Dirty Little Secrets di CowgirlSara (/viewuser.php?uid=535)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 1 *** Capitolo 1 ***
Sherlock DLS - 1
Ritorno
su questo fandom con la mia prima long fic. La storia è in
corso di lavorazione, cosa che potrebbe un po’ allungare i
tempi, ma state sicuri che arriverà tutto!
Questa
ff è frutto del mio amore per i racconti gialli e per la
serie della BBC, che – confesso – mi ha fatto
rivalutare Sherlock Holmes ^_^
Non
aspettatevi una trama di chissà quale livello, il giallo
sarà forse anche un tantino banale, ma quello che
m’interessava era soprattutto scrivere delle interazioni tra
Sherlock e John, perché li adoro sconfinatamente!
Beh,
adesso basta chiacchere, vi lascio alla lettura. Aspetto i vostri
commenti e spero che questo mio tentativo vi piacerà!
Enjoy!
Sara
Capitolo
1
Il dottor
Watson riuscì a guadagnare la via di casa solo dopo le sei
del pomeriggio. Era stata un’estenuante giornata di visite:
vecchiette con l’artrosi, bambini intasati di moccio, obesi
cardiopatici che non ne volevano sapere di smetterla con le schifezze
fornite da ogni tipo di take away rintracciabile sul suolo londinese.
Ma rientrare a casa non significava automaticamente trovare la pace ed
il riposo.
L’uomo,
come varcò la porta del 221B di Baker Street, si
ricordò che si prospettava un week end di quasi digiuno,
visto che, ad andar bene, il frigo conteneva solo provette, parti di
cadavere e qualche pezzo di formaggio ammuffito. Si rassegnò
ad uscire di nuovo, ma prima sarebbe stato meglio interpellare il
proprio coinquilino.
Il soggiorno e
la cucina erano immersi nel loro solito caos, ma privi di presenza
umana. Stava per mandare un messaggio all’altro occupante
dell’appartamento, quando sentì un rumore attutito
nella stanza accanto.
“Sherlock?”
Chiamò, aggrottando la fronte, mentre si girava in quella
direzione.
“Sì.”
Rispose semplicemente la voce del consulente investigativo.
Watson si
diresse verso la porta socchiusa alla sua destra e si sporse dentro la
stanza. Lo spettacolo era apocalittico.
Beh, ogni
superficie piana, incluso il letto, erano occupati da fogli, libri,
oggetti, ma non c’era niente di diverso dal solito modo in
cui viveva Sherlock. I suoi vestiti, però, erano sparsi a
raggiera nella stanza, come soffiati fuori dal guardaroba a muro, le
cui ante erano divelte e ciondolavano contro la parete.
John
spalancò gli occhi, entrando completamente nella stanza.
Sherlock era con la testa ficcata nell’armadio, in mezzo a
camicie che ciondolavano su stampelle rotte e calzini adagiati in cima
ad un cassetto scardinato.
“Ma
qui dentro è esploso qualcosa?” Domandò
ironico John.
“Hn,
sì.” Rispose tranquillo Sherlock, passando
dall’armadio al cassettone senza guardare l’altro.
Il dottore strabuzzò gli occhi.
“Davvero?”
Esclamò incredulo.
Sherlock si
voltò verso di lui, lo studiò serio per qualche
secondo, stringendo gli occhi e alzando il mento.
“Era
una battuta?” Chiese infine.
“Sì!”
Fece John allargando le braccia. “È veramente
scoppiato qualcosa?!”
“Sì.”
Annuì l’investigatore. “Un
esperimento…”
“Oh,
Santo Cielo…” Commentò il medico, poi
annusò l’aria. “C’è
puzza di bruciato…”
“Oh,
sì! Sono i miei capelli.” Dichiarò il
coinquilino. “Devo farmi una doccia…”
Aggiunse, prima di passargli accanto con aria assorta e scomparire
verso il bagno.
John, confuso,
diede ancora un’occhiata allarmata alla stanza devastata, poi
scosse la testa e tornò in soggiorno. Si sentiva chiaramente
lo scroscio dell’acqua in bagno.
“Sherlock,
io vado a fare la spesa, hai bisogno di qualcosa?”
Domandò infine, accostandosi alla porta chiusa.
“No.”
Rispose l’altro. “Ma se dovesse venirmi in mente,
ti mando un messaggio.” Aggiunse.
“Va
bene, ma fallo prima che io sia alla cassa…”
Vivere in
quella casa era una scommessa. Non sapevi mai se avresti mangiato,
bevuto, dormito con regolarità, se qualcuno ti avrebbe
sparato addosso, oppure rapito e imbottito di esplosivo, o se saresti
riuscito ad avere un appuntamento con una persona in pace.
Proprio quando
credeva di aver visto tutto, Sherlock superava di un altro poco il
confine dell’incredibile. Ma dopo teste mozzate in frigo,
colonie di muffe, bande di trafficanti di armi ceceni, donne che sono
uomini che fingono di essere donne, ormai cosa mancava? Un gatto
elettrificato e un coniglio nel forno? Anche se,
quest’ultimo, con patate e rosmarino, magari non era
male…
“Ricordami
di non prendere mai un animale domestico.” Affermò
John, parlando più a se stesso che a Sherlock dietro la
porta.
“Eh?”
Fece l’altro, chiaramente immerso sotto il getto.
“Niente,
niente… Vado, ci vediamo tra un po’.” E,
detto questo, discese le scale ed uscì in strada.
Il bislacco
sms di Sherlock lo raggiunse appena uscito dal supermercato, ovviamente.
«Ho
bisogno di un flacone di acqua distillata, un tubo di gomma diametro 1
cm e un piccione. SH»
Un piccione?!
Altro
messaggio.
«Il
piccione non è necessario che sia vivo, basta che abbia le
piume. SH»
Oh,
Sant’Oddio…
«Dove
te lo trovo un piccione con le piume? JW»
«Leicester
Square?SH»
Ma…
Col cacchio che ora s’imbarcava sulla Bakerloo per prendergli
un piccione! Che poi, era lecito appropriarsi di un piccione di
Leicester Square per farci esperimenti di discutibile natura? Rischiava
l’arresto?
Stava per
rispondere al messaggio, quando le sue priorità cambiarono
all’improvviso.
“John?”
Lo chiamò una gentile voce femminile.
Se
l’avesse chiamato un uomo non si sarebbe nemmeno voltato, ma
quella voce gli ricordava qualcosa… Si girò piano.
Lei era una
donna minuta, col viso ovale e due splendidi occhi blu, i capelli
biondi acconciati in onde delicate, la pelle bianca, abiti eleganti ma
sobri. La riconobbe subito.
“Angela…
Angela Blythe!” Esclamò sorpreso.
“John
Watson, quanto tempo.”
Poco dopo
erano seduti su una panchina; il piccolo giardino allietato dal primo
tiepido sole primaverile. I piccioni svolazzavano placidi, ignorando la
minaccia di Holmes.
“Dio,
sembra passata un’eternità, dai tempi della
Barts.” Affermò Angela, posandosi le mani in
grembo. John la guardava, era sempre bella come allora.
“Già.”
Commentò placido.
“Tu
che cosa fai adesso?” Gli domandò interessata la
donna.
“Lavoro
in un piccolo ambulatorio.” Rispose semplicemente lui.
“Tu, sempre nel reparto pediatrico?”
“Assolutamente.”
Annuì Angela. “Non c’è niente
di più bello che aiutare i bambini.” Aggiunse, ed
il suo sguardo si fece dolce, appena malinconico.
Il cellulare
di John emise un suono, impedendogli di continuare a godersi il bel
profilo della donna. Il dottore roteò gli occhi esasperato,
poi lo trasse dalla tasca e guardò il messaggio.
«Dove
sei? Ho fame! SH»
Sbuffò
e rimise l’apparecchio in tasca. Angela lo fissava
incuriosita.
“Qualcosa
di importante?” Gli chiese garbata.
“Hn,
no.” Fece lui vago. “Solo il mio coinquilino
bizzarro.” La donna, sorpresa, sorrise appena e
alzò le sopracciglia.
“Sembra
strano: tu con un coinquilino bizzarro.” Commentò
poi. “Sei sempre stato così…”
“Ordinario?”
Intervenne lui.
“Oh,
no!” Esclamò Angela, posando una mano sul suo
braccio. “Solo molto ordinato, preciso, serio.”
Spiegò quindi. John abbassò il capo.
“Non ti ho mai ringraziato per l’aiuto che mi hai
dato tante volte, se non ci fossi stato tu molti esami non li avrei
passati.”
“Non
sminuirti, sei sempre stata brillante.” Affermò
lui, con un sorriso tranquillo.
“Non
farlo tu, eri il migliore della classe!” Ribatté
lei con un grande sorriso, prendendogli d’impeto le mani.
John guardò le sue mani ruvide in mezzo alle sue, piccole e
bianche.
“Come
vanno le cose con James?” Le domandò improvviso.
Angela
sussultò, lasciò la presa e si ricompose sulla
panchina, guardando oltre la cancellata verde del giardinetto.
“Purtroppo,
siamo un po’ in crisi…”
Mormorò quindi, tormentandosi le mani. “Da qualche
tempo, lui vive in un piccolo appartamento nella City.”
“Oh,
mi spiace…” Soffiò sincero lui.
“No,
non farlo, gli ho chiesto io di andare.” Lo interruppe la
donna. “Non potevamo stare male in due.” Aggiunse,
prima di tornare a guardare John sorridendo. “Abiti qui
vicino?” S’informò, accennando alle
buste della spesa.
Il dottore la
fissò per un attimo, perplesso per il repentino cambio di
argomento. “Sì, in Baker Street.” Le
disse infine. “Tu cosa fai da queste parti?”
“Oh,
niente di che, una visita medica.” Rispose vaga Angela.
“Spero
niente di grave…”
“No,
tutto a posto.” Sorrise lei, poi gli prese di nuovo le mani.
“Dobbiamo cenare insieme, al più presto! Dammi il
tuo numero, così ti chiamo.”
La sorpresa
per quella inaspettata richiesta, rischiò di far sussultare
John, ma dopo un comprensivo attimo per riprendersi, fu felice di
acconsentire allo scambio dei numeri.
Non si era mai
dimenticato di Angela, anzi, lei era uno dei migliori ricordi dei tempi
della scuola di medicina, nonostante non avesse mai ricambiato il suo
trasporto. Forse perché non lo aveva mai saputo. Ma ora era
felice di poter riallacciare i rapporti.
Si salutarono
pochi minuti dopo e la donna lo stupì di nuovo, baciandolo
sulle guance.
Quando
arrivò in cima alle scale dell’appartamento,
Sherlock era fermò in mezzo al salotto. Si voltò
di scatto, sentendo i suoi passi sul pianerottolo.
“Finalmente!”
Esclamò il detective. “Il mio piccione?”
John
alzò gli occhi al cielo e si diresse in cucina senza
rispondergli; posò le buste su una sedia, visto che tavolo e
pensili erano ingombri dei soliti alambicchi di Sherlock.
“Allora?”
Fece l’altro seguendolo.
“Non
ti ho preso nessun piccione.” Rispose John, mentre riponeva
la spesa nei vari mobiletti.
“Perché?”
L’interrogò autoritario Sherlock, mani ai fianchi.
“Perché
non vai sul tetto e te ne prendi uno da solo?”
Replicò il dottore, agitando un barattolo di pelati.
“Sei
acido, John.” Commentò l’investigatore.
“Avrò
Saturno contro.” Sbottò l’altro,
passandogli accanto.
“Tu
non credi all’oroscopo.”
“Magari
oggi sì.”
“Non
si crede in qualcosa a giorni alterni.” Ribatté
scettico Sherlock. “E, comunque, tralasciando il piccione
– che non mi hai portato – io avrei fame.”
John
tornò verso la cucina, entrò, frugò in
uno dei sacchetti, tornò dall’amico e gli
posò una vaschetta in mano.
“Lasagne.
Due minuti nel microonde. Deliziose.” Dichiarò
asciutto.
Sherlock
guardò perplesso la vaschetta, poi alzò gli occhi
e seguì i movimenti di John nella stanza. Gli era successo
qualcosa e lui, sapeva cosa.
“Hai
incontrato qualcuno, fuori?” Chiese al proprio coinquilino.
John si
fermò col braccio a mezz’aria, mentre metteva a
posto la scatola del caffè. Merda. Pregò Dio che
Sherlock non stesse per fare quello che stava per fare. Oggi non era in
grado di sopportare la sua supponenza. Continuò a mettere
roba nello scaffale a sempre maggiore velocità, cercando di
ignorare il sorriso perfido che percepiva sulle labbra di Holmes.
“Vediamo…”
Continuò il detective, avvicinandosi. Lo annusò e
John strinse i denti. “È una donna, ma non
è Sarah, il profumo non è il suo.” Il
dottore si girò verso di lui, gli occhi bassi e
un’espressione arresa. “Sarah non è una
donna di classe e questo è un profumo costoso…
Una vecchia fidanzata.” Ipotizzò quindi, ma John
deviò gli occhi. “Oh, no, non lo
è… Una vecchia amica, oppure… una
compagna di studi.” John masticò a vuoto.
“Sì, una vecchia compagna della Barts, la tua
espressione me lo conferma, e non la vedevi da molto tempo,
perché ti ha baciato… sulle guance.”
Detto questo, gli passò un dito su una guancia e glielo
mostrò. “Rossetto.”
John
masticò, deglutì e fece una smorfia ironicamente
amara, prima d’incrociare le braccia.
“Bene,
hai dimostrato ancora una volta di essere il genio della
deduzione.” Sherlock gongolò appena. “E
allora?” Lo smontò immediatamente
l’altro.
Sherlock
spalancò gli occhi e lo fissò con
incredulità. Cos’era questa arroganza?
Dov’era la smisurata ammirazione con cui, di solito, John
ascoltava le sue deduzioni?
“Hai
fame? Mangia.” Concluse il dottore, indicando la vaschetta
che l’altro aveva ancora in mano, poi girò i
tacchi e salì nella propria camera.
L’investigatore
rimase in piedi in mezzo alla cucina, con le lasagne surgelate che gli
stavano pian piano incollando le dita. Poi si riscosse e
lanciò il cibo sul tavolo. Doveva sapere tutto di questa
donna! Santo cielo, faceva a John un effetto ben peggiore di Sarah,
c’era di che allarmarsi!
John ridiscese
al piano inferiore dopo pochi minuti. Aveva fame, inutile negarlo, ma
non avrebbe dato soddisfazione a Sherlock. Il suo coinquilino, per
fortuna, era alla scrivania con la testa infilata nel portatile.
Il dottore
andò in cucina a farsi un panino, visto che ora
c’erano gli ingredienti. Finito di preparare il sandwich, lo
mise in un piatto, fermamente convinto di consumarlo seduto in
poltrona. Arrivato in salotto, però, fu incuriosito dalle
attività del detective. Forse lavorava ad un nuovo caso.
Lo raggiunse
alla scrivania tra le due finestre e, da sopra la sua spalla,
sbirciò lo schermo del computer, mentre masticava il primo
morso del panino. Quando realizzò cosa stava studiando
Sherlock con tanta attenzione, però spalancò gli
occhi incredulo.
“Quella
è la foto della mia classe alla Barts!”
Esclamò a bocca piena.
“Hmhm.”
Annuì pensoso Sherlock. “Eri carino… Un
po’ un pulcino spettinato, ma carino.”
“Grazie…”
Soffiò sarcastico John.
“Lei
qual è?” Gli chiese allora
l’investigatore.
“Dimmelo
tu.” Lo sfidò il dottore; Sherlock gli
lanciò un’occhiata ironicamente retorica.
“Mhhh…”
Rimuginò, osservando ancora la foto. “Questa no,
troppo brutta. Questa non è abbastanza raffinata.
Questa… lesbica.” John lo guardò con
rimprovero, ma lui non se ne accorse. “Questa è
grassa e questa aveva una relazione con
l’insegnante…”
“Davvero?”
Intervenne sorpreso John.
“È
ovvio, John.” Replicò annoiato Sherlock, poi
indicò un punto in basso nell’immagine che stavano
guardando. “È lei.” Decretò
quindi. “Vediamo la didascalia…”
“Angela
Blythe.” Lo interruppe il medico. “È
lei, sì.”
“Hm,
però.” Commentò Sherlock, osservando
ancora la foto.
“Che
vuol dire?” L’interrogò John, la fronte
aggrottata, dopo essersi seduto sul bordo della scrivania.
L’amico si adagiò contro lo schienale della sedia
e incrociò le mani sul ventre.
“Anche
se non sono interessato alla merce, non significa che non riconosca una
bella donna.” Spiegò poi, con tono retorico, come
spiegasse ad un bimbo che non esiste Babbo Natale.
John
sospirò e scosse il capo. Lo scarso tatto di Sherlock
sarebbe certamente passato alla storia.
“Non
mi stupisco che ti abbia respinto.” Affermò
infatti, confermando i pensieri del dottore.
“Non
mi ha respinto.” Reagì debolmente John.
“Certo.”
Annuì il detective. “Perché tu non ti
sei mai proposto.”
Watson
alzò gli occhi al cielo. Già, doveva saperlo che
l’avrebbe capito. Gli dispiacque di essere così
banale ai suoi occhi.
“Lei
era interessata altrove…” Mormorò
abbassando il capo.
“Capisco.”
Annuì Holmes. “Credo che avrebbe scelto
più un tipo come… questo.” E
indicò un ragazzo nella foto. John guardò di
striscio e tornò ad abbassare il viso.
“James
Kubler.” Decretò. “Brillante laureando,
figlio di un baronetto della medicina, presidente del comitato
studentesco.” E marito di Angela, ma questo lo tenne per se.
“John,
non rammaricarti, non è colpa tua.” Intervenne
arido Sherlock. Lui lo guardò con espressione interrogativa.
“Si tratta solo di evoluzione della specie e conservazione
della stessa.” Continuò l’investigatore,
rendendo l’altro sempre più perplesso.
“Una donna come Angela è portata a scegliere un
maschio come questo James per affidargli il proprio corredo genetico,
in modo che i propri figli abbiano migliori possibilità di
trovare posto nella società.”
“Ah,
sì?” Fece John.
“Beh,
naturalmente!” Dichiarò Sherlock, allargando le
mani. “Lui era più prestante ed attraente di te, a
livello fisico, occupava una posizione sociale migliore e prometteva un
ottimo futuro.” Aggiunse. “Ed è un
maschio Alfa, cosa che tu non sei.”
“Sarà
per questo che ho deciso di fare lo zerbino a te.”
Sentenziò John, prima di alzarsi e tornare al piano di sopra
accompagnato dal panino.
Sherlock lo
seguì con lo sguardo, meravigliato per quella reazione. Oggi
John era particolarmente suscettibile! E dire che, se anche fosse stato
uno zerbino, sarebbe stato comunque il suo preferito, quello con
scritto «Benvenuto a casa»…
“Bah!”
