Dopo la seconda morte

di purepura
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La chiamata ***
Capitolo 2: *** Dopo troppo tempo ***
Capitolo 3: *** Per un solo istante ***
Capitolo 4: *** Grazie a un solo bagliore ***
Capitolo 5: *** Decisioni ***
Capitolo 6: *** Ultimo compito ***
Capitolo 7: *** Tecnologia ***
Capitolo 8: *** Troppo presto ***
Capitolo 9: *** Tutto in una giornata ***
Capitolo 10: *** A Seattle ***
Capitolo 11: *** Venale ***
Capitolo 12: *** Impaziente ***
Capitolo 13: *** Dividersi tra ***
Capitolo 14: *** Verso Vancouver? ***
Capitolo 15: *** Senza esito ***
Capitolo 16: *** Conteggiando il nuovo ***



Capitolo 1
*** La chiamata ***


Dopo la seconda morte
01 - La chiamata



Devo ringraziare Pirandello e il suo Mattia.



    Nell’esatto istante in cui pensai di chiamarlo, squillò il telefono.
    Non si faceva sentire, non molto.
    Quasi mai.
    Mai.
    Nicole mi aveva rivelato di averlo visto diverse volte, con la barba incolta, alla tv.
    Risi.
    Era diventato il buon sammaritano di turno, da idolatrare e ammirare. Presto se ne sarebbero tutti dimenticati.
    Mi alzai. Non poteva essere Nicole. Mi aveva chiamata la sera precedente, non era possibile che ci fossero novità. Non così presto.
    «Sì, pronto?»
    Tossì. Ricordo che tossì.
    Declan.
    Quasi sbuffai.
    Che cosa mi ero aspettata? Stupida!
    ‘Autodistruttiva. Non porterà a nulla’.
    Nicole aveva sfatato ogni dubbio. Prima no, perché abitate sotto lo stesso tetto. Poi ancora no, perché è una relazione (e grazie al cielo aveva ammesso almeno quello!) poco sana.
    Avrebbe potuto dire subito: no, perché è una relazione malsana. Si sarebbe risparmiato tempo.
    «Jessi?»
    «Proprio io. Da dove chiami?»
    «Asia. Arabia Saudita. Solo che non ero certo del numero: Nicole me l’ha dettato in fretta».
    «Tranquillo, sono proprio io. Cosa ti serve?»
    «Aiuto».
    «Immaginavo».
    Era una cosa che mi piaceva di Declan: snocciolava, quando serviva. Andy era quella che si metteva a fare discorsi lunghissimi, prima di centrare il punto. Stare al telefono con lei significava procurarsi una sedia e un qualche passatempo.
    E poi, un flash.
    «Sta bene?»
    Purtroppo Declan non era Kyle. Potevo del tutto omettere i soggetti, con lui.
    «Nicole? Certo! Mi ha detto che vi sentite, ogni tanto…».
    «Intendevo Kyle, Declan».
    «Oh. Non proprio».
    «Prendo il primo aereo».
    E la tua nuova filosofia, Jessi? Una vocina che parlava con la fastidiosa voce di Nicole mi ammonì. Vivi tu per te stessa. Basta vivere per lui. Ora conta ciò che pensi tu di te.
    Non è che la mia opinione di me stessa fosse migliorata, specialmente da quando Nicole ed io condividevamo un segreto che avrebbe fatto andare Kyle su tutte le furie.
    Perciò mi limitai a ignorare la Coscienza e a farmi dettare ogni singolo dato utile per poterli raggiungere subito.
    «È successo tutto molto all’improvviso».
    «È ferito?»
    «No, è malato».
    «Malato? Noi non ci ammaliamo».
    «Per questo ho chiamato».
    «Non esistono i dottori, Declan? Io non sono un dottore!»
    «Ha chiesto lui di vedervi. Aspetta un attimo…».
    Riflettei, mentre sentivo dall’altra parte che qualcuno gli stava comunicando qualcosa. Perché Nicole, la sera prima, non mi aveva detto nulla? Che non lo sapesse ancora nemmeno lei?
    «Perché mi hai chiamato tu?» Mi rigiravo il filo del telefono fra le dita. Lo udii impiegare un po’ per smettere di conversare là, in Asia, però mi aveva sentito, perché appena libero mi rispose. «Non vuole che i suoi lo sappiano. Mi ha chiesto di raggiungere te e Foss».
    «Ma Nicole ha tutto il diritto di…».
    «Diritto o non diritto, è questo che mi ha chiesto di fare. Ho già avvisato Foss. Sta arrivando». Il suo tono si fece quasi scocciato.
    «Ma che cos’ha?» Ignorai la provocazione: Foss non ha rotto così tanto i coglioni come stai facendo tu.
    «Non ho tempo di spiegartelo qui. In ogni caso, i medici ci sono, ma evidentemente il vostro corpo reagisce in modo diverso e presenta sintomi strani che non corrispondono a nessuna malattia».
    «Ha una malattia sconosciuta?»
    «Non saprei. Non sanno nemmeno loro cosa dire, ancora. Per favore, vieni. Non so che cosa deve dirvi, ma sono certo che è importante».
    «Certo che verrò», dissi, freddamente. «Sei tu che ti fai idee sbagliate».
    Restò in silenzio. Sospirai.
    «Scusa. Ma come puoi pensare che potrei dire di no? Ho detto solo pochi istanti fa che sarei venuta».
    «L’hai già fatto, no?» Parlava in fretta, forse per il nervosismo. «Ti aveva chiesto di accompagnarlo e tu dicesti di no. Sbaglio?»
    «No. Ma erano circostanze differenti. E di sicuro non devo raccontarle a te. Grazie per avermi avvertito. Farò più in fretta che posso».
    Riagganciai senza dargli il tempo di aggiungere altro. Forse avrei dovuto dirlo io a Nicole. Ma se Kyle aveva desiderio di tenerla all’oscuro… Avrei prima aspettato di vederlo, decisi. Se le cose fossero state… serie… allora sarei stata la prima a chiamarla.
    Ma per il momento non volevo pensare a quell’eventualità. Mi limitai a recuperare la carta di credito, qualche vestito, il portafogli e la mia grinta di un tempo, che sembrava essere evaporata dal giorno in cui lui mi aveva lasciata, anni prima. Quasi in contemporanea, avevo lasciato Seattle.















Salve!
Prima fan fiction su questo fandom. Sono emozionatissima! :)
Forse non sono stata l’unica a essere rimasta delusa (che dico shoccata, infuriata!) dalla fine della storia, o meglio dalla sua non fine.
Così ho deciso di provare a rimediare, dando certamente retta alla mia testa, che quest’anno è esplosa prima del tempo causa esami di maturità!
Devo ringraziare Channy per avermi dato l’ok. :) Grazie alla sua fan fiction mi si è accesa la lampadina, e i fari dell’illuminazione mi hanno circondata. Così eccomi qui!
Vi avverto: è una fan fiction diversa dalle solite, non avevo idea di dove volesse andare a parare, e quasi non lo so adesso.
Vi ringrazio se siete arrivati sino a qui.

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Capitolo 2
*** Dopo troppo tempo ***


Dopo la seconda morte
02 - Dopo troppo tempo



Per il mese prima di un addio…



    Lasciare un messaggio sulla segreteria telefonica dei Trager non fu così facile. Dovevo stare attenta a ciò che dicevo. Dissi che l’università presso la quale lavoravo aveva richiesto dei volontari per una partenza lampo, in Europa. Dissi che sarei stata molto impegnata, una volta là, e che, se non mi fossi fatta sentire molto, non si sarebbero dovuti preoccupare, presa come sarei stata sicuramente dal lavoro.
    Mandai un messaggio a Declan, prima di salire sull’aereo. Mi aveva dato un numero da poter contattare. Dissi semplicemente che stavo per arrivare. Da lì a qualche ora sarei atterrata, dopo vari scali, poi avrei dovuto raggiungerli nel microscopico villaggio che mi aveva descritto. Avevo diverse cartine, ma quel villaggio non c’era da nessuna parte. Sospettavo, a torto o a ragione, logicamente o illogicamente allora non me lo chiesi, che nessuno si desse la briga di aggiornare le cartine geografiche solo per infilarci uno sconosciuto villaggio di uno stato asiatico.
    Mi sarei posta il problema una volta atterrata a Riyad.
    Ottawa, in tanto, mi sarebbe mancata. Esattamente come mi era mancata Seattle anni prima.
    Sarei tornata presto, mi sforzai di convincermi. Sarebbe stata una cosa banale, un patetico raffreddore che quegli incompetenti non erano riusciti a riconoscere. Ma perché chiamare Foss? Non avevano istruito Declan proprio per evitare che Foss dovesse correre sempre dovunque?
    Scossi la testa e guardai fuori dal finestrino. Il sole stava per tramontare quando affrontai il primo scalo, da qualche parte in Russia. Poi ci fu una seconda tappa e finalmente arrivai a Riyad. Qui era mattino inoltrato.
    Essendo febbraio, non faceva particolarmente caldo. Non c’erano più di venti gradi.
    Il villaggio distava chilometri, m’informai, così noleggiai un’auto e un autista, col quale mi allontanai dalla capitale, prima di congedarlo e proseguire da sola. Molti parlavano inglese, a parte il loro dialetto najdi.
    La vecchia jeep, che in seguito avrei definitivamente acquistato, raggiunse il villaggio in cinque ore. Declan non aveva risposto al mio messaggio; così, poco prima che arrivassi, chiamai.
    «Avresti dovuto informarti. Declan sta iniziando a mentire spesso». La sua voce era stanca, fioca. Non aveva risposto subito, e non vi era alcuna allegra intonazione nel suo timbro.
    In una frazione di secondo, nella quale rischiai anche di sbandare, mi passarono per la mente parecchi pensieri. Perciò risposi quasi immediatamente, mentre un inspiegabile senso di paura e sollievo mi pervadeva lo stomaco.
    «Non ha mentito. Io non gliel’ho domandato. Davo per scontato che il cellulare fosse il suo».
    Che bella fregatura! Mi rifiutavo da anni di parlare con lui ed ecco che Declan attuava uno stratagemma di questo genere. Certo, se mi stavo recando da lui, avevo anche messo in conto di parlargli, però non così presto. Non ero pronta alla sua voce nel telefono.
    Mi aveva dato quel numero ben sapendo di chi fosse, quello stronzo. Aveva eclissato l’informazione. Però non aveva mentito sulla malattia di Kyle. Lo sentivo dalla sua voce, dal suo respiro. E no, non si trattava di un raffreddore.
    «Dove sei?» Non pronunciò il mio nome.
    «Vicino. Sto arrivando».
    «Torna indietro». Un ordine. Che fine aveva fatto Kyle? Chi era quest’uomo, mi domandai, che mi parlava come fossi un oggetto, un pacco postale indesiderato che si sarebbe potuto rimandare indietro?
    Questa volta restai zitta più a lungo, cercando di smaltire la rabbia. «Non sei stato tu a dirgli di chiamarci?»
    «Io ho fatto chiamare Foss».
    Traduzione: non ti voglio qui. Ma allora perché Declan mi aveva avvertito?
    La stizza aumentò. Negli anni avevo imparato a sopprimere molte emozioni, per riuscire a sopravvivere, ma sentirmi buttare addosso, senza il minimo tatto, un’informazione del genere, ebbe il potere di risvegliare vecchie sensazioni che pensavo di aver domato.
    Accelerai. Ero stufa di non capirci nulla.
    «Sono quasi arrivata», ripetei. «Non mi costa nulla proseguire. Se non altro, posso picchiare Declan». Posso rivedere te.
    «Non serve che tu venga». Un altro ordine.
    «Foss invece ti serve, ovvio».
    «È qui per un determinato motivo. Tu non avresti motivi».
    Esitai. «Mi è stato detto che stai male».
    «Questo non è un motivo valido».
    «No? Neanche per il fatto che lo so? Non ho chiesto io a Declan di riferirmelo».
    «Nemmeno io ho detto a Declan di avvertirti».
    «Bene». Scocciata, arrivai a destinazione. Case di mattoni e baracche si susseguivano a intervalli regolari. «Come ti pare. Sono arrivata, sono già scesa e non me ne andrò finché non avrò capito cosa sta succedendo».
    Inoltrandomi nella città a passo svelto, notai immediatamente che non vi erano molti abitanti. Macchine e animali si alternavano allegri per le strade. Riagganciai senza dargli il tempo di dire nient’altro, e dopo poco fu proprio Foss che mi venne incontro, a passo svelto, da una stradina laterale. Nessun altro sembrava avermi notato.
    Foss pareva infuriato, oltre che agitato. «Che cosa fai qui? Declan mi sente non appena arriva!»
    «Dov’è?» Nessuno che si fosse preso la briga di dirmi ‘Ciao’.
    «A dirigere con altri quello che Kyle stava facendo. Kyle non vuole che tu entri».
    «È contagiosa, questa cosa?»
    «Non lo sappiamo». Mentre parlava, lo sorpassai. Avevo udito il cuore di Kyle. Era vicinissimo. «Mi hai sentito, Jessi? Non ti farò entrare».
    Mi afferrò un polso, ma si ritrovò con la schiena a terra pochissimi istanti dopo.
    Non avevo percorso tutta quella strada per farmi fermare da uno come Foss. Non avevo fatto tutta quella strada per farmi fermare da nessuno.
    Non credo si aspettasse di vedermi: forse pensava che Foss sarebbe riuscito a dissuadermi dall’entrare. Questa era la prova del fatto che non mi aveva mai davvero conosciuto. Adesso ricordo della sua sorpresa e non ci badai allora perché ero concentrata sul suo viso. Non mi ero resa conto che il suo battito era accelerato né, in effetti, che aveva fatto parecchi passi indietro. Vidi, in quel momento, il suo volto pallidissimo. Gli occhi sembravano luminosissimi. I capelli e la barba scuri, forse più lunghi di come li ricordassi.
    Mi squadrò, gli occhi all’erta, in piedi dall’altra parte della stanza. Lo guardai. La porta non si chiuse dietro di me, perché Foss entrò infuriato, pronto a trascinarmi fuori con la forza. L’avrei picchiato forte se ci avesse riprovato.
    «Ehi, ragazzina! Non sei la sola che ha fatto un lungo viaggio. E comunque non servi a nessuno. Declan ha fatto come al solito di testa sua».
    «Foss». Kyle lo ammonì, con un tono basso ma incontrovertibile. Temeva forse che potesse essere maleducato?
    «Che cosa c’è! Nemmeno tu la volevi qui, quando l’hai saputo; non far finta di niente, ora».
    «Perché Declan mi ha chiamata?» Se lui voleva che me ne andassi, doveva prima spiegarmi.
    «Questi non sono affari tuoi. Non avresti dovuto saperlo, ragazza. Ora lo verranno a sapere anche i Trager, si precipiteranno qui e succederà il finimondo».
    «A loro ho mentito, non sanno che sono qui. Ma perché mi ha chiamata, se davvero non servo?»
    «Avrà creduto che tu potessi aiutarmi», mi rispose, in tono quasi divertito.
    Ti stai prendendo gioco di me?
    Non mi guardava. Tendeva lo sguardo di lato, guardando fuori da una finestra. Mi sembrò dimagrito, ma forse era solo la suggestione di quel momento. Non ero ancora riuscita a decifrare nulla di quello che poteva provare. Come se uno scudo lo stesse avvolgendo, allontanandolo. Un tempo ogni cosa mi era chiara.
    «Ma non è così», proseguì. «Vattene via».
    Era la terza volta che me lo ordinava, quel giorno. Un tempo, se gli fossi stata sgradita, la mia realtà si sarebbe frantumata, lasciandomi senza fiato. Lui era l’unica cosa che la teneva in piedi, tempo prima. In quel momento, invece, feci un passo avanti. Doveva esserci un motivo.
    «Non posso andarmene sapendoti in difficoltà». Avvertii l’esigenza di avvicinarmi, di toccarlo e osservarlo. Non avevo dimenticato di quanto fosse bello, ma quei pochi secondi prima dell’entrata di Foss non erano bastati. Il suo sguardo era subito sfuggito, andando oltre, sorpassando la mia figura come se non fosse nulla di particolare. Come se per lui non fossero passati cinque anni. «Permettimi di fare qualcosa. Se Declan mi ha chiamata…».
    «Non avrebbe dovuto farlo!» Foss alzò la voce all’improvviso. Mi si avvicinò, sovrastandomi.
    «Foss». Di nuovo quel tono d’avvertimento. Non capii il senso di quel gioco, ma decisi che sarei stata io a porvi fine.
    «Rilassati», sospirai, esasperata. «Parli come se la mia presenza possa creare danni a qualcuno. Foss, girami alla larga. Aspetterò Declan qui fuori: mi sembra l’unico intenzionato a rispondere alle mie domande. Non dovrete sorbirvi la mia presenza. Non appena avrò capito che cosa sta succedendo, se davvero non posso fare nulla, allora me ne andrò».
    In quel momento avvertii il suo sguardo su di me. Era sorpreso, lo vidi nei pochi istanti che precedettero la mia uscita da quella stanza.
    Ero arrivata lì da pochissimi minuti, e già mi ero irritata. In ogni caso, avevo imparato in quegli anni che discutere non portava mai a nulla. L’ultima volta che avevo discusso, gridando e piangendo, era stato il giorno in cui mi aveva lasciato. Non vedeva alcun futuro, diceva. Qualche giorno dopo, aprendo la porta ad Amanda, mi aveva inconsapevolmente – o almeno sembrava essere tale – indotta ad andare via. Mi aveva vista attraversare l’ingresso, carica di borse. Non mi aveva fermata.
    La porta si aprì di nuovo, dopo poco tempo.
    Mi si sedette a fianco, sul gradino impolverato dell’ingresso, come fossimo ancora a casa Trager e cercassi conforto perché Sarah non si era presentata.
    «Tornatene dentro. Qui è pieno di sporcizia».
    «Jessi…».
    «Me ne andrò quando avrò saputo da qualcuno la verità», rimarcai in tono aggressivo.
    «Io non ti ho mentito».
    «Ma nemmeno mi hai risposto. Si può sapere che cos’hai? Declan non ha voluto dilungarsi».
    «È sempre tanto impegnato, da quando… Non avrà avuto molto tempo».
    «Da quanto tempo stai male?»
    «Non da ieri, ecco».
    «E questo che significa? Che risposta è?»
    Lui che evitava di rispondere alle domande? Che divagava?
    «Da quanto tempo sei ridotto così?»
    «Da un po’. Solo che speravo passasse. Ma devi andartene. Se è contagiosa…».
    «Foss ha detto che non lo sapete. Non sapete nemmeno che malattia sia. Non preoccuparti per me. Kyle, ma che cosa stai facendo, qui? L’ultima volta ti sapevo in Africa».
    «Mi spostavo velocemente. Non rimanevo molto nello stesso posto».
    «Da quanto sei qui?»
    «Più di un anno. Ho iniziato a sentirmi male solo negli ultimi mesi, però. Come ti ho detto…».
    «Speravi ti passasse. Ma perché hai chiamato Foss?»
    «Declan era inquieto. Non accettava l’idea di lasciarmi qui da solo, mentre andava a occuparsi di quel che stiamo facendo – non potevo permettere, vedi, che rimanesse incompiuto. Gliel’ho proposto io. Appena, questa notte, è arrivato Foss, lui è partito. Dovrebbe tornare, però. Presto».
    Guardò alla sua sinistra, verso una lunga strada che sfociava in aperta campagna, come se si aspettasse di trovarlo lì, pronto a fornire le spiegazioni che ero certa entrambi stessimo aspettando.
    Io guardai lui. Non sembrava malato. Se non avessi saputo che qualcosa non andava, mi sarei meravigliata nel vederlo tranquillo, seduto sui gradini di una casa di mattoni.
    «L’ultima volta che ti ho parlato», mi disse, «ti avevo proposto di seguirmi, ricordi? E ora basta che Declan ti parli due minuti, che tu prendi il primo aereo e corri qui». Sorrise. Sdrammatizzava. Non funzionò.
    «L’ultima volta stavi bene, più che bene. E inoltre, come hai detto, mi chiamasti tu. Ero ancora piuttosto arrabbiata».
    Restò in silenzio, allontanando ancora di più lo sguardo. L’allusione al passato doveva averlo momentaneamente zittito. Mi domandai dove si stesse rifugiando con la mente, per rimanere così controllato.
    «Se è contagiosa, però», mi venne in mente all’improvviso, «anche Foss potrebbe ammalarsi».
    «Nessun altro di quelli che sono qui se ne è ammalato. E sono un bravo medico, Jessi. Sono sicuro che non possa colpire loro».
    «Quindi è solo per questo che vuoi che me ne vada?» Il sollievo nella mia voce non si percepì per miracolo. Era troppo concentrato sulla reazione successiva, probabilmente, per notare la mia felicità. Pensavo di essere sgradita per un qualche oscuro segreto, e invece la ragione era la mia incolumità.
    Sarei potuta morire milioni di volte, per lui.
    «Solo, sì». Spazientito, si alzò. Lo osservai camminare avanti e indietro. Mi chiesi, per la centesima volta, che malattia potesse avere. «Se ti ammali, Jessi…».
    «Sarà solo e soltanto colpa mia. Tu me l’hai detto, no? Ancor prima che mettessi piede qui. Se è per questo che non mi vuoi, Kyle, resta pure tranquillo. Ora sto decidendo io, consapevole di ogni rischio».
    Ancora una volta, il suo sguardo guizzò su di me, sorpreso.
    «Ma che cosa è successo alla ragazzina impulsiva che non si faceva problemi?»
    «E al ragazzo tanto gentile, che non imponeva mai una scelta a nessuno? Non avresti voluto che me ne andassi, tempo fa».
    Sì, tempo fa. Quando facevamo l’amore e l’unica cosa che t’importava era vedermi ridere.
    «Jessi, se pensi che potrei perdonarmi se tu…».
    «Non penso. Non ti sto chiedendo nulla. Sono venuta perché mi è stato detto che non stavi bene. Se tu pensi che potrei tornarmene a casa tranquilla, dimenticando questa storia, aspettando la chiamata di Declan che mi annuncia che sei morto o in fin di vita, ti sbagli di grosso!» Mi alzai, avvicinandomi. Immediatamente, il mio corpo reagì, e il calore fu quasi insopportabile. Il mio leggero vestito bianco sembrò prendere fuoco. «Tu non mi hai mai conosciuta davvero. Se mi conoscessi, non mi chiederesti mai una cosa simile».
    I nostri volti si erano fatti vicinissimi. I suoi occhi sgranati mi fissavano. Il suo respiro mi riempiva le narici. Sentii odore di morfina.
    Le tue labbra hanno toccato quelle di un’altra. Forse conservano ancora il suo sapore.
    Schiarendomi la voce, mi allontanai. Mi ritrovai poggiata al muro, le mani dietro la schiena. Ero stata in procinto di sfiorarlo. Non sarebbe dovuto succedere più.
    «Perciò», conclusi, «non insistere, ti prego».
    Era stato fermo. Nessun muscolo si era mosso, nemmeno quando, di scatto, mi ero allontanata. Come se non fosse davvero lì, davanti a me, che mi fissava. Forse era con lei, con la mente ai loro baci, mentre ero intenta a fare i bagagli.
    «Kyle, va tutto bene?»
    Foss spuntò da dietro le mie spalle. Sobbalzai. Così concentrata su di lui, non avevo sentito Foss avvicinarsi.
    «Sì, certo». Mi fissò. «Come preferisci, Jessi».
    E quest’altra che risposta era? Lo guardai sorpassarmi e ritirarsi in casa, seguito da Foss. Quest’ultimo mi lanciò una lunga occhiata, prima di seguirlo. Non gli badai. Forse l’avevo convinto a farsi aiutare.
    O forse l’avevo spiazzato.















