Ed è uscito?”
“Sì.” Annuì stancamente Lestrade. “La fidanzata ha pagato e lo hanno rilasciato.”
Sherlock scambiò un’occhiata significativa con John, che era rimasto finora in silenzio, poi tornò a rivolgersi a Greg.
“Devo trovarlo, potrebbe essere fondamentale per risolvere il caso.” Dichiarò quindi.
“Non ho idea di dove possano essere, mi spiace.” Fece il poliziotto, allargando le braccia.
“Ah, dovrebbero abolire la polizia, vista la vostra utilità!” Esclamò spazientito Sherlock, prima di girarsi per andare via. Lestrade roteò gli occhi. “Andiamo, John, facciamo da soli, come sempre!”
“Buona giornata, Greg.” Salutò il dottore, prima di seguire il suo iperattivo coinquilino.
“Che Dio t’assista, John.” Gli augurò di rimando l’ispettore. Entrambi ridacchiarono.
Sally, seduta al suo tavolo, fece un versaccio. Ecco fatto. Anche per oggi Sua Maestà aveva emesso il giudizio supremo e se ne era andato, col suo valletto a reggergli il mantello. Si chiese se qualcuno sarebbe mai riuscito a metterlo a posto.

Saliti sul taxi, John guardò Sherlock e lui lo incitò a chiedere con un cenno distratto.
“Dove andiamo, ora?” Chiese il dottore.
“A casa di Gwendolyn.” Rispose l’investigatore, aggiustandosi il cappotto sotto il sedere con uno strattone. “È importante che io parli con Stevens e se c’è anche lei tanto meglio.” Precisò poi, i suoi occhi implacabili rivolti alla strada.
John sospirò, rassegnato a non ricevere ulteriori spiegazioni.

La porta, stavolta, gli fu aperta da una distinta cameriera di mezz’età. Sherlock praticamente la travolse entrando, mentre John – costernatissimo – si scusava alla meglio.
Quando furono nel salone dove avevano preso il the la prima volta, seguiti dalle poco velate proteste della donna, Sherlock si fermò, osservando attentamente in giro e chiese della padrona di casa.
“Miss Gwendolyn non è qui.” Rispose indignata la cameriera, lisciandosi il grembiule di pizzo. “E nemmeno il Signor Stevens, perciò se ne vada o chiamo la polizia!” Aggiunse decisa.
Sherlock la ignorò, continuando a camminare su e giù sopra al prezioso tappeto, preso da chissà quali riflessioni.
“Sherlock…” Tentò John. “Possiamo rintracciarli più tardi, che ne so, magari Lestrade ha i loro numeri…”
Holmes, però, non diede segno di averlo ascoltato. Si fermò, invece, accanto al violoncello, posato sul suo sostegno vicino ad un pianoforte a parete. Lo osservò per un lungo momento, come se avesse la vista a raggi X. Poi si riscosse e si girò verso gli altri due presenti.
“Devo sapere dove sono.” Pretese, fissando la cameriera.
“Ma… ma io non ne ho idea.” Balbettò lei, annichilita dallo sguardo deciso di Sherlock. Vuoi vedere che ora funziona anche con le babbione… pensò John.
Sherlock fece due passi verso la cameriera e la prese per le spalle, piantandole in faccia quei due fari assassini.
Devo sapere dove sono.” Ripeté, scandendo le parole.
La donna sbatté le palpebre come ipnotizzata. “Miss… Miss Gwendolyn ha le prove in teatro…” Biascicò lei, non si capiva se impaurita o vittima dell’inesorabile fascino di Sherlock.
“Ci va in macchina o con la Tube?” Chiese allora l’investigatore; lei tacque. “Con quale mezzo va in teatro?!” Insisté lui, scuotendola leggermente.
“Sherlock, dai…” Intervenne John, preoccupato come sempre per i metodi bruschi dell’amico.
“Con la macchina.” Rispose infine la cameriera.
Sherlock mollò le spalle della donna, facendola barcollare un po’ e ricominciò a muoversi a caso per la stanza, con atteggiamento nervoso.
“Dobbiamo sapere dove lascia la macchina…” Diceva, apparentemente rivolto più a se stesso che a John. “Pensa, pensa! Quella zona di Londra…”
“Lo so io.” Lo interruppe il dottore; lui lo guardò aggrottando la fronte. “C’è un solo parcheggio, al Covent Garden, convenzionato con gli artisti.”
“E tu come lo sai?” Domandò sospettoso Holmes.
“Ti ricordi Jade, quella con cui uscivo tempo fa?” Una smorfia di Sherlock lo confermò. “Beh, è una ballerina del Royal Ballet.”
“Finalmente una delle tue inutili fidanzate è servita a qualcosa.” Commentò atono il consulente investigativo.
John ritenne inopportuno far presente che uscire con una ballerina aveva molti lati positivi, non ultima la loro capacità di assumere posizioni contorsionistiche, tanto Sherlock non avrebbe capito. E poi stavano già lasciando la casa.