Commentò basito, prima di tornare alle proprie indagini.
Un’ora
dopo, John si era assopito sul letto, ma un inconfondibile bussare
violento alla porta lo svegliò di soprassalto. Si
alzò lentamente ed andò ad aprire.
“Se
sei venuto a chiedermi scusa…” Esordì
il dottore, senza alzare gli occhi su Sherlock.
“Scusa?
Per che cosa?” Replicò quello stupito, poi
alzò il cellulare mostrandogli il display illuminato.
“Abbiamo un caso, sbrigati.” Gli
annunciò quindi, prima di inforcare di nuovo le scale in
discesa.
John
sbuffò arreso. Quell’uomo era assolutamente
incompatibile con la convivenza civile e Watson si disse che doveva
avere qualche tara genetica per aver scelto deliberatamente di dividere
una casa con lui. Si strusciò il viso e scese le scale.
Il luogo
dell’omicidio era un lindo condominio in un quartiere ancora
abbastanza cittadino da non essere degradato. Mattoni scuri e infissi
bianchi, simile a centinaia d’altri alla periferia di Londra.
Il dottor
Watson si sporse dalla balaustra in metallo scuro. Sotto: macchine
della polizia, il furgone della Morgue e le familiari strisce bianche e
blu della scena del crimine.
“È
qui.” Gli annunciò la voce di Sherlock; lui
alzò gli occhi e lo vide infilarsi dentro una delle porte
bianche, poco più avanti lungo il pianerottolo.
Era un
appartamento ordinato e luminoso, con mobili chiari; appena si entrava,
sulla destra, c’era un piccolo cucinino pulito e sistemato.
Davanti a lui, invece, un divano bianco e un cadavere sul tappeto. John
sospirò, la morte violenta continuava a turbarlo.
La vittima era
una ragazza esile, con lunghi capelli castano chiaro; indossava una
vestaglia blu scuro e giaceva riversa scompostamente a terra con la
tempia coperta di sangue, così come il tappeto inzuppato.
Schizzi di sangue imbrattavano il bordo e la seduta del divano,
coprivano la superficie di un tavolino di cristallo. Colpo alla testa
con oggetto contundente, concluse il medico.
“Un
paio di guanti?” Chiedeva nel frattempo Sherlock, allungando
la sua mano elegante verso Anderson della scientifica, ma senza
guardarlo.
“Mi
hai scambiato per il maggiordomo?” Replicò quello
piccato.
Holmes gli
rivolse una lunga occhiata supponente. “Ti manca il
tight.” Affermò infine, poi si avvicinò
al tavolo e prese da solo un paio di guanti.
John
lo imitò, prima di salutare Lestrade con un cenno, poi
guardò Sherlock, che lo invitò ad esaminare il
cadavere. L’investigatore, invece, cominciò a
girovagare per la stanza, aprendo sportelli, sbirciando nel frigo e nel
lavabo.
“Qualche
dettaglio?” Invitò quindi, gesticolando verso
l’ispettore.
“La
vittima si chiamava Holly Barnes, era una musicista della London
Simphony Orchestra.” Esordì il poliziotto,
leggendo dalla cartella che aveva in mano. “Ci hanno riferito
che nella prossima esibizione avrebbe dovuto fare un assolo, quindi le
era stato affidato un prezioso violino, un… Guarnieri del
Gesù, che non è stato reperito
nell’appartamento…”
“Cosa?!”
Esclamò Sherlock, bloccandosi in mezzo al cucinino con gli
occhi spalancati.
“Non
abbiamo trovato il violino in casa…”
Ripeté Lestrade perplesso.
“No!”
Esclamò impaziente l’altro. “Hai parlato
di un Guarnieri del Gesù!” Il poliziotto
annuì. “Hai idea di quanto valga, un violino del
genere?”
“Così
tanto?” Intervenne Watson.
“Io
direi, come minimo, tra il quarto e mezzo milione di
sterline.” Affermò il detective. John
spalancò la bocca incredulo.
“In
questo caso, se il valore dello strumento fosse accertato, potrebbe
essere il movente dell’omicidio.”
Commentò Lestrade.
“Non
credo.” Si limitò a sentenziare Sherlock, prima di
sparire in camera da letto.
“Non
vorrai dargli retta?!” S’informò
Anderson, rivolto all’ispettore. “Se il violino
vale così tanto, è ovvio che l’hanno
uccisa per quello!”
“Niente
è mai ovvio.” Affermò pacato Watson.
“Stia
attento, dottore.” Fece allora l’investigatore
scientifico, inguainato nella sua tuta blu usa e getta. “Ad
andare con lo zoppo…”
John
fissò per un attimo l’uomo. Aveva sempre pensato
che portasse un parrucchino. Se così non era, la sua
terrificante pettinatura era certamente l’opera di un
parrucchiere sadico. La risposta da dargli gli venne spontanea.
“A
volte si lascia il bastone.” Dichiarò, prima di
seguire Sherlock nell’altra stanza.
Entrato nella
camera da letto, John si trovò davanti Sherlock che lo
fissava impassibile. Il dottore assunse un’espressione
interrogativa.
“Potrei
amarti, John.” Dichiarò solenne Holmes. Watson
spalancò gli occhi incredulo.
“Co…
come?” Biascicò quindi.
“Corpo
e anima.” Fece Sherlock annuendo, sempre serio.
“P…
p… perché?” Balbettò John,
completamente confuso. L’investigatore, palesemente
spazientito, alzò gli occhi al cielo e allargò le
mani.
“Per
quello che hai detto ad Anderson!” Sbottò infine,
prima di dargli le spalle. “E riprenditi, era una
battuta!” Aggiunse, tornando vicino al letto.
John
sospirò. Non si sarebbe mai abituato alle uscite di
Sherlock. Era impossibile capire se fosse serio oppure no. E lo
coglieva sempre di sorpresa!
“Che
cosa mi dici di questa donna?” Come ora…
“Quale
donna?” Ribatté, infatti, il dottore disorientato.
“Santo
cielo, il mio fascino ti ha veramente devastato!”
Commentò l’altro senza ironia, mentre scrutava gli
oggetti sulla cassettiera. “La vittima, John! La morta, il
cadavere…”
“Ho
capito, ho capito!” Lo interruppe lui, prima che arrivassero
la salma e il feretro. Watson si guardò intorno.
“Era un tipo molto ordinato, non amava i colori
forti…”
“E
della sua vita sessuale?” Intervenne Sherlock, sempre
dandogli le spalle.
“La
sua… che cosa?!” Replicò John.
“Ti
prego, cerca di essere meno inglese, per un attimo.” Lo
supplicò secco il detective, voltandosi. “Cosa
pensi della vita sessuale di Miss Barnes?”
“E
che cosa posso saperne io!” Esclamò il dottore,
cercando di nascondere l’imbarazzo. “Magari ha un
vibratore nel primo cassetto del comodino!”
In tutta
risposta, Sherlock si avvicinò al mobile ed aprì
proprio quel cassetto, sotto lo sguardo allibito del collaboratore, poi
fece un’espressione compiaciuta.
“Niente
vibratori.” Affermò quindi. “Solo
preservativi e…” Sollevò la mano in cui
teneva un tubetto azzurro e ammiccò a Watson.
“…lubrificante.”
John
sospirò e scrollò il capo. “Ok, aveva
una vita sessuale più fantasiosa del suo
arredamento.”
“Sì,
decisamente attiva.” Concordò Sherlock.
“Ci sono tracce di fluidi corporei sul
copriletto…”
Lestrade
entrò nella stanza, proprio mentre lui faceva
quell’affermazione indicando la coperta.
“Allora,
concluso qualcosa?” Domandò l’ispettore.
“Concluso
no, dedotto sì.” Rispose Holmes, mentre prendeva
in mano una cornice. Era una foto della vittima insieme ad un uomo
più anziano in una posa molto amichevole. “Devo
parlare con quest’uomo.” Aggiunse, indicando la
fotografia.
“Dammi
il tempo di scoprire chi è…” Fece
Lestrade.
“Si
chiama Wolfgang Stoltz, è tedesco e dirige
l’orchestra in cui suonava la Barnes.”
Affermò Sherlock; gli altri due lo fissavano ad occhi
spalancati. “Che c’è? Mi piace la musica
classica.”
“Senti.”
Esalò Lestrade, dopo alcuni istanti di attonito silenzio.
“Non abbiamo molto tempo, tra poco arriva il coroner per
portarla via e…”
“Quindi,
veniamo alle cose serie.” Lo interruppe Sherlock, prima di
battere e strusciarsi le mani, poi iniziò a camminare nella
stanza. “Come concordavamo poco fa io e il dottor Watson,
Miss Barnes era una donna molto ordinata, precisa,
meticolosa.” Gli altri due annuirono in religioso silenzio.
“Lo posiamo dedurre dalla sua casa, dalla simmetria nella
disposizione dei soprammobili, dalla precisione con cui riportava i
propri impegni sull’agenda – posata sul banco della
cucina, come avrete certamente notato…” John e
Lestrade si scambiarono un’occhiata imbarazzata.
“Era così meticolosa da riportare sempre anche il
giorno in cui arrivava il ciclo mestruale…”
“Scusa,
e questo da cosa lo avresti capito?” Intervenne Watson
curioso.
“Semplice.”
Fece Sherlock allargando le mani. “Ogni suo impegno era
segnato nell’agenda immancabilmente da una penna a sfera
nera, ma, periodicamente, con una cadenza di circa ventotto giorni uno
dall’altro, il numero indicante la data è stato
cerchiato da un pennarello rosso a punta larga. E l’unico
motivo per cui una donna fa questo…”
“Ok,
ho capito.” Annuì John.
“Continua.” Lui non si fece pregare.
“Entrando
in questa stanza, mi sono immediatamente accorto della foto di Stoltz.
L’uomo abbraccia con fare fin troppo confidenziale la Barnes
e lei teneva quella fotografia in un posto di una certa importanza:
vicino alla specchiera e, perfino, davanti a quella della propria
famiglia.” Fece notare l’investigatore, indicando
agli altri posizione e rilevanza della foto. “Ora, siamo
sicuri che non ci siano rapporti di parentela tra i due, ma certamente
c’è una relazione abbastanza importante, visto il
tipo di foto, dove è messa ed il fatto che alla vittima
fosse stato affidato un assolo nella prossima esibizione e la custodia
di un prezioso strumento musicale.” Continuò
Sherlock, mentre si muoveva ancora nella stanza, certo della completa
attenzione del proprio esiguo pubblico. “Visto quello che
abbiamo scoperto e, cioè, che Holly aveva una vita sessuale
piuttosto attiva, possiamo supporre che Stoltz sia, o sia stato, uno
dei suoi amanti. E qui torniamo all’agenda.”
“Come:
all’agenda?” Domandò confuso
l’ispettore.
Sherlock
roteò gli occhi e poi rivolse un’occhiata
compassionevole al poliziotto. “Come ho detto prima, la
vittima segnava in modo regolare il proprio ciclo mestruale, ma questo
non avveniva più da circa tre mesi.”
Spiegò quindi. “Controllando il suo frigorifero
l’ho trovato pieno di frutta e verdura fresca e questo ci
dice più del fatto che era una giovane donna preoccupata
della propria salute e forma fisica, anche
perché…” John era pronto alla
rivelazione finale. “…in uno degli armadietti ho
trovato un flacone contenente un insieme vitaminico arricchito di acido
folico.”
“Tu
pensi che fosse incinta?” Gli chiese stupito John.
“No,
io non lo penso.” Rispose Sherlock. “Io ne sono
certo.”
“Questo
è impossibile dirlo, prima
dell’autopsia.” Affermò Lestrade.
“Oh,
no, ti sbagli.” Lo corresse immediatamente Holmes.
“Sul mobiletto accanto al televisore c’è
un referto della clinica Brown & Ross – a due passi
da Baker Street tra l’altro - che non è
soltanto specializzata in problemi della fertilità, ma offre
anche servizi alle donne in gravidanza e da questo capisco che, non
solo era incinta, ma voleva tenere il bambino.” Concluse
quindi.
“E
tutto ciò, cosa ci dice dell’assassino?”
S’informò il poliziotto.
“È
stato un delitto d’impeto.” Affermò
Sherlock, cercando conferma nell’espressione di John, che
annuì. “Sicuramente avvenuto durante una
discussione. E una discussione può essere stata provocata
soltanto dalla gravidanza.”
“E
il violino?” L’interrogò Lestrade.
“Il
violino non c’entra niente.” Si limitò a
decretare Holmes, stringendosi nelle spalle. “Ma se la
questione ti preoccupa tanto, vedrò di
occuparmene.”
“Sì,
preferirei.” Precisò l’ispettore
annuendo.
“Come
vuoi.” Fece Holmes stringendosi nelle spalle. “Tu
fammi sapere dove trovare Stoltz.”
“Vedrò
di prenderti un appuntamento.” Gli disse il poliziotto.
“Non
c’è bisogno dell’appuntamento, voglio
coglierlo di sorpresa.” Soggiunse immediato il detective, con
uno sguardo tagliente.
“Non
se ne parla!” Sbottò Lestrade. “Quello
è tedesco, non vorrai far scoppiare un incidente
diplomatico?” Aggiunse preoccupato.
“Come
se fosse la prima volta.” Ribatté incurante
Sherlock, facendo un gesto vago con la mano mentre si allontanava. John
e Lestrade si guardarono e non c’era bisogno delle parole per
esprimere i loro allarmati interrogativi.
Dopo pochi
altri particolari – come la testimonianza di una vicina sui
rumori di una discussione proveniente dall’appartamento della
vittima – Sherlock e John se ne andarono. Holmes aveva anche
scattato alcune foto col cellulare, preso copia di alcuni file di
Lestrade e raccomandato di fargli avere il referto
dell’autopsia.
Era ormai sera
quando uscirono dall’appartamento del delitto ed il telefono
di Watson squillò proprio mentre scendevano in strada.
“Pronto?”
Rispose il medico.
“Ciao,
John.” Salutò una voce femminile.
“Angela!”
Esclamò lui, piacevolmente sorpreso. “Che piacere
sentirti.”
“Ti
chiamavo… per quella cena…” Fece lei,
un po’ esitante. John si stupì che la donna lo
avesse cercato così presto, dopo il loro incontro della
mattina.
“Sei
ancora dell’idea di perdere una serata a parlare dei vecchi
tempi?” Le chiese però, con tono scherzoso.
“Niente
potrebbe farmi più piacere!” Ribatté
allegra Angela. “Ti andrebbe domani sera?” Aggiunse
dolcemente.
“È
perfetto.” Acconsentì veloce John.
“Non
vedo l’ora.” Replicò lei. “Ti
aspetto alle otto.”
Quando John,
con un sorriso contento, rialzò il capo dopo aver chiuso la
chiamata, trovò Sherlock a fissarlo. Era appoggiato ad un
lampione, con le braccia incrociate e lo trapassava con quei suoi occhi
glaciali e vivissimi. Watson scosse piano il capo e lo raggiunse,
mentre l’altro si voltava e fermava un taxi.
CONTINUA
Ah, con l'occasione ringrazio coloro che hanno letto la mia one shot
"The Distance" (scusatemi non riesco a mettere il link -_-), anche
quelli che non hanno lasciato commenti. Grazie a tutti! A presto!
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Capitolo 2 *** Capitolo 2 ***
dls
Eccoci col secondo capitolo! Scusatemi se
aggiorno di rado, però purtroppo i miei tempi sono un tantino lunghi,
ultimamente... Ringrazio ancora chi ha commentato il primo capitolo e anche
quelli che seguono la storia in silenzio.
Vi lascio alla lettura e aspetto, come
sempre, la vostra opinione!
Baci
Sara
- Capitolo 2 -
John si stava preparando
minuziosamente. Si era fatto la barba, messo una camicia pulita e
stirata – dalla signora Hudson – e ora stava tentando di
pettinarsi in modo decente, nonostante la grandezza dello specchio
gl’impedisse di vedersi tutta la testa insieme.
“Ci siamo profumati.” Commentò una voce fin troppo acida per appartenere al suo proprietario.
Watson girò il capo.
Sherlock era in piedi nel riquadro della porta, rivestito di pigiama e
della sua vestaglia azzurra; lo fissava serio, mantenendo la sua
postura impeccabile.
“È così
che si fa per un appuntamento.” Affermò compunto John.
“Ci si lava, ci si sbarba, si mette un vestito decente e
pulito…”
“Sì,
sì!” Lo interruppe l’altro, mentre gli dava le
spalle e gesticolava in modo teatrale. “E si comprano dei fiori,
si dicono frasi insulse e si fanno un sacco di altre cose
inutili…” Continuò, tornando in soggiorno.
“Arido come un deserto…” Biascicò sottovoce John, mentre scuoteva il capo.
“Come?” Intervenne improvviso Sherlock, riaffacciandosi nel bagno e facendo sussultare il dottore.
“Niente,
niente…” Divagò John, negando col capo. “E
puoi smetterla di stare lì, come un avvoltoio sulla carogna: non
ti dirò con chi esco, ne dove vado, ne quando torno.”
Dichiarò poi, deciso.
Sherlock sbuffò una
risata. “Non insultare la mia intelligenza, John.”
Affermò quindi. “Vai a cena con la tua vecchia amica della
Barts e, quanto al dove, sarebbe fin troppo facile scoprirlo… se
m’interessasse.”
Detto questo, girò i
tacchi – se questo si può dire di uno a piedi nudi –
e sventolando la vestaglia tornò in salotto. John restò
davanti al lavandino, in attesa del ritorno trionfale di Sherlock per
la sua ultima parola. Ci vollero pochi secondi.
“E tornerai se e
quando io ti chiamerò.” Sentenziò infatti, prima di
sparire in via definitiva. E Watson sapeva che, nonostante la cosa gli
desse fastidio, era del tutto vero.
Quando John fu uscito per
il suo appuntamento galante, Sherlock poté smettere di
interessarsi alla disposizione dei libri nella libreria, facendo finta
che niente avesse più importanza. Buttò l’ultimo
volume che aveva in mano sul tavolino e si sedette mollemente sulla
poltrona nera.
Gli appuntamenti
rientravano in quelle cose comuni al genere umano che proprio lui non
comprendeva. Se due persone si piacevano, perché fare quella
guerra di accerchiamento, quella giostra d’inviti, quel gioco a
“voglio stupirti”?
Le poche volte che gli era
capitato di avere appuntamenti – sì, perché era
capitato anche a lui – non era mai stato lui a proporlo. Le
ragazze lo portavano in luoghi inutili e noiosi. Perché fare
certe cose, quando quello che si desiderava era tutt’altro? Se
vuoi fare sesso, dimmelo e basta, se sono della stessa opinione,
possiamo concludere, altrimenti… te lo dico in faccia. No?
Probabilmente John avrebbe
pensato che lui era un gretto essere materialista e completamente privo
di tatto… Stupido John!
Lo stare lì a
rimuginare sulle inutili opinioni del dottor Watson avrebbe sicuramente
mal giovato alla sua digestione, nonché al suo umore.