Salve!
Scusate per l’attesa, ma ho dovuto diplomarmi e, ora che tutto è finito, quasi non riesco a rendermene conto. Niente più liceo! Yuppppi!!!! :)
Ritornando seri, avevo alcune cose da dirvi.
Il fuso orario e il percorso fatto da Jessi per raggiungere l’Arabia dovrebbero essere veritieri. Se non è così, se non si passa dalla Russia quando si parte dal Canada, date la colpa a mio padre, che è un atlante vivente ed era sicuro della sua risposta. Io ho guardato anche le cartine, o almeno ho cercato di leggerle, ma non avendo mai amato la geografia ed essendo ipovedente nono ho mai imparato a leggere una carta geografica… Non ditelo in giro, non è un mio vanto! :)
Inoltre tutte le notizie riguardanti l’Arabia sono state prese dall’Enciclopedia Libera, incolpate lei se ho per caso scritto delle eresie, mentre quelle riguardanti il villaggio in cui si reca Jessi sono inventate, infatti per ora credo che non inserirò nemmeno il nome del villaggio per evitare complicazioni. Inoltre, perché lo sento come un dovere, vi dico che: non so se in Arabia Saudita ci siano ancora paesi in difficoltà. Facciamo di sì, e speriamo di no. Spero, descrivendo ciò, di non offendere la sensibilità di nessuno, saudita o meno. È tutto frutto della mia immaginazione.
Quando poi Jessi ricorda il giorno in cui Kyle la lasciò, devo dirvi che questo fatto non è mai avvenuto, ma è stato preannunciato dagli autori, che avevano detto che avrebbe lasciato Jessi dopo un certo periodo nel quale sarebbero stati insieme e poi avrebbe proseguito la relazione con Amanda, finché non sarebbe finita anche quella e Kyle fosse partito per rendere il mondo un posto migliore. Ho solo inventato come e perché la relazione sarebbe potuta finire.
Direi che le note sono finite. Prometto che le cose saranno un poco più chiare via via che si procederà, per ora ringrazio chiunque sia arrivato sin qui e chachot per aver aggiunto la storia tra le Seguite.
Arrivederci a presto, dunque! ^_^

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Capitolo 3
*** Per un solo istante ***


Dopo la seconda morte
03 - Per un solo istante



Per l’attesa, e quell’istante in cui verrà soddisfatta.



    Quando Declan arrivò, era in compagnia di altre persone. Asiatici, senza dubbio, tuttavia parlavano un americano perfetto.
    Mi vide seduta sul davanzale di una finestra aperta. Sbarrò gli occhi e rallentò.
    «Tranquillo, Declan, non ho intenzione di picchiarti. Vai a dire a Kyle che sei tornato. Credo fosse preoccupato».
    «Come fai a essere già qui?»
    «Ho preso il primo aereo diretto in Asia, come ti dicevo».
    «Kyle sta bene?»
    «Non avendo elementi con cui comparare la sua situazione di questo pomeriggio, non saprei. Tu stesso potresti persino farti un’idea, meglio di me».
    Lo seguii in casa. La stanza che avevo visto in precedenza era vuota, a eccezion fatta per un tavolo ingombro di carte.
    «Sono andati in camera, Jessi?»
    «Non lo so. Non entro in casa da quando ho discusso con Kyle».
    «Hai fatto cosa? Non avresti potuto lasciarlo riposare?»
    «Scusami, sai. Io ho troncato il discorso, e lui mi ha seguito fuori per continuarlo. Vedi di calmarti, anche tu. Che cosa c’è di negativo dal fatto che sono andati in camera?»
    Attraversammo la stanza. Declan bussò.
    «Probabilmente era troppo stanco per reggersi in piedi».
    Sbarrai gli occhi. Non feci in tempo a chiedere nient’alto, perché Foss aprì la porta. Ci fissò entrambi, prima di dire: «Sarei grato a Jessi se aspettasse fuori».
    Eravamo passati dal tono aggressivo a quello educato. Forse era un consiglio di Kyle. Per me non faceva alcuna differenza.
    Lo scostai rude con una mano. Ansiosa, sorpassai l’entrata.
    La stanza era calda, quasi troppo. Era sdraiato su un letto, il che sarebbe dovuto sembrarmi strano. Mi avvicinai. Di nuovo, Foss mi afferrò un polso.
    «Dorme. Non disturbarlo».
    Mi scostai. «Che cos’ha?»
    «Febbre. Ha questi picchi di febbre altissima. Il termometro fin ora indica quarantadue, ma non escludo che sia superiore».
    «Non dirmi che hai usato quello al mercurio». La mia indignazione per quell’aggeggio si sentiva chiaramente.
    «Jessi, trovami un altro tipo di termometro…».
    «Kyle è un medico, no? Avrà dei termometri più efficaci».
    «Li stanno usando gli altri medici presenti nel campo. Non ha voluto che fossero sottratti ai pazienti».
    «Ridicolo», mormorai. Mi voltai verso di loro. «Me ne posso occupare io, se volete una pausa». Mi sforzasi di essere educata.
    Si squadrarono.
    «Che c’è? Non vi fidate?»
    «Non è questo», disse Declan. «Davvero, è solo…».
    «Perché mi hai chiamata?», lo interruppi. «A cosa servo, Declan? Mi hai chiamato tu, non Kyle. Perché

    Le sue labbra. Fresche, sul mio corpo.
    Una risata. La mia mano che passa fra i suoi capelli.
    Il mio corpo intrecciato al suo. Un ‘Ti amo’ sussurrato al mio orecchio.
    Lui dentro di me. Il suo cuore che batte.
    Il mio piacere. I suoi sospiri.

    Un tonfo mi risvegliò. Per un momento, la luce delle immagini sognate mi abbagliò.
    Poi vidi il letto vuoto, le coperte ritirate da un lato.
    Era davanti alla finestra, il petto nudo, un posacenere accanto. Era stato il posacenere posato sul davanzale, a svegliarmi. Mi stava guardando. Gli occhi spalancati, dava l’idea di non volersi perdere nemmeno un respiro.
    «Sognavi», mormorò. «Che cosa?» Il fumo della sigaretta che gli usciva dalle labbra, lo rendeva impalpabile, come attraverso una spessa nebbia.
    Mi dimenai, seduta sul pavimento, a quelle nuove attenzioni. Appena arrivata, era come se non fossi mai esistita. Ora quel suo sguardo mi ricordava i mille che mi aveva lanciato, nelle giornate di sole più belle, sorridendomi. Non ero in grado di mentirgli, se mi fissava così.
    Arrossii. Forse capì. O forse ricordò anche lui.
    Distolsi lo sguardo, alzandomi.
    «Sei malato, ti hanno imbottito di morfina e fumi? Mossa intelligente, davvero».
    «Questa non mi ha ancora ucciso», precisò. «Ma tanto non cambi argomento. È questo che sogni, Jessi? Dovrei sentirmi lusingato?».
    Mi bloccai. «Che cosa vuoi? Non sono più libera di sognare quel che voglio?»
    «Al contrario, Jessi. Ma non ti dispiace che il sogno sia finito? E inoltre è maleducazione farlo trasparire così bene».
    Mi avvicinai svelta, spaventata: che diavolo di comportamento era, adesso, questo? Anche a distanza sentii che bruciava, ancora più di prima.
    «Dovresti stenderti. Sei bollente».
    «Sto benissimo».
    «Non direi. Dici cose senza senso».
    Gli sfilai la sigaretta dalle dita. Mi lasciò fare, vagando con lo sguardo sul mio viso.
    «Vado a chiamare Foss. Sarà contento di sapere che sei…».
    Mi toccò la guancia, all’improvviso.
    Le sue mani sul mio corpo.
    Sussultai.
    Elettricità. Pura e semplice elettricità.
    Avevo pregato anni che ritornasse. Avevo sognato per anni i suoi baci e i suoi tocchi.
    Questo non aveva nulla di reale, eppure stava accadendo.
    «Non fare nulla di cui potresti pentirti», mormorai.
    Non distruggermi di nuovo. Morirei.
    Distolse lo sguardo. Si allontanò, recuperando il pacchetto di sigarette.
    «Chiamo Foss». E picchio Declan.
    Nell’altra stanza, seduto su una sedia, Foss beveva. Non era acqua e non era caffè. Frettolosamente, mi richiusi la porta alle spalle.
    «Qualcosa non va?» Ansioso, si alzò, abbandonando il bicchiere.
    «Si è solo svegliato. E sta fumando. Dice di sentirsi bene, nonostante la febbre sia ancora alta».
    «Grazie mille». Mi scrutò. «Tu stai bene?»
    Dovevo sembrare veramente turbata. Mi sentivo stanca, e gli occhi pizzicavano.
    «Dov’è Declan?»
    «Fuori. Forse dovresti riposarti, però, non hai l’aria di stare troppo bene».
    «Tu pensa a Kyle». In tono poco educato misi fine al discorso. Non mi andava di essere così facile da leggere. Dannazione! Doveva smetterla, quell’idiota, di giocare con me. Non importava se stava male, se aveva bisogno di distrazioni o il cielo sapeva cos’altro gli fosse passato per la testa. Non avrei dovuto farlo avvicinare mai più.
    Fuori era l’alba. Non ricordavo di aver dormito tanto.
    «Non avresti dovuto chiamarmi!»
    Declan sussultò, intento a maneggiare del ferro. «Te l’ho detto: non l’avrebbe mai ammesso, ma ti vuole qui».
    «No, a te servo qui, per tenere a bada il lavoro di Kyle. Non a lui». Mi passai una mano fra i capelli. Mi avevano assalito troppe sensazioni, e nessuna era positiva.
    In quel momento desiderai veramente non sapere nulla. Volevo ancora trovarmi a Ottawa, a dedicarmi alle ricerche e all’università. Stare qui faceva male, soprattutto se si arrogava il diritto di sconvolgermi ogni volta che gli andava.
    «Non è vero. Jessi, gli mancavi».
    «No, è quella sgualdrina che gli manca!»
    «Jessi…».
    «Jessi».
    Mi fermai, a un passo dall’urlare.
    «Kyle, dovresti stenderti e…».
    «Camminiamo». Un ordine.
    Ignorò Declan. I suoi occhi erano puntati su di me.
    «Non intendo più camminare al tuo fianco», mormorai, voltandomi dall’altra parte. «Non posso aiutarti con la malattia? Foss era sveglio, nell’altra stanza, e ho dormito tranquilla per una notte, col sonno talmente leggero da poter sentire la cenere che cadeva. Non hai bisogno di me. Ti aiuterò col tuo progetto, questo sì, ma stammi lontano. Ti prego».
    «Parli come se ti abbia costretto a rimanere».
    «No. Parlo come quella che è stufa. Tu non ti rendi conto. Non capisci. Se avessi capito, non parleresti così. Né mi chiederesti cose assurde. Non mi avresti toccata, né tantomeno guardata».
    «Ti è dispiaciuto?»
    «Non è questo il punto».
    «No, il punto è che sono passati cinque anni».
    «Grazie, Kyle, io da sola non me ne sarei accorta!»
    «Cinque anni nei quali io sono andato avanti, e tu no».
    «Avanti? Ti sei messo con lei, l’hai lasciata e sei scappato. Davvero, hai proprio dimenticato il passato». Pochi passi e mi ritrovai davanti a lui. La mano partì da sola. Mi fermò il polso. Era forte come un tempo. Io no. Avevo smesso di esercitarmi, da quando avevo lasciato i Trager. Certo, ero ancora in grado di stendere un Foss piuttosto stanco, ma, ad esempio, con Declan e il suo addestramento avrei dovuto impegnarmi di più. Perciò, quando tentai di colpirlo, nonostante fosse malato e tranquillo da giorni, mi bloccò senza problemi.
    Mi tenne ferma così, a pochi centimetri da lui.
    «Perché per una volta non dici cosa, veramente, ti dà fastidio?» Parlò piano, ma non c’era traccia di tranquillità nella sua voce. Era minacciosa, pronta ad alzarsi in pochissimi attimi. «Non hai interesse per Amanda Bloom. Me ne sono andato per smettere di mettere in pericolo le persone. Tutte le persone che mi stavano vicino. Tu, invece, provi ancora tanto di quel rancore».
    «Questo non te lo permetto. Non analizzarmi. Non giudicare. Hai fatto una cosa ammirevole, Kyle, io stessa sono la prima a dirlo. Ma ora che sono qui, ti stai comportando male. Sembra quasi che tu ti diverta. Prima mi sorpassi con lo sguardo, non mi saluti, mi dici di andare, non esprimi nemmeno il desiderio di volermi incontrare… Poi eccoti il giorno dopo con le tue domande sfacciate, invadenti, stupide! E… e… tu avresti potuto pensare… avresti potuto evitare». Distolsi lo sguardo. Ero patetica! Non riuscivo nemmeno a rimproverargli la carezza. Forse perché non mi dispiaceva così tanto come volevo credere…
    «Non è così». Mi lasciò il braccio. Distolse lo sguardo. Non mi allontanai. «Stavo cercando di mantenere un certo distacco. Pensavo sarebbe stato meglio per entrambi. Mi sono detto che se dovevi venire, avresti dovuto anche essere in grado di andartene. Poi ti ho vista lì, per terra, su un pavimento logoro, a vegliarmi senza che nessuno te l’avesse chiesto… Mi sono detto che non avrei più potuto ignorarti». Un piccolo sorriso gli aleggiò sulle labbra. «Con quella tua allusione silenziosa mi hai fatto ricordare. Non che avessi dimenticato, ma mi ero imposto di non pensarci. Poi…».
    «Poi ci hai pensato». Annuii. Mi allontanai di qualche passo, avvicinandomi a un piccolo blocco di marmo abbandonato. Mi ci sedetti sopra.
    Mi stava di nuovo osservando. Tutto ciò che aveva detto, aveva senso. Mi aveva sempre perdonato, per le mie scelte sbagliate, per i miei comportamenti discutibili, persino verso di lui o la sua famiglia. Non che questo suo gesto fosse grave. In effetti, denotava solo quanto in realtà non avesse dimenticato.
    «Scusa», mormorai.
    «Tu ti scusi? Io devo chiederti scusa. In ogni modo», continuò, «se te la senti di restare, se proprio vuoi, puoi dare una mano a Declan. Là da solo, con tutti quei cervelloni, potrebbe trovarsi in difficoltà».
    Risi. Non mi era sfuggito l’affetto intriso nel suo tono.
    «Però prima devi fare colazione», mormorai. «Che cosa mangi, di solito?»