Erano di nuovo su un taxi, diretti al Covent Garden. John non aveva ancora capito a cosa era dovuta l’improvvisa urgenza di Sherlock per trovare Gwendolyn e Matt, ma si era rassegnato già a dover aspettare la brillante spiegazione dell’amico, sempre che avesse voluto dargliela.
Era preso in queste riflessioni quando il cellulare squillò nella sua tasca. Lo prese, sotto lo sguardo inquisitore di Sherlock, e scoprì con gioia che la telefonata era di Angela.
“Angela!” Esclamò allegro, rispondendo.
“Ciao, John.” Rispose dolcemente lei.
“Come stai?” Le domandò il dottore, con un tono galante che fece storcere la bocca a Sherlock.
“Molto bene, e tu?” Replicò lei.
“D’incanto ora che ti sento.” La donna rise, all’altro capo del telefono.
“Senti…” Riprese Angela. “…ti ho chiamato perché ho molta voglia di vederti.”
“Anche io.” Fece morbido John, interrompendola.
“Quanto sei dolce…” Commentò lei. “Che ne dici se ceniamo di nuovo insieme, in un ristorante questa volta?”
“Sarebbe magnifico.” E non mentiva, voleva veramente passare un’altra serata con lei e rimediare al mezzo casino dell’altra volta.
“Che ne dici di venerdì sera?” Suggerì Angela.
“È perfetto.” Acconsentì John.
“Ti spiace se prenoto io’” Chiese ancora la donna; John fu un attimo preoccupato a proposito del livello economico di un ristorante scelto da lei, ma poi si disse che per una volta poteva anche non guardarsi nel portafogli.
“Non preoccuparti.” Le disse quindi. “Mi togli dall’imbarazzo di dover scegliere il posto.”
“Non ti farò spendere troppo, promesso!” Affermò allegramente lei.
“Non vedo l’ora di rivederti.” Confessò allora John, con tono romantico. Sherlock trattenne un conato, lo odiava quando faceva il melenso.
“È lo stesso per me, John, davvero.” Replicò Angela con dolcezza.
Si salutarono, mettendoci un po’ troppo per i gusti di Holmes, poi John rispose il cellulare e guardò l’amico con un’espressione un po’ ebete.
“Possiamo tornare alle cose serie, adesso?” Fece Sherlock un po’ scocciato.
“Queste sono cose serie! Angela…” Il detective lo bloccò afferrandogli il braccio in una morsa d’acciaio.
John alzò gli occhi dalla mano che lo stringeva, per incrociare lo sguardo di Sherlock. Non poté, però, dirgli quello che pensava sulla brusca interruzione del discorso, perché l’altro gli puntava addosso due stalattiti di cristallo verde, così trasparenti e affilate da trapanargli il cervello.
“È stata lei, John.” Sentenziò la voce di Sherlock, tanto profonda da sembrare proveniente da un girone dell’averno.
“Chi? Angela?” Biascicò confuso il dottore. Holmes roteò gli occhi spazientito e lo lasciò andare, per rimettersi seduto composto.
“Santo cielo, John, che devo fare con te?” Sbottò quindi, vagamente arreso.
John incrociò le braccia e guardò fuori dal finestrino. Si sentiva offeso e non gli capitava spesso, con Sherlock. Sapeva che il suo coinquilino era dotato di un tatto elefantino. Ma c’erano volte, come quella, in cui gli dispiaceva essere trattato come un idiota. Perché spesso voleva convincersi di essere, agli occhi di Sherlock, un tantino più importante del resto delle sue conoscenze. Una specie di prescelto, per qualche insondabile e inspiegabile motivo.
“Di chi parlavi? Di Gwendolyn, vero?” Fece dopo un po’, mentre si avvicinavano alla meta. Era consapevole che l’unico modo per farsi perdonare da Sherlock era aprire la strada alle sue deduzioni, farsi spiegare tutto. Anche se gli rompeva essere sempre quello che s’ingoia l’orgoglio.
Holmes si girò verso di lui, lo sguardo più vivo e brillante. “Certo, ovviamente!” Esclamò.
“Spiegami tutto.” Lo incitò John, perché alla fine adorava ascoltarlo.
“Ripensa all’arma del delitto.” Esordì Sherlock. “Uno strumento antico… ma sappiamo per certo che non si tratta del Guarnieri, né del violino di Holly, e allora cos’altro?”
“Un violoncello.” Affermò Watson.
“Un violoncello.” Confermò l’altro annuendo. “L’ho guardato, è risalente alla stessa epoca del violino di Holly, legno pregiato… è stato pulito, ma credo che un’analisi più approfondita rivelerà legno scheggiato e tracce di sangue.”
“Sherlock, però, ragiona.” Intervenne il dottore. “Se lei se ne fosse andata dall’appartamento della Barnes con la custodia di un violoncello, qualcuno l’avrebbe notata…”
“Non è detto.” Sostenne Holmes. “Quello è un comprensorio di lavoratori, a quell’ora del mattino molti sono già al lavoro, o diretti sul posto, e non è detto che qualcuno abbia fatto caso ad una ragazza elegante con un violoncello… Comunque sarà il caso d’interrogare nuovamente i vicini.”
“Come pensi che sia successo?” Domandò John, nonostante si fosse fatto un’idea abbastanza precisa da solo. Sherlock sollevò le sopracciglia.
“È stato un delitto d’impeto, lo hai detto tu.” Watson annuì. “Presumo che le due donne abbiano avuto una discussione durate le prove che facevano insieme – Stevens ci ha detto che lo facevano ogni giorno – e che questa sia degenerata in un gesto incontrollato da parte di Gwendolyn…”
“E il movente è la gelosia…” Commentò l’altro, mentre il taxi si fermava vicino al parcheggio del Covent Garden. Pagarono e scesero.
“Secondo te, Gwendolyn ha scoperto la tresca quel mattino, oppure lo sapeva già?” Chiese il dottore, mentre attraversavano la strada per entrare nel garage.
“È indifferente, a questo punto.” Affermò Sherlock deciso. “Non è un delitto premeditato, potrebbe averla aggredita per l’ennesima discussione sul tradimento, oppure perché ha scoperto del bambino quello stesso giorno, fatto sta che l’ha uccisa lei.”
“E lo hai capito solo dallo strumento?” L’interrogò l’amico.
“Beh, vedere il violoncello mi ha fatto ricollegare molte cose.” Rispose incurante il detective, entrando nel garage ed esaminando l’area per riuscire ad evitare la guardiola. “Lei che, nel nostro interrogatorio, si premura di dirci che ha visto la vittima per l’ultima volta molti giorni prima del delitto, il suo contegno pieno di rabbia – ovviamente nei confronti della morta e del suo fidanzato – e la ferita sul polso, sotto l’orologio…”
“Una ferita sul polso?!” Esclamò Watson stupito.
“Sì.” Annuì Sherlock. “Probabilmente causata dalle corde del violoncello mentre uccideva Holly, possono essere molto taglienti.”
“Incredibile!” Esclamò allora, John.
Sherlock si girò appena verso di lui, con un sorrisetto storto. “Ah, quindi sono ancora interessante?” Fece sornione.
“Beh, sei il migliore, lo sai.” Dichiarò tranquillo John.
“Modestamente.” Commentò lui, tirandosi su il bavero del cappotto. “Era un caso noioso, comunque, banale delitto per gelosia, però… potrebbe diventare più interessante ora.” Aggiunse, con un cenno verso l’interno del garage.
John aggrottò la fronte. “Perché?” Chiese sospettoso.
“Credo che voglia uccidere anche Stevens.” Affermò Sherlock serio. “Dobbiamo trovarli, ora.”