Si alzò dalla
poltrona in un balzo, sfilandosi teatralmente la vestaglia azzurra, poi
si diresse verso la propria camera, deciso a vestirsi. Forse
c’era qualcosa che poteva fare, per non pensare alle implicazioni
dell’appuntamento di John.
Il dottor Watson
entrò con una certa agitazione nel lussuoso appartamento di
Chelsea dove viveva Angela. Era in ansia perché si era sempre
sentito inadeguato all’ambiente frequentato dalla donna, dai suoi
amici ricchi e belli, e alti.
Angela, fortunatamente fu
così accogliente da sciogliere quasi subito la sua
preoccupazione; dopo i convenevoli ed un necessario bicchiere di vino,
si spostarono a tavola, senza mai smettere di sorridere. Per la prima
parte della cena parlarono più che altro dei vecchi tempi, alla
Barts.
“Insomma.”
Esordì Angela, quando ebbero finito di gustare un ottimo arrosto
di maiale che John aveva sognato praticamente ogni notte da quando
stava a Baker Street. “Parlami un po’ di te, del tuo
lavoro.” Lo spronò la donna.
John abbassò il capo
timidamente. “Non è niente di che, la clinica è
piccola, si occupa principalmente della gente del quartiere.”
Affermò, prima di tornare a guardarla. “Il lavoro è
di routine, soprattutto prescrizioni, piccole visite…”
“Perché non
hai provato a tornare in ospedale?” Gli chiese Angela, mentre
versava un altro bicchiere di vino ad entrambi.
“Beh, la clinica
è un buon compromesso, è vicina a casa e poi… Mi
lascia sufficiente tempo libero.” Spiegò lui, prima di
sorseggiare ancora l’ottimo rosso.
“Ma come? Ti sei trovato un hobby?” Reagì sorpresa la donna.
Ecco, paragonare il suo
rapporto con Sherlock ad un hobby era decisamente sottovalutarlo. Non
che John avesse definizione più giusta. Ma un hobby era qualcosa
di rilassante, da fare per staccare il cervello dai problemi della
vita. Sherlock Holmes era uno che te li creava i problemi. Ma niente ti
faceva sentire vivo come scappare con lui attraverso i vicoli di Londra.
“No, in
realtà… do una mano al mio coinquilino…”
Anche questo era riduttivo. “Lui… fa un lavoro un
po’ particolare, si occupa di crimini, indagini, collabora con la
polizia… A volte ha bisogno di un parere esterno,
ecco…” Cercò di spiegare. Lei lo fissava
interrogativa.
“Un parere medico?” Fece infatti.
“Non
esattamente…” Il parere di una mente comune, avrebbe detto
Holmes, ma John voleva sperare che la sua opinione contasse in quanto
sua, che non sarebbe andato bene chiunque.
“Non capisco…”
“Ti prego, parliamo
d’altro, non è così importante.”
Replicò subito John, prendendole la mano sul tavolo. Lei la
guardò, poi parve riscuotersi, si alzò.
“Vado a prendere il dessert, tu spostati sul divano.” Gli disse, prima di allontanarsi velocemente dal tavolo.
Poco dopo, un imbarazzato e
rigido John, ricevette il suo piattino con un’ottima zuppa
inglese. La mangiò distrattamente, mentre guardava Angela
versare il caffè nelle tazze di fine porcellana bianca.
L’atmosfera si era fatta improvvisamente più intima, le
loro ginocchia si sfioravano e il dottore ripensava, con pena, ai
pomeriggi passati a studiare con lei senza il coraggio di dirle che era
cotto come un prosciutto.
“È stata una
fortuna averti incontrato di nuovo, così per caso.”
Affermò Angela, porgendogli la tazza; lui la prese per
riappoggiarla subito sul tavolino.
“Già.” Annuì poi.
“Le notti passate a
studiare con te, sono tra i più bei ricordi che ho della scuola
di medicina.” Confessò la donna, guardandolo negli occhi.
“Permettimi di
dubitare.” Replicò disilluso John. “Tu avevi un
sacco di amici, andavi a certe feste, frequentavi il circolo del
tennis…”
“Oh, John, non
farlo!” Esclamò Angela, prendendogli il braccio.
“Non sminuirti! Lo hai sempre fatto e non l’ho mai
sopportato. Sei sempre stato intelligente e dolce, una persona
sensibile, dall’animo nobile…”
“Non farmi tutti questi complimenti.” Ribatté lui, abbassando lo sguardo.
“John.” Mormorò la donna, prima di prendergli il mento con le dita per fargli rialzare il viso.
Si guardarono, lei aveva
una luce strana negli occhi. Una luce che forse Sherlock avrebbe
interpretato nel modo giusto, ma che riuscì solo a confondere
John. Angela, ormai, gli teneva il volto tra le mani e lo fissava
intensamente.
“John, se solo tu avessi creduto più te stesso, io…” Sussurrò Angela.
“Non dirlo… non…” Tentò di replicare lui.
Ma non finì la
frase, perché lei gli strinse le braccia intorno al collo,
baciandolo appassionatamente. John si ritrovò schiacciato contro
lo schienale del divano, con il corpo soffice e caldo di Angela
aderente al proprio. Dopo un attimo di smarrimento, le posò
delicatamente le mani sulla vita sottile e rispose al bacio. In fondo,
lo aveva sognato per anni.
Il contatto fu lungo e
sensuale, o forse lo sembrò a lui, perché quel gesto
inaspettato gli fece perdere la cognizione del tempo. Poi, però,
all’improvviso Angela si fece rigida e si staccò da lui,
abbassando il capo e tenendo John lontano con le braccia.
“Mio Dio, cosa ho
fatto…” Esalò la donna, quindi si alzò in
piedi, continuando a non guardare lui.
“Angela, io…” Provò John.
“Dio, non so cosa mi
sia preso, scusa!” Lei continuava a rammaricarsi senza
ascoltarlo. “Io… è un periodo difficile,
però… Santo cielo! Forse è meglio se vai a casa,
adesso.”
John, con la testa che
ancora gli girava un po’, si alzò dal divano,
aggiustandosi la camicia, quindi seguì Angela verso
l’atrio, dove lei gli consegnò la sua giacca.
“Angela, io…
Ecco…” Balbettò il dottore, incerto su cosa dire
per la repentina fine della serata; era imbarazzato e incredulo.
“È stata una bella… cena, grazie.”
“Scusami ancora.” Mormorò timidamente la donna, mentre gli apriva la porta. “Buona notte.”
“Buona…
notte.” Fece lui, ma finì la frase che la porta si era
già richiusa davanti alla sua faccia.
John scrollò il capo
sconsolato, dicendosi che quella non era che la sua ennesima serata
sfigata della quale Sherlock gli avrebbe letto i segni addosso per
almeno tre giorni. Arreso, si diresse verso la via principale, deciso a
fermare un taxi.
Sherlock, nel frattempo,
era reduce da un’uscita ben più fruttuosa e stava tornando
verso Baker Street con qualcosa che, se non era una prova, era per lo
meno un immenso tesoro.
Il mattino dopo John fu
svegliato dal suono armonioso di un violino. Non ne era infastidito,
come a volte capitava con le performance di Sherlock, che sembrava
ingegnarsi per stridere l’archetto sulle corde. Il suono, quella
mattina, era più profondo, più vibrante, più
delicato.
Incuriosito, il dottore scese le scale ancora in pigiama.
Sherlock era in piedi
davanti alla finestra e suonava apparentemente molto preso. John
sorrise, mentre metteva sul fuoco l’acqua per il the. Lo
sorprendevano sempre piacevolmente queste mattinate tranquille e
familiari. Il finale della serata precedente era quasi dimenticato.
Quando il the fu pronto,
John si mise a sorseggiarlo appoggiato allo stipite della cucina,
gustandosi la musica che ancora stava producendo il suo coinquilino.
Uno svolazzo di melodia
più acuto concluse la privata esibizione, seguita da un sorriso
più ampio del dottore, mentre Sherlock toglieva lo strumento da
sotto il mento e scuoteva i riccioli.
“Complimenti.” Esordì John. “Stamattina sei stato particolarmente bravo.”
“Sarà stato merito del violino.” Replicò Sherlock, ancora voltato verso la finestra.
John spalancò gli
occhi, nell’esatto istante in cui il suo cervello fece il
collegamento; si avvicinò immediato al coinquilino.
“Non sarà quel violino?!” Domandò allarmato.
“Naturalmente.” Rispose tranquillo l’altro, riponendo lo strumento nella sua custodia.
“Mio Dio, Sherlock! Hai toccato il violino! E se c’erano delle prove, delle impronte…”
“Stai
tranquillo.” Lo rassicurò lui, con quella sua flemma
schifosamente britannica. “Sullo strumento non c’erano
impronte, è stato pulito. Ce ne sono alcune sulla custodia, ma
scommetto che risulteranno assolutamente irrilevanti al fine del caso,
anche dopo l’analisi della scientifica.” Aggiunse, dopo
essersi versato a sua volta una tazza di the.
John si avvicinò
alla scrivania, dove era stato posato lo strumento. Il legno rosso e
lucido brillava quasi, colpito dal sole proveniente dalla finestra. Era
veramente bello, si capiva che era prezioso. Il dottore non ebbe il
coraggio di toccarlo.
“Dove lo hai trovato?” Domandò a Sherlock. Lui sospirò, tornandogli vicino.
“Ieri sera sono
uscito per dimostrare la mia teoria e, infatti, ho riscontrato la
conferma che cercavo.” John lo guardò, spronandolo con gli
occhi a proseguire, qualcosa che Sherlock adorava. “Ho trovato la
custodia in un sottoscala a qualche isolato dalla casa della
vittima.”
“Nessuno che lo
avesse rubato per il suo valore, uccidendo per giunta, lo avrebbe mai
buttato via così.” Commentò il dottore. Sherlock lo
fissò sorpreso.
“Vedo che sei
brillante anche tu, stamattina.” Affermò poi compiaciuto.
John avrebbe mentito a se stesso, dicendosi che i suoi complimenti non
gli facevano particolarmente piacere. “Ad ogni
modo…” Riprese l’investigatore. “…chi
ha abbandonato il violino, o non ne conosceva il valore, o lo ha
semplicemente fatto per intorbidire le acque e confonderci sul movente
del delitto.”
“Già.”
Confermò John annuendo. “Quindi sei sempre più
convinto che il delitto sia legato alla gravidanza?” Sherlock
semplicemente annuì, mentre cercava qualcosa sulla scrivania.
“È per questo
che dobbiamo cominciare col lavoro serio.” Dichiarò
quindi, rialzandosi con sguardo trionfante; si girò verso John e
gli mise in mano due biglietti. “Tira fuori lo smoking, stasera
andiamo a teatro.”
Il dottore abbassò
gli occhi sui due tagliandi per il concerto della London Simphony
Orchestra, diretto da Wolfgang Stoltz. Sospirò.
“Sherlock, io… non ho uno smoking.” Ammise infine, con una smorfia.
Il suo coinquilino si voltò di scatto verso di lui con un’espressione incredula e un po’ sconvolta.
“Non hai uno
smoking?” Ripeté. “Oh, andiamo! È come dire
che non hai un tight per le cerimonie!”
John fece un sorrisetto retorico. “Veramente non hai un tight?”
“Io non so dove sei
cresciuto tu.” Ma bastava vederlo per dire «buona famiglia,
buone scuole», pensava John. “Però dove sono
cresciuto io, non si mette molto il tight…”
“Hm.” Fece
Sherlock, con uno svolazzo di mano. “Non importa puoi prendere lo
smoking in affitto.” Aggiunse, mentre si dirigeva in camera.
“Sh… Sherlock,
io… Mi costerà mezzo stipendio, cazzo…”
Biascicò arreso il dottore.
Il teatro, tirato a lucido
per la serata di gala, era luccicante e pieno di gente sofisticata
grondante di abiti firmati e gioielli. Il dottor Watson aggiustò
la giacca del suo smoking senza riuscire a togliersi la sensazione di
disagio che aveva addosso. Il completo, oltre ad essergli costato 250
sterline di cauzione, gli andava un po’ corto di cavallo, cosa
che lo stava infastidendo più del dovuto. In più…
Lanciò
un’occhiata a Sherlock, che osservava attento e curioso la folla.
Si muoveva elegante e padrone della situazione e lo smoking gli stava
tanto bene che ci sembrava nato dentro.
Merda…
Sospirò John nella propria testa. Moriva dalla voglia di
grattarsi le parti basse, ma non sarebbe stato esattamente da lui, ne
adatto alla circostanza…
“Penso che dovremo
agire nell’intervallo, ho già valutato la situazione e le
possibilità sono…” Esordì Sherlock, tanto
vicino all’orecchio di John che lui poteva quasi sentire la
condensa.
“Devo andare in bagno.” Mormorò il dottore.
“Sì, ma sbrigati, non mi va di entrare da solo.” Ribatté l’investigatore.
“Ah… Vuoi che ti prenda a braccetto?” Fece Watson ironico.
“Non mi sembra il
caso, ancora non siamo sposati.” Replicò serio
l’altro; si scambiarono uno sguardo e risero.
“Conserva la tua virtù, torno subito.” Affermò infine John, allontanandosi verso la toilette.
John dovette ammettere che
lo spettacolo era stupendo. Gli orchestrali erano veramente dotati e,
pur non capendo niente dell’argomento, doveva esserlo anche il
maestro Stoltz, per riuscire a fargli produrre tali armonie.
Si godette la musica per
tutta la prima parte, accanto ad uno Sherlock concentrato e,
all’apparenza, compiaciuto. I suoi occhi chiari brillavano nella
penombra. John si distrasse un attimo osservandoli e trasalì,
quando la mano di Sherlock gli afferrò il polso. Il detective,
senza staccare gli occhi dal palco, si abbassò lievemente verso
di lui, per sussurrargli.
“Agiremo tra
poco.” Gli disse. “So per certo che il maestro esce
velocemente dal retro alla fine del concerto, quindi dobbiamo farlo
prima.”
“O… ok…” Balbettò John.
“Stammi dietro,
appena comincia l’interruzione.” Ordinò Sherlock,
prima di lasciarlo e tornare a dedicarsi alla musica.
Quando, però,
arrivò l’intervallo, i due furono separati dalla folla.
John ricevette un messaggio scocciato di Sherlock che gi comunicava di
aspettarlo al bar, così il dottore si spostò in quella
direzione. Ed ebbe una bella sorpresa.
“Angela…” Mormorò, stupito davanti all’amica.
“John! Che sorpresa…” Replicò lei, splendida nel suo abito da sera color petrolio.
Si salutarono con un bacio
sulla guancia, poi il dottore le offrì da bere e si spostarono
al bancone. John si era già colpevolmente dimenticato
dell’accordo con Sherlock.
“Vorrei scusarmi di nuovo con te, John.” Riprese la donna, mentre aspettavano di essere serviti.
“E per che cosa?” L’interrogò lui, retoricamente, perché sapeva bene di cosa stava parlando lei.
Angela abbassò gli
occhi e si tormentò nervosamente un anello. “Il modo in
cui mi sono comportata ieri sera è stato inopportuno e
spiacevole…” Affermò quindi.
“Oh, no.”
Rispose lui. “Forse un tantino imbarazzante, ma di certo non
spiacevole, anzi.” Aggiunse, ripensando al corpo profumato della
donna contro il proprio ed al bacio che li aveva uniti.
“Non so proprio come
farmi perdonare per essere stata così spudorata, io di
solito…” John la interruppe, prendendole la mano. Lei lo
guardo e lui le sorrise dolcemente.
“La prossima volta
forse dovremmo uscire in pubblico, così sarà più
facile controllare i nostri istinti.” Suggerì garbato, ma
con un filo di malizia.
“Oh, John…”
“John, ti voglio
adesso.” Intervenne una voce profonda, interrompendo il discorso.
Un’ombra alta aveva coperto la luce alle spalle del dottore e lui
roteò gli occhi arreso.
“Dobbiamo farlo ora,
l’intervallo durerà ancora poco.” Era normale che il
suo tono fosse così allusivo e calcante sui doppi sensi della
frase?
“È l’unico momento in cui possiamo agire senza troppi fastidi…”
“Stai disturbando la
mia conversazione.” Dichiarò John infastidito. Sherlock
alzò la testa dando un’occhiata vaga alla situazione.
“Non è importante.” Sentenziò, prima di afferrare il medico per un braccio.
“La mia vecchia amica
Angela Blythe, il mio coinquilino Sherlock Holmes.”
Presentò velocemente Watson, cercando di non essere strappato
via dallo sgabello.
La donna si sporse
incuriosita, ma anche l’investigatore, sentito il nome
dell’interlocutrice del dottore, alzò un sopracciglio
chiaramente interessato. Allungò una mano, quasi scostando il
dottore.
“È un piacere.” Affermò, stringendo delicatamente la mano che gli veniva porta da Angela.
John si accorse
immediatamente dello sguardo scanner che era partito dagli occhi di
ghiaccio di Holmes. Conosceva troppo bene quel tipo di analisi e non
gli piaceva affatto che il soggetto fosse Angela.
“John mi ha parlato
di lei, Signor Holmes.” Disse la donna, mentre lui le lasciava la
mano e si aggiustava elegantemente la giacca.
“Spero non troppo male.” Replicò garbato. E ruffiano come solo lui sapeva essere.
Angela rise appena. “Oh, no! Però non ho esattamente capito di cosa si occupa…”
“Sono un consulente investigativo.” Rispose Sherlock.
“Stiamo collaborando
con la polizia per il delitto della violinista.” Intervenne John,
che era piuttosto infastidito dalla piega che stava prendendo la
faccenda.
“Dio mio, ho letto… che tragedia…” Commentò colpita la donna.
“Sì… a
tal proposito… Non abbiamo qualcosa da fare, Sherlock?”
Riprese il dottore, scostando l’amico dal bancone.
“Oh, sì…” Mormorò l’altro, colto di sorpresa.
“Mi dispiace, ma
è urgente.” Aggiunse il dottore rivolto alla donna.
“Ti chiamo domani, Angela, buona serata.” E detto questo,
portò via Sherlock quasi di peso.
Camminarono sbrigativamente
verso la porta del backstage e, seppure questo non dispiacesse al
detective, era curioso di sapere da dove era uscita tutta quella fretta.
“Non sembravi
così pronto ad abbandonare la tua chiacchierata, prima che
arrivassi io.” Affermò Sherlock, quando si fermarono.
“Lo so che cosa stavi
facendo con lei.” Sibilò il dottore. Holmes fece
un’espressione innocente. “Oh, sì! Le stavi facendo
la radiografia e non mi sta bene!”
“Invece, ci sono due o tre cose che…”
“Tienile per
te!” Sbottò John, interrompendolo. “Non voglio
sapere niente di quello hai capito di lei, non voglio conoscere le tue
deduzioni e le tue certezze, voglio vivere questa cosa così come
viene, quindi ingoia il rospo e taci.”