Salve a tutti!
Prima di tutto ringrazio ShioriS per avere recensito entrambi i capitoli, grazie infinite!
Volevo avvisare inoltre che da questo capitolo in poi inizia l’era dei tagliuzzamenti. Non è un caso, se non ho mostrato il dialogo fra Declan e Jessi, quando lei gli chiede la ragione del suo arrivo lì. In questa storia, mi è venuto spontaneo lasciare spazi bianchi. Non troppo lunghi o lacunosi, ma ci sono. Alcuni li colmeranno i personaggi, e Jessi per loro siccome è suo il POV, altri forse rimarranno vaghi volutamente. Mi sono sentita in dovere di avvertirvi nel caso in cui qualcosa non vi fosse suonato nel modo giusto. :)
Vi volevo inoltre tranquillizzare: Kyle potrebbe sembrarvi OOC, ma sono passati cinque anni e non sta bene. Una situazione del genere può sconvolgere il carattere di una persona o può far tirare fuori alla suddetta persona lati del carattere che prima non mostrava. Kyle mi è sempre sembrato molto meno ingenuo e più sicuro di Jessi. Anche qui è così, solo che ora Kyle mostra qualcosa in più, che da ragazzo non aveva bisogno di esternare.
Ora vi saluto, e vi do appuntamento al prossimo aggiornamento, che spero non sia troppo in là. :)

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Capitolo 4
*** Grazie a un solo bagliore ***


Dopo la seconda morte
04 - Grazie a un solo bagliore



Alle mie sorelle, quella dagli occhi marroni e quella dagli occhi blu.



    Tutto quello che feci in quei giorni rimase per molto tempo sul podio, quasi al primo posto, delle cose più belle e utili che avessi mai fatto. A quel tempo, la prima cosa bella era Kyle. La prima cosa utile era la ricerca.
    Ritornavo, al tramonto, scottata e stanchissima.
    Mi avevano dato una casetta, leggermente più grande di quella di Kyle. Lì ci dormivo e basta. In pratica, non ci mangiavo nemmeno. Mangiavo con le madri e con i bambini, cui stavano insegnando a leggere, scrivere e un mestiere. Mi domandai perché lo Stato non aiutasse questo villaggio. Mi consigliarono di non chiederlo mai.
    Così, con tante cose da fare e con Kyle che aveva picchi di febbre sempre più frequenti, giunse la prima telefonata di Nicole. Era passata una settimana, forse qualche giorno in più. Non mi ero dimenticata del mio proposito di dirle tutto, ma Kyle mi aveva pregato di non farlo. Non sarebbero stati di aiuto, mi aveva detto.
    Mi trovavo a casa di Kyle. Lui era nei paraggi, seduto, intento a leggere e a dare istruzioni a Declan. Il mio telefonino squillò, e sobbalzarono in tanti.
    Sentì tutto, anche che Nicole si lamentava, e chiedeva se avessi sentito Kyle perché ‘È da un po’ che non mi dice nulla’. Negai, dicendo che forse era molto impegnato, come me. Per nulla rincuorata, mi salutò, facendosi promettere che l’avrei chiamata presto.
    «Dovresti proprio telefonarle», cominciai. «Se non le dici proprio nulla, non fai che peggiorare la situazione. Inventa una balla ma fatti sentire».
    «Hai ragione. Più tardi la chiamerò».
    Poi, mentre i suoi occhi si posavano di nuovo sul foglio, lo sentii. O meglio, non lo sentii.
    Crollò dalla sedia con un tonfo, restando completamente immobile.
    Successe tutto molto velocemente. Mi fiondai su di lui, ancora più veloce di Declan che gli era di fianco. Sentii il cuore che ricominciava a battere, sempre più veloce. Per questo, quando le mie mani si posarono su di lui, in cerca del battito cardiaco, avevo già sentito e capito che si fosse ripreso, ma controllai ugualmente, e ricontrollai, finché anche Declan, anni dopo, non mi raggiunse.

    Declan mi aveva lasciata sola con lui da neanche cinque minuti, volendo andare a chiamare Foss e il dottore, che Kyle si era svegliato, mormorando un «Ahi».
    «Cosa? Cosa ti fa male?»
    Ansiosissima, mi avvicinai. Spostò lo sguardo su di me.
    «Solo un dolore superficiale».
    «Dove?»
    «Non è importante».
    «Ehi, dottore, smettila! Tu sei il paziente, ora».
    «Certo», mormorò. Si mise seduto, ignorando categoricamente le mie proteste. «Sto bene. Smettila di fare l’ansiosa».
    «Ah, io sarei ansiosa! Bé, buono a sapersi. Ti si ferma il cuore ed io sarei l’ansiosa!»
    Ebbe pure il coraggio d’alzare gli occhi al cielo. Mi trattenni dall’impulso di schiaffeggiarlo.
    Arrivò il dottore, si fece visitare di malavoglia, asserendo che, d’accordo, era stata una cosa improvvisa, ma solo perché aveva dimenticato di respirare. ‘Ero distratto’, ci disse. ‘A chi non capita d’essere distratto?’
    Scambiai uno sguardo con Foss, che ero certa avesse la mia identica espressione di sbalordimento dipinta in faccia.
    Mi fece cenno di uscire dalla stanza. Lo seguii in cucina, e poi fuori, per strada. Camminava con le mani nelle tasche. La sua postura era decisa. Forse, in quest’esatto momento, non sarei più riuscita a sopraffarlo…
    «Qualcosa non va?»
    Non mi ero accorta che mi stesse osservando. Mi ero persa tra i miei pensieri.
    «No, no». Scossi la testa. «Che cosa stavamo dicendo?»
    Sorrise. «Non sarei così preoccupato come sembri essere tu», mi disse.
    «Tu non sei preoccupato?»
    «No. Non è un bambino. Se dice di star bene, sta bene. Solo, non ho intenzione di farlo affaticare. Se lo tengo impegnato e concentrato, con la mente sul lavoro, le cose vanno meglio. Si sente meglio».
    «Ma Foss, il suo cuore. Tu non l’hai sentito. O meglio, non hai sentito che non si sentiva».
    «Vedremo cosa dice il medico, ma se per lui non c’è nessun tipo di problema…».
    «Se non sta bene, qualcosa non va. È abbastanza automatico, no?»
    «Non esattamente. Hai dimenticato l’aspetto psicologico». Corrugò la fronte, pensieroso.
    «Sì, Foss, è il mal d’amore! Stai scherzando, vero?»
    «Il medico ha ripetuto che non c’è nulla che non vada, più volte da che lo visita. Ora, Declan è preoccupato, iperprotettivo e qualsiasi altra cosa. Ma se non c’è niente, ragazza, non possiamo certo continuare a trattarlo come un infermo». Ci stavamo allontanando dal paesino. Una landa desolata, che avevo percorso per raggiungere il villaggio, si stendeva di fronte a noi. C’eravamo lasciati il caseggiato alle spalle. Non capii, in quel momento, come mai non mi sentivo lontana, ma rimase in me, sola senza Kyle, una sensazione di sicurezza e precisione che mai avevo sentito senza di lui al fianco.

    Nelle settimane che seguirono – se si escludono le telefonate di Nicole, sempre molto sofferte –, Kyle sembrava stare sempre meglio ora che Foss gli proponeva una diversa attività ogni giorno, e poté alcune volte ritornare alle sue mansioni operative direttamente sul campo. In quelle occasioni, era accompagnato da Declan, che gli garantiva più sicurezza di un’intera squadra di cecchini.
    In uno di quei pomeriggi, stavo rassettando in giro. Una casa gestita da tre uomini, mi resi conto, sarebbe potuta diventare un porcile. Anche se Kyle, dovevo ammetterlo, faceva in modo che il limite della decenza non venisse mai superato.
    Foss entrò improvvisamente, con le braccia cariche di armi. Intenta a risciacquare delle pentole, lo intravidi grazie al riflesso sulla finestra.
    «L’hai il porto d’armi?»
    «E tu, un hobby?»
    Risi. «Non capita mai nulla di interessante», spiegai. «Insegnami».
    «A sparare? Tu? Non ne hai bisogno».
    «Sì, lo so, le mie abilità sono superiori, ma mi sto annoiando».
    Ridendo, mi porse una pistola.
    «È scarica».
    Il suo sguardo guizzò su di me, intento ad appoggiare il resto degli armamenti sul tavolo. «Come lo sai?»
    «Dal peso. Ti pare prudente, infallibile assassino, lasciarle lì così? Ci sono dei bambini, in questo posto».
    Si grattò il mento. «Spostiamole nell’altra camera e chiudiamo a chiave».
    Camminavamo tranquilli. Volle tenere in mano la pistola finché non fummo distanti dalla folla.
    «Come sta?»
    «Meglio. Lo vedi da te, no?»
    Annuii. «Ripartirete?»
    «Se sì, ripartiranno loro».
    «Non li seguirai?»
    «No».
    Mi chiesi dove fosse stato per tutti questi anni, prima che Declan lo richiamasse. M’interrogai sul perché non avesse intenzione di seguirli. Non lo domandai. Pensai di farlo più tardi.
    Istintivamente, ancora prima che m’indicasse la postura corretta, sparai e giudicò il mio un colpo da maestro. Feci centro la primissima volta che mi indicò un bersaglio, distante metri da me. Feci centro la seconda volta, quando il bersaglio era ancora più lontano.
    «Me ne regaleresti una?»
    «Ovviamente no», rispose. «Riprova».
    Dopo l’ennesimo tiro andato a segno, a seguito di un giro improbabile del proiettile che lui giudicò casuale ma che io insistetti nel definire programmato, incrociò le braccia e fissò la pistola a lungo. Sorrise.
    «Sicuramente, non hai bisogno di imparare».
    Si riprese la pistola sghignazzando, ignorando le mie proteste: mi stavo divertendo. Mi precedette nel cammino, tornando indietro, verso il villaggio. C’eravamo allontanati per evitare di colpire qualcuno.
    «Stavi rassettando, prima?», domandò, mentre nascondeva l’arma per evitare il panico e si dirigeva verso casa sua.
    «No, in realtà pulivo le padelle perché è il mio nuovo allenamento. Sviluppa i bicipiti meglio dei pesi».
    Scosse la testa, per poi passare l’intero pomeriggio a riordinare con me.

    Qualche giorno dopo, quando facemmo ritorno dal campo, era ormai sera. Quella giornata era stata particolarmente pesante, e la precedente avvilente. Kyle si era di nuovo ritrovato costretto a letto per la febbre troppo alta. Io mi ero ritrovata costretta ai doppi turni.
    «Declan, siamo tornati!»
    La mia guardia del corpo spalancò la porta e mi cedette il passo, in uno slancio di galanteria.
    Fuori, il tramonto rimandava bagliori aranciati. Il riflesso dei capelli di Sarah mi abbagliò ancor prima che capissi che si trovava qui.
    Erano seduti. In effetti, solo Kyle era in piedi, le mani poggiate alla tavola, che fissava Brian con un misto di sfida e minaccia. Non credo che l’avrebbe mai aggredito; non con una bimba presente. Che fosse sua non credo importi, anche perché non lo sapeva…
    «Che cosa diavolo succede?»
    Foss mi superò, mettendosi al fianco di Kyle. Fissò Brian che a sua volta guardò lui.
    «Mi dispiace», cominciò. «Non era mia intenzione disturbare. Cercavo te».
    Si voltò a guardarmi. La bambina lo imitò. La vidi che era piccolissima. La affidai a Brian senza voltarmi.
    Ogni mese, chiedevo notizie. Ogni mese, una foto e un’e-mail.
    Sapeva chi ero. Glielo leggevo negli occhi.
    «Non posso», disse Brian. La teneva per mano, come fosse davvero suo padre.
    «Perché?»
    Nessuno fiatò. Nessuno capiva.
    «Ci sono cose che non sapete. Ci stanno cercando. Tutti noi. Devo andarmene via».
    «Chi ci sta cercando?», domandai. I miei occhi saettarono automatici su Foss. Lui sapeva, me ne accorsi dal battito che il cuore saltò. «Chi?»
    Foss evitava il mio sguardo.
    Brian capì.
    «Sei venuta qui senza sapere? Foss è qui per proteggere entrambi, Declan e Kyle».
    «Tu sapevi? Ti affido mia figlia e non mi comunichi una cosa del genere?! Ma che…».
    «Jessi, non capisci. Ci troveranno. Loro si spostavano di continuo, ma ora sono qui da troppo tempo».
    «Tua figlia?», mormorò Foss. Era rimasto indietro di un paio di battute. Vidi i suoi occhi socchiudersi «Hai una figlia?»
    «Che stavo cercando di mantenere al sicuro. Portandola qui…».
    «Perché mai Brian dovrebbe essere in pericolo?», domandò Foss.
    Nessuno capiva ciò che l’altro stava cercando di dire. Ognuno parlava un linguaggio proprio.
    «Cosa?» Brian si girò verso Foss. «Che domanda è? Pensano che possa sapere…».
    «Di chi è la bambina?»
    Perché Declan c’entrava sempre tutti i punti?
    «Come, scusa?»
    «La bambina. Questa bella bambina», sorrise a Sarah.
    Foss mi fissò. Restai in silenzio. Capirono tutti, e parecchi cuori persero un battito. Qualcuno più di uno.
    «Io pensavo che lo sapessero…»., borbottò Brian.
    «Sì, e affido la bambina a te perché suo padre sa che esiste», dissi. «Non è questo il punto». Cercai di svicolare.
    «No, certo. Non è proprio questo il punto! Nascondi tanti di quei segreti, Jessi…». Declan sospirò. «Ma come abbiamo fatto a fidarci di te?»
    «Ehi!» Questo era Brian: che si sentisse in colpa? «Non credo che questi siano affari che ti riguardano. Né affari grazie ai quali giudicarla». Fissò Kyle, stranito.
    Ancora non aveva detto nulla.
    «Posso non approvare alcune sue scelte», continuò. «Ma ha cercato di agire al meglio per sua figlia. Non è da condannare per questo».
    «È da condannare per tutto ciò che non dice, Taylor».
    «Basta».
    Tacquero tutti. La bambina, a quella nuova voce, si voltò. I suoi occhi azzurri incontrarono quelli di Kyle.
    «Uscite».
    «Ma Kyle…».
    «Declan, dico sul serio».
    Mi piantò gli occhi addosso mentre Brian sfilava fuori con Sarah in braccio, che si stava appisolando.
    Si raddrizzò, aggirò il tavolo e mi si avvicinò.
    Istintivamente, mi allontanai.
    «Tu credevi», cominciò, «credevi davvero che nessuno sarebbe mai venuto a saperlo?»
    Sì.
    «Non è come sembra, Kyle. Volevo solo proteggerla. Non ho mai tentato di nascondertela».
    «È esattamente quello che volevi, quel che hai fatto. Non mentire! Tutti questi anni…».
    «Nei quali tu non ti sei fatto sentire. Tu! Io ho preso le giuste decisioni per proteggere mia figlia».
    «Sei stata tu a decidere di andare via, non dimenticarlo. Nessuno te l’ha chiesto».
    «Nessuno? Tu che ti scopi Amanda non conta?»
    Mi guardò; era infuriato. I suoi occhi erano spalancati.
    «Non ti amavo più», ringhiò, senza alcun tipo di tatto. «Tu non rispondevi alle telefonate che ti facevo! Non è un motivo valido per vendicarsi».
    «E due giorni dopo avermi lasciata ti sei innamorato di lei? Complimenti, Kyle, questi sì che sono amori sinceri e profondi».
    «Questo non ti riguarda».
    «Nemmeno mia figlia ti riguarda. E questa non era una vendetta».
    «Tu che la affidi a Taylor sì, mi riguarda. Ti ho strappata a lui appena in tempo». Lasciò vagare lo sguardo lontano, gli occhi socchiusi. «Ti avrebbe distrutta, senza alcun ritegno. Chi ti dice che non le faccia qualcosa di male? Che non patisca ciò che hai subito tu?» Se così fosse stato, costatai, Taylor sarebbe morto. Il suo sguardo era quello di un omicida.
    «Vuole bene a Sarah».
    Sobbalzò. Non sapeva il suo nome. Lo decisi, e Taylor ne sorrise.
    Kyle mi fissò per un secondo, poi tornò a guardarsi intorno. Il suo sguardo non era infastidito, semmai sorpreso, come se avesse dovuto aspettarselo.
    «Ora però è qui, a restituirtela». Parlò dopo un minuto buono.
    «Deve essere piuttosto spaventato. Se Foss sa cosa sta succedendo, dovrebbe dircelo».
    «Non sa molto, però credo che gli chiederò di raggiungere la mia famiglia».
    «Sono in pericolo?»
    «A quanto pare, lo siamo tutti. Da quel che ho capito, ci stanno dando la caccia».
    «Ci? Non volevano te?»
    «Anche, ma ora non solo». Mi fissò. «Dovresti andartene», ripeté. «Qui non è in gioco solo la tua salute, ma la tua vita».
    «Se sono in pericolo, se mi stanno cercando davvero, non sono più in pericolo qui che a casa. E almeno qui…». La mia voce si affievolì.
    Non ti amavo più…
    «Cosa?»
    «Nulla. Posso dare una mano, tutto qui». Mi voltai. Fuori dalla finestra, vidi la bambina avvicinarsi cauta a un gruppo di neonati, assistiti dalle madri e dalle volontarie.
    «Ha quattro anni», mormorai, come se mi fosse venuto in mente solo in quel momento.
    «Come?» Mi si era avvicinato, di fianco alla finestra. Anche lui fissò Sarah. I suoi corti, lisci capelli scuri, con quella adorabile frangetta, sventolavano al vento. Il suo vestito azzurro si distese, mentre si accomodava a gambe incrociate per terra.
    «Ricordi?» L’ultima volta che abbiamo fatto l’amore…
    «Ricordo. E mi dispiace».
    «Non devi. In fin dei conti, me ne sono andata io. Ho, in effetti, evitato di dirtelo volontariamente».
    «Ti ringrazio», mormorò sarcastico.
    «Non può restare qui. Chiederò a Brian di riportarla indietro». La decisione era stata naturale, e per me definitiva.
    «Non vuole, hai sentito. Forse pensa che la rallenterebbe». Scosse la testa, alzando gli occhi al cielo.
    «Io non posso occuparmene. Correrebbe solo troppi rischi».
    «È nata in questo contesto, con questi genitori», sorrise. «Non puoi estraniarla da tutto ciò».
    «Non permetterò che le capti nulla. Meglio che stia senza di me».
    «Non lo pensi. Io non la lascerò andare via. Dirò a Taylor di andarsene. Ha già fatto troppo».
    «Tu non puoi farlo!», urlai. «Non te lo permetto».
    «Quella bambina, Jessi, non è tua. Non è più tua dal momento in cui hai scelto di rinunciare a lei, di affidarla a Taylor. Non venirmi a parlare di permesso, non quando è tuo padre che si è occupato di lei, negli ultimi quattro anni, e tu hai nascosto a me una cosa del genere!»















Salve!
Trentasette di febbre e mi sono detta: perché non sistemare e aggiornare?
Ed eccomi qui.