L’entrata di un furgoncino abbastanza ingombrante distrasse a sufficienza la guardia, da permettere ai due di entrare nel garage. Sherlock riuscì anche a dare un’occhiata al registro, per scoprire dove parcheggiava la Parker-Lloyd.
Con gesti e sguardi dalla complicità collaudata, l’investigatore incitò John a seguirlo verso gli ascensori, mentre il furgone era ancora davanti alla guardiola. Veloci e silenziosi, sfuggirono al controllo e s’infilarono nel primo mezzo disponibile.
“Hai la pistola?” Domandò Sherlock, mentre selezionava il secondo piano interrato dalla pulsantiera. John si toccò il retro della cintura.
“Certo che ho la pistola.” Rispose annuendo. “Mi fai sempre preoccupare quando scatti all’improvviso… Perché lo chiedi?”
“Gwendolyn potrebbe essere armata.” Dichiarò l’altro, fissando i piani che scorrevano sul piccolo schermo dell’ascensore.
“Armata?!” Esclamò il dottore.
“Hmhm.” Annuì Sherlock. “Un revolver calibro 38, per la precisione.” Aggiunse, davanti alle porte scorrevoli che si aprivano su un parcheggio grigio dalle luci sbiadite.
“E come diavolo fai a saperlo?” Domandò allibito John.
“Oh, non pretendo certo che tu abbia notato la vetrina delle pistole, in casa sua, né la mancanza di un’arma alla nostra seconda visita.” Affermò impassibile lui. “Un revolver Colt, presumo, che stava tra una Beretta semi automatica e una Mauser della seconda guerra mondiale…”
“Tu, seriamente, a volte mi fai paura…” Ammise sconcertato il medico. Sherlock gli rivolse un mefistofelico sorriso soddisfatto.
“Il suo posto è il D36.” Gli disse quindi. “Dividiamoci.” Aggiunse, indicando a John la direzione opposta alla sua. Watson annuì.
Cominciarono a spostarsi, coprendosi con le colonne o tra le auto parcheggiate. Sherlock non riusciva a trovare la lettera D, mentre John ci s’imbatté quasi subito.
Stava aggirando l’ennesima colonna, quando si accorse di qualcuno che si muoveva in un punto poco illuminato, a causa probabilmente di un paio di neon fulminati. La ragazza, puntando il grosso revolver, trascinava l’uomo, pallido e impaurito.
“Gwendolyn!” Chiamò John.
Lei sussultò, allentando la presa sulla giacca di Stevens, poi guardò nella direzione di Watson, lo vide, alzò la mano che teneva la pistola e sparò.

Sherlock, dall’altra parte del parcheggio, sentì la voce di John indistinta, non capì cosa diceva, però lo sparo lo avvertì nitidamente. Quando il rimbombo finì, sentì qualcosa cadere con un tonfo sordo. Il detective, in quel momento, pensò seriamente che il cuore gli avrebbe trapassato la cassa toracica per esplodergli nella gola in una profusione di sangue e viscere.
Senza pensare, senza alcuna riflessione logica, preda soltanto della paura, corse in direzione di John, premurandosi solo di non essere troppo scoperto al tiro della Colt. Si bloccò dietro ad una colonna quando vide sul muro una striscia verde con la lettera D.
“John!” Chiamò forte, un’incrinatura inspiegabile nella voce. “JOHN!” Ripeté concitato.
“Sherlock!” Gli rispose infine l’amico.
Holmes si appoggiò alla colonna, prendendo un lungo sospiro, con una mano appoggiata sul petto. Si disse che, se John si era sentito la metà di così, mentre lui era sul quel cornicione, per ripagarlo avrebbe dovuto fare ben altro che comprare il latte. Socchiuse gli occhi, cercando di recuperare il suo proverbiale autocontrollo.
Aveva ancora gli occhi chiusi, quando sentì qualcosa sbattergli contro. Li aprì e vide John studiare la situazione oltre la colonna, con cautela e la pistola in pugno, respirando forte, praticamente appoggiato contro di lui. Soppresse la voglia di abbracciarlo.
“Che cosa è successo?” Domandò il consulente.
“Mi ha sparato, ma ha sbagliato mira ed ha preso un bidone dei rifiuti, che è caduto.” Rispose il dottore, continuando a scrutare dietro la colonna.
“Capisco…” Commentò Sherlock. Si era fatto venire un colpo per un bidone… Se fosse stato padrone di se avrebbe capito che quello che cadeva non era un corpo umano! Emozioni, buah!
“Cosa facciamo, adesso?” Chiese nel frattempo John.