Sherlock alzò
incredulo le sopracciglia, ultimamente John stava diventando un
po’ troppo suscettibile. L’investigatore, ad ogni modo,
decise di tenere per se le conclusioni tratte dalla sua osservazione di
Angela, potevano tornargli utili in un altro momento. C’era
Stoltz di cui occuparsi.
“Bene.”
Assentì quindi, glissando sulla permalosità del dottore.
“La porta del backstage è laggiù, se tu riuscissi a
distrarre per qualche secondo la guardia, io potrei entrare
e…”
John lanciò
un’occhiata al nerboruto uomo vestito di scuro che stazionava
proprio sotto il cartello indicante il backstage. Era più alto
di Holmes e pesava almeno cinquanta chili di più.
“Forse ho un’idea per entrare entrambi.” Affermò, dopo qualche attimo di osservazione.
“Davvero?” Fece Sherlock; lui lo guardò male.
“Guarda che non sono un totale idiota, come credi tu.” Replicò offeso.
“Oh, John, caro… Sottovaluti sempre la considerazione che ho di te.” Scherzò sarcastico l’altro.
“Se fai così, me ne vado subito…”
“Non farmi perdere
altro tempo!” Sbottò autoritario il detective. “Vai
e dimostrami il tuo genio.” Aggiunse, spingendo il medico verso
la guardia.
Sherlock guardò il
dottore partire un po’ esitante e raggiungere l’uomo in
scuro, ci parlò per qualche secondo, indicandogli
l’investigatore. L’espressione della guardia mutò da
diffidente a sorpresa, ad interessata, mentre Watson continuava a
parlargli. Infine, anche il dottore si girò verso Holmes e lo
invitò a raggiungerli. Lui si avvicinò subito.
“Milord, il Signor
Jones, qui, ci permette di parlare qualche minuto col Maestro Stoltz,
solo in considerazione della sua posizione.” Affermò il
medico. Sherlock lo guardò un po’ strano, ma come sempre
si capirono al volo e lui si preparò ad interpretare la parte.
“Oh, la ringrazio
veramente molto Signor Jones!” Esclamò Sherlock,
all’apparenza estremamente riconoscente. “Stia certo che la
menzionerò… nelle alte sfere…” Aggiunse
allusivo e ammiccante.
La guardia sorrise
compiaciuta. “È stato un onore, My Lord.” Disse
compito, prima di aprirgli la porta e far entrare entrambi nel
backstage.
Quando la porta si richiuse alle loro spalle, John ridacchiò, mentre precedeva Sherlock verso il camerino di Stoltz.
“Come hai fatto a convincerlo?” S’informò il detective.
“A quanto pare tu sei
il figlio di un visconte, molto ben introdotto in… certi
ambienti, e appassionato di musica classica.” Spiegò il
medico.
“E tu?”
“Addetto alla tua
sicurezza.” Si presentò John con un inchino.
Ridacchiarono. “Avanti.” Spronò poi Watson,
indicando la targhetta del direttore d’orchestra.
La porta del camerino era
leggermente scostata, ma il dottore bussò ugualmente. Nessuno
rispose ma, dopo uno scambio di sguardi, i due decisero di entrare.
“Che diavolo volete?” L’interrogò una voce brusca dal chiaro accento teutonico.
Wolfgang Stoltz era un uomo
di mezz’età poco più alto di John, coi capelli
brizzolati. Stava davanti allo specchio sopra al lavandino e si era
tolto la giacca dello smoking.
“Il mio nome è
Sherlock Holmes.” Esordì il detective. “Sono un
consulente investigativo e questo è il mio amico…”
“Collega.” Lo corresse John.
“…il Dottor
John Watson, stiamo collaborando con Scotland Yard nelle indagini
sull’omicidio di Holly Barnes.” Concluse Sherlock.
Durante la presentazione,
il direttore d’orchestra aveva finito di asciugarsi il viso ed
ora li stava fissando con la fronte aggrottata. Posò
l’asciugamano e si portò dietro la scrivania.
“Ah, la povera
piccola Holly…” Sospirò. “Era una dolce,
talentuosa ragazza, la sua morte è stata una grande
tragedia.” Nonostante le parole sentite, il suo tono rimase
freddo, forse anche per colpa dell’inflessione tedesca.
“Lei la conosceva bene?” Provò a chiedere il medico.
“Era una persona
molto aperta e disponibile.” John non si stupì della
scelta delle parole, visto quello che avevano scoperto sulla vita
privata della vittima.
“Parliamoci chiaro,
Maestro.” Intervenne Sherlock, che stava camminando per la stanza
in raccolta d’indizi. “Il vostro rapporto era di natura
più… personale?”
L’uomo fece
un’espressione tra lo stizzito ed l’incredulo. “Non
ho niente da nascondere, Signor Holmes, sono un uomo libero,
divorziato, e non ho paura di ammettere che, sì, abbiamo avuto
una relazione, mesi fa, ormai terminata.” Rispose poi,
autoritario, senza trasmettere un’emozione, con il volto di
pietra. “I nostri rapporti erano rimasti amichevoli, ma del tutto
professionali.”
“Quindi non
avrà problemi a dirci dove si trovava ieri mattina prima delle
nove.” Soggiunse Watson. Stoltz lo guardò male.
“Ero al telefono col
mio agente negli Stati Uniti, sto organizzando un tour.” Rispose
sintetico, poi abbassò gli occhi sulla scrivania in cerca di
qualcosa. “Questo è il suo recapito.”
“La ringrazio.” Fece Watson, quasi intimidito dall’atteggiamento spiccio del direttore d’orchestra.
“Se volete sapere di
più, riguardo a Holly.” Riprese Stoltz, mentre si
rimetteva la giacca. “Dovreste chiedere a Gwendolyn Parker-Lloyd,
secondo violoncello, era la sua migliore amica.”
“Lei ci è
stato davvero molto utile, Herr Stoltz.” Affermò
improvviso Sherlock, prendendo per un braccio John e tirandolo verso la
porta. “Ci perdoni per averle fatto perdere tempo.”
Così dicendo, senza guardare l’uomo, portò entrambi
all’uscita del camerino.
“Aspetti un attimo,
Holmes.” Li fermò Stoltz. “Mi vorrei assicurare
della cosa più importante.”
“Ancora non abbiamo un sospettato…” Affermò John.
“Ma cosa ha
capito… Io parlavo del violino, spererei che il Guarnieri sia
restituito all’orchestra il prima possibile.”
Dichiarò glaciale il direttore. A Watson venne quasi da vomitare
per la sua mancanza di considerazione per la vittima.
“Il violino è
un elemento di prova, non sappiamo quando potrà essere
restituito.” Affermò freddo; era bene che Stoltz penasse
un po’. Quindi spinse Holmes fuori dalla stanza.
Quando furono nel
corridoio, John guardò Sherlock; lui camminava sicuro fissando
dritto davanti a se. Se faceva così, voleva dire che aveva
qualche nuova certezza.
“Perché mi hai trascinato via? Non c’erano altre domande da fare?” Gli chiese quindi.
“Non hai notato la
sua sudorazione eccessiva, il rossore della pelle e le pillole sul
ripiano del lavandino?” Rispose Holmes.
“Ehm, no… Ero impegnato a fare le domande ed ascoltare le risposte…” Biascicò John.
“Non è il
nostro uomo.” Affermò l’investigatore. “Ha
subito, negli ultimi sei mesi direi, un intervento alla prostata.”
“Ah,
prostata…” Soffiò il dottore, mentre uscivano
nuovamente nel ridotto del teatro. “Quindi non può essere
il padre del bambino.”
“Già, niente
più pesciolini nell’acquario.” Scherzò
Sherlock senza umorismo. “Piuttosto, pensiamo ad altro, ora.
Domani vedi d’informarti su questa Parker-Lloyd, voglio
parlarci.”
“Me ne occuperò.” Annuì John.
“Adesso vado a
godermi la seconda parte.” Riprese Holmes. “Il nostro
secondo violoncello sarà all’opera… Tu, se vuoi,
puoi raggiungere la tua amica.” Aggiunse. John lo guardò
con tanto d’occhi.
“I… io… lei… noi…” Balbettò il dottore.
“Oh, tranquillo
John.” Lo rassicurò Sherlock posandogli una mano sulla
spalla. “So che avete avuto un incontro piuttosto ravvicinato la
scorsa notte, niente sesso, ma un bacio decisamente intenso
probabilmente sì… Anzi, dal colore della tua faccia
adesso, direi senza dubbio sì.”
Detto questo, dopo una
pacca abbastanza vigorosa sulla sua spalla, Holmes lasciò John
in mezzo al salone, immobile e con la faccia sconvolta, dirigendosi in
sala.
C’erano dei momenti,
come questo, in cui John avrebbe voluto essere tornato
dall’Afghanistan con una gamba di legno, pur di avere a portata
di mano qualcosa con cui picchiare Sherlock.
CONTINUA
|
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Capitolo 3 *** Capitolo 3 ***
DLS
Eccomi
qua con il terzo capitolo di questa storia. Forse ci vorrà un
po’ di tempo per il quarto, ma dovete perdonarmi per la mia
lentezza!
Magari questa storia non
tratta degli argomenti più amati su questo fandom, però
è la prima cosa che scrivo qui (cioè, la seconda, ma la
prima era talmente breve…) e sto ancora, diciamo così,
sperimentando. Mi farebbe comunque molto piacere sapere cosa ne pensate!
C’è un leggerissimo spoilerino della 2.03, ma c’è davvero qualcuno che ancora non l’ha vista?!
Io, per precauzione avverto, eh.
Vi lascio quindi alla lettura e aspetto!
A presto!
Sara
Capitolo 3
Il taxi li lasciò
davanti ad un elegante palazzo vittoriano di una zona piuttosto
elegante della città. Il breve giardino era dominato da due
grandi querce dalle foglie verdi e lussureggianti.
John e Sherlock si
avvicinarono al portone con passo deciso, ma quando
l’investigatore fece per suonare il campanello, il dottore lo
chiamò. Holmes si voltò verso di lui spronandolo a
parlare, ma con un’espressione chiaramente infastidita.
“Sherlock, stamattina
c’è stato il funerale.” Lo informò il
dottore; lui aggrottò le sopracciglia perplesso.
“Il funerale di chi?” Chiese infatti.
John spalancò la
bocca incredulo: nemmeno si ricordava della vittima? E, soprattutto,
perché lui si stupiva ancora che il suo amico rimuovesse certe
informazioni…
“Di Holly Barnes!” Esclamò John.
“Ah…” Fece Sherlock. “E allora?” Commentò poi.
“Santo Dio, Sherlock!
Era la sua migliore amica!” Sbottò il dottore, tenendolo
per un braccio. “Immagino che sarà sconvolta, sarà
meglio andarci delicati…”
“Potrebbe essere la colpevole.” Affermò gelido l’altro.
“Ma potrebbe anche non
esserlo.” Ribatté John. “Chi vorrebbe essere
duramente interrogato in un momento del genere?”
“Non so, non mi è mai capitato…”
“A me sì.” Lo interruppe John. “Ed è stata una delle cose peggiori della mia vita.”
Si fissarono per un lungo
momento. Watson sapeva che Holmes, da qualche parte, in un’oasi
in mezzo all’arida razionalità del proprio cervello, si
sentiva ancora in colpa, lo vedeva ogni tanto affiorare sotto la
superficie ghiacciata dei suoi occhi. Era un punto debole di Sherlock
che lui si permetteva di usare, ogni tanto. Odiava fargli del male, ma
sentiva di non essere ancora in pari col male che gli aveva fatto lui.
“Mi perdonerai mai per
quella… cosa?” Domandò infatti Sherlock, più
titubante di quello che sarebbe stato normalmente.
“No.” Rispose sbrigativo John. “Ma se ora ti comporti bene, potrei essere più tenero.”
Sherlock sbuffò e
scosse il capo, tornando ad occuparsi del campanello, il quale
suonò profondo, vibrando all’interno della casa.
Venne ad aprire una bella
ragazza castana, un po’ trafelata, con begl’occhi scuri
leggermente sfuggenti. Indossava una gonna nera al ginocchio e un
maglioncino chiaro.
“La signorina Parker-Lloyd?” Domandò garbatamente il dottore.
“Sì.” Rispose lei, vagando con lo sguardo da un all’altro degli interlocutori. “Voi siete?”
“John Watson.”
Si presentò il medico. “Il mio collega Sherlock
Holmes.” Aggiunse, indicando l’altro uomo.
“Collaboriamo con la polizia per il caso di Miss Barnes.”
“Oh…”
Fece la ragazza sorpresa, poi abbassò gli occhi con una leggera
smorfia della bocca, che non sfuggì al detective.
“Accomodatevi.” Li invitò quindi lei, aprendo di
più la porta.
John e Sherlock si
scambiarono un’occhiata, prima di entrare in casa. Quando la
porta si fu richiusa, seguirono la ragazza in un salone e lei gli
offrì del the, che loro accettarono.
Dopo che una linda cameriera
ebbe portato un vassoio con un servizio di finissima porcellana e la
padrona di casa ebbe versato il the, tutti i presenti aspettavano che
qualcuno iniziasse la conversazione.
“Sono ancora un
po’ provata.” Esordì Gwendolyn, aggiustandosi un
ciuffo sfuggito alla perfetta pettinatura. “Stamattina
c’è stato il funerale di Holly.”
Sherlock non si era seduto
sul divano come aveva fatto John, ed osservava attento la stanza e la
donna dalla sua posizione accanto al camino dai pregiati stucchi
bianchi.
Famiglia
agiata. Buone scuole. Abiti firmati. Controllata. Non veramente
sconvolta. Anello di fidanzamento con pietra di poco valore. Calli ed
escoriazioni alle mani dovuti al violoncello. Non il graffio sotto
l’orologio. Dovrebbe essere triste invece è arrabbiata.
“Capiamo il suo dolore.” Riprese John. “Ma siamo costretti a farle alcune domande…”
Le sue affermazioni furono
interrotte dall’arrivo di un ragazzo. Era alto, i capelli castani
chiari e corti. Portava una camicia bianca e dei pantaloni caki.
“Tesoro, va tutto bene?” Domandò a Gwendolyn, per poi osservare per un attimo i presenti.
“Sì, amore. Il
mio fidanzato, Matthew Stevens.” Rispose lei, presentando poi il
giovane. “I signori aiutano la polizia nelle indagini su…
Holly.” Aggiunse la ragazza.
Il ragazzo spalancò
gli occhi, che si fecero lucidi, poi appoggiò una mano sulla
spalliera del divano su cui sedeva la fidanzata.
“Mio
Dio…” Soffiò, prima di sedersi accanto alla donna.
“Ci sono delle novità?” Chiese quindi.
“Purtroppo, per ora no.” Rispose Watson. “Siamo qui per chiarire alcune cose.”
Sherlock, nel frattempo,
chiuso in un ascetico silenzio, osservava tutto con l’attenzione
di un predatore in caccia, lasciando il lavoro sporco nelle mani fidate
di John.
Fisico
atletico, è uno sportivo. Abbronzatura naturale, lavoro
all’aria aperta. Maestro di tennis, probabilmente. Realmente
addolorato. Abiti curati ma non di valore. Bracciale di platino, regalo
di lei. Matrimonio conveniente. Uomo in trappola.
“Diteci, se possiamo essere utili alle indagini.” Li incitò Matthew.
“Beh…”
Fece incerto il dottore, lanciando un’occhiata a Sherlock che lo
spronò con un cenno. “Volevamo sapere quando avete visto
Miss Barnes per l’ultima volta.”
“Io l’ho vista
domenica sera, dopo lo spettacolo, a cena.” Disse il ragazzo;
Sherlock non mancò di notare l’occhiata scettica che gli
dedicò la fidanzata. “Però lei e Gwen si vedevano
ogni giorno per provare insieme, vero tesoro?”
“In realtà, io
l’ho vista l’ultima volta mercoledì sera, alle prove
in teatro.” Si sbrigò a precisare lei. “Aveva fretta
di tornare a casa, forse aveva un appuntamento…”
Stavolta nemmeno a John
sfuggì lo sguardo deviante di Matthew, prontamente riportato in
riga dalla mano di Gwen che afferrò la sua.
“Noi…” Accennò Watson.
“La ringraziamo, Miss
Parker-Lloyd.” Intervenne la voce di Sherlock, interrompendolo.
John lo guardò perplesso e interrogativo. “È stata
molto gentile, ma ora dobbiamo proprio andare.” Il dottore
continuava a fissarlo stupito. “John.” Lo richiamò
quindi e lui si alzò dal divano.
“Ehm, ci dispiace di
avervi disturbato…” Biascicò incerto il dottore,
rivolto agli ospiti. “Grazie.” Anche i due fidanzati li
stavano guardando piuttosto esterrefatti.
Pochi istanti dopo, John e
Sherlock erano già fuori, sulle scale dell’ingresso.
Watson era certamente abituato ai repentini cambi di velocità,
di umore, di obiettivo di Sherlock, ma a volte erano così
immediati da causargli lievi capogiri.
“Sherlock, che diavolo…” Tentò il dottore esasperato.
“Devo andare al
laboratorio del Barts.” Dichiarò l’investigatore,
mentre si dirigeva in strada per cercare un taxi.
“A fare cosa?” Domandò John seguendolo.
“Tu vai da Lestrade,
procurami una copia del rapporto del medico legale.”
Continuò Sherlock, ignorando la domanda dell’amico; una
macchina nera si fermò davanti a lui. “Ti aspetto entro le
cinque.” Aggiunse il detective, prima di sparire dentro il taxi.
John si ritrovò solo
sul marciapiede. Come al solito le spiegazioni di Sherlock si facevano
desiderare. Il dottore sapeva che le sue conclusioni lo avrebbero
stupito ancora una volta, ma non prima di averlo fatto penare fino
all’esasperazione. Si sporse sulla strada e chiamò un
altro taxi.
Quando il dottor Watson
varcò le porte del laboratorio, Sherlock era seduto davanti al
microscopio e non dette segno di averlo visto arrivare. Molly, invece,
sobbalzò, sollevando il capo dal computer e sorrise al medico.
“Buonasera, John.” Lo salutò garbatamente; Sherlock fece una smorfia.
“Buonasera,
Molly.” Rispose tranquillo Watson, avvicinandosi al grande tavolo
illuminato. “Ho preso dei panini, anche per te… vista
l’ora.” Aggiunse l’uomo, sollevando una busta bianca.
“Oh, è stato
molto gentile!” Esclamò colpita la ragazza. “Allora,
se permette, sarò io ad offrire il the.” Continuò
lei sorridendo.
“Ti ringrazio…”
I convenevoli furono
interrotti da uno schiarimento di voce di Sherlock. La giovane
ricercatrice sussultò e John storse la bocca, quindi la ragazza
farfugliò alcune scuse ed uscì dalla stanza per prendere
il the per tutti. Watson si avvicinò all’altro uomo.