Mi rendo conto che la storia stia andando verso strani lidi. Lo so. È iniziata come un esperimento, continuata come tale, e proseguirà ancora verso lidi che nemmeno mi ero sognata!
La piccola Sarah, oltre che un omaggio alla madre di Jessi, è nata grazie a Channy e alla sua fiction su Kyle. Gran bella ispirazione! :)
In questo periodo ho un debole per il Kyle infuriato. Merito dell’ultima puntata e della 2x15, quando viene mostrata la litigata fra Kyle e Jessi, nel corridoio. Kyle è sempre troppo calmo. Quando si arrabbia… eh, beh, stimola la mia immaginazione! xD
Kyle che si ammala può sembrare che non abbia un motivo. Ma l’ha. Davvero. Solo che lo scoprirete più avanti. xD
Come sempre, se c’è qualcosa che non vi risulta, chiedete. E non scoraggiatevi, davvero! Presto capirete!
A presto! :)

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Capitolo 5
*** Decisioni ***


Dopo la seconda morte
05 - Decisioni



Per tutti i colori che riesco a vedere.



    La porta saltò quasi fuori dai cardini. Ogni persona coinvolta nella discussione mi osservò, mentre mi allontanavo rapida.
    Questa volta, al secondo tentativo, era talmente infuriato che non badò ai miei gesti. Si ritrovò a volare dall’altra parte della stanza senza che nemmeno io l’avessi deciso.
    Dannazione!
    Era un emerito idiota, compresi allora. Come avevo potuto amarlo? Che persona era? Lasciare che la figlia fosse esposta a un pericolo così grande, quando se ne sarebbe potuta restare in Germania al sicuro, senza che nessuno avrebbe mai saputo della sua esistenza?
    «Che cosa è successo, Jessi?»
    Una ragazzetta di neanche vent’anni, conosciuta all’accampamento, mi vide passare in fretta, diretta verso casa. Mi seguì, mettendosi di fronte a me con uno slancio delle sue lunghe gambe. Mi fermai di botto, scrutandola. Non era giornata, questa, per gente chiacchierona. Né per gente cordiale, se era per questo.
    «Nulla. Devo andare».
    «Sembri notevolmente infuriata».
    «Sto bene. Devo andare».
    Mi sbattei la porta alle spalle senza esitazione. Non mi guardai indietro, né sobbalzai quando qualcuno bussò alla porta. Non era Kyle. Stavo radunando le mie cose, quando lo sentii. Brian.
    «Non ho tempo di discutere», tagliai corto. «Vattene».
    Entrò ugualmente, ovviamente. Nessuno mai che si prendesse la briga di rispettare le mie decisioni. Tutti a fare come preferivano, desiderando mettere al riparo il loro interesse personale.
    «Jessi».
    «Vattene, Brian».
    «Jessi».
    «Tu proprio non devi dirmi nulla. L’hai portata qui! L’hai esposta a tutto questo. Sei solo un irresponsabile».
    «Non posso più occuparmene, non se corro un rischio così grande».
    «Io corro un rischio enorme. Tu saresti potuto restarne fuori».
    «Loro sanno di lei, Jessi. Kyle non lo sapeva, ma loro sì. Sono venuti a trovarmi. L’hanno vista. Hanno capito chi dovesse essere».
    «Cosa?» Mi fermai, dei vestiti piegati in mano. Li cacciai nella valigia senza troppe cerimonie.
    «Tu puoi proteggerla meglio di me, Jessi. Voglio che stia al sicuro. Con te lo sarà».
    «Ma non posso restare», mormorai. «Lasciala, ma non posso restare, me ne andrò. Tornerò in Canada».
    Annuì. «Solo fammi sapere qualcosa».
    «Dove andrai?»
    «Non lo so. Non credo che ci si possa nascondere da loro. Temo che mi troveranno ovunque».
    «Non sanno, dove si trova Kyle?»
    «Credo che lo sappiano».
    «E allora, perché non sono ancora qui?»
    «Credo che sappiano persino che non stia bene».
    «Che cosa vogliono aspettare, che si rimetta? Che cosa ti hanno detto?»
    «Nulla. Nulla su di lui. Io non faccio più parte dei Latnok, ricordi? Cercavano te, pensavano che ti avrebbero trovata da me. Quando ho detto loro che non c’eri, mi hanno chiesto dove fossi. Ho detto che non lo sapevo. Sono stati tranquilli, erano giovani; mi hanno creduto». Si passò una mano tra i capelli. «Devo sparire, però. Anche se non mi hanno coinvolto in prima persona, non sono certo di essere al sicuro. E hanno visto la bambina, te l’ho detto, e hanno capito…».
    «Ok», lo fermai, perché ebbi l’impressione che potesse andare avanti per ore; soprassedei al suo egoismo. «Ok. Non preoccuparti. Ho capito. Puoi partire anche adesso, per quanto mi riguarda».
    Mi scrutò. Non avevamo mai affrontato l’argomento ‘distruggiamo Jessi per il mio tornaconto’, nemmeno quando gli avevo affidato la bambina. Sapevo che se ne sarebbe preso cura, anche solo per il semplice fatto che lei non ero io. Non aveva le nostre capacità, non poteva pretende nulla da lei, ed ero certa che le fosse sinceramente affezionato.
    «Mi dispiace», mormorò. «Veramente».
    «Lo so. Adesso vai. Solo, dillo a Kyle. Spiegaglielo. Non voglio averti sulla coscienza».
    Lo seguii fuori, per strada. Raggiunse la bambina. Sentii che le spiegava ogni cosa, e lo sguardo di Sarah sulla nuca. Scrutavo nello stesso tempo la casa di Kyle. Le luci delle stanze erano tutte accese. Lui non era uscito per raggiungermi, né per parlare con Brian. Era rimasto in casa, con l’unica compagnia, a quanto pareva, di Declan.
    «Foss». Era seduto per terra, poggiato alla parete della casa di fronte. Alzò lo sguardo mentre mi dirigevo verso di lui. Non si era fatto la barba.
    «Che cosa è successo?», domandò subito.
    «Nulla di che. È stato solo molto sgarbato. Non posso restare, comunque. Non potresti dire tu a Kyle che me ne vado questa sera?»
    «Che cosa dovrei fare io? No, no, e assolutamente no! Ragazzina, gli parli tu. Io non mi immischio». Il suo respiro era accelerato, nonostante il suo tono fosse ironico, come fosse agitato, ma volesse nasconderlo.
    «Tu e lui non mi volevate nemmeno! Che ti costa!»
    «Adesso ci fai comodo», sorrise. «Però posso capirlo. Non avresti dovuto tenergli nascosta una cosa del genere».
    «Non credo m’interessi il tuo parere», lo informai, scacciando l’orribile sensazione di stare dicendo qualcosa di sbagliato. «Se non glielo vuoi dire, perfetto, ma prima di domani all’alba io sarò lontana da qui. Non ho proprio intenzione di farmi trattare così».
    Mi diressi a passo deciso verso la casa di Kyle. Allo stesso tempo, Brian si avvicinò a Foss, il nuovo ufficio informazioni dell’Asia.
    Bussai. Dall’interno, Declan parlò: «Avanti».
    Erano seduti al tavolo. Kyle mangiava. Declan sedeva con un bicchiere in mano, che faceva rotolare.
    «È questa l’ora di mangiare?», chiesi, tentando di allentare la tensione che si era creata non appena ero entrata.
    Scrollò le spalle, continuando a giocherellare con il cibo.
    «Potresti uscire?»
    «Per fartelo picchiare di nuovo?»
    «Sa difendersi da solo», lo informai. «Ora sono tranquilla, Declan, lo giuro».
    Fissò Kyle. Continuando a giocherellare con il cibo, che non sembrava intenzionato a finire, annuì. Declan si alzò sbuffando, mi fissò, e si richiuse la porta alle spalle.
    «Non mi sopportano», cominciai, occupando il posto di fronte a lui, «come ai vecchi tempi, d’altronde».
    «Jessi…». Lasciò cadere la forchetta sopra al piatto. Produsse un rumore troppo acuto. Mi fissò con sguardo ostile. «Che cosa vuoi, da me?»
    «Come, scusa?»
    «Mi stai perseguitando. Sei arrivata, e mi stai perseguitando».
    «Cosa? Io? È stato Declan a chiamarmi. Non sapevo neanche esattamente dove fossi».
    «Tu e i tuoi segreti, Jessi!»
    Sobbalzai.
    «Non ho certo detto io a Brian di venire qua, di fartelo sapere».
    «Non me l’avresti detto? Mai?»
    «Non era una cosa che sarebbe stata di alcuna utilità».
    Si fermò. Mi fissò, rimestando nel suo piatto.
    «Che cosa vuoi sentirti dire?», domandò. «Che cosa pretendi che faccia? Mi hai mentito, su una cosa piuttosto grave».
    «Non ti ho mentito. Non ho mai detto ‘non ho una figlia’. Ho solo omesso di dirti alcune cose».
    Sbuffò, alzando gli occhi al cielo. «Stai scherzando, spero».
    «Non esattamente», mormorai. «Ascolta: il lavoro è già avviato, Declan sa cosa fare. È inutile che tu faccia spostare Foss restando indifeso, mentre sei qui. Ora sono di troppo. Parto, partirò domani mattina. Mi trasferisco più vicino a casa dei tuoi; starò io con loro, li terrò d’occhio».
    Restò immobile, adesso, dimentico persino di avere del cibo nel piatto.
    «E lei
    «Lei verrà con me. Come sai, Brian non vuole più occuparsene. Ritiene d’essere in pericolo, e crede che la bambina sia più al sicuro se resta con noi. Forse ha ragione. In ogni caso, è meglio che io mi sposti e lei con me. Brian, inoltre, pensa che i Latnok sappiano dove ti trovi e come stai».
    Aggrottò le sopracciglia.
    «Dice di averli incontrati, che si sono presentati davanti alla sua porta cercandomi. Non gli ha detto, dove mi trovavo, ma pensa che sappiano dove ti trovi tu».
    «E come lo sa?»
    «Lo pensa, Kyle. Lo ipotizza. No che non lo sa».
    «Il che significa che potrebbe anche non essere così».
    «Certo, ma se hanno trovato lui, cosa ci sarebbe di difficile nel trovare te? Giacché tu sei qui da tanto…».
    «Sei convinta di volertene andare?»
    «Poche settimane fa non mi volevi!»
    «Non condividevamo una figlia poche settimane fa».
    «Tecnicamente non condividevamo una figlia, no», sorrisi.
    Vidi le sue sopracciglia inarcarsi.
    «Scusa».
    Mi alzai. Riportai il piatto al lavandino.
    «Tu starai bene?»
    «Foss è furbo. Ha trovato la maniera per distrarmi».
    «Promettimi che guarirai».
    «E tu che mi farai sapere qualcosa. Appena posso, verrò a trovarla».
    «Ti aspetteremo».

    Baci e abbracci, come la sera del ballo. Solo che non mi sentii più sola, senza di lui.
    Feci conoscenza della bambina appena fuori la casa di Kyle. Con la manina stretta a Brian, mi salutò, e mi parlò come mi conoscesse da sempre. Particolare, lo era, lo capii subito.
    Ciò che mi stupii fu un altro sguardo puntato su di me, che mi seguì anche quando abbracciai Brian, con un po’ d’imbarazzo, che mi tenne sott’occhio quando presi in braccio la bambina, che salutava il nonno con trasporto.
    Mi diressi con lei alla casa, per finire di preparare le valigie.
    La porta rimase aperta, quando la varcai. La bimba si arrampicò sul tavolo, accanto alla sua valigia, e partecipò, penna e lista in mano, alla selezione di ciò che era mio e quello che sarebbe dovuto rimanere qui; scrivere lo sapeva già fare*. Presto, però, il sonno ebbe il sopravvento, e si spostò con leggerezza in camera mia.
    Non trovo, mi rammarico, un modo più semplice per spiegarlo. Mi resi conto che qualcosa era cambiato nel momento in cui si spostò, dallo stipite della porta, dove vi era rimasto sino allora in silenzio, all’altra parte del tavolo, sul quale erano sparpagliati fogli e progetti che avrei dovuto restituire.
    Alzando il mio sguardo, fui consapevole in un solo attimo di quello che avrei voluto che facesse. Nel momento in cui lo desiderai ecco le sue labbra sulle mie, e se qualcuno, ora, mi chiedesse quando era iniziata, forse risponderei: dopo la mia morte. La seconda, sì, ma pur sempre una morte.
    Quando, senza bisogno di dirlo a nessuno, mi raggiunse e mi prese la valigia di mano, intenta a percorrere veloce il vialetto, con nessuno a fissarmi dalla finestra e Amanda in casa mia.
    Quando mi diede un passaggio verso l’aeroporto, e seguì per me le trattative per l’affitto dell’appartamento a Seattle.
    Quando mi chiamava, senza parlarmi di Kyle ma chiedendo solo mie notizie.
    Quando quasi, qui, in Asia, era stato disposto persino ad aggredirmi, a mandarmi via con la forza. Non era stato impassibile, accomodante, né si era rassegnato. Invece, dal suo sguardo, in continuazione, un unico avvertimento: ammalati e te ne farò pentire.
    Non lo amavo, non allora, ma gli ero grata di tutti i gesti fatti. Gli ero grata di starmi donando calore.
    Feci l’amore con Tom Foss, su un divano troppo piccolo, perché non ci saremmo più rivisti.















Salve!
Esattamente un mese dopo, eccomi, con l’università che frenetica non mi lascia tempo. Che mondo, che è, ed è quasi insopportabile!
Continuano a succedere cose assurde in questa storia. Spero che le spiegazioni che ho dato bastino. Spero che non vi sia nulla che appaia forzato. Spero che non stiate guardando il capitolo con disgusto, chiudendo immediatamente la pagina.
Comprendetemi, mi sono innamorata di loro due a causa dell’unica scena in cui li vediamo assieme! Date la colpa alla galanteria con cui Foss l’aiuta dopo che si è finta morta, e a come le tocca la guancia! ''''Ora basta che non sembri una studentessa universitaria. Vergogna!''''
Vi saluto e vi lascio all’attacco di shock che vi avrà sicuramente preso dopo aver letto questo capitolo!
Arrivederci!

*Ho fatto riferimento alla scuola Montessori: imparano già a leggere e scrivere da piccolissimi; so che ce ne sono in Olanda – oltre ovviamente qui in Italia in quanto la Montessori era italiana, la prima mitica donna medico – e allora perché non anche in Germania, luogo in cui Brian ha vissuto con la piccola?

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Capitolo 6
*** Ultimo compito ***


Dopo la seconda morte
06 - Ultimo compito



Per i lavori che non porto mai a termine.