“Dio mio, fate qualcosa, vi prego!” Supplicava Stevens, piangente e inginocchiato per terra.
“Sta zitto!” Lo minacciò la donna, puntandogli l’arma alla testa.
“Gwen, credimi, io ti amo!” Continuò lui, ignorando che così faceva solo aumentare la sua rabbia.
“Smettila di mentire!” Replicò infatti lei, sempre più furente.
“Gwendolyn, ascolti.” Intervenne Sherlock da dietro la colonna, la voce alta e autorevole. “Lasci andare Stevens, ha ancora una possibilità, l’omicidio di Holly è colposo, lo sappiamo… potrebbe avere una condanna mite, si fermi adesso.”
John trovò il discorso di Sherlock ragionevole, ma… terribilmente privo di umanità. Quella ragazza era sconvolta, probabilmente piena di sensi di colpa, tradita su tutti i fronti, pronta a tutto. Non era il modo, dovevano trovare un’altra maniera per convincerla.
“Andatevene!” Minacciò la donna, sventolando la pistola contro di loro.
“Gwen.” Il tono dolce con cui John aveva pronunciato il nome, fece voltare Sherlock verso l’altro lato della colonna che li riparava, solo per vedere che l’amico se ne era discostato e camminava, mani e pistola alzate, verso la donna. Fece velocemente lo stesso, superando il nascondiglio.
“John.” Lo chiamò; lui spostò appena gli occhi per guardarlo di sfuggita.
“Lasciami fare, Sherlock.” Gli chiese. “Ho avuto anche dei kalashnikov puntati in faccia, sai?”
“Non fare sciocchezze…” Esalò l’investigatore, mentre studiava con gli occhi la situazione, cercando una soluzione che traesse d’impaccio il medico.
“Gwen, mi ascolti.” Riprese Watson, dirigendosi verso la ragazza. “Guardi, adesso poso la pistola…” E si chinò a terra per lasciare la Browning, lei lo seguì con un cenno nervoso. “Non voglio farle del male, voglio solo parlare.”
Sherlock, nel frattempo, stava velocemente calcolando quanto gli ci sarebbe voluto per buttarsi a terra, recuperare l’arma di John, sparare a Gwen e risolvere tutto, senza che lei avesse il tempo di ammazzare il dottore. Probabilità scarse, tempo di reazione insufficiente, alta percentuale che John venga colpito comunque, troppo rischio…Stupido, stupidissmo John!
“Io la capisco, Gwen.” Affermava Watson in quel momento, a pochi passi da lei. “So come ci si sente ad essere traditi e abbandonati da qualcuno che si ama…”
Sherlock, a quell’affermazione di John, si sentì personalmente e fastidiosamente tratto in causa.
“La mia migliore amica e l’uomo che amavo!” Esclamò Gwendolyn, lasciandosi andare alle lacrime.
“Sì, so cosa le hanno fatto.” Annuì comprensivo John, sempre con le mani in alto. “E so anche che non voleva uccidere Holly.”
“È stato un incidente! Io l’ho colpita ed è caduta… su quel tavolo e poi… c’era un sacco di sangue…” Raccontò sconvolta la ragazza. “Ma se lo meritava, quella puttana traditrice!”
“Non peggiori le cose, adesso, Gwen.” Le disse paterno il dottore. “Lasci andare Matt e forse avrà ancora speranza.” Tentò poi.
“Io lo amavo e lui mi ha tradita! Mi ha mentito e l’ha messa incinta!” Gridò però lei, minacciando ancora il povero ragazzo, ormai ridotto ad una larva d’uomo dalla paura.
“Lo lasci andare, Gwen.” Insisté dolcemente John. “Può ancora salvare qualcosa di se stessa, se lo lascia andare…”
“Non so che cosa devo fare…” Mormorò lei, piangendo disperata.
“Mi dia la pistola.” Le suggerì lui con delicatezza. “Mi dia la pistola e si sfoghi.” Aggiunse, allungando una mano verso la sua, che teneva ormai blandamente l’arma.
Gwen scoppiò in un singhiozzo più forte, mentre John le sfilava il revolver dalla mano, poi si accasciò tra le sue braccia e lui la seguì per non farla cadere. La ragazza cominciò a piangere ancor più disperatamente tra le sue braccia. Il dottore allungò un braccio all’indietro e Sherlock gli fu subito accanto per recuperare la pistola. Stevens, nel frattempo, si era allontanato di qualche metro con un gemito sordo.
Holmes restò qualche istante ad osservare John che, inginocchiato a terra, abbracciava con comprensione l’assassina rea confessa. Per un fuggevole attimo, invidiò la naturale empatia di Watson verso il genere umano. E si domandò per l’ennesima volta, quanto lui dovesse aver sofferto e quanti dubbi avesse avuto, durante la loro lontananza. Era giusto che Sherlock si sentisse in colpa.
Durò poco, ad ogni modo, perché il consulente investigativo riprese immediatamente il suo aplomb e chiamò quegli incapaci di Scotland Yard.