“Sono le cinque e un
quarto, John.” Esordì Holmes, con gli occhi fissi nel
microscopio. “Ma immagino tu abbia perso tempo a comprare inutili
panini.”
“Io sono un essere
umano, Sherlock, ho fame.” Rispose infastidito lui. “Non so
di cosa vi nutriate voi, sul pianeta Vulcano…(*)” Aggiunse
sarcastico, meritandosi un’occhiataccia.
Sherlock, quindi, si
spostò verso il portatile posato affianco al microscopio,
cominciando a confrontare dati o chissà che.
“Ultimamente sei molto gentile con Molly.” Affermò poi, senza voltarsi.
“Quella ragazza ha
rischiato il posto e la carriera per te, ma ho perso la speranza che tu
abbia con lei più delicatezza di quanta potrebbe averne un nano
da giardino, quindi cerco almeno di non farle pesare la tua
austerità.” Spiegò asciutto il dottore.
“Ho ringraziato Molly molte volte.” Replicò arido Sherlock, sempre intento allo schermo.
“Sì, certo, vorrei vedere…” Commentò John.
“Il fatto che tu non
fossi presente, non significa che non sia successo.”
Dichiarò l’altro. “Il rapporto?” Chiese poi,
allungando una mano.
“Prima…”
Soggiunse John, esitando in modo che Sherlock fosse costretto a
guardarlo. Aveva il fascicolo in mano, ma insisteva a non volerlo dare
al detective.
“Cosa?!” Sbottò infatti, spazientito.
“Lestrade mi ha
chiesto di riferirti queste esatte parole: «hai un’idea di
quanti sederi ho dovuto lucidare per farti avere questi
documenti?»” Cantilenò il medico.
Sherlock lo fissò
indifferente per un istante. “Spero che fossero sederi più
piacevoli di quello di Anderson.” Commentò infine,
acchiappando al volo il fascicolo di cartoncino beige.
John sbuffò e lui si mise a studiare immediatamente il rapporto del medico legale riguardante la morte di Holly Barnes.
Molly tornò in quel
momento, reggeva le tre tazze di the in equilibrio precario. Le
posò sul primo piano a portata di mano, poi ne prese una con
delicatezza e si avvicinò alla postazione di Sherlock. Lui le
dedicò un’occhiata distratta, tornando subito alle carte.
“Latte e due
cucchiaini di zucchero, vero?” Chiese la ragazza al detective;
lui la guardò di nuovo, stirando le labbra in una bizzarra
imitazione di sorriso.
“Sì.” Le rispose poi. “Grazie, Molly.” Sottolineò quindi, rivolto a lei ma con uno sguardo significativo per John, fermo alla sua sinistra.
“Le schegge sono state sufficienti?” Domandò ancora la giovane ricercatrice.
“Sì.” Annuì nuovamente l’investigatore. “Grazie, Molly.” Fece di nuovo, con lo stesso tono di prima e guardando John allo stesso modo. Lui roteò gli occhi.
“Quali schegge?” S’informò quindi il dottore, cambiando argomento.
“Quelle che Molly ha
estratto per me dalla ferita della Barnes.” Spiegò
velocemente Sherlock. “E per cui l’ho debitamente ringraziata.”
John ne aveva abbastanza di
quel battibecco infantile. Sherlock, quando ci si metteva, poteva
essere peggio di un moccioso pedante. Sbuffò, levando gli occhi
al cielo.
“Non avrebbe dovuto
pensarci la scientifica, o il coroner?” Riprese Watson,
continuando ad ignorare le ripicche del suo coinquilino.
“Oh, ma ce ne erano
ancora molte.” Intervenne Molly annuendo. “Ne ho estratte
alcune prima che il corpo fosse portato via dalle pompe funebri, come
mi aveva chiesto Sherlock.” Aggiunse, senza evitarsi un tono
sognante sul nome del detective.
John fu preso da un
sospetto. Osservò la ragazza, poi Holmes, aggrottando la fronte.
Il detective era ancora intento tra il rapporto ed il computer.
“Voi due…” Iniziò il medico, indicandoli con un gesto. “…vi sentite per telefono?”
Molly arrossì con la
velocità di una fiammata. Sherlock rimase impassibile e occupato
nelle sue cose. John incrociò le braccia.
“Ogni tanto…” Ammise la donna. “A volte… mi chiama.”
Il dottore spostò gli
occhi su Sherlock, fissandolo intensamente. Sapeva che lui non avrebbe
ignorato uno sguardo del genere, infatti poco dopo alzò gli
occhi nei suoi con espressione interrogativa.
“Tu… tu sei…” Fece John.
“Cosa?” Replicò Sherlock. “Affascinante, carismatico e bellissimo?”
John sbuffò un
risolino sarcastico e scosse la testa. Lui avrebbe usato altri
aggettivi, ma in quel momento ritenne opportuno lasciar cadere il
discorso.
“Che cosa hai
scoperto?” Domandò allora, spingendo volutamente la
conversazione sull’argomento preferito di Holmes: le sue geniali
deduzioni.
“L’arma del
delitto.” Enunciò il detective, girando il proprio
sgabello in direzione di John. “È un oggetto in legno
– abete rosso, specificatamente – ricoperto da diciotto
strati di vernice e risalente alla prima metà del diciannovesimo
secolo, milleottocentoquarantacique-quarantasei, direi.”
“Hm, bene.” Annuì Watson. “Quindi è stata uccisa con un oggetto di legno, antico.”
Sherlock emise una specie di grugnito spazientito e lo prese per le spalle. “È stata uccisa con uno strumento antico!” Sbottò quindi, scuotendolo appena.
John spalancò gli occhi. “L’hanno uccisa col Guarnieri?!” Esclamò quindi, sbalordito.
“Ma no!”
Sberciò l’altro, levando le mani in aria e spostandosi di
fretta oltre il dottore. “No, John! Il Guarnieri è molto
più antico! Ed usa tutt’altro tipo di
vernice…”
“Sì, scusa la mia ignoranza in fatto di liutai.” Scherzò amaro l’ex soldato.
“Mhhh….” Mugolava nel frattempo Sherlock, gesticolando in giro per il laboratorio.
“Però…”
Soggiunse John, pensieroso. “La Barnes era una violinista,
è probabile che possedesse un altro violino, visto che il
Guarnieri lo aveva in prestito dall’orchestra…”
Sherlock si fermò
dall’altra parte del tavolo e fissò con sguardo assente la
parete di fronte, poi fece un aggraziato dietrofront e raggiunse il
dottore, prendendolo nuovamente per le spalle.
“Ho voglia di
baciarti, John.” Dichiarò serissimo. L’altro
sbuffò arreso, mentre a Molly precipitava la mascella sul
pavimento e li fissava sbigottita.
“Aspetta, prima di
scambiare liquidi corporali con me.” Lo bloccò il medico.
“Questo ipotetico violino non è stato trovato in casa sua,
mi risulta.”
Sherlock lo guardò,
aggrottando le sopracciglia. “Dobbiamo verificare
l’esistenza del secondo violino.” Dichiarò quindi,
lasciando Watson e facendo due passi indietro.
“Potrebbe averlo
lasciato in teatro, oppure potrebbe averlo portato via
l’assassino, sapendo che era l’arma del delitto.”
Ipotizzò John.
“Io controllerò
in casa della Barnes, tu vai a teatro.” Annunciò Sherlock,
poi guardò l’orologio. “Lo spettacolo inizia tra
circa un’ora e mezza. Se il violino non è lì,
chiedi a Lestrade.”
Finita la frase, Holmes
s’infilò cappotto e sciarpa e prese elegantemente la via
d’uscita, ma rientrò dopo pochi secondi.
“Buona serata, Molly e… grazie.”
Affermò, sottolineando l’ultima parola, quindi
guardò John e gli strinse l’occhio, prima di sparire di
nuovo.
Il dottore ridacchiò,
esasperatamente divertito. Sherlock era impossibile, ma c’era da
dire che aveva senso dell’umorismo, a modo suo. Ad ogni modo, le
disposizioni erano date e John doveva rimettersi al lavoro.
Pensò che, forse, fosse meglio prendersi uno di quei panini.
“Dottore.” Lo chiamò Molly, mentre lui apriva la busta dei sandwich.
“Sì?” Fece lui, prendendosi il necessario.
“Io la invidio da
morire.” Dichiarò la ragazza, lui la guardò
perplesso. “Com’è vivere con lui?” Chiese
quindi, esplicando il motivo della sua invidia. John sospirò.
“Non per stomaci
delicati.” Rispose infine, prima di ficcarsi in tasca
l’involucro di un panino e salutare uscendo.
Per Sherlock fu piuttosto
semplice violare i sigilli ed entrare nell’appartamento della
Barnes. La scientifica, a quanto poteva vedere, aveva rivoltato il
salotto da cima a fondo, portando via i cuscini del divano, il tavolino
e il tappeto. Oh, la solita noiosissima presunzione di Anderson! Tanto
era incapace, anche se si metteva ad interrogare tutti gli acari di
quel tappeto.
Il detective sbuffò
e, dopo essersi guardato intorno con una giravolta, decise che la sua
ricerca poteva cominciare dalla camera da letto.
La casa, in definitiva, non
era molto grande, quindi gli ci volle poco tempo per rendersi conto che
il violino non era lì. Probabilmente era a teatro, John avrebbe
avuto più fortuna.
Si fermò di nuovo in
mezzo al salotto, le mani in tasca, scrutando lo spazio in penombra.
Doveva pensare. Riflettere sugli elementi raccolti finora. Doveva
entrare nel suo palazzo mentale. Ma per farlo aveva bisogno del suo
divano.
Sospirò, prima di
uscire come era entrato. Sperava che John ritardasse, così
avrebbe avuto modo di immergersi nei suoi pensieri in
tranquillità.
John gironzolava da ormai
venti minuti intorno al teatro. Senza il biglietto non c’era
stato verso di entrare ed approfittare della vecchia conoscenza col
body guard. Ora stava davanti alla porta esterna del backstage,
sperando di approfittare di qualcuno che usciva.
Quando la porta di metallo
dipinta di rosso si aprì sul vicolo umido, il dottore rimase
stupito di trovarsi davanti proprio Matthew Stevens.
Si fissarono per un momento.
Il ragazzo sembrò riflettere qualche istante, probabilmente gli
sfuggiva dove si erano visti prima.
“Ma lei è…” Mormorò infine.
“Dottor Watson.”
Si ripresentò l’uomo, porgendogli la mano. “Ci siamo
visti oggi pomeriggio, a casa di Miss Parker-Lloyd.”
“Oh, sì.”
Annuì l’altro, stringendogliela. “Lei collabora con
Scotland Yard… E’ un medico legale?”
“Una cosa del genere.” Glissò John. “Potrei farle una domanda, Mister Stevens?”
“Glielo ho detto anche
oggi, se posso essere utile alle indagini sono a sua
disposizione.” Rispose, ed era così sincero che non era
necessaria nemmeno la deduzione di Sherlock.
“La ringrazio.”
Fece Watson. “Lei, per caso, sa se Holly Barnes possedesse un
altro violino, oltre al Guarnieri?” Domandò quindi.
“Beh,
certamente.” Affermò Stevens, mentre si accendeva una
sigaretta. “Il Guarnieri appartiene alla Fondazione
dell’orchestra, lei ne aveva un altro che era appartenuto a sua
nonna, ci era molto legata.” John si chiedeva come il giovane
sapesse certe cose private, evidentemente gliele aveva raccontate la
fidanzata. “Ultimamente lo lasciava qui, nel suo armadietto, non
voleva dare nell’occhio prendendo la metro con due
custodie.”
“Lei pensa che potrei vederlo? Il violino, intendo…” Soggiunse il medico.
“E per quale motivo?” Replicò Stevens.
“Devo fare una verifica necessaria alle indagini.” Spiegò sbrigativo John, non voleva approfondire troppo.
“Vediamo cosa si
può fare…” Tentennò l’altro.
“Venga con me.” Lo invitò poi, tornando verso la
porta. Watson lo seguì.
Dopo una certa resistenza
dell’addetta ai camerini, i due uomini riuscirono ad ottenere la
chiave dell’armadietto di Holly. Fu Stevens in persona ad aprire
lo sportello.
All’interno
c’era qualche effetto personale: una boccetta di deodorante, un
golfino verde pallido appeso al gancio, un asciugamano… Nella
parte bassa, appoggiata trasversalmente, c’era una custodia da
violino rivestita con una decorazione fatta con articoli di giornale
incollati.
Matthew rimase per un attimo
davanti all’armadietto aperto, con la mano ancora sullo
sportello, fissando attonito il contenuto.
“Stevens…” Lo chiamo delicatamente il dottore. Lui sussultò.
“Oh, sì, mi
scusi!” Esclamò quindi, poi si strusciò il viso e
si allontanò di un passo dall’armadietto. “Mi scusi,
ma… c’è ancora il suo profumo…”
Mormorò quindi.
John lo fissò per un
istante, sembrava veramente turbato. Il giovane si appoggiò a
capo basso contro un tavolo, mentre il dottore cominciava a controllare
il contenuto.
“Particolare, questa custodia…” Commentò John, prendendo tra le mani il violino.
“Era rovinata, il
cuoio intendo.” Spiegò Stevens. “Ma Holly ci era
affezionata, perché era di sua nonna, così decise di
ricoprirla… Glielo ho visto fare.”
John gli dedicò
un’altra occhiata sorpresa e curiosa. Quel tizio non gliela
raccontava giusta. Lui non era Sherlock, ma certo non ci voleva un
genio dell’intuizione per capire che il giovane e la vittima
avevano una relazione. E, a quanto pareva, più seria di quanto
faceva pensare la reputazione della Barnes.
“Le dispiace se prendo
il violino? Sa, ci sarebbero degli accertamenti scientifici da
fare.” Chiese quindi Watson; era sicuro che Sherlock avrebbe
voluto esaminarlo di persona.
“Non capisco cosa
possa esserci da scoprire sul violino, sarà qui da molto prima
della sua morte, ma certamente lei ne sa più di me.”
Replicò perplesso Matthew. “Faccia pure.”
John lo ringraziò e
annuì, quindi uscirono dai camerini, tornando nel corridoio del
backstage. Il dottore aveva il violino sotto braccio.
“Holly aveva dei parenti?” Domandò John, quando furono in direzione dell’uscita.
“Soltanto una sorella
in Australia, sarà qui a giorni, purtroppo non è potuta
tornare prima…” Rispose l’altro, ma la conversazione
fu interrotta dall’arrivo di un gruppo di persone.
“Greg!”
Esclamò il medico, quando si trovò di fronte
l’ispettore, seguito da Donovan e un paio di agenti in divisa.
“John… Che diavolo ci fai qui?” Ribatté il detective perplesso.
“Io…
beh…” Balbettò Watson, cercando una buona scusa,
mentre provava a non far notare il violino.
“Il cagnolino da cerca di Holmes, immagino.” Commentò acida la Donovan, il dottore la guardò male.
“Voi,
piuttosto…” Riprese John, indicando col capo la
combriccola di Scotland Yard. “Volete spiegarmi perché
arrivate in forze?”
“Riguarda il signore
che ti accompagna, John.” Rispose Lestrade, poi si spostò
davanti all’altro uomo. “Matthew Stevens, la dichiaro in
arresto per l’omicidio di Holly Barnes.”
“Cosa?!” Esclamò il giovane, del tutto incredulo.
“Ne siete certi?” Ipotizzò il dottore, intervenendo nel discorso.
“Ci sono prove
scientifiche che dimostrano la presenza del signor Stevens
nell’appartamento della vittima.” Spiegò soddisfatta
Sally. “Impronte, sperma e capelli.”
“Io non ho fatto
niente!” Gridò Matthew, mentre gli agenti lo ammanettavano
e gli leggevano i diritti. “Chiamate Gwendolyn!” Aggiunse,
mentre lo portavano via.
“Quello che
cos’è?” Si sentì domandare John, mentre stava
ancora osservando l’arresto di Stevens; si voltò
trovandosi davanti Donovan con gli occhi puntati sulla custodia.
“Ehm, un violino.” Rispose titubante John.
“Ah, e lei lo suona da quando?” Continuò la poliziotta.
“Beh, non io, ma Sherlock…”
“Oh, mi faccia il favore!” Sbottò la donna. “Stiamo cercando anche noi il violino della Barnes!”
John si voltò verso
Lestrade con espressione quasi supplicante, sperando che comprendesse a
cosa sarebbe andato incontro se non avesse riportato lo strumento a
Holmes.
“Mi spiace, John, è una prova.” Affermò il poliziotto, vagamente dispiaciuto.
“Lo metta qui, Dottore.” Lo incitò Sally, porgendogli un sacchetto della scientifica.
Watson, riluttante,
sollevò la custodia e la pose all’interno del grande
sacchetto di plastica, poi sospirò arreso. Ora cosa avrebbe
detto a Sherlock?
Prima di andare, Greg gli si
avvicinò. “Dì a Sherlock che deve farci riavere al
più presto anche il Guarnieri, non reggo più quel
tedesco.” Sussurrò a John, prima di seguire i suoi agenti
fuori dal teatro.
Il dottore sospirò di
nuovo e si mise le mani in tasca. Cercò di vedere il lato
positivo della faccenda: avevano arrestato Stevens, almeno aveva
qualcosa da raccontare a Holmes.
John tornò a casa che
era ormai notte. Salì le scale lentamente, cercando di preparare
qualcosa da dire a Sherlock, sempre che lui non capisse tutto da solo.
La porta del soggiorno era
come sempre aperta; lui entrò e si sedette pesantemente sulla
poltrona, sospirando. Sherlock era steso sul divano, gli occhi chiusi e
le mani giunte sotto il mento, probabilmente immerso nel suo Palazzo
Mentale.
“Dov’è il
violino?” Chiese però l’investigatore, dimostrando
di essersi perfettamente accorto del suo arrivo ma senza cambiare
minimamente posizione.
“Era nel suo armadietto, a teatro.” Rispose John.
“Intendo: dov’è ora.” Precisò seccato l’altro.
“L’ha preso
Lestrade.” Spiegò il dottore. “Ma ho controllato,
non c’erano tracce evidenti.”
“È ovvio.” Commentò lapidario Sherlock.
“Hanno arrestato Stevens.” Riferì allora John.
“Il fidanzato della Parker-Lloyd?”
“Sì.”
Annuì Watson. “Cosa pensi che ci facesse Greg a teatro? Ci
sono prove della presenza di Matthew nell’appartamento della
vittima…”
“Hanno scoperto
l’uovo sodo!” Sbottò infastidito Sherlock,
portandosi seduto di scatto. “Era l’amante della Barnes,
sarà pieno di sue tracce!”
“Ti dirò di più.” Intervenne John. “Secondo me era innamorato di lei.”
“Questa è una deduzione brillante, John, seppure fatta da te.” Fece l’altro.
“Grazie…”
Mormorò sarcastico lui; non si poteva lamentare, i complimenti
di Sherlock erano sempre di quel tipo e già capire che lo erano
necessitava un certo sforzo.