    La jeep scrostata e rovinata fu ceduta a poco prezzo, per quel prezzo, all’alba seguente. Mentre ancora tutto il villaggio dormiva, lo sbattere della porta mi riscosse.
    L’aria gelida vinceva gli spifferi, e ciò permise al mio corpo di svegliarsi in fretta. Da una veloce occhiata, la piccola sala parve vuota. Sentii il respiro regolare della bimba, nell’altra stanza, ma non c’era più traccia della figura di Tom Foss, né dei suoi vestiti.
    Mi tirai a sedere, tentando prima di tutto di capire che ora fosse. Quasi mattina, secondo il telefono che Foss aveva lasciato indietro. Mi vestii, infreddolita, per dirigermi verso la mia camera da letto. Sarah, sotto un mucchio di coperte, sonnecchiava pesantemente, e il mio umore era pateticamente di nuovo nero, dopo una sola notte di calma. Mi resi conto che non ero in grado di razionalizzare, in quel momento, e nemmeno la mia intelligenza insuperabile sapeva spiegarsi come si fosse ritrovato in questa situazione, un uomo che all’apparenza non sembrava in grado di stabilire legami di alcun tipo.
    Io stessa avevo avuto la volontà, ma non mi sarei mai aspettata di sentirmi ancor più sola, e forse entrambi avevamo bisogno di questo.
    Ritornando in sala, notai che aveva lasciato gran parte de suoi effetti personali. Oltre al cellulare, trovai per terra il suo portafoglio, e l’unica cosa che sembrava si fosse portato dietro era la pistola. Nel recuperare per restituire, scivolarono fuori varie cose: documenti, denaro, porto d’armi, fotografie.
    Ora ero in grado di metabolizzare. Ciò che mi aveva fatto restare interdetta non era tanto il nostro gesto, o le mie sensazioni tranquille, ma le sue. La sua famiglia perduta per me era sempre stata non più di una frase. La sua famiglia perduta. Entità inesistenti, non fondamentali ai fini pratici. Per la mia mente pragmatica, ciò rendeva Foss meno vulnerabile, senza vincoli, non ricattabile.
    Stirai la foto con le mani. Non avevo mai avuto la possibilità di vederla, né, in effetti, vi era mai stata ragione alcuna. Erica era davvero carina, e la bambina era adorabile.
    Indossai gli stivali e recuperai un golfino, raggiungendo il bagno per sciacquarmi il viso. Fissandomi allo specchio, mi domandai come fosse stato possibile che il tepore del giaciglio mi avesse fatto desiderare di non privarmene mai più. Scossi la testa, mentre mi passavo una mano tra i capelli, sospingendoli indietro, lungo la schiena. Entrambi avevamo troppi fantasmi per riuscire a guardare avanti, ma allora non immaginavo neppure che cosa dovesse provare, come dovesse sentirsi; però avevo imparato abbastanza sull’empatia da rendermi conto che dopo questa notte, era uscito sbattendo la porta non per ira, ma per vergogna.
    Forse avrei dovuto raggiungerlo, o forse no? Niente mi obbligava a farlo. Non c’era alcuna relazione che mi legava a lui, e che mi dava doveri cui adempiere. Abbiamo dormito insieme. Sì, béh, a parte questo. Sospirai, raggiungendo le chiavi di casa. Foss non era tipo da lasciare in giro prove compromettenti, come il suo nome o il suo cognome stampati su carta plastificata. Se aveva scordato in giro la sua roba, in testa doveva avere parecchie cose che lo rendevano distratto, sfuggente, ed era mio dovere assicurarmi che non facesse partire pallottole a caso, mentre era intento a rodersi l’anima.
    L’alba è sempre affascinante, con i raggi del sole aranciati che non ti riscaldano. Mi strinsi il golfino addosso, sfregando le mani sulle braccia, mentre ascoltavo, intenta a cogliere rumori. Qualche famiglia nelle vicinanze si era svegliata. Udivo bricchi di tè e caffè messi sul fuoco, fiammiferi accesi, bambini che correvano, e qualche muratore stava già usando attrezzi pesanti, nel campo di lavoro poco distante.
    Kyle dormiva. Ero in grado di udirne il respiro, esattamente come il suo, per nulla calmo. Mi diressi alla mia destra. Forse non aveva ritenuto consigliabile tornare da Kyle, dopo essere stato fuori tutta la notte. Non credo gli avrebbe mai detto, dove era stato.
    Lo vedevo, seduto al posto di guida, rigido e immobile. La ghiaia scricchiolò sotto i miei piedi e alzò lo sguardo, sollevando una mano, facendomi fermare.
    «Voglio solo ridarti la tua roba», dissi, accennando al portafoglio. «E poi la macchina mi serve. Devo raggiungere Riyad».
    Non disse nulla. Non diede nemmeno la sensazione di avermi sentito. Mi avvicinai di qualche altro passo, raggiungendo il finestrino del passeggero e allungandogli le sue cose. Non si mosse nemmeno questa volta, così le lasciai cadere sul sedile.
    Sospirai. «Senti, grande uomo che vive di sensi di colpa, lascia stare. Non è questo il caso. Non hai fatto nulla di…».
    «E sentiamo: tu che cosa ne sai?»
    «Abbastanza da consigliarti di lasciar correre. Non hai oltraggiato la memoria di nessuno».
    Ora mi fissò, gli occhi sgranati, infuriato. «Tu hai…».
    «Aperto il portafoglio? No. La foto è scivolata fuori insieme a tante altre cose. Rimettendo tutto a posto, mi è capitato di vederla».
    In quel momento si appropriò della sua roba, lasciandola poi ricadere distrattamente sul cruscotto, davanti a sé. Ne approfittai per salire, chiudendo lo sportello. Mi guardò infastidito.
    «La jeep è mia, fino a prova contraria», alzai le spalle.
    Fece per scendere, ma lo fermai, senza che tuttavia il mio cervello avesse comandato al mio corpo di farlo. Aveva agito di sua volontà, quasi come quella stessa notte.
    S’irrigidì al contatto della mia mano sulla sua spalla, però non se la scrollò via, come non si era allontanato da me quando avevo cominciato a spogliarlo. Invece, si era fatto più vicino, senza discostarsi se non con l’arrivo del mattino.
    «Non volevo turbarti», dissi, senza aggiungere ciò che in realtà volevo fare. Forse non avrebbe compreso. «È capitato. Lascia correre. È stato solo…».
    Non finii la frase, né lui la terminò per me.
    Si voltò, invece, fissandomi, le labbra socchiuse, gli occhi attenti. Poi scosse la testa, sogghignò e abbassò lo sguardo. «Questo ti darebbe il diritto di pensare che io sia un uomo deplorevole. Non avresti dovuto raggiungermi, adesso, perché non desidero compagnia».
    «In effetti, ci ho pensato su. Poi mi sono detta che avrei dovuto rivederti per consegnarti la carta d’identità, per cui tanto valeva affrontarti ora; ora che per lo meno non c’è nessuno in giro».
    «Io terrò per me quello che abbiamo fatto. Tu farai lo stesso».
    «Non credo siano affari di Kyle».
    «Tu farai lo stesso». Mi piantò gli occhi addosso, sfidandomi a replicare.
    «No». Adoravo le sfide. «Non ho fatto nulla di cui vergognarmi. Sono adulta, tu pure. Qual è il problema?»
    «Potresti essere mia figlia», disse.
    «Béh, non lo sono. Non sono la figlia di nessuno. Problema risolto, no?»
    Scese dall’auto senza rispondere.
    «Stai dicendo che per sedici anni hai vissuto come un monaco? È per questo, che ora stai così? La prima persona ad averti scatenato milioni di sensi di colpa sono io?»
    Lo seguii, mentre camminava, cercando di seminarmi. Io sperai vivamente che dicesse di no, se non altro perché sarebbe stato deprimente, per me; mi avrebbe fatto sentire un’intrusa, qualcuno che ha sporcato un ricordo altrimenti inviolato. Se altre mi avevano preceduta, non sarebbe stato il mio corpo a portare questo marchio.
    E di sicuro non avrei permesso che fosse il suo, a essere segnato, perché il primo gesto era partito da me.
    «Sto dicendo», sospirò, ignorando la mia domanda, «che hai venticinque anni, io sono vicino ai cinquanta e…».
    «Abbiamo fatto sesso», completai. «Ripeto: non sono tua figlia, non hai obblighi di tutela nei miei confronti, non mi hai costretta in alcun modo e non devo fedeltà a nessuno. Se poi mi dici che ti senti un verme perché ti sembra di aver disonorato la memoria della tua famiglia, per contro posso dirti che se le ami come prima, se sei devoto a loro come prima, questo non ha cambiato nulla. Rimane solo il fatto che volevo ringraziarti».
    «Ringraziarmi?»
    Per essere rimasto.
    Annuii, senza aggiungere altro. Non insistette, scuotendo però la testa, e presto mi resi conto che eravamo ritornati a casa mia. Entrò, accendendo le luci, per poi guardarsi intorno, sospirare e squadrarmi.
    «Posso accompagnarvi», disse. «Svolgerei il mio ultimo compito da guardia del corpo di Jessi».
    «Fino all’aeroporto, in macchina?»
    Annuì.
    «Perché lo faresti?»
    «Te l’ho detto: per completare il mio compito. Hai già salutato tutti?»
    Feci cenno di sì. «Prendo la bambina. Non ha senso svegliarla, tanto si rimetterebbe a dormire sull’aereo. Torno qui a prendere i bagagli e poi…».
    «Li prendo io. Vai».
    Dopo aver coperto Sarah, aver preso la borsa con i documenti essenziali e aver chiuso la porta a chiave, raggiunsi di nuovo la macchina. Le valigie erano già state caricate e Foss era appoggiato allo sportello, intento a scrivere un messaggio.
    «Sto avvisando Declan, nel caso».
    «Ma così dovrai spiegazioni».
    «No, se me l’hai chiesto tu per precauzione».
    «E come avrei fatto a rintracciarti?»
    «Non dormivo. Lavoravo. Mi hai semplicemente trovato al campo di lavoro».
    Occupammo completamente il sedile anteriore, con la bambina tra di noi, in braccio a me; i bagagli avevano occupato tutto il resto della vettura. Mentre metteva in moto, osservò mia figlia. «Nessuno, guardandola, negherebbe la paternità. Ma la maternità…».
    «Sì, lo so, ma per tua fortuna l’ho partorita, per cui, insomma, un minimo di sicurezza…», sorrisi.
    Sorrise anche lui. «Anche mia figlia non mi somigliava».
    Gli lanciai un’occhiata. Era serio, ora, attentissimo alla strada, come se si fosse pentito di aver parlato.
    «No, non è vero», dissi.
    Calò il silenzio. Cinque ore in auto con lui e nessun argomento di conversazione all’orizzonte. La cosa sarebbe potuta diventare stressante.
    «Non mi hai ancora detto, dove sei stato in questi anni. Dalle tue telefonate non lasciavi trapelare alcun luogo».
    «Non era quello l’essenziale, e se te l’avessi detto, mi avrebbero rintracciato», mi spiegò.
    «No, l’essenziale era sapere come stavo, giusto?»
    Si voltò appena verso di me. «Non mi sembravi molto in forma, quando lasciasti quella casa».
    «Non lo ero».
    «Sapevi già…».
    «No. Lo scoprii poco dopo che fui partita».
    «E non gliel’hai detto».
    «Era impegnato in una relazione con un’altra, e poi partì per l’Europa. Un figlio l’avrebbe ostacolato troppo».
    «Béh, ma un figlio c’era, non avresti potuto semplicemente far finta di nulla».
    «È in pratica quello che ho fatto, finché quel genio di Brian non ha spifferato tutto».
    «Non gliel’avresti mai detto?»
    «Probabilmente no».
    «E ti sembra una cosa corretta?»
    «Non completamente scorretta».
    «Sul serio?»
    «Già».
    «E spiegami secondo quale ragionamento le tue azioni non rientrano nella definizione di torto».
    «Non ho danneggiato né Kyle né Sarah, non dicendo all’uno o all’altra della reciproca esistenza».
    «Infatti, Kyle ti ha proprio ringraziato per averglielo tenuto nascosto».
    Gli lanciai un’occhiataccia, spostando lo sguardo fuori dal finestrino.
    «Non mi scoccia, se continui a chiamarmi», mormorai, rammentando la prima di quella lunga serie di telefonate, talmente inaspettata da lasciarmi senza parole per un bel po’.
    «Sei morta?», mi aveva chiesto in tono incredibilmente sarcastico, dopo quasi cinque minuti di silenzio da che aveva detto “Sono Foss”. «Se è così, dimmelo, perché non sto chiamando gratis».
    Ridacchiai a quel ricordo. La vena sarcastica di Foss mi era stata preclusa fino a quel momento. Un vero peccato.
    «Sicura?»
    «Certo. Le tue telefonate mi facevano tornare con i piedi per terra, per quanto mi potessi smarrire ogni tanto, lontano da Seattle e dai Trager».
    «E in nessuna di queste hai accennato a una figlia».
    «E in nessuna di queste hai mai accennato alla possibilità che un giorno avremmo fatto del sesso».
    Distolse lo sguardo, arrossendo.
    «Ti hanno mai detto che sei davvero troppo schietta?»
    «Se anche l’hanno fatto credo di averli ignorati».
    Scosse la testa, un sorriso in volto, esasperato.
    «Ho conosciuto Brian, e devo dire che hai preso tutto da tua madre».
    «Dici? Io non ho conosciuto nessuno dei due; o meglio, non abbastanza».
    «Credi di esserti persa molto di Taylor? È il verme che sembra».
    «Con un’eccezione: sua nipote».
    «Non hai appena detto di essere la figlia di nessuno? È improprio parlare di nonno e nipote».
    «Ti hanno mai detto che sei pignolo in una maniera assurda?»
    «Non sono pignolo. Tu ti contraddici ogni due frasi». Il tono era divertito.
    Sbuffai, facendo troppo rumore. La bimba si mosse e si lamentò, aprendo gli occhi. Entrambi tacemmo, mentre alzava la testolina, prima guardando me, poi lui.
    «Dove andiamo?»
    Non usò etichette, e nemmeno nomi propri. Ci conoscevamo da troppo poco. Però si era subito fidata, si era subito acclimatata, mi aveva subito riconosciuta. Per me la cosa era stata ancora più immediata, perché in pochissimi secondi la neonata dalla testolina tutta a chiazze era naturalmente diventata la bambina meravigliosa che mi guardava, e ancora più naturalmente la mia bambina.
    Kyle aveva mostrato meno attaccamento, invece. Questo perché non l’aveva mai vista, e di certo non potevo imputare a lui la colpa, non del tutto.
    «Prendiamo l’aereo. Ho una casa, in Canada».
    «Nonno ha una grande casa con un enorme giardino. Anche tu hai il giardino?»
    «Sì, piccolino ma c’è».
    «E tu chi sei?»
    Foss guardò me, e poi lei.
    «L’autista».
    «E torni anche tu in Canada?»
    «No, resto qui col tuo papà».
    «Nonno mi diceva che mamma e papà erano tanto impegnati, che stavano facendo cose per il mondo. Dov’è il mondo? L’avete riaggiustato?»
    Foss sorrise.
    Ah, Brian!
    «La strada è ancora molto lunga, ma ci stiamo lavorando».
    Sarah annuì soddisfatta. L’adorazione per il Latnock paterno era una cosa sconosciuta, per me.
    La bimba fu curiosa, quando le descrissi la casa. Avrei dovuto aggiungere una stanza per lei. Meschinamente l’avevo quasi rilegata fuori, tanto che non aveva nemmeno un posto in casa mia. Quella stanza mi avrebbe ricordato che non l’avevo accanto, anche se per mia scelta.
    «Hai detto a Kyle che saresti stata tu con i suoi genitori», mi ricordò Foss.
    «È così, ma ho bisogno di qualche settimana per trovare un’altra casa. Ho tanti soldi ma non un appalto disponibile».
    «C’è sempre quella di tua madre».
    «Che è affittata. Dovrei dare un preavviso di sei mesi. Non ho sei mesi. Tanto vale che ne affitti un’altra».
    «Siamo arrivati?» Sarah ora era un po’ inquieta, voleva scendere, muoversi.
    «Quasi», rispose Foss. «Ce la fai a intrattenerti un’altra oretta?»
    «E con cosa?», brontolò la piccola, sconsolata, fissandomi.
    Scossi la testa, pensando. «Non ho nessun gioco, per te», le dissi in tono di scusa. Non era programmato che tornassi.
    «Ci sono dei fogli, nel cassetto sotto il cruscotto. La mamma avrà sicuramente una penna in quella borsa. Perché non disegni la tua vecchia casa?»
    «Con anche le anatre?», trillò entusiasta.
    «Perché no». Foss alzò le spalle, senza guardare mia figlia.
    Sarah mi tirò la manica, perché facessi in fretta. Le sistemai una pila di fogli davanti, con la penna blu.
    «Come facevi a sapere della penna?»
    «Gli scienziati hanno penne ovunque. Adam tirò fuori una penna persino una volta in cui, nascosto dentro un vecchio capanno, non dormiva né mangiava da giorni per l’ansia. Però la penna l’aveva».
    Risi. «Perché era nascosto in un capanno?»
    «Per sfuggire alla Zzyzx. Avevano rintracciato il nascondiglio, molto prima che Taylor gli costruisse la villa in cui…».
    Si schiarì la voce. Non parlò più finché non vedemmo le luci della città, e poco dopo quelle dell’aeroporto.
    Parcheggiammo nell’enorme piazzale, semideserto. Non era alta stagione, questa.
    «Sarah», dissi, «ti va di controllare se ci sono tutte e cinque le valigie?»
    Annuì, scivolando dal sedile posteriore al bagagliaio, iniziando a contare.
    Foss tamburellava con le dita sul volante. Mi mossi appena, mettendomi a tracolla la borsa.
    «Tutto quello che mi hai detto», dissi, «e tutto ciò che abbiamo fatto, rimarrà tra me e te».
    «Lo so», disse. «Mi fido».
    «Grazie».
    Annuì.
    «Perché ci hai portate sino a qui?», domandai di nuovo. «Non avevi alcun ordine, ed io posso proteggermi, lo sai».
    «Se fossi rimasto solo», mormorò, lo sguardo puntato davanti a sé, «ecco, non credo sarei… Dovevo tenere la mente occupata».
    «Béh, occupati tu di quest’ala di ricostruzione. Fai lavorare sodo tutti. Così potrete tornare presto a Seattle, almeno per un po’. Non sono la sola che sente la mancanza di Kyle».
    Ora mi fissò. Ero certa che sapesse che non mi stavo riferendo a Kyle, non davvero. Con lui non c’era stato alcun tipo di contatto. Mi chiamò solo qualche mese dopo la mia partenza, ormai in Europa, chiedendo la mia collaborazione. Quando rifiutai, non lo sentii, se non indirettamente, per cinque anni. Le telefonate di Foss, invece, non si interruppero mai. Divennero una costante fondamentale, come il lavoro, in grado di farmi resistere.
    «Mentivo prima», confessai. «Non ho salutato tutti».
    Esattamente come la notte appena passata, non si scostò, ma la sua mano sfiorò il mio viso. Forse nemmeno lui aveva il controllo delle sue azioni.
    Niente baci elettrici, niente danni ai lampadari, ma alla mia anima più d’uno. La quale, accidenti!, mi aveva già avvertito di mantenere le distanze, ed io avevo frainteso il soggetto cui si riferiva.
    Non avrei mai dovuto farmi coinvolgere da Foss, altro che Kyle.
    Troppo tardi.















Non ci si vede da un bel po’! Scusate. E pensare che non ho nemmeno studiato, in questo mese. Avessi la scusante dello studio… e invece ho solo quella dell’ispirazione, che era andata in vacanza.
Almeno è ritornata. Meglio tardi che mai!
Capitolo che non mi convince. Troppo semplice, superficiale, banale? Uno dei tre, se non tutti.
Vi ringrazio, comunque, per essere arrivati sino a qui. Non fatevi problemi a lanciarmi dei pomodori, se lo ritenete opportuno!
A presto!^^

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Capitolo 7
*** Tecnologia ***


Dopo la seconda morte
07 - Tecnologia



Per lo scrittore Robert Ludlum,
per la sua cura dei dettagli e per l’amore all’attenzione che trasmette a me.