Un paio di ambulanze e qualche auto della polizia riempivano lo spazio davanti all’entrata del garage, illuminando il crepuscolo con i loro lampeggianti, mentre Sherlock e John sedevano pacifici sul cofano della macchina di Lestrade. Una scena familiare, dopotutto.
“Abbiamo consegnato un altro assassino alla giustizia.” Affermò John, incrociando le braccia.
“A quanto pare.” Commentò Sherlock, mani in tasca e bavero alzato. “Le daranno delle attenuanti, è un omicidio colposo ed era chiaramente fuori di se.”
“Lo spero.” Fece il dottore, ancora pieno di pietà per la donna.
“Del resto, anche la vittima non era esattamente innocente…” Continuò Holmes tranquillo; John lo guardò male.
“Stai parlando di una povera ragazza incinta a cui hanno fracassato la testa, Sherlock.” Puntualizzò quindi, indignato. Lui si limitò a stringersi nelle spalle.
Passarono qualche minuto nuovamente in silenzio, osservando Stevens seduto sul retro di un’ambulanza con sulle spalle la classica coperta arancione da shock. Ridacchiarono, quando un ricordo comune attraversò la mente di entrambi.
“Sembravi preoccupato, prima.” Disse infine John, rompendo il silenzio, con tono furbo.
“Quando?” L’interrogò vago l’amico, senza guardarlo.
“Quando credevi che Gwen mi avesse sparato.” Spiegò Watson.
“Oh…” Fece Sherlock. “Credevo ti avesse sparato.” Si limitò a dire, come fosse ovvio.
“Quindi, ti preoccupi per me…” Ipotizzò il dottore, senza nascondere un sorrisetto compiaciuto.
“Sei mio amico, non dovrei?” Replicò Sherlock, sempre laconico.
John sorrise. Lui guardava da tutt’altra parte, ma il dottore osservò il suo profilo chiaro contro lo sfondo dei palazzi scuriti dalla sera. Una bella persona con un brutto carattere, ecco cosa era Sherlock. E lui lo adorava, c’era poco da fare.
“Anche io ti voglio bene.” Gli disse infine, con un sorriso dolce, provocando un’espressione perplessa sul viso tutto spigoli del suo coinquilino preferito.

******

Il mattino dopo, John canticchiava in cucina, lavando i piatti della colazione, mentre Sherlock era apparentemente assorto nella lettura dei quotidiani sulla poltrona.
“Qualche cosa d’interessante?” Domandò il dottore, asciugandosi le mani con uno straccio sulla soglia del soggiorno.
“Hn, l’economia crolla e nessuno che si decida ad uccidere un banchiere!” Rispose Holmes, sbatacchiando le pagine indignato. John ridacchiò, gettando lo straccio su una sedia.
“Vado a farmi la doccia.” Annunciò quindi. “Dopo esco per la spesa, se vuoi…”
“Credo che andrò al Barts.” Replicò l’altro, sempre dietro al muro di carta.
“Ok.” Annuì Watson, prima di salire di sopra.
Quando Sherlock fu sicuro che John fosse al piano superiore, abbassò il giornale e scrutò la stanza.
La giacca di pelle del dottore era appesa accanto al suo cappotto, dietro la porta. Il laptop abbandonato sul divano, si sarebbe presto spento per mancanza di batteria. E il cellulare…
Gli occhi da felino predatore di Sherlock spaziarono velocemente nella stanza, spingendosi fino alla cucina, per riuscire ad individuare il telefono del proprio coinquilino. Che lo avesse portato di sopra? No, lo dimenticava sempre giù… e allora? Ah! Eccolo…
Si alzò elegantemente, facendo frusciare la vestaglia di seta, il giornale abbandonato per terra, e si diresse in cucina. Su un angolo del pensile, vicino al bollitore elettrico, stava l’apparecchio di cui aveva bisogno.
Lo prese e lo studiò un attimo, ripetendosi che stava per fare un’azione necessaria. Era inutile parlarne con John, non avrebbe capito le sue buone intenzioni. Non senza rimanere profondamente ferito da quello che lui poteva rivelargli. E questo non era ciò che Sherlock voleva.
Era perfettamente cosciente di aver ferito John innumerevoli volte, ma questo non senza aver ferito ugualmente se stesso. Quindi, per evitare dolore ad entrambi, era meglio che soffrisse un po’ qualcun altro.
Aprì il cellulare, digitò velocemente il messaggio e lo inviò. Poi si premurò di far scomparire ogni traccia delle sue azioni. Fu particolarmente attento. Il coinvolgimento emotivo poteva essere causa di errori e lui non poteva permetterselo.
Rimise il telefono nella stessa esatta posizione in cui lo aveva trovato e tornò alla sua poltrona, soddisfatto. Ma continuò a chiedersi perché nessuno uccideva un banchiere in modo sanguinario e fantasioso. C’erano momenti in cui Jim gli mancava davvero molto.

«Ho bisogno di parlarti. 6 PM al parco dove ci siamo incontrati. JW»