“Dobbiamo tenere anche
conto della probabilità che Stevens sia il padre del bambino,
diciamo al novantotto per cento.”
“Novantotto?” Soggiunse John.
“Se avessi detto cento mi avresti rimproverato un’eccessiva autostima.” Replicò sostenuto Holmes.
“Andiamo, dillo. So che muori dalla voglia…” Lo spronò il dottore, con un sorrisetto divertito.
“Stevens è, al cento per cento, il padre del bambino di Holly.” Proclamò infine Sherlock.
“Ora sei soddisfatto?” Gli chiese il dottore.
“Molto.” Annuì Sherlock. “Meglio del sesso.”
“Oh, non direi!” Esclamò John ridacchiando.
“Un giorno ti
darò la possibilità di smentirmi.” Affermò
serio lui. “Quando sarò particolarmente annoiato.”
“Vabbene, ne riparliamo.” Asserì convinto John. “Adesso, però, che facciamo?”
“Devo pensare.”
Dichiarò Sherlock. “Mi serve un po’ di tempo…
Tu vai pure a dormire.” Gli disse poi.
“E come ci comportiamo con Stevens?” Domandò il medico.
“Ah, non è lui il colpevole!” Rispose Sherlock, mentre cercava qualcosa sulla scrivania.
“Ma tu hai detto che l’omicidio è legato alla gravidanza, quindi…” Tentò John.
“Lascia stare.”
Lo interruppe il detective. “Non sforzare le possibilità
limitate del tuo cervello, fai lavorare una mente superiore, vai a
letto.”
Una delle solite rispose di
Sherlock, ormai non si offendeva nemmeno più, sapeva che il suo
coinquilino non gli voleva meno bene solo perché pensava che lui
fosse un idiota. Chiunque oltre Sherlock Holmes lo era.
“Vabbene, ho
capito.” Affermò arreso il dottore, alzandosi e allargando
le braccia. “Ci vediamo domattina.”
“E chiudi la tua porta, se russi mi disturbi.” Gli ordinò Sherlock, rimettendosi sul divano.
“Tranquillo.”
Replicò lui rassegnato, mentre raggiungeva le scale. “Mi
coprirò anche la testa, per non fare rumore!”
CONTINUA
NOTE:
(*) non potevo tralasciare
un riferimento a Star Trek! Io amo questa serie da quando ero bambina e
non potevano sfuggirmi le analogie tra il nostro amato Sherlock ed il
popolo del pianeta Vulcano, la cui caratteristica principale è
il controllare e reprimere le emozioni. Ma come sono soliti dire i
Vulcaniani, reprimere le emozioni non significa non averle…
Facci i conti, Sherlockino!
Vi saluto come farebbe il mio adorato Mr. Spock!
Lunga vita e prosperità.
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Capitolo 4 *** Capitolo 4 ***
DLS
C’è voluto un po’ di tempo, ma sono riuscita a finire anche questa storia! Sono contenta.
Certo, non sarà una trama
gialla degna di un vero scrittore e l’intreccio magari si risolve
un po’ in fretta, però quello che m’interessava di
più non era il giallo, bensì le interazioni tra i
personaggi. Spero di essere riuscita a mantenere tutti abbastanza IC ed
aver reso decentemente quello che m’interessava… Sta a voi
dirmelo!
Il capitolo è lunghetto, ma spero che non vi annoi!
Buona lettura, a presto!
Sara
Capitolo 4
John scese le scale ancora un po’ assonnato. Erano quasi le otto
del mattino e lui era stupito che Sherlock non avesse ancora cominciato
col suo solito casino.
Arrivato in soggiorno lo vide sulla sua poltrona, in una posizione
degna di un contorsionista del circo cinese. La Adler si sarebbe
lamentata di come le sue doti fisiche fossero usate solo per dare la
caccia ai criminali sui tetti di Londra. Ad ogni modo, Sherlock era
arrotolato come un gatto e fissava il vuoto con espressione concentrata.
John lo raggiunse, fermandosi davanti a lui e piegandosi poi sulle
ginocchia per incrociare con i propri occhi il suo campo visivo. Dopo
un secondo di perplessità, rivelato dalla fronte aggrottata, lo
sguardo trasparente di Sherlock ridivenne limpido e fissò gli
occhi blu divertiti di John.
“Hai pensato abbastanza?” Gli domandò dolcemente il dottore.
“Hm, credo di sì.” Fece tranquillo il detective,
prima di rimettersi seduto normalmente. Watson si tirò su,
mettendo le mani sui fianchi.
“Ti faccio un paio di uova?” Domandò quindi.
Holmes piegò leggermente il capo di lato, come se stesse
ponderando l’offerta, poi annuì. “Ho fame.”
Affermò quindi.
“Bene.” Sentenziò il medico, mentre si dirigeva in cucina. “Toast e uova in arrivo.”
“Cosa farei senza di te.” Ironizzò nel frattempo Sherlock.
“Probabilmente moriresti di fame.” Affermò John
ironico. “O finiresti disidratato, avvelenato da un tassista
pazzoide, oppure avvinghiato ad uno psicopatico su un tetto,
o…”
“Ho afferrato il concetto della tua indispensabilità nella
mia vita, John, grazie.” Lo interruppe l’altro, mentre lui
ridacchiava davanti al tostapane.
Pochi minuti dopo erano seduti uno davanti all’altro e Sherlock
stava mangiando la sua colazione con particolare gusto. John lo
fissò perplesso per un attimo.
“Da quanto era che non mangiavi?” Si trovò a chiedergli.
“Mangiare è noioso.” Biascicò lui a bocca
piena, mentre un’altra forchettata si avvicinava già alle
sue labbra.
“Da come lo stai facendo, non sembra.” Fece il dottore, divertito, sorseggiando il suo the.
“Purtroppo, pare che sia necessario alla sopravvivenza di questo
corpo e non posso permettere che la mancanza di nutrimento privi
l’umanità di una mente come la mia.” Replicò
tranquillo Sherlock, versando nella tazza un paio di cucchiaini di
zucchero.
“Ottimo.” Commentò il dottore. “Hai concluso
qualcosa con le tue riflessioni di stanotte?” Chiese poi,
cambiando argomento.
“Hmhm.” Annuì il detective, mentre finiva le sue
uova e ripuliva il piatto con l’ultimo pezzo di toast.
“Riassumiamo i fatti.” John annuì.
“Holly Barnes è stata trovata morta nel pomeriggio di
giovedì.” John annuì ancora seguendo attento il
ragionamento di Sherlock. “La morte risale con tutta
probabilità a quella stessa mattina - tre le otto e trenta e le
dieci, afferma il medico legale – cosa sappiamo di quello che ha
fatto la vittima tra le prove in teatro del mercoledì sera e
l’ora della sua morte?”
“Potrebbe aver avuto un appuntamento con Stevens o un altro dei suoi amanti.” Ipotizzò John.
“No, non potrebbe.” Sottolineò l’amico. “Noi sappiamo che ce l’aveva.”
“Lo sappiamo?” Fece interrogativo il dottore.
“Certo!” Sbottò Sherlock con una manata sul tavolo
che fece vibrare i piatti. “Quando abbiamo parlato con Gwendolyn
e Matthew, lei ha affermato che Holly dichiarò di avere un
appuntamento, la sera delle prove… Gliela hai fatta tu la
domanda…”
“Oh, sì!” Esclamò John ricordandosi. “Scusami…”
“Tranquillo, non pretendo…” Replicò serafico
l’altro, appoggiandosi contro lo schienale della sedia.
“Tra l’altro, da quella domanda, abbiamo scoperto anche
un’altra cosa…”
“Sì?” L’interrogò John.
“Gwendolyn sapeva della relazione tra la sua amica ed il suo
fidanzato.” Rivelò glaciale Sherlock. “Quello che,
ancora, non possiamo sapere è se ne fosse a conoscenza da prima
o lo abbia scoperto di conseguenza alla morte di Holly.”
“Cosa cambia?” Domandò Watson.
“Molto.” Rispose drastico Holmes. “Se lo sapeva da
prima, sarebbe un ottimo movente, se lo ha scoperto dopo, le
ragioni…” Si bloccò all’improvviso.
“Sherlock?” Lo chiamò l’amico aggrottando la fronte, si preoccupava sempre quando faceva in quel modo.
Sherlock si alzò dal tavolo velocemente, poi si diresse verso la sua camera da letto.
“Sherlock!” Lo chiamò ancora il dottore, seguendolo.
“Conosco il mio nome, John!” Sbottò l’altro,
tra rumori di ante che sbattevano e cassetti aperti con foga. Watson si
affacciò nella stanza, giusto per vedere Sherlock togliersi la
maglietta e cercare d’infilarsi una camicia pulita il più
velocemente possibile.
“Che stai facendo?” Gli domandò poi, stancamente.
“Devo parlare con Stevens, c’è da chiarire qualcosa
riguardo ai tempi” Affermò il detective. “Vestiti,
andiamo a Scotland Yard.” Gli ordinò poi.
Sherlock fece la sua entrata nell’ufficio investigativo di
Scotland Yard sventolando il suo cappotto tra le scrivanie, senza
preoccuparsi di urtare qualcosa o qualcuno. Sally Donovan sentiva di
odiarlo perfino di più, quando arrivava come se fosse il padrone
di casa.
Il Freak era uno stronzo, pieno di se da far vomitare e davvero non
capiva come Lestrade gli perdonasse ogni cazzata, uscita improbabile o
cattiveria arrivasse da quella bocca impertinente. Il dottore
c’era da capirlo, povero Cristo, praticamente pendeva dalle sue
labbra; era come uno di quei cagnolini scodinzolanti e fedeli che
tentano di morderti appena allunghi una mano verso il padrone.
Cosa mai ci trovavano in lui? Sì, ok, le costava ammetterlo ma
il Freak era sexy. E il dottore voleva decisamente scoparselo. Quanto a
Greg, beh, non si poteva mai sapere al giorno d’oggi…
Non c’erano, altrimenti, motivi validi per cui quei due
prendessero per oro colato ogni cazzo di sentenza emettesse il dio
degli strambi. Il fatto che, poi, le sue deduzioni si rivelassero
credibili era relativo. Non era mica del tutto convinta che quella
storia del finto Moriarty fosse una bugia…
Holmes era un pazzo. Un pazzo sexy e con un bel culo, ma pur sempre da
manicomio. E un giorno li avrebbe trascinati tutti nella merda con se.
Per questo se ne teneva ben lontana.
La poliziotta sbuffò, quando lo vide spalancare la porta
dell’ufficio di Greg e farlo saltare sulla poltrona mentre aveva
il caffè in mano. Per un pelo non si sporcò i pantaloni.
“Santo cielo, Holmes!” Sbottò l’ispettore,
pulendo la scrivania dal liquido marrone. “Sono ancora a stomaco
vuoto…”
“Devo solo parlare con Stevens.” Annunciò Sherlock.
Greg sbuffò e si appoggiò allo schienale della sedia.
“Stamattina alle otto è comparso davanti al giudice, che
gli ha concesso la libertà su cauzione.” Spiegò poi.
“Cosa?!” Esclamò il detective. “Ed è uscito?”
“Sì.” Annuì stancamente Lestrade. “La fidanzata ha pagato e lo hanno rilasciato.”
Sherlock scambiò un’occhiata significativa con John, che
era rimasto finora in silenzio, poi tornò a rivolgersi a Greg.
“Devo trovarlo, potrebbe essere fondamentale per risolvere il caso.” Dichiarò quindi.
“Non ho idea di dove possano essere, mi spiace.” Fece il poliziotto, allargando le braccia.
“Ah, dovrebbero abolire la polizia, vista la vostra
utilità!” Esclamò spazientito Sherlock, prima di
girarsi per andare via. Lestrade roteò gli occhi.
“Andiamo, John, facciamo da soli, come sempre!”
“Buona giornata, Greg.” Salutò il dottore, prima di seguire il suo iperattivo coinquilino.
“Che Dio t’assista, John.” Gli augurò di rimando l’ispettore. Entrambi ridacchiarono.
Sally, seduta al suo tavolo, fece un versaccio. Ecco fatto. Anche per
oggi Sua Maestà aveva emesso il giudizio supremo e se ne era
andato, col suo valletto a reggergli il mantello. Si chiese se qualcuno
sarebbe mai riuscito a metterlo a posto.
Saliti sul taxi, John guardò Sherlock e lui lo incitò a chiedere con un cenno distratto.
“Dove andiamo, ora?” Chiese il dottore.
“A casa di Gwendolyn.” Rispose l’investigatore,
aggiustandosi il cappotto sotto il sedere con uno strattone.
“È importante che io parli con Stevens e se
c’è anche lei tanto meglio.” Precisò poi, i
suoi occhi implacabili rivolti alla strada.
John sospirò, rassegnato a non ricevere ulteriori spiegazioni.
La porta, stavolta, gli fu aperta da una distinta cameriera di
mezz’età. Sherlock praticamente la travolse entrando,
mentre John – costernatissimo – si scusava alla meglio.
Quando furono nel salone dove avevano preso il the la prima volta,
seguiti dalle poco velate proteste della donna, Sherlock si
fermò, osservando attentamente in giro e chiese della padrona di
casa.
“Miss Gwendolyn non è qui.” Rispose indignata la
cameriera, lisciandosi il grembiule di pizzo. “E nemmeno il
Signor Stevens, perciò se ne vada o chiamo la polizia!”
Aggiunse decisa.
Sherlock la ignorò, continuando a camminare su e giù
sopra al prezioso tappeto, preso da chissà quali riflessioni.
“Sherlock…” Tentò John. “Possiamo
rintracciarli più tardi, che ne so, magari Lestrade ha i loro
numeri…”
Holmes, però, non diede segno di averlo ascoltato. Si
fermò, invece, accanto al violoncello, posato sul suo sostegno
vicino ad un pianoforte a parete. Lo osservò per un lungo
momento, come se avesse la vista a raggi X. Poi si riscosse e si
girò verso gli altri due presenti.
“Devo sapere dove sono.” Pretese, fissando la cameriera.
“Ma… ma io non ne ho idea.” Balbettò lei, annichilita dallo sguardo deciso di Sherlock. Vuoi vedere che ora funziona anche con le babbione… pensò John.
Sherlock fece due passi verso la cameriera e la prese per le spalle, piantandole in faccia quei due fari assassini.
“Devo sapere dove sono.” Ripeté, scandendo le parole.
La donna sbatté le palpebre come ipnotizzata.
“Miss… Miss Gwendolyn ha le prove in teatro…”
Biascicò lei, non si capiva se impaurita o vittima
dell’inesorabile fascino di Sherlock.
“Ci va in macchina o con la Tube?” Chiese allora
l’investigatore; lei tacque. “Con quale mezzo va in
teatro?!” Insisté lui, scuotendola leggermente.
“Sherlock, dai…” Intervenne John, preoccupato come sempre per i metodi bruschi dell’amico.
“Con la macchina.” Rispose infine la cameriera.
Sherlock mollò le spalle della donna, facendola barcollare un
po’ e ricominciò a muoversi a caso per la stanza, con
atteggiamento nervoso.
“Dobbiamo sapere dove lascia la macchina…” Diceva,
apparentemente rivolto più a se stesso che a John. “Pensa,
pensa! Quella zona di Londra…”
“Lo so io.” Lo interruppe il dottore; lui lo guardò
aggrottando la fronte. “C’è un solo parcheggio, al
Covent Garden, convenzionato con gli artisti.”
“E tu come lo sai?” Domandò sospettoso Holmes.
“Ti ricordi Jade, quella con cui uscivo tempo fa?” Una
smorfia di Sherlock lo confermò. “Beh, è una
ballerina del Royal Ballet.”
“Finalmente una delle tue inutili fidanzate è servita a
qualcosa.” Commentò atono il consulente investigativo.
John ritenne inopportuno far presente che uscire con una ballerina
aveva molti lati positivi, non ultima la loro capacità di
assumere posizioni contorsionistiche, tanto Sherlock non avrebbe
capito. E poi stavano già lasciando la casa.
Erano di nuovo su un taxi, diretti al Covent Garden. John non aveva
ancora capito a cosa era dovuta l’improvvisa urgenza di Sherlock
per trovare Gwendolyn e Matt, ma si era rassegnato già a dover
aspettare la brillante spiegazione dell’amico, sempre che avesse
voluto dargliela.
Era preso in queste riflessioni quando il cellulare squillò
nella sua tasca. Lo prese, sotto lo sguardo inquisitore di Sherlock, e
scoprì con gioia che la telefonata era di Angela.
“Angela!” Esclamò allegro, rispondendo.
“Ciao, John.” Rispose dolcemente lei.
“Come stai?” Le domandò il dottore, con un tono galante che fece storcere la bocca a Sherlock.
“Molto bene, e tu?” Replicò lei.
“D’incanto ora che ti sento.” La donna rise, all’altro capo del telefono.
“Senti…” Riprese Angela. “…ti ho chiamato perché ho molta voglia di vederti.”
“Anche io.” Fece morbido John, interrompendola.
“Quanto sei dolce…” Commentò lei. “Che
ne dici se ceniamo di nuovo insieme, in un ristorante questa
volta?”
“Sarebbe magnifico.” E non mentiva, voleva veramente
passare un’altra serata con lei e rimediare al mezzo casino
dell’altra volta.
“Che ne dici di venerdì sera?” Suggerì Angela.
“È perfetto.” Acconsentì John.
“Ti spiace se prenoto io’” Chiese ancora la donna;
John fu un attimo preoccupato a proposito del livello economico di un
ristorante scelto da lei, ma poi si disse che per una volta poteva
anche non guardarsi nel portafogli.
“Non preoccuparti.” Le disse quindi. “Mi togli dall’imbarazzo di dover scegliere il posto.”
“Non ti farò spendere troppo, promesso!” Affermò allegramente lei.
“Non vedo l’ora di rivederti.” Confessò allora
John, con tono romantico. Sherlock trattenne un conato, lo odiava
quando faceva il melenso.
“È lo stesso per me, John, davvero.” Replicò Angela con dolcezza.
Si salutarono, mettendoci un po’ troppo per i gusti di Holmes,
poi John rispose il cellulare e guardò l’amico con
un’espressione un po’ ebete.
“Possiamo tornare alle cose serie, adesso?” Fece Sherlock un po’ scocciato.
“Queste sono cose serie! Angela…” Il detective lo
bloccò afferrandogli il braccio in una morsa d’acciaio.
John alzò gli occhi dalla mano che lo stringeva, per incrociare
lo sguardo di Sherlock. Non poté, però, dirgli quello che
pensava sulla brusca interruzione del discorso, perché
l’altro gli puntava addosso due stalattiti di cristallo verde,
così trasparenti e affilate da trapanargli il cervello.
“È stata lei, John.” Sentenziò la voce di
Sherlock, tanto profonda da sembrare proveniente da un girone
dell’averno.