    Squillò il telefono, e Sarah si mosse appena. Sbuffai. Avrei dovuto prendere in considerazione l’idea di staccare la linea. Era la quinta volta che suonava, quella sera, e già quattro persone diverse mi avevano mitragliato di domande perché, a quanto pareva, ero la sola ad aver avuto contatti con Kyle dopo diversi anni.
    «Ehi!»
    Andy? Seriamente?
    «È davvero molto tardi, Andy», le dissi. «Perché non richiami?»
    «Tardi? Sono solo le otto! Vai a letto insieme alle galline?»
    «Ho viaggiato per ore, ed esiste il fuso orario. Siamo stanche».
    Io lo sono solo di ascoltarvi, veramente.
    «Ah, la figlioletta perduta! Ho chiamato apposta per lei. Quando Josh me l’ha detto, ho faticato a crederci. Non l’ho svegliata, vero?»
    Lanciai uno sguardo alla bimba sul divano. Si era rimessa a dormire.
    «No», dissi.
    Non voleva frenetiche notizie di Kyle? Tutti avevano chiamato per lui. Nicole, Lori, Josh e Amanda erano stati davvero insistenti. Arrivata all’ultima telefonata, mi ero sentita libera di riattaccare.
    «Meno male. Allora, com’è stato rivederla? Racconta!»
    Rimasi in silenzio forse un minuto di troppo, riflettendo.
    «È tutto ok?», domandò, ora all’erta. «Sono stata forse inopportuna? È la prima bimba nella nostra famiglia, no? È da festeggiare».
    «No, no, no, nessun fastidio. Anzi! Sei la prima che mi chiede di lei. Nicole ha accennato qualcosa come che spera di vederci presto, ma nulla di più. Mi sono solo meravigliata del fatto che non mi stai pressando perché parli di Kyle».
    «Béh, Josh ha detto che sta bene, cos’altro c’è da chiedere? Siamo tutti convinti che stia facendo cose grandiose, no? Ma è questa nuova vita che va festeggiata!»
    Forse perché aveva temuto di morire all’età di sedici anni, Andy aveva sviluppato quella propensione al facile entusiasmo tipica dei bambini o delle ochette fastidiose. L’atteggiamento di Andy tuttavia era stato sempre divertente. Non era infantile ma spensierata, leggera. Il telefono sfrigolava, quelle poche volte in cui chiamava. Metteva di buon umore.
    «Non è nata oggi», le feci notare, divertita.
    «Béh, è un po’ come se lo fosse. Quando possiamo venire a trovarla?»
    «Potrei venire io». Verrò io.
    «Davvero? Qua da noi, al College?»
    Rispolverai le varie informazioni che Nicole in anni aveva snocciolato. Ricordai che Josh era meno attaccato alla madre, se confrontato a Kyle, con un gran desiderio di fuggire. Così, era approdato in Alaska. Precisamente era stato ammesso alla University of Alaska Anchorage, più grazie a un miracolo di nome Andromeda che alle sue doti da grande studioso.
    «No, non proprio; fa un po’ freddo, dalle tue parti. Aspettiamo luglio, che ne dici? Almeno si arriverà ai venti gradi. Ed io lavoro, non faccio finta di studiare pur di stare lontano dalle occhiate della mamma come fa Josh».
    Andy rise. Non si mortificava e non rinfacciava la freddura per secoli, ma ironizzava e così potevo continuare a parlarle senza imbarazzo. Non dovevo pensare costantemente a cosa dire per non offenderla. Si conversava molto bene, con lei.
    «Abbiamo le stesse temperature, sia dalle mie sia dalle tue parti, però ci conto! Ci troverai sempre qua».
    «A luglio sarete a Palmer? Non andrete a casa per le vacanze estive?»
    «Non per tutte le vacanze estive. Per questo torniamo per primavera e poi per Pasqua, perché faremo poche vacanze estive. Dobbiamo ancora dare molti esami».
    «E tu sarai a Seattle, in primavera? Non andrai a trovare le tue mamme a Cleveland?»
    «Sì, ma tanto dovrò passare da Seattle, e qualche giorno potrò trattenermi».
    «Sarò anch’io a Seattle, in primavera. Per questo ti dicevo che potrei venire io».
    «Sì? Davvero? Per tutta la stagione?»
    «Se va secondo i piani, mi tratterò a Seattle per un bel po’. Oltre la stagione».
    «Ma hai detto che stai lavorando».
    «Devo organizzarmi, infatti. Appena avrò maggiori informazioni, mi farò sentire. In ogni caso, ci vedremo, Andy, d’accordo?»
    «D’accordo. Ora ti saluto. Josh sta iniziando a tamburellare con le dita sull’orologio. Forse sono stata al suo telefono un po’ troppo».
    «Una decina di minuti, nulla di che».
    «Tanto ti chiederò la metà della bolletta, Canada».
    «Sei davvero generosa».
    «Già, lo so». Rise. «Ti saluto. A presto».
    «Ciao, Andy».
    Riappesi. Uno sbadiglio mi colse impreparata, e accennai un passo verso il divano. Avrei adagiato la bimba sul mio letto, per poi lasciarmi morire in salotto.
    Negli anni, da sola, avevo scoperto che il mio corpo reagiva in maniera diversa da quello di Kyle. Eravamo simili, creati nel medesimo modo, ma qualitativamente diversi e con una discrepanza molto semplice: ero una donna. E come tale, portavo in grembo figli. Questo, oltre che impedirmi l’allenamento quotidiano, aveva creato uno scompenso tale che mi era stato impossibile mantenermi preparata. Molte capacità si erano assopite e, se all’occorrenza le adoperavo, in seguito avevo bisogno di giorni per riprendermi, proprio come ai vecchi tempi. Per questo, non mi sorpresi quando la stanchezza ebbe la meglio su di me, tuttavia mi stupii eccome poiché, appena fui tornata in salotto, il telefono suonò di nuovo.
    In un primo momento, pensai di stare sognando. Poi capii che avevo gli occhi aperti, non avevo nemmeno fatto in tempo a togliermi le scarpe, né ad adagiare la testa sul cuscino. Chiusi gli occhi, decidendo di ignorare la telefonata. I familiari erano finiti. Chi poteva mai essere? La madre di Amanda? Quella biologica di Kyle? Il cane dei vicini in fondo alla strada di casa Trager?
    Il telefono continuava a strepitare. Non avrebbe dovuto smettere da solo, se non rispondevo? Notai che, in effetti, smetteva di suonare, ma dall’altra parte ricomponevano subito il numero, e così ecco da capo il caos e l’emicrania.
    Un lamento indefinito mi sfuggii dalle labbra. Voltai la testa verso il telefono. Trattenendo il respiro, concentrandomi, riuscii a farlo volare dall’altra parte della stanza, filo e piano con i numeri compresi. Adesso taceva, non riuscivo a crederci. Rimaneva solo l’emicrania, che si era acuita, ma il sonno era troppo perché non riuscissi ad addormentarmi.
    Non seppi mai quanto tempo dormii, perché un ronzio mi riscosse. Sobbalzai, tendendo l’orecchio, il cerchio alla testa che si era ingigantito, appesantendola. Sarah dormiva, almeno a lei pareva concesso il privilegio, e dunque l’altro rumore? Il cervello lo riconobbe dopo molto tempo: il mio telefonino, dentro la borsa, che vibrava.
    Un pensiero mi fece sobbalzare: nessuno che non fosse Declan o Kyle aveva questo numero. Tutti avevano modo di rintracciarmi alla rete fissa, ma se ero fuori di casa, non avevo desiderio d’essere interrotta, e non avevo comunicato a nessuno il numero del mio telefonino. A parte, appunto, durante il mio lungo viaggio verso l’Asia, perché quella era stata una situazione a tutti gli effetti straordinaria.
    Raggiunsi la tracolla con passi veloci, pesanti; il telefono era stato sotterrato dai milioni di oggetti che affollavano la borsa. Esattamente come il fisso, appena la linea cadeva, il numero era ricomposto e lo squillo riprendeva.
    «Sì?»
    «Che diavolo di fine avevi fatto? Pensavo che sareste arrivate alle cinque».
    «Kyle? Scusa, non ho avuto il tempo di…».
    «Sei arrivata da tre ore, ti è mancato il tempo di farmi sapere qualcosa?»
    «I tuoi familiari mi hanno assalito per avere notizie, siccome qualcuno di voi ha detto dove sono stata. Non ho avuto la possibilità di fare nient’altro se non di stare al telefono. Comunque siamo arrivate, è tutto ok. Sarah dorme ora. Tu stai bene?» Cercai di rabbonirlo, notando come sembrasse ridicolo il fatto che, ogni volta in cui parlava con me, per qualche motivo si adirava.
    «I tuoi familiari?»
    «Sono stanca, Kyle». Sospirai, stropicciandomi gli occhi.
    «Nicole ha detto che avevate risolto», insistette. «Non è così?»
    «Tu che cosa sai?»
    «Tutto».
    «Nicole spettegola?»
    «È Lori*, veramente. Sai che è tornata da New York, no?»
    «Sì, secoli fa. Da quanto tempo non sentivi Nicole?»
    «Da mesi».
    «Mi sorprende che non abbia preso il primo aereo per venirti a cercare personalmente».
    «Credo che Stephen sia riuscito a dissuaderla. Non penso che accetterà mai il fatto che i suoi figli siano cresciuti e che abbiano lasciato la casa materna per vivere la loro vita».
    «E quindi Lori non ha niente di meglio da fare che parlare di me?»
    «È dispiaciuta del fatto che vi siate allontanate, tutto qui. Spera sempre di rivederti a Seattle».
    «Béh, sarà contenta di sapere che tornerò, no?»
    «Sì, sono tutti molto lieti di rivederti».
    Certo, talmente lieti da non farne parola. Scossi la testa. «Se ti capita di risentirli, di’ loro che la prossima settimana sarò a Seattle in cerca di una casa».
    Non volevo che succedesse qualcosa ai Trager, qualunque fosse il loro atteggiamento; erano brave persone e si erano preoccupati per me quando nessun altro sembrava intenzionato a farlo. Tuttavia, il rimpianto per la morte di mia madre non mi aveva mai lasciato, e non ero riuscita a scacciare la sensazione di essere fuori posto, in quella grande casa con tutte quelle persone. Quando era arrivato il momento di scegliere il College, l’indole mi aveva portato a tenermi aperte strade che andavano dall’Inghilterra al Canada. E solo poche settimane dopo, Kyle mi aveva lasciato, confermando che il mio posto non era lì. Casa Trager era la mia casa, ero affezionata alla mia stanza, alla città, ma non potevo più rimanere.
    In quei lunghi mesi prima della partenza, durante l’agonia che la vita di Kyle nelle nostre mani aveva procurato, Nicole non si era mai arresa, per tentare di tenermi con sé, ma la rabbia e la frustrazione per la sorte di Kyle e la mia invidia avevano vinto, e mi ero ritrovata a urlarle contro cose non tanto carine e lei aveva finalmente ceduto, ferita, lasciandomi poi partire per Ottawa.
    I contatti erano stati brevi, quasi nulli per le prime settimane. Stephen aveva fatto da tramite tra la mia nuova vita e casa Trager, per i primi tempi, e dopo pochi mesi era rimasto Foss. Foss e nessun altro, Foss che non rievocava nient’altro, che non discuteva d’altro se non della mia vita, che non s’interessava ad altro che non fosse la mia situazione; che, almeno con me, non parlava come se Kyle fosse sempre al centro d’ogni cosa.
    Foss.
    A un tratto mi venne voglia di sentirlo, e mi dovetti concentrare per cercare di ricostruire il discorso che Kyle stava facendo.
    «Certo», dissi, perché stava parlando della necessità di trovare una casa vicina a quella dei genitori. «Non preoccuparti, farò il possibile. Ora devo andare, credo di aver sentito Sarah».
    «D’accordo», rispose. «Magari chiamerò domani, così parleremo anche di lei».
    «D’accordo, ci sentiamo».
    Questa volta fu lui a riattaccare per primo. Io rimasi per un attimo con il telefono all’orecchio, il segnale della linea libera a scandire i pensieri, riflettendo su come mettermi in contatto con Foss. L’ultimo numero con cui ha chiamato, pensai di poter cominciare da lì, per lo meno era una traccia. La scia di pensieri mi portò ai piedi del telefono martoriato dal precedente volo. Mi chinai, quasi in trance, la mente alle chiamate provenienti da ogni parte del globo. Lo rimisi al suo posto in pochi secondi, facendo fede sui numeri che rimanevano in memoria. Non l’avevo mai cercato, ero certa che l’avrebbe sempre fatto lui, e inoltre, ogni quattro o cinque mesi, mi accorgevo che cambiava numero. Sperai che dall’ultima telefonata non fosse passato tanto.
    Ed ecco l’elenco, dal numero più recente, alla telefonata più vecchia, risalente a un massimo di due mesi addietro. Ricordai che c’era stata una chiamata molto breve e spensierata, da parte sua. Scorsi lo schermo, contando mentalmente, numerando e dando un mittente a tutti i numeri sconosciuti. Come quello di Declan o quello di Amanda, che avrei mantenuto in rubrica nel caso in cui una sera mi fosse venuta voglia di insultarla.
    Doveva essere il trentesimo numero che trovai, verso la fine, fra quello di una mia studentessa e quello del Rettore che ringraziava per il grande aiuto dato al dipartimento di Ingegneria edile.
    Lo digitai, e udii il suono degli squilli. Se non altro il numero esisteva.
    «Sì».
    Rispose in questo modo, e ancora oggi me ne ricordo. Perché fu buffo; non era una domanda, un ‘pronto?’ detto in altro modo, era una conferma. Sapeva chi aveva chiamato, ma compresi subito che non voleva dire il mio nome, né far capire con chi stesse parlando. Questa fu la prima di innumerevoli telefonate che iniziarono così.
    «Sei in compagnia».
    «Già».
    Poiché avevo sentito Kyle solo qualche minuto prima, l’idea di tenergli nascosto anche questo mi era parsa d’improvviso utile. “Ehi, Kyle, sono stata con il tuo protettore; come va la salute?”. Rimanevo del parere che non fossero affari suoi, ma ora ero anche convinta che se non l’avesse saputo avrei evitato altri problemi. E andarmene in Canada era stato solo il primo passo di milioni che avevo percorso verso la strada dell’evitare le difficoltà.
    «Non puoi spostarti, rimanere da solo per due minuti?»
    «È una questione urgente?»
    Ci pensai su. «No, in effetti, può aspettare. Mi chiami tu quando sarai libero?»
    «Aspetta», disse, e udii un fruscio d’aria alla cornetta, come se si fosse mosso. «Ok, ora sono libero».
    «Mi pareva che avessi detto che non potevi liberarti».
    «No, non l’ho mai detto. Ti ho solo chiesto se era urgente».
    «E io ti ho detto di no», dissi, curiosa. «Se avessi detto sì, avresti riattaccato per poi chiamare più tardi?»
    Rise. «No, il fatto è che Kyle stava gironzolando per casa. All’ultimo è uscito, scortato da Declan, così ora non devo censurarmi».
    «Quindi Kyle non sa nemmeno che tu mi chiamavi. Perché non gliel’hai detto?»
    «Perché non l’hai fatto tu?»
    «Non mi sembrava una cosa…».
    «Fondamentale, appunto. Cosa c’è?»
    «Come?»
    «Mi hai chiamato, deduco tu abbia qualcosa da dirmi».
    «Oh». Poteva aspettare perché non era un’informazione, era… «È solo una telefonata… di cortesia». Il bisogno di udire la sua voce sarebbe stato ribattezzato da allora in poi, da me come da lui, di cortesia.
    «Ossia?»
    «L’assuefazione alle tue telefonate ha raggiunto il picco». Come la mia capacità di parafrasare sentimenti sdolcinati in capolavori di stupefacenti stava raggiungendo l’apogeo.
    Restò in silenzio, per poi dire: «Non m’incanti con i paroloni. Ero abituato al modo di parlare di Adam, che diventava così arzigogolato solo quando non voleva dirmi certe cose. Cos’è che non vuoi dirmi?»
    «Niente», borbottai, scontenta. «È la verità. Le cose stanno esattamente come ti ho detto». E secondo il mio parere gli avevo comunicato anche una situazione importante, solo che era un poco nascosta. Se proprio avesse voluto capirla, avrebbe dovuto sforzarsi.
    «Di cortesia, éh?»
    «Proprio».
    «Come le mie vecchie telefonate».
    «Davvero?» Che avesse interpretato i miei sproloqui nella maniera giusta? «Posso considerarle di assuefazione a che cosa?» Ero divertita, perché non sembrava tipo che si potesse impegnare in una conversazione di questo genere. O forse, finché tutto restava velato, a lui sarebbe andata meglio.
    «Alla mania di avere tutto sotto controllo», disse.
    «E sentendomi periodicamente mi avevi sotto controllo?»
    «Esatto». Restò in silenzio per un attimo, poi aggiunse: «Kyle ha deciso di ripartire».
    «Cosa? L’ho sentito due minuti fa, non mi ha detto nulla. Sei sicuro?»
    «So che ti ha chiamato. Ho assistito all’intero delirio perché non rispondevi. Devo dire che ha perseveranza. Cos’è successo con Nicole?»
    «Perché non mi ha detto che si sarebbe spostato?»
    «Non sa ancora, dove andrà. Forse aspettava di avere informazioni più precise».
    «Se sì, ripartiranno loro».**
    «E quando lasceranno l’Asia, tu dove andrai?»
    Rimase in silenzio ancora una volta. Poiché la nostra discussione era iniziata senza capo, e non pensavo che sarebbe finita con una coda, forse decise di continuare verso quel versante, perché disse: «I Trager sono scoperti», bloccando il mio cervello per un attimo.
    «Fai la persona chiara per un secondo», lo pregai. «Significa quello che penso?»
    Via via che mi telefonava, di volta in volta, aveva smesso di avere quel cipiglio da militare scocciato. Il tono si era ammorbidito, finché non mi ero ritrovata in Asia contro il suo volere, ed eccolo ripresentarsi accigliato. Per poi, infine, tornare più tranquillo grazie al sesso e rimanerci anche ora, che lo cercavo io, per la prima volta; talmente tranquillo da divagare.
    «Molto probabile».
    «Verosimile? Sì o no, Foss?»
    «Sì».
    «Quando?»
    «Tra due giorni».
    «Dove?»
    «Magazzino».
    «Per davvero?»
    «Tu sarai a Washington?»
    «Sarei venuta la prossima settimana, ma se tu…».
    «Ci sarai», continuò. Niente tono interrogativo questa volta.
    «D’accordo, ma se tu…».
    «Kyle, sto per prenotare il volo. Sei ancora certo di non aver bisogno che rimanga?»
    Non osai fiatare per paura che sentisse e mi riconoscesse. Avrei potuto dire che stavo cercando lui, ma l’avevo appena sentito, e Kyle era rimasto ai tempi in cui io e Foss neanche ci consideravamo. Udii la risposta di Kyle, chiara e concisa ma gentile. «No, no. Ti ho chiamato solo perché Declan era agitato, ma me la sono cavata splendidamente in questi anni. Davvero, non voglio rubarti altro tempo».
    «D’accordo. Se te la senti, d’accordo».
    «Sto bene, per adesso».
    «Sarà meglio che non si limiti ad adesso», mormorò Declan, a quanto pareva vicino a Kyle.
    «E andrà ancor meglio se tu non aspettassi un anno intero prima di informarmi sulle sue precarie condizioni di salute, se mai ci sarà una prossima volta».
    «Agli ordini!»
    «Dove volerai?», domandò Kyle.
    Non esitò, rispose immediatamente: «Lione».
    «Perché, hai parenti francesi?», chiese Declan, in tono divertito. «Non sembri francese».
    «No, infatti non lo sono. Erica lo era».
    Silenzio, da me come da tutti loro.
    «D’accordo», si affrettò a cambiare argomento Declan. «Chiudi l’affare, noi prepareremo le ultime cose. Al cantiere è tutto avviato, gli operai sono in grado di ultimare da soli».
    Foss stette in silenzio per qualche minuto. Di nuovo fruscii di vento, questa volta più incisivi. Probabilmente era all’aperto, ora.
    «Scusa. È entrato all’improvviso».
    «Così andrai a Lione, éh?»
    «Sì, sì».
    «E dormirai in magazzino, e pretendi che io ti segua. Se ci sei già tu, non vedo perché».
    «Io sono a Lione, ufficialmente».
    «Appunto. Perché hai detto che andrai a Lione? Avresti potuto dire che saresti andato a Seattle. Io sono ancora in Canada, mi avrebbero telefonato e non avresti dovuto mentire».
    «Se ti spostassi tu, a seguito di una bugia, daresti più nell’occhio, perché ora Kyle è deciso a non perdere di vista vostra figlia». Sobbalzai. Ancora nessuno l’aveva messa in questi termini. «Se mi sposto io, non verrebbe a saperlo, a meno che non sia io a decidere di dirglielo».
    Razionale e logico. Kyle non si sentiva in dovere di badare a Foss, ma a Sarah sì.
    Poi capii anche il resto del ragionamento. Voleva rivedermi. Me lo stava dicendo in una lingua diversa da quella diretta, ma stava cercando di farmelo capire.
    «Non si accorgeranno che non prenderai l’aereo per la Francia?»
    «Oh, ma io prenderò l’aereo per la Francia, solo non resterò in Europa una volta arrivato».
    «Mi sembravi abbastanza turbato da quello che abbiamo fatto», gli ricordai. Non volevo metterlo in difficoltà. «Non me la prendo se decidi di lasciare le cose come stanno».
    «E come stanno?»
    Parlai senza riflettere, dimenticando che il pensiero l’avevo tenuto per me, rifilandogli invece la versione più superficiale: solo sesso, disinteressato e tranquillo. «Due conoscenti molto soli che hanno messo da parte per una notte il loro passato; mi sentivo tremendamente a pezzi e hai evitato che finissi di distruggermi».
    Silenzio. Trattenni il respiro, maledicendomi mentalmente. Stavo perdendo lo smalto, la patina di freddezza e autocontrollo che mi contraddistingueva. Il mio corpo mi aveva avvertito da subito di stare all’erta, di tenermi alla larga, e non perché Kyle mi facesse ancora mozzare il fiato, ma perché Foss mi faceva tremare le gambe. Ed essermene accorta mentre stavamo facendo l’amore, non ha aiutato, così come non è stata una cosa piacevole svegliarmi da sola, perché lì per lì avevo temuto che si fosse pentito di quel che aveva fatto per causa mia, non per una qualche ragione estranea.
    Altro silenzio. Ero certa che mi avrebbe sbattuto il telefono in faccia per poi non farsi mai più sentire né vedere. Io l’avrei fatto, soprattutto se qualcuno prima aveva detto di lasciar correre, perché non era niente, e poi dimostrato di averci visto qualcosa di più profondo; soprattutto se io non avrei potuto dare in cambio qualcosa di più profondo, cosa che ero certa Foss non avrebbe mai potuto fare.
    «In tutti questi anni», riprese parola, la voce misurata, «ho sempre pensato che fossi uguale a tuo padre. Non davi modo di far vedere le emozioni, così la gente ha cominciato a pensare che non ne avessi».
    «La gente?»
    «Io».
    «Ma l’altra sera…».
    «Lasciami finire il discorso. Quando ti chiamavo, sentivo solo il tuo tono, che riesce a mascherare splendidamente le emozioni. Ma le parole sono un altro conto, e le espressioni un altro ancora. Avresti dovuto vedere il tuo viso la sera che hai deciso di partire».
    «E quindi sei rimasto con me per pe…».
    «Fammi finire il discorso», ripeté. «Te lo dico quando ho finito e puoi cominciare ad arrabbiarti, d’accordo? Nessuna pena, rilassati, niente pietà. Ho solo visto tutto quello che stavi provando. Però solo dal tuo viso. La tua postura e il modo in cui ti rivolgevi e parlavi a tua figlia non mostravano alcuna traccia di quello che stavi provando. Sapevi che ero lì, ma non appena Sarah è andata a letto, non appena ti sei voltata, ti ho visto completamente spezzata, esattamente come…».
    «Quella mattina a Seattle», completai per lui. «Ma questo non fa che confermare la mia tesi: ti facevo pena allora come ieri».
    «No», mi contraddisse. «Mi sei apparsa splendida allora come ieri».