Angela era ancora stupita di aver ricevuto quel messaggio da John. Perché voleva incontrarla solo un paio di giorni prima del loro appuntamento?
Ad ogni modo, quel mercoledì sera, mentre il sole si abbassava rosso dietro i tetti di Londra, era andata nel parco dove si erano rincontrati dopo quindici anni.
Si avvicinò alla panchina dove si erano seduti, guardandosi intorno, ma di John non c’era traccia.
Poco dopo, vide comparire una figura familiare dal fondo del giardino. Era un uomo alto, con un lungo cappotto scuro; incedeva verso di lei guardandola negli occhi, con andatura elegante. Il viso di cera fisso in un’espressione dura.
“Signor Holmes…” Mormorò sorpresa, in fondo si erano visti solo quella sera a teatro.
“Buonasera, Angela.” Fece lui, con fredda educazione. “O dovrei dire Mrs. Kubler?” Aggiunse con un’occhiata retorica.
Angela, colpita, fece un passo indietro e spalancò gli occhi. Trascorse un attimo prima che si riprendesse, come previsto da Sherlock.
“John sa che sono sposata con James.” Affermò quindi la donna.
Sherlock sorrise maligno. “Ci sono molte altre cose che John non sa, Mrs. Kubler.” Disse, calcando sul titolo della donna, mentre le dava le spalle e faceva qualche passo intorno alla panchina. “Ma si da il caso che io sia Sherlock Holmes e che niente mi sfugga.” Aggiunse, tornando a dedicarle un’occhiata glaciale.
“Non capisco cosa vuole…” Tentò Angela, mentre lui le tornava davanti.
Sherlock sapeva essere imponente, se il caso lo richiedeva: postura nobile, mani in tasca, grande aiuto da spalline e bavero del cappotto. Gli piaceva incutere un certo timore.
“Le sarà sembrato un segno del destino, incontrare il buon vecchio John quella sera, vero?” Le chiese, col tono di chi sapeva già la risposta.
“Mi ha reso molto felice, sì.” Si difese lei, anche se il motivo le sfuggiva.
“Oh, sì, soprattutto tenendo conto che lei era appena uscita da una visita alla clinica Brown & Ross, specializzata in assistenza alla gravidanza e… inseminazione artificiale.” Lei spalancò la bocca, ma
non disse nulla. “Ora, considerato che lei non mi sembra incinta, deduco che le sue visite siano rivolte all’altra specializzazione…”
“Non sono affari suoi!” Esclamò indignata la donna. Lui la fissò quasi con odio.
“Li ha fatti diventare affari miei, Mrs. Kubler.” Sentenziò quindi. “Dicevamo…” Riprese come se nulla fosse, continuando a camminarle intorno. “… il suo desiderio di maternità inappagato l’ha portata a tentare più volte l’inseminazione artificiale in una delle più rinomate cliniche di Londra, ma non è accaduto nulla… La famiglia di suo marito è ricca e prestigiosa, quindi presumo che non vi manchino i mezzi per tentare ogni strada, ma…”
“La prego…” Supplicò Angela, ma niente avrebbe potuto impietosire Sherlock.
“Ma conosco le famiglie come quella, il sangue conta ancora qualcosa a quei livelli e quindi…” La fissava implacabile. “…immagino che non si voglia sentir parlare di inseminazione eterologa o di adozione…”
Angela sospirò arresa. “Mio marito e suo padre sono inflessibili: deve essere un Kubler, ma…”
“Il problema è di James.” Concluse Holmes, lei lo guardò stupita, ma poi annuì.
“Non capisco cosa c’entri tutto questo con John.” Disse la donna, scuotendo il capo.
“Oh, c’entra molto, invece.” Fece Sherlock, prima di allontanarsi di un paio di passi. “Quella sera, uscita dall’ultima, deludente, visita in clinica, lei incontra per caso John Watson.” Cominciò a spiegare il detective. “Un vecchio compagno di università, cui lei aveva voluto moderatamente bene, che l’aveva aiutata senza chiedere niente in cambio e che, lo sapeva bene, quindici anni fa era perdutamente innamorato di lei.”
“Io… io non…” Provò ad intervenire, bloccata dalla mano di Sherlock sollevata a mo’ di stop.
“Mi lasci finire, poi potrà smentirmi, oppure no.” La pregò poi. “John Watson, dicevamo, un uomo pieno di belle qualità, intelligente, simpatico, gentile, generoso, coraggioso…”
“John è una bellissima persona.” Affermò Angela, prima di essere nuovamente trafitta da un’occhiata feroce di Sherlock.
“Questo lo so benissimo, non c’è bisogno che me lo dica lei.” Replicò con tono pericoloso. “Per questo le impedirò in qualunque modo di fargli del male.”
“Io non voglio fare del male a John…” Replicò blandamente Angela.
“Quindi nega di aver pensato di usarlo per concepire un figlio e poi far credere ai Kubler di averlo fatto con suo marito?” Le domandò gelido l’investigatore.
Angela, a quelle parole, spalancò gli occhi e barcollò, come colpita da una spinta, poi si appoggiò alla spalliera della panchina e si sedette, cominciando a singhiozzare.
“Oh, mio Dio…” Esalò la donna, aggrappandosi alla propria borsetta.
Sherlock era di nuovo davanti a lei, le mani in tasca e nessuna espressione sul volto di marmo.
“So che è in crisi con James e che lui non vive più a casa da un po’.” Affermò Holmes, sorprendendola ancora una volta. “Ma so anche che ne è ancora innamorata – debolezza facilmente intuibile dal fatto che non ha tolto fede e anello di fidanzamento…” Li indicò al suo dito, mentre lei lo fissava incredula. “…sono puliti, curati, chiaro segno di affezione al matrimonio, li portava anche quella sera a teatro, quindi mi spieghi perché? Perché voleva fare questo a John?”
“Non lo so.” Negò lei, con le mani sul viso, poi le posò ai lati delle gambe, sul bordo della panchina. “Sono impazzita, volevo un figlio a tutti i costi… Quando ho rivisto John mi è sembrato che il destino finalmente fosse dalla mia parte, avrei avuto un bambino bellissimo e loro… i Kubler, avrebbero creduto che somigliasse a me…”
“La smetta, non sono qui per consolare donnette.” Intervenne duro lui, lei sospirò e prese un fazzolettino dalla borsa. “Cosa pensava di fare? Stare con lui finché non rimaneva incinta, poi lasciarlo e tornare da James, facendogli credere che il figlio fosse suo? John è un uomo buono e non si merita di essere usato in questo modo.”
“Oddio, lo so!” Esclamò lei sconvolta, quell’uomo sembrava leggerle nella mente. “Non so cosa pensavo, ero fuori di me!”
“Mi ascolti bene.” Le ordinò allora Sherlock, obbligandola a guardarlo. “Lei dirà a John che non potete vedervi più, trovi una scusa sufficientemente valida e tagli i rapporti…”
“Glielo dirò a cena…” Fece Angela.
“No, non ha capito.” Disse autoritario Holmes. “Non voglio che lo veda mai più, lo chiamerà per parlargli e poi sparirà dalla sua vita.” Spiegò serissimo.
“E se io non volessi farlo?” Replicò debole la donna.
“Mi creda, non vuole mettersi contro Sherlock Holmes.” Le garantì lui, un’espressione che garantiva fosse disposto a tutto e privo di scrupoli.
“Perché lo fa?” Gli chiese allora Angela, mentre finiva di asciugarsi il viso.
“John Watson è mio amico e nessuno può permettersi di farlo soffrire.” Rispose Sherlock, e per una volta lei vide delle emozioni nei suoi occhi di ghiaccio. Era sincero.
“Farò come vuole, Signor Holmes.” Acconsentì infine Angela, con un sorriso amaro. “E troverò la mia soluzione altrove.”
“Bene, non abbiamo altro da dirci.” Fece lui, annuendo. “Addio, Mrs. Kubler.” Salutò quindi, prima di girarsi per andare via.
“Signor Holmes.” Lo richiamò però lei; tornò a guardarla. “John è un uomo molto fortunato.” Affermò la donna, lui la fissò interrogativo. “È fortunato ad avere qualcuno che lo ama così tanto.” Spiegò quindi, alzandosi.
“Io non ho parlato di am…” Tentò di replicare l’uomo.
“Addio, Signor Holmes.” Lo salutò Angela, interrompendolo, quindi, con un sorriso rassegnato ma composto, si allontanò da lui senza aggiungere altro.
Sherlock rimase a fissare la sua schiena allontanarsi, mentre i lampioni iniziavano ad accendersi.
Sapeva di aver fatto la cosa giusta, anche se sarebbe stata dura per John. Stasera gli avrebbe suonato qualcosa di dolce, col Guarnieri che non aveva ancora restituito – per la gioia delle coronarie di Lestrade. Sarebbe passata anche questa, ci avrebbe pensato lui.