“Chi? Angela?” Biascicò confuso il dottore. Holmes
roteò gli occhi spazientito e lo lasciò andare, per
rimettersi seduto composto.
“Santo cielo, John, che devo fare con te?” Sbottò quindi, vagamente arreso.
John incrociò le braccia e guardò fuori dal finestrino.
Si sentiva offeso e non gli capitava spesso, con Sherlock. Sapeva che
il suo coinquilino era dotato di un tatto elefantino. Ma c’erano
volte, come quella, in cui gli dispiaceva essere trattato come un
idiota. Perché spesso voleva convincersi di essere, agli occhi
di Sherlock, un tantino più importante del resto delle sue
conoscenze. Una specie di prescelto, per qualche insondabile e
inspiegabile motivo.
“Di chi parlavi? Di Gwendolyn, vero?” Fece dopo un
po’, mentre si avvicinavano alla meta. Era consapevole che
l’unico modo per farsi perdonare da Sherlock era aprire la strada
alle sue deduzioni, farsi spiegare tutto. Anche se gli rompeva essere
sempre quello che s’ingoia l’orgoglio.
Holmes si girò verso di lui, lo sguardo più vivo e brillante. “Certo, ovviamente!” Esclamò.
“Spiegami tutto.” Lo incitò John, perché alla fine adorava ascoltarlo.
“Ripensa all’arma del delitto.” Esordì
Sherlock. “Uno strumento antico… ma sappiamo per certo che
non si tratta del Guarnieri, né del violino di Holly, e allora
cos’altro?”
“Un violoncello.” Affermò Watson.
“Un violoncello.” Confermò l’altro annuendo.
“L’ho guardato, è risalente alla stessa epoca del
violino di Holly, legno pregiato… è stato pulito, ma
credo che un’analisi più approfondita rivelerà
legno scheggiato e tracce di sangue.”
“Sherlock, però, ragiona.” Intervenne il dottore.
“Se lei se ne fosse andata dall’appartamento della Barnes
con la custodia di un violoncello, qualcuno l’avrebbe
notata…”
“Non è detto.” Sostenne Holmes. “Quello
è un comprensorio di lavoratori, a quell’ora del mattino
molti sono già al lavoro, o diretti sul posto, e non è
detto che qualcuno abbia fatto caso ad una ragazza elegante con un
violoncello… Comunque sarà il caso d’interrogare
nuovamente i vicini.”
“Come pensi che sia successo?” Domandò John,
nonostante si fosse fatto un’idea abbastanza precisa da solo.
Sherlock sollevò le sopracciglia.
“È stato un delitto d’impeto, lo hai detto
tu.” Watson annuì. “Presumo che le due donne abbiano
avuto una discussione durate le prove che facevano insieme –
Stevens ci ha detto che lo facevano ogni giorno – e che questa
sia degenerata in un gesto incontrollato da parte di
Gwendolyn…”
“E il movente è la gelosia…” Commentò
l’altro, mentre il taxi si fermava vicino al parcheggio del
Covent Garden. Pagarono e scesero.
“Secondo te, Gwendolyn ha scoperto la tresca quel mattino, oppure
lo sapeva già?” Chiese il dottore, mentre attraversavano
la strada per entrare nel garage.
“È indifferente, a questo punto.” Affermò
Sherlock deciso. “Non è un delitto premeditato, potrebbe
averla aggredita per l’ennesima discussione sul tradimento,
oppure perché ha scoperto del bambino quello stesso giorno,
fatto sta che l’ha uccisa lei.”
“E lo hai capito solo dallo strumento?” L’interrogò l’amico.
“Beh, vedere il violoncello mi ha fatto ricollegare molte
cose.” Rispose incurante il detective, entrando nel garage ed
esaminando l’area per riuscire ad evitare la guardiola.
“Lei che, nel nostro interrogatorio, si premura di dirci che ha
visto la vittima per l’ultima volta molti giorni prima del
delitto, il suo contegno pieno di rabbia – ovviamente nei
confronti della morta e del suo fidanzato – e la ferita sul
polso, sotto l’orologio…”
“Una ferita sul polso?!” Esclamò Watson stupito.
“Sì.” Annuì Sherlock. “Probabilmente
causata dalle corde del violoncello mentre uccideva Holly, possono
essere molto taglienti.”
“Incredibile!” Esclamò allora, John.
Sherlock si girò appena verso di lui, con un sorrisetto storto.
“Ah, quindi sono ancora interessante?” Fece sornione.
“Beh, sei il migliore, lo sai.” Dichiarò tranquillo John.
“Modestamente.” Commentò lui, tirandosi su il bavero
del cappotto. “Era un caso noioso, comunque, banale delitto per
gelosia, però… potrebbe diventare più interessante
ora.” Aggiunse, con un cenno verso l’interno del garage.
John aggrottò la fronte. “Perché?” Chiese sospettoso.
“Credo che voglia uccidere anche Stevens.” Affermò Sherlock serio. “Dobbiamo trovarli, ora.”
L’entrata di un furgoncino abbastanza ingombrante distrasse a
sufficienza la guardia, da permettere ai due di entrare nel garage.
Sherlock riuscì anche a dare un’occhiata al registro, per
scoprire dove parcheggiava la Parker-Lloyd.
Con gesti e sguardi dalla complicità collaudata,
l’investigatore incitò John a seguirlo verso gli
ascensori, mentre il furgone era ancora davanti alla guardiola. Veloci
e silenziosi, sfuggirono al controllo e s’infilarono nel primo
mezzo disponibile.
“Hai la pistola?” Domandò Sherlock, mentre
selezionava il secondo piano interrato dalla pulsantiera. John si
toccò il retro della cintura.
“Certo che ho la pistola.” Rispose annuendo. “Mi fai
sempre preoccupare quando scatti all’improvviso…
Perché lo chiedi?”
“Gwendolyn potrebbe essere armata.” Dichiarò
l’altro, fissando i piani che scorrevano sul piccolo schermo
dell’ascensore.
“Armata?!” Esclamò il dottore.
“Hmhm.” Annuì Sherlock. “Un revolver calibro
38, per la precisione.” Aggiunse, davanti alle porte scorrevoli
che si aprivano su un parcheggio grigio dalle luci sbiadite.
“E come diavolo fai a saperlo?” Domandò allibito John.
“Oh, non pretendo certo che tu abbia notato la vetrina delle
pistole, in casa sua, né la mancanza di un’arma alla
nostra seconda visita.” Affermò impassibile lui. “Un
revolver Colt, presumo, che stava tra una Beretta semi automatica e una
Mauser della seconda guerra mondiale…”
“Tu, seriamente, a volte mi fai paura…” Ammise
sconcertato il medico. Sherlock gli rivolse un mefistofelico sorriso
soddisfatto.
“Il suo posto è il D36.” Gli disse quindi.
“Dividiamoci.” Aggiunse, indicando a John la direzione
opposta alla sua. Watson annuì.
Cominciarono a spostarsi, coprendosi con le colonne o tra le auto
parcheggiate. Sherlock non riusciva a trovare la lettera D, mentre John
ci s’imbatté quasi subito.
Stava aggirando l’ennesima colonna, quando si accorse di qualcuno
che si muoveva in un punto poco illuminato, a causa probabilmente di un
paio di neon fulminati. La ragazza, puntando il grosso revolver,
trascinava l’uomo, pallido e impaurito.
“Gwendolyn!” Chiamò John.
Lei sussultò, allentando la presa sulla giacca di Stevens, poi
guardò nella direzione di Watson, lo vide, alzò la mano
che teneva la pistola e sparò.
Sherlock, dall’altra parte del parcheggio, sentì la voce
di John indistinta, non capì cosa diceva, però lo sparo
lo avvertì nitidamente. Quando il rimbombo finì,
sentì qualcosa cadere con un tonfo sordo. Il detective, in quel
momento, pensò seriamente che il cuore gli avrebbe trapassato la
cassa toracica per esplodergli nella gola in una profusione di sangue e
viscere.
Senza pensare, senza alcuna riflessione logica, preda soltanto della
paura, corse in direzione di John, premurandosi solo di non essere
troppo scoperto al tiro della Colt. Si bloccò dietro ad una
colonna quando vide sul muro una striscia verde con la lettera D.
“John!” Chiamò forte, un’incrinatura
inspiegabile nella voce. “JOHN!” Ripeté concitato.
“Sherlock!” Gli rispose infine l’amico.
Holmes si appoggiò alla colonna, prendendo un lungo sospiro, con
una mano appoggiata sul petto. Si disse che, se John si era sentito la
metà di così, mentre lui era sul quel cornicione, per
ripagarlo avrebbe dovuto fare ben altro che comprare il latte.
Socchiuse gli occhi, cercando di recuperare il suo proverbiale
autocontrollo.
Aveva ancora gli occhi chiusi, quando sentì qualcosa sbattergli
contro. Li aprì e vide John studiare la situazione oltre la
colonna, con cautela e la pistola in pugno, respirando forte,
praticamente appoggiato contro di lui. Soppresse la voglia di
abbracciarlo.
“Che cosa è successo?” Domandò il consulente.
“Mi ha sparato, ma ha sbagliato mira ed ha preso un bidone dei
rifiuti, che è caduto.” Rispose il dottore, continuando a
scrutare dietro la colonna.
“Capisco…” Commentò Sherlock. Si era fatto
venire un colpo per un bidone… Se fosse stato padrone di se
avrebbe capito che quello che cadeva non era un corpo umano! Emozioni,
buah!
“Cosa facciamo, adesso?” Chiese nel frattempo John.
“Dio mio, fate qualcosa, vi prego!” Supplicava Stevens, piangente e inginocchiato per terra.
“Sta zitto!” Lo minacciò la donna, puntandogli l’arma alla testa.
“Gwen, credimi, io ti amo!” Continuò lui, ignorando che così faceva solo aumentare la sua rabbia.
“Smettila di mentire!” Replicò infatti lei, sempre più furente.
“Gwendolyn, ascolti.” Intervenne Sherlock da dietro la
colonna, la voce alta e autorevole. “Lasci andare Stevens, ha
ancora una possibilità, l’omicidio di Holly è
colposo, lo sappiamo… potrebbe avere una condanna mite, si fermi
adesso.”
John trovò il discorso di Sherlock ragionevole, ma…
terribilmente privo di umanità. Quella ragazza era sconvolta,
probabilmente piena di sensi di colpa, tradita su tutti i fronti,
pronta a tutto. Non era il modo, dovevano trovare un’altra
maniera per convincerla.
“Andatevene!” Minacciò la donna, sventolando la pistola contro di loro.
“Gwen.” Il tono dolce con cui John aveva pronunciato il
nome, fece voltare Sherlock verso l’altro lato della colonna che
li riparava, solo per vedere che l’amico se ne era discostato e
camminava, mani e pistola alzate, verso la donna. Fece velocemente lo
stesso, superando il nascondiglio.
“John.” Lo chiamò; lui spostò appena gli occhi per guardarlo di sfuggita.
“Lasciami fare, Sherlock.” Gli chiese. “Ho avuto anche dei kalashnikov puntati in faccia, sai?”
“Non fare sciocchezze…” Esalò
l’investigatore, mentre studiava con gli occhi la situazione,
cercando una soluzione che traesse d’impaccio il medico.
“Gwen, mi ascolti.” Riprese Watson, dirigendosi verso la
ragazza. “Guardi, adesso poso la pistola…” E si
chinò a terra per lasciare la Browning, lei lo seguì con
un cenno nervoso. “Non voglio farle del male, voglio solo
parlare.”
Sherlock, nel frattempo, stava velocemente calcolando quanto gli ci
sarebbe voluto per buttarsi a terra, recuperare l’arma di John,
sparare a Gwen e risolvere tutto, senza che lei avesse il tempo di
ammazzare il dottore. Probabilità
scarse, tempo di reazione insufficiente, alta percentuale che John
venga colpito comunque, troppo rischio…Stupido, stupidissmo John!
“Io la capisco, Gwen.” Affermava Watson in quel momento, a
pochi passi da lei. “So come ci si sente ad essere traditi e
abbandonati da qualcuno che si ama…”
Sherlock, a quell’affermazione di John, si sentì personalmente e fastidiosamente tratto in causa.
“La mia migliore amica e l’uomo che amavo!” Esclamò Gwendolyn, lasciandosi andare alle lacrime.
“Sì, so cosa le hanno fatto.” Annuì
comprensivo John, sempre con le mani in alto. “E so anche che non
voleva uccidere Holly.”
“È stato un incidente! Io l’ho colpita ed è
caduta… su quel tavolo e poi… c’era un sacco di
sangue…” Raccontò sconvolta la ragazza. “Ma
se lo meritava, quella puttana traditrice!”
“Non peggiori le cose, adesso, Gwen.” Le disse paterno il
dottore. “Lasci andare Matt e forse avrà ancora
speranza.” Tentò poi.
“Io lo amavo e lui mi ha tradita! Mi ha mentito e l’ha
messa incinta!” Gridò però lei, minacciando ancora
il povero ragazzo, ormai ridotto ad una larva d’uomo dalla paura.
“Lo lasci andare, Gwen.” Insisté dolcemente John.
“Può ancora salvare qualcosa di se stessa, se lo lascia
andare…”
“Non so che cosa devo fare…” Mormorò lei, piangendo disperata.
“Mi dia la pistola.” Le suggerì lui con delicatezza.
“Mi dia la pistola e si sfoghi.” Aggiunse, allungando una
mano verso la sua, che teneva ormai blandamente l’arma.
Gwen scoppiò in un singhiozzo più forte, mentre John le
sfilava il revolver dalla mano, poi si accasciò tra le sue
braccia e lui la seguì per non farla cadere. La ragazza
cominciò a piangere ancor più disperatamente tra le sue
braccia. Il dottore allungò un braccio all’indietro e
Sherlock gli fu subito accanto per recuperare la pistola. Stevens, nel
frattempo, si era allontanato di qualche metro con un gemito sordo.
Holmes restò qualche istante ad osservare John che,
inginocchiato a terra, abbracciava con comprensione l’assassina
rea confessa. Per un fuggevole attimo, invidiò la naturale
empatia di Watson verso il genere umano. E si domandò per
l’ennesima volta, quanto lui dovesse aver sofferto e quanti dubbi
avesse avuto, durante la loro lontananza. Era giusto che Sherlock si
sentisse in colpa.
Durò poco, ad ogni modo, perché il consulente
investigativo riprese immediatamente il suo aplomb e chiamò
quegli incapaci di Scotland Yard.
Un paio di ambulanze e qualche auto della polizia riempivano lo spazio
davanti all’entrata del garage, illuminando il crepuscolo con i
loro lampeggianti, mentre Sherlock e John sedevano pacifici sul cofano
della macchina di Lestrade. Una scena familiare, dopotutto.
“Abbiamo consegnato un altro assassino alla giustizia.” Affermò John, incrociando le braccia.
“A quanto pare.” Commentò Sherlock, mani in tasca e
bavero alzato. “Le daranno delle attenuanti, è un omicidio
colposo ed era chiaramente fuori di se.”
“Lo spero.” Fece il dottore, ancora pieno di pietà per la donna.
“Del resto, anche la vittima non era esattamente
innocente…” Continuò Holmes tranquillo; John lo
guardò male.
“Stai parlando di una povera ragazza incinta a cui hanno
fracassato la testa, Sherlock.” Puntualizzò quindi,
indignato. Lui si limitò a stringersi nelle spalle.
Passarono qualche minuto nuovamente in silenzio, osservando Stevens
seduto sul retro di un’ambulanza con sulle spalle la classica
coperta arancione da shock. Ridacchiarono, quando un ricordo comune
attraversò la mente di entrambi.
“Sembravi preoccupato, prima.” Disse infine John, rompendo il silenzio, con tono furbo.
“Quando?” L’interrogò vago l’amico, senza guardarlo.
“Quando credevi che Gwen mi avesse sparato.” Spiegò Watson.
“Oh…” Fece Sherlock. “Credevo ti avesse sparato.” Si limitò a dire, come fosse ovvio.
“Quindi, ti preoccupi per me…” Ipotizzò il dottore, senza nascondere un sorrisetto compiaciuto.
“Sei mio amico, non dovrei?” Replicò Sherlock, sempre laconico.
John sorrise. Lui guardava da tutt’altra parte, ma il dottore
osservò il suo profilo chiaro contro lo sfondo dei palazzi
scuriti dalla sera. Una bella persona con un brutto carattere, ecco
cosa era Sherlock. E lui lo adorava, c’era poco da fare.
“Anche io ti voglio bene.” Gli disse infine, con un sorriso
dolce, provocando un’espressione perplessa sul viso tutto spigoli
del suo coinquilino preferito.
******
Il mattino dopo, John canticchiava in cucina, lavando i piatti della
colazione, mentre Sherlock era apparentemente assorto nella lettura dei
quotidiani sulla poltrona.
“Qualche cosa d’interessante?” Domandò il
dottore, asciugandosi le mani con uno straccio sulla soglia del
soggiorno.
“Hn, l’economia crolla e nessuno che si decida ad uccidere
un banchiere!” Rispose Holmes, sbatacchiando le pagine indignato.
John ridacchiò, gettando lo straccio su una sedia.
“Vado a farmi la doccia.” Annunciò quindi. “Dopo esco per la spesa, se vuoi…”
“Credo che andrò al Barts.” Replicò l’altro, sempre dietro al muro di carta.
“Ok.” Annuì Watson, prima di salire di sopra.
Quando Sherlock fu sicuro che John fosse al piano superiore, abbassò il giornale e scrutò la stanza.
La giacca di pelle del dottore era appesa accanto al suo cappotto,
dietro la porta. Il laptop abbandonato sul divano, si sarebbe presto
spento per mancanza di batteria. E il cellulare…
Gli occhi da felino predatore di Sherlock spaziarono velocemente nella
stanza, spingendosi fino alla cucina, per riuscire ad individuare il
telefono del proprio coinquilino. Che lo avesse portato di sopra? No,
lo dimenticava sempre giù… e allora? Ah! Eccolo…
Si alzò elegantemente, facendo frusciare la vestaglia di seta,
il giornale abbandonato per terra, e si diresse in cucina. Su un angolo
del pensile, vicino al bollitore elettrico, stava l’apparecchio
di cui aveva bisogno.
Lo prese e lo studiò un attimo, ripetendosi che stava per fare
un’azione necessaria. Era inutile parlarne con John, non avrebbe
capito le sue buone intenzioni. Non senza rimanere profondamente ferito
da quello che lui poteva rivelargli. E questo non era ciò che
Sherlock voleva.
Era perfettamente cosciente di aver ferito John innumerevoli volte, ma
questo non senza aver ferito ugualmente se stesso. Quindi, per evitare
dolore ad entrambi, era meglio che soffrisse un po’ qualcun altro.
Aprì il cellulare, digitò velocemente il messaggio e lo
inviò. Poi si premurò di far scomparire ogni traccia
delle sue azioni. Fu particolarmente attento. Il coinvolgimento emotivo
poteva essere causa di errori e lui non poteva permetterselo.