Salve.
Ehm, facciamo che non mi chiedete la spiegazione né riguardo al capitolo né riguardo alla fine del capitolo. Sono in vena di romanticherie, prendetela come viene. Ah, ehm, Tom Foss è così aperto perché le sta parlando al telefono. Dubito che se fossero faccia a faccia, le direbbe tutto così liberamente.
Cito tanti luoghi che esistono, ed ora, non so, dovrei dire qualcosa come “questi luoghi non mi appartengono, e nemmeno i nomi del College”, e così via? Non credo, però; in tante opere li nominano in libertà. Però posso dire che tutto ciò che narro e che riguarda questi luoghi non è mai successo ed è solo frutto della mia immaginazione, già.
*Secondo la stessa intervista che mi ha dato le basi da cui far partire questa storia, Lori va a New York per cercare di diventare musicista, per poi ritornare, infine, per seguire le orme della madre studiando Psicologia. Nel mio immaginario, inizia quindi il College a Washington più tardi degli altri. È al pari di Josh, più o meno, al secondo, terzo anno.
**Tratta dal quarto capitolo. Foss, appunto, conferma che non seguirà Kyle qualora ripartisse.

Dimenticavo: Buon Natale e felice Anno Nuovo, siccome il prossimo aggiornamento non verrà fatto prima di gennaio!

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Capitolo 8
*** Troppo presto ***


Dopo la seconda morte

08 - Troppo presto

Per le mie nuvolette.
E per il tuonino.


   Avevo preso sonno solo oltre l’una del mattino, dopo aver balbettato la stessa scusa grazie alla quale avevo messo fine alla conversazione con Kyle. La bimba dormiva ancora, quando riattaccai, ma ero troppo agitata adesso, per potermi stendere. Mi ero ritrovata in cucina, con un bicchiere di vino in mano e il mal di testa peggiorato. Solo verso l’una, il sonno era ricomparso.
   Qualcuno mi riscosse dopo quello che mi sembrò un istante. Scorsi la mia amata bambina, colpevole solo di avere molto sonno e di essersi addormentata sull’aereo e appena ritornate a casa, davanti a me, che mi scuoteva leggermente. Forse si sera svegliata e, in un ambiente nuovo, assettata e affamata, mi aveva cercata.
   «Tutto ok?», mormorai, dando una rapida occhiata all’orologio a muro. Le tre del mattino. Mi ero fatta un’ora di sonno senza interruzione. Sarei stata a posto per tutto il resto della giornata. Come no!
   Annuì, perfettamente sveglia. «Ho fame», disse. Aveva mangiato in aereo, ma allora erano le due di pomeriggio.
   «Certo. Vai in cucina. Arrivo subito».
   Arrancai in bagno, sciacquandomi la faccia con l’acqua gelida. Non servì quasi a nulla. Sconsolata, mi diressi in cucina, al cui tavolo la bambina stava compostamente seduta. La luce, seppur fosse stata sempre soffusa, in quel momento mi accecò. E ancor di più quella del frigo, il quale, notai in quel momento, era vuoto.
   Lo richiusi e mi guardai intorno. Prima di partire avevo fatto razzia di tutti i beni freschi e con una data di scadenza ravvicinata. Non c’era niente, se non qualcosa nel congelatore. «Ho del pesce surgelato», la informai, «ma io non esagererei col cibo alle tre del mattino».
   «Surgelato?» Aggrottò le sopracciglia scure, stretta nel suo golfino e nei suoi jeans, che non le avevo tolto per paura di infastidirla.
   «Sì. Ehm, tiefkühlkost, no?»
   Non che fossi un’amante del tedesco, ma agli studenti internazionali piaceva il fatto di poter parlare con me in tutte le lingue che Brian aveva deciso che dovevo sapere.
   «Oh. No. Vorrei delle uova, per favore». Non era imbarazzata, ma il tono della voce era più basso di come l’avrei tenuto io se mi fossi sentita a casa mia.
   Problema numero uno: io mi ero fatta spuntini notturni equivalenti a una colazione, ma lei non avrebbe dovuto. Problema numero due: io non mangio uova. Sono viscide e pastose.
   «Prometto che domani le compreremo, ma ora non le ho. Non ti andrebbe, non so, un biscotto con un po‘ di tè?»
   Annuì. Quelli ero sicura di averli, perché avevano una scadenza secolare.
   Mi misi all’opera con il bollitore, poggiando sul tavolo una scatola aperta di biscotti con gocce di cioccolato. Li assaggiò, in silenzio ma affamata. Li finì ancor prima che il tè fosse pronto. Io non bevvi né mangiai nulla. Volevo solo andare a letto. Prima di tutto questo, se anche facevo le ore piccole, la sveglia a mezzogiorno era sottointesa. Non ero mai stata una bambina e avevo perso l’adolescenza, prima manovrata dalla Medacorp, poi da mio padre e infine impegnata a combattere Cassidy. Stavo riscoprendo ora le esperienze che Lori aveva fatto tempo prima, mentre ero in una vasca, inconsapevole.
   Non mi dispiaceva, essere ciò che ero. Davvero, ero d’accordo con Brian, che mi spronava, a essere sempre migliore, a sfruttare le mie capacità al meglio. Tuttavia avevo notato come questo spirito famelico che mi spingeva all’esercizio estremo fosse col tempo diminuito. Non c’era più nessuno cui dimostrare che fossi la migliore, né qualcuno con cui competere. Nel mio lavoro ero la numero uno, nel mio dipartimento, dove impartivo ordini e venivo rispettata. In quegli anni avevo esercitato la retorica e le grandi doti mentali che avevo scoperto essermi affini, prendendo una laurea più velocemente di quanto avessi mai progettato. Così, senza la necessità di allenare le mie capacità fisiche, rimanevano tempi vuoti da colmare; scoperto l’alcol, il mio letto non rimaneva spesso vuoto.
   Sciacquai il bollitore mettendolo ad asciugare, per poi lavare il piatto vuoto e la tazza di Sarah, una volta che ebbe finito.
   «Vuoi ancora qualcosa?», le domandai.          
   Scosse la testa. «Non ho più sonno», aggiunse.
   «È troppo presto per fare qualsiasi cosa, temo. Devi cercare di dormire ancora un poco. Poi alle sette ci svegliamo, ci stai?».
 
   La prima volta che avevo ripensato a Foss*, avevo dormito due ore e scolato parecchio alcol.
  Avevo un saggio da ricontrollare e da esporre alla classe il lunedì successivo, ma dopo il lavoro un venerdì avevo accettato di seguire delle giovani colleghe ricercatrici a Québec City, per una festa. Alle mie reticenze, e cioè che cinque ore in treno per una festa me le sarei fatte quando fossi diventata Presidente, si erano contrapposte le insistenze, perché era una festa da non perdere, di amici di amici, e che sarebbe piaciuta.
   Partite di sabato mattina presto e arrivate per l’una di pomeriggio, ci rimanevano sei ore per trovare il luogo della festa, procurarci gli inviti o i contatti giusti per entrare e affittare una camera d’albergo per lavarci e cambiarci. Avevamo sprecato gran parte del pomeriggio girando per negozi, dopo esserci assicurate l’ingresso, e infine, imbellettate, raggiunto il grande salone. Avevo subito capito che non mi sarei trattenuta gran che; sorseggiai vodka per educazione; ne bevvi troppa per la noia.
   Alle tre del mattino, quel salone aveva chiuso, ma io non mi trovavo lì da un po’. Risaputa la mia natura responsabile e la stesura del saggio che mi attendeva, le colleghe erano partite per Ottawa, aspettandosi un mio messaggio sulla segreteria che le avvertiva del mio ritorno a casa di molto precedente al loro. Non era stato inviato. Avevo lasciato la festa per le dieci di sera, sbronza e annoiata, ed ero salita su un autobus. L’alcol aveva diminuito la mia assennatezza e il senso dell’orientamento, ma non la mia memoria, che mi permise di ricostruire la serata fluidamente. Eravamo perse per Québec, io e la mia natura responsabile, appisolate su un bus che procedeva per chissà dove. Se non altro, ero certa che fosse locale e quando aveva sbandato, mandando la mia faccia a cozzare contro il sedile di fronte, l’orologio segnava mezzanotte. Era domenica, ed io mi ero guardata intorno, il bus che attraversava strade sconosciute, ancora non del tutto conscia del guaio in cui mi ero cacciata. Ero scesa a una fermata a caso, tanto per non allontanarmi ancora di più dal centro città avevo pensato, imboccando strade e vie poco frequentate. La sete e il sonno avevano ripreso a tormentarmi, mentre stanca mi ero seduta su una panchina. L’aria fredda non mi svegliava, sembrava invece intorpidirmi, e avevo cercato per la prima volta in tutta la serata di riprendermi, scuotendo la testa e sfregandomi gli occhi, alzando lo sguardo a cercare un cartello che mi indicasse una via, una base da cui riprendere a collocare i punti cardinali, ma l’abbiocco era forte.
   Era stato allora che l’avevo visto, e che quindi me ne ero ricordata. Un bar poco distante da dove ero seduta, dal nome corto e dalle luci sgargianti. Mentre mi dirigevo da quella parte, non avevo pensato minimamente al fatto che non era scontato che il proprietario si chiamasse così.
   «Ehi, Tom, dammi della vodka!», avevo borbottato, la voce impastata.
   Avevo sbattuto una mano sul tavolo mentre il ragazzo alzava lo sguardo. Volevo bere per riuscire a non pensare, perché il nome mi aveva ricordato la telefonata di alcuni mesi prima, e ancora molto più velocemente un flash antico; la sua mano, le sue dita sul mio viso, proprio dove in quel momento mi infastidivano i capelli.
   Il primo al di fuori.
   «Devi andare ora. Nicole ti sta aspettando a casa».**
   Non c’era nessuno, in quel momento, che mi stava aspettando a casa.
   «Veramente Tom era mio zio. Questo bar era suo». Niente alcol tra le mani del nipote di Tom. «Sono Rob».
   «Che grande fantasia», avevo borbottato. «Io sono quella che vuole della vodka».
   Aveva riso. «Mi spiace. Mi sembri già abbastanza ubriaca».
   «Sei un bravo ragazzo, èh? Al tuo posto, mi avrebbero fatta bere per poi approfittarsi di me tutti felici, senza noiosi rimorsi o morali».
   «Chi ti dice che non me ne approfitterò?» Aveva sorriso, tendendo una mano, che avevo stretto.
 
   Una volta raccolti i vestiti e scivolata fuori dal locale buio, il taxi mi aveva condotto all’hotel. La stanza era stata prenotata per l’intera notte, e avevo deciso di fermarmi sino alla mattina successiva. Avrei avuto l’intera giornata di domenica per tornare a casa, e non me la sentivo di intraprendere cinque ore di viaggio con la testa che scoppiava. Avevo preso una ventina di caffè, al bar dell’albergo, e insieme al sonno scomparso era nato un presentimento.
   La sua ultima telefonata risaliva a qualche mese prima. Tre, se non di più. Ed era dalla sera precedente che non controllavo la segreteria fissa.
   Una volta tornata in camera, rassegnata al fatto che mi sarebbe toccato dormire vestita, dal telefonino avevo immesso il numero di casa, dato la password per accedere alla casella vocale e atteso. Tre messaggi. Il primo, di quel sabato pomeriggio, proveniva da un numero sconosciuto, e decisi quindi di fermarlo e ascoltare prima gli altri due. Il secondo era dell’assistente che mi confermava l’orario di ricevimento, cambiato dal lunedì al martedì per motivi suoi e non miei, e il terzo era di una collega ansiosa che chiedeva conferma della partecipazione a un seminario sulla Dinamica Molecolare, al quale avrei dovuto solo ascoltare e non intervenire. Avevo archiviato entrambi e ascoltato la voce registrata che mi informava dell’ultimo messaggio. Era stato lasciato alle tre e ventisei.
   Avevo visto giusto. Era la sua voce, solo il tono era diverso.
   «Ti cercherò di nuovo tra qualche giorno. Persone scomode hanno oltrepassato il tuo confine, fisicamente. Occhi aperti».
   Aveva riattaccato in fretta. Forse avrebbe fatto altrettanto se avessi risposto.      
   Persone scomode. Poiché ero rimasta al fatto che qualche potenziale minaccia era a Ottawa e non avrebbe dovuto esserci, non avevo subito fatto caso alla sua premura. In ogni caso, mi aveva richiamato qualche giorno dopo, proprio come aveva detto, mentre ero in casa a correggere i test sul fatidico saggio che avevo finito sul treno di ritorno.
   «Sono Foss». E come non immaginarlo. «È tutto ok?»
   «Sì. Mi hai detto di tenere gli occhi aperti, e così ho fatto. Nulla di nuovo. Chi esattamente avrei dovuto aspettarmi?»
   «Vecchi amici di Adam. Ad alcuni di loro ho dovuto rinfrescare la memoria».
   «Quindi hai sistemato tu? Sei venuto sino a qui?» Mi ero chiesta perché non l’avessi incontrato, se così era.
   «Declan».
   «Era qui, a Ottawa?»
   «Sì, ma tu no».
   «E come fai a dirlo? Mi ha cercato?»
   «No. Ti ho fatto cercare io».
   Il primo. Esterno alla mia realtà. Che allora ero certa fosse ancora Kyle. 
 