*****
 
Una giornata particolarmente limpida splendeva su Londra, quel giovedì. Era quasi mezzogiorno e il sole era piacevole su quel campo da golf.
John chiuse il cellulare con una smorfia amara. Bella giornata, sì. Tranne che per il suo umore. E per la sorte del poveraccio steso a faccia in giù sull’erba.
Scese la collinetta, diretto alla porzione di campo occupata dal gruppetto di yarders e da Sherlock, mentre la scientifica, con le tute azzurre, montava un gazebo.
La notizia che aveva appena ricevuto non era delle migliori, ma erano cose che capitavano. L’amarezza sarebbe passata e non era giusto far pesare un problema del tutto personale sull’indagine in corso. Si avvicinò agli altri, mentre Sherlock era chinato sul corpo.
John si fermò accanto a Greg ed osservò la vittima. Era un uomo di mezz’età che indossava una perfetta e molto firmata tenuta da golf, completa di cappellino bianco e arancione. Lo avevano appena voltato e si poteva vedere bene il foro insanguinato sul petto della polo bianca. Beh, proprio bianca… e anche la faccia…
“Perché è verde?” Domandò il medico perplesso. Sherlock roteò gli occhi tacendo.
“I campi da golf usano dei coloranti per rendere l’erba più verde.” Spiegò Lestrade.
“Ah… ecologico…” Commentò Watson. “Allora, come è successo?” Domandò quindi.
“Un colpo d’arma da fuoco al petto.” Rispose Anderson. “Una nove millimetri…”
“Non sono certo che si tratti di una nove millimetri.” Intervenne Sherlock interrompendolo.
“Oh, andiamo!” Sbottò il poliziotto. “Il foro è perfetto, ho misurato il diametro! Non può che essere così!” Aggiunse piccato.
“Bene, allora cerca il bossolo e quando lo avrai trovato ne riparleremo.” Proclamò Holmes, prima di dargli le spalle e incamminarsi, seguito da John. “Ah…” Fece poi, girandosi di nuovo. “È qui da ieri sera.” Rivelò con nonchalance.
“Come accidenti fai a dirlo?” Esclamò Greg.
“Tutta la sua parte posteriore è bagnata, è rimasto esposto al getto dell’irrigazione automatica.” Spiegò tranquillamente Sherlock. “Se fosse venuto stamattina per giocare non sarebbe successo e poi… c’è un’altra cosa che ci dice che non era qui per giocare: dov’è la sua attrezzatura?”
I poliziotti e anche John si guardarono intorno, seguendo il gesto ampio delle braccia di Sherlock: nessuna giardinetta, nessuna borsa da golf, niente mazze e palline in tutto il prato.
“Riflettete.” Consigliò quindi il consulente, mentre lasciava il luogo del delitto.
Lui e John camminarono affiancati per un po’, attraversando il campo da golf verso la palazzina in stile tudor sede del club.
“Chi era, prima al telefono?” Chiese distrattamente Sherlock, mentre attraversavano un green.
“Ah, sì… scusa se mi sono allontanato…” Biascicò John, guardando dentro la buca della bandierina.
“Figurati.” Glissò l’altro, con un cenno della mano.
“Era Angela.” Confessò quindi il dottore. “Non ci vediamo più, domani sera.”
“Ha spostato l’appuntamento?” Sherlock tentava di sondare il terreno senza dare a vedere che era piuttosto interessato.
“No, veramente lo ha disdetto… per sempre.” Rispose Watson, osservando con espressione delusa il laghetto alla sua destra.
“Oh…” Commentò Holmes, senza aggiungere altro.
“Sembra che stia provando a far pace col marito, sai… Cose che capitano, non pensavo certo lo lasciasse per me…” Affermò John, fingendosi indifferente con un’alzata di spalle.
“Mi dispiace.” Disse Sherlock, atono.
John si fermò, obbligandolo a fare lo stesso, poi lo guardò, prima sorpreso, poi con un sorrisetto sarcastico. “Non è vero.” Sentenziò quindi, prima di scuotere il capo e riprendere a camminare.
“Potresti fare finta di crederci, per una volta.” Soggiunse l’altro e Watson scoppiò a ridere, accompagnato poco dopo da Sherlock.
Bene, il piano aveva funzionato. Angela lo aveva mollato, John non sospettava minimamente dei veri motivi e lui lo aveva fatto ridere. Quella donna con suo marito. E John con lui. Ogni cosa tornava al suo posto.