Rimise il telefono nella stessa esatta posizione in cui lo aveva
trovato e tornò alla sua poltrona, soddisfatto. Ma
continuò a chiedersi perché nessuno uccideva un banchiere
in modo sanguinario e fantasioso. C’erano momenti in cui Jim gli
mancava davvero molto.
«Ho bisogno di parlarti. 6 PM al parco dove ci siamo incontrati. JW»
Angela era ancora stupita di aver ricevuto quel messaggio da John.
Perché voleva incontrarla solo un paio di giorni prima del loro
appuntamento?
Ad ogni modo, quel mercoledì sera, mentre il sole si abbassava
rosso dietro i tetti di Londra, era andata nel parco dove si erano
rincontrati dopo quindici anni.
Si avvicinò alla panchina dove si erano seduti, guardandosi intorno, ma di John non c’era traccia.
Poco dopo, vide comparire una figura familiare dal fondo del giardino.
Era un uomo alto, con un lungo cappotto scuro; incedeva verso di lei
guardandola negli occhi, con andatura elegante. Il viso di cera fisso
in un’espressione dura.
“Signor Holmes…” Mormorò sorpresa, in fondo si erano visti solo quella sera a teatro.
“Buonasera, Angela.” Fece lui, con fredda educazione.
“O dovrei dire Mrs. Kubler?” Aggiunse con un’occhiata
retorica.
Angela, colpita, fece un passo indietro e spalancò gli occhi.
Trascorse un attimo prima che si riprendesse, come previsto da Sherlock.
“John sa che sono sposata con James.” Affermò quindi la donna.
Sherlock sorrise maligno. “Ci sono molte altre cose che John non
sa, Mrs. Kubler.” Disse, calcando sul titolo della donna, mentre
le dava le spalle e faceva qualche passo intorno alla panchina.
“Ma si da il caso che io sia Sherlock Holmes e che niente mi
sfugga.” Aggiunse, tornando a dedicarle un’occhiata
glaciale.
“Non capisco cosa vuole…” Tentò Angela, mentre lui le tornava davanti.
Sherlock sapeva essere imponente, se il caso lo richiedeva: postura
nobile, mani in tasca, grande aiuto da spalline e bavero del cappotto.
Gli piaceva incutere un certo timore.
“Le sarà sembrato un segno del destino, incontrare il buon
vecchio John quella sera, vero?” Le chiese, col tono di chi
sapeva già la risposta.
“Mi ha reso molto felice, sì.” Si difese lei, anche se il motivo le sfuggiva.
“Oh, sì, soprattutto tenendo conto che lei era appena
uscita da una visita alla clinica Brown & Ross, specializzata in
assistenza alla gravidanza e… inseminazione artificiale.”
Lei spalancò la bocca, ma
non disse nulla. “Ora, considerato che lei non mi sembra incinta,
deduco che le sue visite siano rivolte all’altra
specializzazione…”
“Non sono affari suoi!” Esclamò indignata la donna. Lui la fissò quasi con odio.
“Li ha fatti diventare affari miei, Mrs. Kubler.”
Sentenziò quindi. “Dicevamo…” Riprese come se
nulla fosse, continuando a camminarle intorno. “… il suo
desiderio di maternità inappagato l’ha portata a tentare
più volte l’inseminazione artificiale in una delle
più rinomate cliniche di Londra, ma non è accaduto
nulla… La famiglia di suo marito è ricca e prestigiosa,
quindi presumo che non vi manchino i mezzi per tentare ogni strada,
ma…”
“La prego…” Supplicò Angela, ma niente avrebbe potuto impietosire Sherlock.
“Ma conosco le famiglie come quella, il sangue conta ancora
qualcosa a quei livelli e quindi…” La fissava implacabile.
“…immagino che non si voglia sentir parlare di
inseminazione eterologa o di adozione…”
Angela sospirò arresa. “Mio marito e suo padre sono inflessibili: deve essere un Kubler, ma…”
“Il problema è di James.” Concluse Holmes, lei lo guardò stupita, ma poi annuì.
“Non capisco cosa c’entri tutto questo con John.” Disse la donna, scuotendo il capo.
“Oh, c’entra molto, invece.” Fece Sherlock, prima di
allontanarsi di un paio di passi. “Quella sera, uscita
dall’ultima, deludente, visita in clinica, lei incontra per caso
John Watson.” Cominciò a spiegare il detective. “Un
vecchio compagno di università, cui lei aveva voluto
moderatamente bene, che l’aveva aiutata senza chiedere niente in
cambio e che, lo sapeva bene, quindici anni fa era perdutamente
innamorato di lei.”
“Io… io non…” Provò ad intervenire,
bloccata dalla mano di Sherlock sollevata a mo’ di stop.
“Mi lasci finire, poi potrà smentirmi, oppure no.”
La pregò poi. “John Watson, dicevamo, un uomo pieno di
belle qualità, intelligente, simpatico, gentile, generoso,
coraggioso…”
“John è una bellissima persona.” Affermò
Angela, prima di essere nuovamente trafitta da un’occhiata feroce
di Sherlock.
“Questo lo so benissimo, non c’è bisogno che me lo
dica lei.” Replicò con tono pericoloso. “Per questo
le impedirò in qualunque modo di fargli del male.”
“Io non voglio fare del male a John…” Replicò blandamente Angela.
“Quindi nega di aver pensato di usarlo per concepire un figlio e
poi far credere ai Kubler di averlo fatto con suo marito?” Le
domandò gelido l’investigatore.
Angela, a quelle parole, spalancò gli occhi e barcollò,
come colpita da una spinta, poi si appoggiò alla spalliera della
panchina e si sedette, cominciando a singhiozzare.
“Oh, mio Dio…” Esalò la donna, aggrappandosi alla propria borsetta.
Sherlock era di nuovo davanti a lei, le mani in tasca e nessuna espressione sul volto di marmo.
“So che è in crisi con James e che lui non vive più
a casa da un po’.” Affermò Holmes, sorprendendola
ancora una volta. “Ma so anche che ne è ancora innamorata
– debolezza facilmente intuibile dal fatto che non ha tolto fede
e anello di fidanzamento…” Li indicò al suo dito,
mentre lei lo fissava incredula. “…sono puliti, curati,
chiaro segno di affezione al matrimonio, li portava anche quella sera a
teatro, quindi mi spieghi perché? Perché voleva fare
questo a John?”
“Non lo so.” Negò lei, con le mani sul viso, poi le
posò ai lati delle gambe, sul bordo della panchina. “Sono
impazzita, volevo un figlio a tutti i costi… Quando ho rivisto
John mi è sembrato che il destino finalmente fosse dalla mia
parte, avrei avuto un bambino bellissimo e loro… i Kubler,
avrebbero creduto che somigliasse a me…”
“La smetta, non sono qui per consolare donnette.”
Intervenne duro lui, lei sospirò e prese un fazzolettino dalla
borsa. “Cosa pensava di fare? Stare con lui finché non
rimaneva incinta, poi lasciarlo e tornare da James, facendogli credere
che il figlio fosse suo? John è un uomo buono e non si merita di
essere usato in questo modo.”
“Oddio, lo so!” Esclamò lei sconvolta,
quell’uomo sembrava leggerle nella mente. “Non so cosa
pensavo, ero fuori di me!”
“Mi ascolti bene.” Le ordinò allora Sherlock,
obbligandola a guardarlo. “Lei dirà a John che non potete
vedervi più, trovi una scusa sufficientemente valida e tagli i
rapporti…”
“Glielo dirò a cena…” Fece Angela.
“No, non ha capito.” Disse autoritario Holmes. “Non
voglio che lo veda mai più, lo chiamerà per parlargli e
poi sparirà dalla sua vita.” Spiegò serissimo.
“E se io non volessi farlo?” Replicò debole la donna.
“Mi creda, non vuole mettersi contro Sherlock Holmes.” Le
garantì lui, un’espressione che garantiva fosse disposto a
tutto e privo di scrupoli.
“Perché lo fa?” Gli chiese allora Angela, mentre finiva di asciugarsi il viso.
“John Watson è mio amico e nessuno può permettersi
di farlo soffrire.” Rispose Sherlock, e per una volta lei vide
delle emozioni nei suoi occhi di ghiaccio. Era sincero.
“Farò come vuole, Signor Holmes.” Acconsentì
infine Angela, con un sorriso amaro. “E troverò la mia
soluzione altrove.”
“Bene, non abbiamo altro da dirci.” Fece lui, annuendo.
“Addio, Mrs. Kubler.” Salutò quindi, prima di
girarsi per andare via.
“Signor Holmes.” Lo richiamò però lei;
tornò a guardarla. “John è un uomo molto
fortunato.” Affermò la donna, lui la fissò
interrogativo. “È fortunato ad avere qualcuno che lo ama
così tanto.” Spiegò quindi, alzandosi.
“Io non ho parlato di am…” Tentò di replicare l’uomo.
“Addio, Signor Holmes.” Lo salutò Angela,
interrompendolo, quindi, con un sorriso rassegnato ma composto, si
allontanò da lui senza aggiungere altro.
Sherlock rimase a fissare la sua schiena allontanarsi, mentre i lampioni iniziavano ad accendersi.
Sapeva di aver fatto la cosa giusta, anche se sarebbe stata dura per
John. Stasera gli avrebbe suonato qualcosa di dolce, col Guarnieri che
non aveva ancora restituito – per la gioia delle coronarie di
Lestrade. Sarebbe passata anche questa, ci avrebbe pensato lui.
*****
Una giornata particolarmente limpida splendeva su Londra, quel
giovedì. Era quasi mezzogiorno e il sole era piacevole su quel
campo da golf.
John chiuse il cellulare con una smorfia amara. Bella giornata,
sì. Tranne che per il suo umore. E per la sorte del poveraccio
steso a faccia in giù sull’erba.
Scese la collinetta, diretto alla porzione di campo occupata dal
gruppetto di yarders e da Sherlock, mentre la scientifica, con le tute
azzurre, montava un gazebo.
La notizia che aveva appena ricevuto non era delle migliori, ma erano
cose che capitavano. L’amarezza sarebbe passata e non era giusto
far pesare un problema del tutto personale sull’indagine in
corso. Si avvicinò agli altri, mentre Sherlock era chinato sul
corpo.
John si fermò accanto a Greg ed osservò la vittima. Era
un uomo di mezz’età che indossava una perfetta e molto
firmata tenuta da golf, completa di cappellino bianco e arancione. Lo
avevano appena voltato e si poteva vedere bene il foro insanguinato sul
petto della polo bianca. Beh, proprio bianca… e anche la
faccia…
“Perché è verde?” Domandò il medico perplesso. Sherlock roteò gli occhi tacendo.
“I campi da golf usano dei coloranti per rendere l’erba più verde.” Spiegò Lestrade.
“Ah… ecologico…” Commentò Watson.
“Allora, come è successo?” Domandò quindi.
“Un colpo d’arma da fuoco al petto.” Rispose Anderson. “Una nove millimetri…”
“Non sono certo che si tratti di una nove millimetri.” Intervenne Sherlock interrompendolo.
“Oh, andiamo!” Sbottò il poliziotto. “Il foro
è perfetto, ho misurato il diametro! Non può che essere
così!” Aggiunse piccato.
“Bene, allora cerca il bossolo e quando lo avrai trovato ne
riparleremo.” Proclamò Holmes, prima di dargli le spalle e
incamminarsi, seguito da John. “Ah…” Fece poi,
girandosi di nuovo. “È qui da ieri sera.”
Rivelò con nonchalance.
“Come accidenti fai a dirlo?” Esclamò Greg.
“Tutta la sua parte posteriore è bagnata, è rimasto
esposto al getto dell’irrigazione automatica.”
Spiegò tranquillamente Sherlock. “Se fosse venuto
stamattina per giocare non sarebbe successo e poi…
c’è un’altra cosa che ci dice che non era qui per
giocare: dov’è la sua attrezzatura?”
I poliziotti e anche John si guardarono intorno, seguendo il gesto
ampio delle braccia di Sherlock: nessuna giardinetta, nessuna borsa da
golf, niente mazze e palline in tutto il prato.
“Riflettete.” Consigliò quindi il consulente, mentre lasciava il luogo del delitto.
Lui e John camminarono affiancati per un po’, attraversando il
campo da golf verso la palazzina in stile tudor sede del club.
“Chi era, prima al telefono?” Chiese distrattamente Sherlock, mentre attraversavano un green.
“Ah, sì… scusa se mi sono
allontanato…” Biascicò John, guardando dentro la
buca della bandierina.
“Figurati.” Glissò l’altro, con un cenno della mano.
“Era Angela.” Confessò quindi il dottore. “Non ci vediamo più, domani sera.”
“Ha spostato l’appuntamento?” Sherlock tentava di
sondare il terreno senza dare a vedere che era piuttosto interessato.
“No, veramente lo ha disdetto… per sempre.” Rispose
Watson, osservando con espressione delusa il laghetto alla sua destra.
“Oh…” Commentò Holmes, senza aggiungere altro.
“Sembra che stia provando a far pace col marito, sai… Cose
che capitano, non pensavo certo lo lasciasse per me…”
Affermò John, fingendosi indifferente con un’alzata di
spalle.
“Mi dispiace.” Disse Sherlock, atono.
John si fermò, obbligandolo a fare lo stesso, poi lo
guardò, prima sorpreso, poi con un sorrisetto sarcastico.
“Non è vero.” Sentenziò quindi, prima di
scuotere il capo e riprendere a camminare.
“Potresti fare finta di crederci, per una volta.” Soggiunse
l’altro e Watson scoppiò a ridere, accompagnato poco dopo
da Sherlock.
Bene, il piano aveva funzionato. Angela lo aveva mollato, John non
sospettava minimamente dei veri motivi e lui lo aveva fatto ridere.
Quella donna con suo marito. E John con lui. Ogni cosa tornava al suo
posto.
******
Sherlock era davanti al camino, voltato verso il divano ed inquadrava
nel mirino il centro esatto dello smile giallo sulla parete di fronte.
La freccia scoccò esattamente nel momento in cui John
attraversò la porta di casa, conficcandosi nel muro con un
rumore sordo.
“Quella è una balestra?” Domandò il dottore,
immobile davanti all’entrata; ormai non si stupiva più
delle armi assurde che poteva trovare in mano al proprio coinquilino.
“Hmhm.” Annuì Sherlock, mentre ricaricava
l’attrezzo. “Balestra professionale da tiro.”
Spiegò quindi, asciutto.
John alzò retoricamente le sopracciglia e si spostò in
cucina, assimilando tranquillamente la novità, come qualcuno
dalla vita normale accetterebbe delle tende nuove.
“C’entra qualcosa con l’omicidio del campo da
golf?” Chiese ancora Watson, mentre posava sul poco spazio libero
del tavolo quello che aveva in mano.
“Hmhm.” Annuì ancora Sherlock.
“Ma non era stato ucciso con una calibro nove?” S’informò John.
“Stesso diametro, arma diversa.” Rispose flemmatico il detective, continuando ad esaminare il mirino.
“Mrs. Hudson ti ha mandato una torta al rabarbaro.” Annunciò allora il dottore.
“Oh!” Fece Sherlock, voltandosi improvviso verso
l’interlocutore. “Adoro le torte al rabarbaro di Mrs.
Hudson!” Esclamò poi, lasciando la balestra ed andando a
controllare il dolce.
John sorrise. Quelle torte erano una delle poche debolezze culinarie di
Sherlock e la cosa non finiva di intenerirlo, cosa strana parlando di
un odioso sociopatico grande e vaccinato.
“Metto su il the.” Affermò nel frattempo Sherlock,
sorprendendo piacevolmente Watson, che però pensò che non
avrebbe potuto goderselo insieme all’amico.
“Mi dispiace, ma… sto uscendo.” Il dottore fu costretto a dirlo a malincuore.
Il detective si girò verso di lui con espressione seria. “Qualcuno che conosco?” S’informò.
“Beh, ecco… sì, insomma…”
Balbettò incerto John. “È il compleanno di Sarah,
andiamo a bere qualcosa al pub, con altri suoi amici.”
Confessò infine.
Sherlock, dentro di se, sentì qualcosa alleggerirsi. Appena
aveva sentito parlare di un’uscita il suo cervello l’aveva
collegata ad Angela, considerando vanificato il suo intervento. Invece
non era andata così. E lui era sollevato.
“Capisco.” Commentò infine, con la sua solita
impassibilità, celando come sempre i suoi pensieri tumultuosi.
“Vuoi… venire anche tu?” Domandò delicatamente John; Sherlock sbuffò un sorriso.
“Non credo che Sarah ne sarebbe felice.” Rispose poi,
mentre accendeva la teiera. “Preferisco la torta di Mrs.
Hudson.”
“Beh, allora… vado a cambiarmi.” Annunciò il
dottore, facendo per dirigersi alle scale, ma si girò di nuovo.
Sherlock lo guardò interrogativo. “Lasciamene una fetta,
ok?” Disse, indicando il dolce.
Holmes sollevò le sopracciglia. “Non lo so, se torni presto.” Replicò furbo.
Il dottore rise, iniziando a salire le scale. “Questo è un ricatto!” Sbottò allegro.
“Forse sì.” Soggiunse Sherlock, la risata di John si perse sulle scale. “Basta che torni…”
“Hai detto qualcosa?” S’informò Watson, affacciandosi dal pianerottolo superiore.
“No, niente.” Fu la risposta pacata di Holmes.
Sherlock Holmes era un uomo che aveva passato la vita a costruirsi
un’impenetrabile barriera fatta di ferrea logica, ignoranza delle
emozioni e lucida deduzione. Non riusciva a capire – e questo lo
confondeva – come qualcuno di così privo di logica,
sentimentale e umano come John Hamish Watson fosse riuscito ad
infiltrarsi fino a raggiungere un nucleo nascosto e vulnerabile del suo
io. Evidentemente gli doveva essere sfuggita una falla, una crepa
piccola e nascosta e lui se ne era approfittato. Eppure, nonostante
avesse provato a farne a meno, imponendosi un monacale distacco, alla
fine aveva dovuto arrendersi all’evidenza. Per quanto fallibile,
illogico e comune lui fosse, Sherlock non poteva vivere senza John.
Ma questo, probabilmente, non glielo avrebbe mai confessato.
Perché anche lui preferiva avere i suoi piccoli, sporchi segreti.
FINE
NOTE
- non ho idea se ci sia un parcheggio interrato al
Covent Garden, anche se presumo di sì (io ci son stata con la
metro, quindi…), ad ogni modo, fate finta che ci sia, mi serviva
^_-
- non so come mi è venuta l’idea della
torta al rabarbaro, non so manco come si fa, però mi piaceva
associarla a Mrs. Hudson!
Infine, un grazie di cuore a chi ha letto, messo nei preferiti,
seguiti, ecc. questa storia e, soprattutto, a coloro che hanno lasciato
un commento! Spero che sarete in tanti anche stavolta!
Un bacio!
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