******

Sherlock era davanti al camino, voltato verso il divano ed inquadrava nel mirino il centro esatto dello smile giallo sulla parete di fronte. La freccia scoccò esattamente nel momento in cui John attraversò la porta di casa, conficcandosi nel muro con un rumore sordo.
“Quella è una balestra?” Domandò il dottore, immobile davanti all’entrata; ormai non si stupiva più delle armi assurde che poteva trovare in mano al proprio coinquilino.
“Hmhm.” Annuì Sherlock, mentre ricaricava l’attrezzo. “Balestra professionale da tiro.” Spiegò quindi, asciutto.
John alzò retoricamente le sopracciglia e si spostò in cucina, assimilando tranquillamente la novità, come qualcuno dalla vita normale accetterebbe delle tende nuove.
“C’entra qualcosa con l’omicidio del campo da golf?” Chiese ancora Watson, mentre posava sul poco spazio libero del tavolo quello che aveva in mano.
“Hmhm.” Annuì ancora Sherlock.
“Ma non era stato ucciso con una calibro nove?” S’informò John.
“Stesso diametro, arma diversa.” Rispose flemmatico il detective, continuando ad esaminare il mirino.
“Mrs. Hudson ti ha mandato una torta al rabarbaro.” Annunciò allora il dottore.
“Oh!” Fece Sherlock, voltandosi improvviso verso l’interlocutore. “Adoro le torte al rabarbaro di Mrs. Hudson!” Esclamò poi, lasciando la balestra ed andando a controllare il dolce.
John sorrise. Quelle torte erano una delle poche debolezze culinarie di Sherlock e la cosa non finiva di intenerirlo, cosa strana parlando di un odioso sociopatico grande e vaccinato.
“Metto su il the.” Affermò nel frattempo Sherlock, sorprendendo piacevolmente Watson, che però pensò che non avrebbe potuto goderselo insieme all’amico.
“Mi dispiace, ma… sto uscendo.” Il dottore fu costretto a dirlo a malincuore.
Il detective si girò verso di lui con espressione seria. “Qualcuno che conosco?” S’informò.
“Beh, ecco… sì, insomma…” Balbettò incerto John. “È il compleanno di Sarah, andiamo a bere qualcosa al pub, con altri suoi amici.” Confessò infine.
Sherlock, dentro di se, sentì qualcosa alleggerirsi. Appena aveva sentito parlare di un’uscita il suo cervello l’aveva collegata ad Angela, considerando vanificato il suo intervento. Invece non era andata così. E lui era sollevato.
“Capisco.” Commentò infine, con la sua solita impassibilità, celando come sempre i suoi pensieri tumultuosi.
“Vuoi… venire anche tu?” Domandò delicatamente John; Sherlock sbuffò un sorriso.
“Non credo che Sarah ne sarebbe felice.” Rispose poi, mentre accendeva la teiera. “Preferisco la torta di Mrs. Hudson.”
“Beh, allora… vado a cambiarmi.” Annunciò il dottore, facendo per dirigersi alle scale, ma si girò di nuovo. Sherlock lo guardò interrogativo. “Lasciamene una fetta, ok?” Disse, indicando il dolce.
Holmes sollevò le sopracciglia. “Non lo so, se torni presto.” Replicò furbo.
Il dottore rise, iniziando a salire le scale. “Questo è un ricatto!” Sbottò allegro.
“Forse sì.” Soggiunse Sherlock, la risata di John si perse sulle scale. “Basta che torni…”
“Hai detto qualcosa?” S’informò Watson, affacciandosi dal pianerottolo superiore.
“No, niente.” Fu la risposta pacata di Holmes.
Sherlock Holmes era un uomo che aveva passato la vita a costruirsi un’impenetrabile barriera fatta di ferrea logica, ignoranza delle emozioni e lucida deduzione. Non riusciva a capire – e questo lo confondeva – come qualcuno di così privo di logica, sentimentale e umano come John Hamish Watson fosse riuscito ad infiltrarsi fino a raggiungere un nucleo nascosto e vulnerabile del suo io. Evidentemente gli doveva essere sfuggita una falla, una crepa piccola e nascosta e lui se ne era approfittato. Eppure, nonostante avesse provato a farne a meno, imponendosi un monacale distacco, alla fine aveva dovuto arrendersi all’evidenza. Per quanto fallibile, illogico e comune lui fosse, Sherlock non poteva vivere senza John.
Ma questo, probabilmente, non glielo avrebbe mai confessato. Perché anche lui preferiva avere i suoi piccoli, sporchi segreti.

FINE


NOTE
-    non ho idea se ci sia un parcheggio interrato al Covent Garden, anche se presumo di sì (io ci son stata con la metro, quindi…), ad ogni modo, fate finta che ci sia, mi serviva ^_-
-    non so come mi è venuta l’idea della torta al rabarbaro, non so manco come si fa, però mi piaceva associarla a Mrs. Hudson!

Infine, un grazie di cuore a chi ha letto, messo nei preferiti, seguiti, ecc. questa storia e, soprattutto, a coloro che hanno lasciato un commento! Spero che sarete in tanti anche stavolta!
Un bacio!

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