   La sveglia suonò alle sette, ed io mi alzai alle otto. Accoccolata sul divano, la casa quieta, la mente agitata, a quell’ora decisi di iniziare a svegliare Sarah, ma quando mi diressi in camera la scoprii già in piedi, pulita, vestita, pettinata, ordinata, intenta a rifare il letto.
   «Ciao», salutò, rifacendo la piega al lenzuolo chiaro, appena sopra il cuscino. «Sono pronta».
   «Lo vedo. Da quanto sei sveglia?»
   «Un’ora».
   «Ti ha svegliato il timer del telefono? Scusa».
   «La sveglia, sveglia».
   «Giusto», sorrisi.
   «Dove andiamo?»
   «Dove lavoro, all’università, e poi a fare un po’ di spesa, per questo fine settimana».
   Annuì, allontanandosi per ammirare il lavoro, proprio come avrei fatto io dopo un’impresa particolarmente ardua.
   «Sei stata molto gentile», le dissi. «L’avrei fatto io».
   «Nonno mi ha insegnato così».
   «Nonno ti ha insegnato bene. Mi aspetti cinque minuti? Puoi guardare la tv, se ti va».
   Cedetti alla doccia, che mi permise di riprendermi. Pensavo che sarebbe stato più difficile prendermi cura di un altro essere umano, ma non avevo considerato il livello sorprendente di autonomia, unico per questa bambina di quattro anni. Che Brian l’avesse educata così proprio in previsione di questo, un suo ritorno da me, incapace nelle cure premurose come il suo esempio mi aveva dato modo di imparare?
   Una volta vestita la raggiunsi in salotto. Stava guardando i cartoni animati; questo mi mise a mio agio, come se ciò ricordasse a entrambe la sua età.
   «Ti va se usciamo, a fare colazione? Come sai, qui non c’è molto».
   Annuì. «Non trovo il cappotto».
   «Te l’ho appeso all’attaccapanni dell’ingresso».
   Coperte entrambe, all’uscita rimpiansi il clima dell’Arabia per la prima volta da che mi ero trasferita in Canada, soprattutto il vento fresco ma non freddo dell’ultima alba. L’alba che avevo sperato non giungesse mai.
   Spesso mi fermavo in un bar, di strada per l’università, a prendere del caffè. Conoscevo una delle cameriere, che era stata mia allieva per un anno, da quando avevo cominciato a insegnare. Decisi di fermarmi proprio lì, poiché l’istinto mi suggeriva di non esporre la piccola a troppe occhiate; il locale aveva una clientela piuttosto abituale e, se non altro, cameriere carine e affidabili.
   Era l’ora di punta, per i lavoratori, che maledicevano il traffico suonando clacson, nervosi.
   Il locale non era affollato: tre tavolini pieni e qualche avventore al bancone. Quando aprii la porta, con Sarah di fianco a me, fu proprio la mia studentessa ad alzare lo sguardo e a notarmi.
   «Salve, professoressa!»
   Bernice era stata un’allieva di dubbia sagacia e di poco spessore. Non aveva mostrato abilità particolari né l’indole decisa di chi ama e sa affrontare la competizione, ma era timida, solitaria, né brava né disastrosa. Studiava per sé, non per compiacere i parenti o per arrivare a dirigere grandi società, come spesso sentivo affermare da altri. Solo una volta la udii distintamente polemizzare. Era con un gruppo di ragazzi del mio corso, alunni dei quali avevo un’alta opinione e su cui nutrivo grandi speranze. Studenti che mettevano in dubbio, da sempre probabilmente, le mie capacità e per i quali ero sicuramente arrivata a essere professoressa ordinaria a una così giovane età aprendo le gambe. Avevo sentito la sua voce indignata: «Vent’anni e un titolo così importante sono sintomi di un grande impegno. Il rispetto l’ha dovuto guadagnare con le unghie e con i denti, anche per colpa di cretini come voi, e studiando, ragazzi, perché se voi, invece che fissarle le gambe, ascoltaste ciò che dice, mi dareste ragione». Aveva proseguito insinuando velenosa che, se erano fra i migliori del mio corso, non per questo avevano abbassato i pantaloni, e terminò dicendo che tuttavia tanta gente aveva pensato questo di loro.
   Avevo sorriso pensando che la sua difesa si era tramutata in un’offesa bella e buona. Mi aveva sorpresa, esattamente come mesi dopo, quando annunciò la sua intenzione di lavorare come cameriera, e di averlo sempre voluto fare sin dall’età di undici anni.   
   Mi venne incontro a passo svelto, con i capelli chiari finemente acconciati.
   «Buongiorno», le risposi, amichevole.
   «Ciao!» L’attenzione passò quasi inevitabilmente a Sarah che, senza nessun preavviso, mi prese la mano e si fece piccola, leggermente più vicina e nascosta. Bernice le sorrise, e lei mi fissò, interrogativa.
   A quel contatto improvviso, vacillai, senza dare risposta a mia figlia. Ero stata ben attenta a non toccarla, quella mattina, ero stata ben attenta a non pensarla, perché ancora la sua presenza lì mi sembrava tutto fuorché razionale. Avrei dovuto presentarla, spiegare, raccontare, ma era un discorso troppo lungo da fare davanti a un’entrata di un locale pubblico, con l’odore del caffè a solleticare le narici e una bambina irrequieta che mi stritolava una mano. Per questo, una volta ripreso il filo degli eventi, decisi di glissare, sorridendo e facendo cenno a Sarah di rispondere. La bimba lo fece timidamente, e mi affrettai a dire che era la figlia di un amico, e che sarebbe rimasta con me per un po’.
   «Ah sì?», domandò la ragazza, conducendomi a uno dei miei tavoli preferiti, accanto alla finestra e con una buona visuale dell’intera stanza. «Quindi alla fine ti ha trovato? Ha detto qualcosa di simile, che doveva rintracciarti per una questione di famiglia».
   «Come, scusa?»
   Mentre Sarah si accomodava, togliendosi la giacca e la sciarpa, alzai lo sguardo su Bernice, che distratta tracciava ghirigori sul foglietto delle ordinazioni, con ancora il sorriso amichevole al suo posto.
   «L’uomo che qualche giorno fa è venuto a cercarti. Suppongo ti abbia trovato», accennò a Sarah con la testa.
   «È venuto qua, un uomo? Quanti giorni fa?»
   «Ehm, non saprei. Due o tre». Mi guardava stranita, perché ero rimasta in piedi, la borsa ancora in mano, improvvisamente bloccata.
   Ci stanno cercando. Tutti noi. Ricordai improvvisamente le parole di Brian, insieme con quelle che mi comunicavano che dei Latnok erano giunti a casa sua per trovarmi. Avevano creduto alla sua storia, ma questo non significava che avessero smesso di darmi la caccia. Tuttavia, non avevo messo in conto il fatto che mi avrebbero trovata così presto. Come, poi? Avevo in programma di abbandonare il Canada, e, se si escludevano i Trager, mio padre, Kyle e il suo entourage di protettori, nessuno sapeva dove avevo trascorso gli ultimi cinque anni. Nessuno tranne…
   Mi riscossi quando la porta del locale fu aperta, e una folata di vento gelido spazzò via i fogli di giornale da un tavolo poco distante.
   Due uomini erano entrati, che non avevo mai visto lì e che mi sarebbero apparsi del tutto anonimi se non fossi stata preoccupata delle parole di Bernice. Si guardarono intorno, esattamente come feci io, immobile, cercando vie di fuga alternative, in attesa. Non potevo mettermi a correre e basta. Se non erano chi pensavo che fossero, avrei solo attirato l’attenzione su di noi. E se lo erano, avrei attirato la loro attenzione.
   Mia figlia era rimasta impietrita, sull’orlo della sedia, chiaramente insospettita dal mio comportamento. Piano mi spostai verso Bernice, tentando di coprire la mia figura con la sua. Per fortuna eravamo verso il fondo del locale. Ci avrebbero messo un po’, per individuarmi, fermi com’erano davanti alla porta.
   «Era uno di quei due?», domandai, abbassando la voce, facendo un microscopico cenno con la testa. Bernice si voltò appena e annuì, ancora accigliata.
   «C’è un’uscita sul retro?», mormorai.
  «Cosa?» Ancora più perplessa, corrugò le sopracciglia. Il suo animo polemico sembrava essersi risvegliato nel momento meno opportuno.
   «Per favore, Bernice. Ho fretta».
   «Sì, certo. Si passa dalla cucina, però. Il cuoco la usa spesso per…».
  «Grazie mille». Lanciai uno sguardo ai due uomini, che ora avevano fatto qualche passo verso il bancone. Probabilmente avrebbero ripetuto la stessa recita degli altri giorni, fingendo di cercarmi per motivi di famiglia. «Devi portare Sarah fuori di qui, passando per quell’uscita. Ti ricordi dov’è l’università? L’aula dove tengo il mio corso, quello che seguivi anche tu? Vai, e aspetta lì la mia chiamata».
   «Cosa?» Dovevo apparirle pazza, senza dubbio. «Io sto lavorando. Che vai dicendo?»
   «Ti pagherò; tutta la settimana, se lo desideri. Per favore. Quell’uomo non c’entra niente con me. Ho paura che possa essere un pericolo. Ti prego».
   Ancora stranita, lanciò uno sguardo a mia figlia. Anche io la fissai.
   «Devi andare con lei. Sai il numero di nonno, Sarah?»
   Lei annuì. Me lo dettò.
   «Devi prendere il mio telefono», continuai, dandolo in mano a Bernice, «e chiamarlo. Lo sai fare?»
   «Nonno mi ha insegnato».
   «Mettiti il cappotto. Posso fidarmi, dunque?» Bernice annuì automaticamente. Continuai: «Non fermatevi finché non siete arrivate, non parlate con nessuno, non correte. Devi spiegare a nonno cosa sta succedendo. Ce la fai, tesoro?» La prima volta che avevo usato un vezzeggiativo, fu purtroppo contrassegnata da un pericolo imminente. I due uomini, intanto, stavano aspettando il loro turno per chiedere informazioni. «Devi dirgli, Sarah, di chiamare Foss. Ti ricordi chi è? Ricorderai il suo nome?»
   «L’autista», mormorò mia figlia.
   «Sì, proprio lui, bravissima. Andate, per favore».
   La mia studentessa non accennava a muoversi.
   «Prometto che dopo ti spiego». Increspò le labbra, indecisa. Vedevo i due uomini parlottare con un’altra cameriera. «Sai che non dico stupidaggini», insistetti frenetica. «Che se parlo e chiedo qualcosa ho delle buone ragioni».
   «Ok», mi disse infine, «non so ancora che cosa tu stamattina ti sia fumata, ma va bene».
   Prese per mano mia figlia ed io mi spostai, per permettere loro di raggiungere la cucina, indisturbate. Non perdevo di vista i due uomini, che ancora parlavano con una cameriera, con la quale non avevo mai avuto contatti, e che sicuramente non mi conosceva, non tanto da dare loro indicazioni utili.
   Indossai il cappotto e presi la borsa, tirandone fuori le chiavi della macchina, spostandomi più vicino a una delle finestre. Capii che non me ne sarei potuta semplicemente andare, seppi che dovevo restare, per capire che cosa volessero da me.
 
 
 
 
 












Wow! Sono stupita! Mesi per questo capitolo? Sto ancora riflettendo su che capitolo sia venuto fuori. Intanto ho delle noticine:
*Ho fatto riferimento a Il primo e a ciò che Jessi pensa di lui. Questo episodio è stato la prima volta in cui, a dispetto delle sue telefonate, ha ripensato a quella volta in particolare.
**Frase tratta dalla 3x09. L’ho citata a memoria, ditemi tranquillamente se è sbagliata.
Ho inoltre modificato il capitolo due. Dimenticavo che in Arabia le donne non possono guidare, così ora Jessi noleggia anche il guidatore, che porta in una zona desertica, lontano da coloro che fanno rispettare queste usanze e dal villaggio dove è Kyle, prima di proseguire senza. Non voglio mancare di rispetto alle usanze saudite, ma era essenziale che lei entrasse nel villaggio da sola, per cui doveva guidare sola per un tratto, e quando ho scelto l’Arabia non ricordavo questa legge, così ora è tardi per cambiare paese.
Non vi devo dire io che il sesso non protetto è un male, vero? Comunque sia, NON lo sto incoraggiando, tutt’altro!
Per amor di pignoleria, ho simulato un viaggio in treno. Ci vogliono davvero cinque ore da Ottawa a Québec City.
So che non v’interessa, ma io ve lo dico lo stesso. La segreteria telefonica, o casella vocale, c’è anche qui in Italia; quello che non sapevo è che si può ascoltare la segreteria fissa anche da cellulari, basta fare il procedimento che ho descritto.

E infine una sorpresina: Sarah, la cui foto non vuole infrangere nessun copyright e che è stata presa gironzolando per Google.
 
Vi saluto e ringrazio, per esserci ancora!
 
 

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Capitolo 9
*** Tutto in una giornata ***


Dopo la seconda morte

09 - Tutto in una giornata

Ai giorni jolly, senza diete.

    «Sembrava certamente sul punto di andarsene». L’uomo dal cappotto scuro, dopo aver fatto accomodare il collega e me, prese posto sulla terza sedia, accavallando le gambe; aveva un portamento così elegante da farmi domandare chi accidenti fosse e perché fosse stato mandato a fare un lavoro così sporco. Di cui, peraltro, ancora non sapevo nulla.
   «Lo ero. Poi ho pensato che avevo tutto il diritto di pretendere delle spiegazioni, poiché mi state gironzolando attorno da giorni». Il mio tono era cordiale e freddo. Non ero spaventata, ero interdetta, poiché mi sfuggiva il legame che c’era tra il loro ruolo e il loro portamento.
   «Oh no, signorina», continuò, senza perdere di vista me, la strada fuori dal locale, la clientela e il suo compare dalle scarpe logore. «Lei non era qui, né ieri né il giorno prima. Per essere corretti nei confronti di tutti, noi l’abbiamo disturbata soltanto oggi».
   «E per essere ancor più corretti, non me ne avete ancora spiegato il motivo».
   L’amico, dal volto sì particolare ma meno affascinante, si voltò e fece un cenno a una delle cameriere. Quella, già oberata dal lavoro aggiuntivo che Bernice non stava svolgendo, venne con passo svelto ma pesante, stanco.
   «Sì?»
   «Due caffè, per cortesia». Parlò con un accento che lo collocava senza dubbio nel Delaware. Poi mi fissò, in attesa.
   «Per me niente, grazie».
   «Oh, suvvia», ed ecco di nuovo l’uomo dal cappotto scuro, che si mostrò quasi offeso dal mio rifiuto. «Siamo o no tra persone civili e concilianti?»
   «No. Io non sono particolarmente conciliante». Mi rivolsi alla cameriera. «Un caffè con un po’ di latte, se è possibile».
   Prese nota e se ne andò; a quanto pareva non aveva ascoltato una sola delle nostre parole, se non quelle che a lei suonavano familiari, come caffè o latte.
   Presi a fissare gli sconosciuti con ancora più attenzione. Una volta individuata, mi avevano avvicinata con cortesia, guardinghi, senza farsi notare dagli altri, domandandomi se sarei stata così gentile da prendere posto con loro. Avevo chiesto chi fossero, ma avevano solo promesso di dirmelo senza aggiungere nient’altro. Uno avrei sicuramente detto potesse essere un Latnok e l’altro forse era il suo assistente, o qualcuno che, all’apparenza meno intelligente e intrigante, aveva l’abitudine di tormentarsi le mani e guardarsi alle spalle con regolare cadenza.
   «Allora?», ripresi. «Perché tutta quest’urgenza di cercarmi?»
  «In realtà, noi abbiamo urgenza di trovare Kyle nel minor tempo possibile. Ben». Fece il nome dell’amico a mo’ d’ordine, e quello si mosse, sempre gettandosi occhiate irrequiete alle spalle, prendendo dalla tasca una busta spessa, che pose sul tavolo davanti a me. Non ebbi bisogno di aprirla, per intuirne il contenuto.
   «Non voglio i vostri soldi. Non so, dov’è». Mentii con grande facilità, spostando lo sguardo casualmente, a piccoli intervalli, modulando il respiro e con lui la voce, che rimase neutra.
   «Anche Taylor ci ha detto che non sapeva dove fosse lei. Tuttavia, il suo affittuario è stato molto felice di fornici informazioni circa il Canada, un’università di nome Carleton e alcuni bonifici bancari che ha dovuto fare a un certo signor Taylor, con il quale ha anche avuto interessanti conversazioni telefoniche. Nelle quali, pensi!, il suo nome e questa nazione sono saltati fuori molte volte». Sorrise, cordiale, sicuro di aver vinto. «Per questo, le consiglio di non provarci, di non giocare. Quel vecchio traditore avrà ingannato i nostri nuovi talenti, ma non sarebbe riuscito a farlo con me, così come ora non farà lei». Tacque un istante, mentre il mio respiro accelerava e la cameriera si avvicinava. Una volta che si fu allontanata, riprese: «Abbiamo visto sua figlia, Jessi. Non ci metteremmo molto a raggiungerla, se lo volessimo. Abbiamo preferito ignorare la faccenda per ora, in favore di più preponderanti questioni; ma nulla ci impedirebbe di tornare in Germania a farle un’altra visitina».
   Cercai di non dar loro alcun tipo d’informazione, con nessuna parte del mio corpo. Restai immobile, benché quella minaccia non mi avesse lasciato per nulla indifferente. Sarah, per lo meno, era al sicuro ora. Avrei dovuto ringraziare Taylor per aver ben pensato di spostarla, e poi avrei dovuto malmenarlo per essere stato così sciocco non tanto da telefonare al signor Firm, quanto per aver fatto il mio nome e aver detto dove mi trovassi.
   «Quanti soldi gli avete offerto per far sì che fosse entusiasta di parlare?», domandai, non riuscendo a nascondere una punta di acidità nella voce. Jason Firm, fratello di Tom Firm e padre di Rob Firm, riceveva parecchi dollari mensili per il suo impegno nella tutela della mia privacy. Quello stronzo si era impegnato per anni a non fare il mio nome con nessuno, e in cambio l’affitto gli costava molto meno. Ricordai come inizialmente non mi avesse preso sul serio, e come qualche visitina di Foss gli avesse fatto cambiare idea.
   «Non tanti come quelli che stiamo offrendo ora a lei, Jessi. Suvvia! Che cosa le importa? Non vogliamo fargli del male. Noi teniamo al nostro esperimento riuscito». A quel punto, dalla tasca estrasse un anello Latnock, per confermarmi ciò che avevo già intuito. Sorrise, lanciandomi uno sguardo che passò dal mio viso al mio corpo, come a confermare a chi precisamente si stesse riferendo, come a deridermi, perché non ero io quell’esperimento.
   «Ve lo ripeto: non so dov’è. Non lo sento da qualche tempo, come voi. È sparito dai riflettori da anni, no?» Calmai la voce, che cercai di alzare di ottave e di modulare, rendendola più morbida. «So delle vostre buone intenzioni verso di lui, so quanto sia prezioso per voi. Che cosa mi costerebbe dirvi dov’è? Nulla. Ma non lo so. Mi spiace che abbiate fatto un viaggio a vuoto». Scrollai le spalle. «È tutto? L’esperimento fallito deve andare».
   Mi alzai, e anche loro mi imitarono.
   «A quanto sembra, per ora sì», mormorò il secondo uomo, che posò una banconota da cinque dollari sul tavolo. «Questi almeno li accetta? Come segno della nostra buona fede».
   Li fissai, sospettosa. Alla fine annuii, e i due indossarono i soprabiti e mi cedettero il passo. Una volta fuori dal locale, si congedarono, ma ebbi il sospetto che non sarebbe stato un congedo troppo lungo. Sapevo che avevano intuito che mia figlia non era più in Germania, o avrei sicuramente reagito diversamente alla loro minaccia, tuttavia ero certa che non sospettassero minimamente che fosse con me, più vicina di quanto mai avrebbero immaginato.
   Li guardai salire su una Volvo scura e immettersi nel traffico. Quando furono spariti, armeggiai con la borsa in cerca di monete, dirigendomi alla più vicina cabina telefonica.
   La voce che rispose non era quella di mia figlia, ma di Bernice. Era scocciata, perché le avevo chiesto una cosa ridicola ad un’ora ridicola, e in più pareva che la piccola con il nonno avesse parlato in tedesco, e a Bernice era toccato assistere senza capire nulla.
   «Aspettatemi lì», dissi, «arrivo».
   «E mi spiegherai qualcosa?»
   «Sì», sospirai, pensando intanto che non avrei certo potuto dirle tutta la verità. Fidata e gentile lo era, ma certo non tanto da trattarla come una di noi.
   Raggiunsi l’auto ancora parcheggiata, percorrendo i pochi chilometri che mi separavano dall’università.
   Al mio ingresso, alcuni miei studenti si fermarono interdetti. Quel giorno non avrei avuto lezione, sarei passata semplicemente per discutere del mio trasferimento. Ovviamente, dovevo smettere di insegnare, ma avrei potuto continuare a lavorare come ricercatrice, se l’università di Washington fosse stata felice di avermi con sé.
   Sapevo che la mia aula quel giorno sarebbe stata vuota. Di fatti, vi trovai solo mia figlia e Bernice, sedute a due dei primi banchi. Quando entrai, Sarah sobbalzò, facendomi capire che era lei quella che aveva compreso in che situazione ci trovassimo, e non la mia ex allieva, la quale tuttavia non era cresciuta col pensiero dei cattivi Latnok pronti a danneggiarti.
   In ogni caso, fu Bernice a parlare, mentre entrambe mi venivano incontro. «Allora?», domandò. «Che sta succedendo? In cosa sei coinvolta?»
   «Affari privati».
   Sbuffò. «Avevi promesso».
   «Lo so, ma è più sicuro per te, se ne resti fuori. Sul serio, non è una bella storia».
   «E allora perché mi hai affidato questa bimba?»
   «Sei la persona che conosco più a fondo, qui in Canada. So di potermi fidare, ma tengo alla tua incolumità».
   «Non ti fidi, invece, professoressa; è questa la realtà». Girò sui tacchi e se ne andò; sentivo i suoi passi affievolirsi lungo il corridoio.
  Non avevo tempo di rincorrerla. Avrei dovuto riguadagnarne la stima, però, prima di partire. Se non per lei, per me stessa e i miei interessi.
   Sarah era rimasta ferma, con il telefono in mano.
   «Che cosa ha detto nonno?»
   «”Mamma deve chiamare, non io”, ha detto».
   «Perché?»
   Scrollò le spalle. Brian non si era dilungato in spiegazioni. Probabilmente stava morendo di paura e cercando di tirarsene fuori, con questo suo rifiuto. Altro che lasciarmi la bambina alla cui incolumità diceva di tenere moltissimo! Mi aveva lasciato la bambina per la sua incolumità, quel verme. Inoltre, la sua ultima deduzione si era rivelata errata: i Latnok non sapevano, dove fosse Kyle, se erano disposti a pagare profumatamente pur di avere qualche informazione. Come gli fosse sfuggito, in quel paesino dell’Arabia, era ancora da scoprire.
   «Tutto ok, ora?», chiese Sarah.
   «Sì».
  «Possiamo ritornare a fare colazione, insieme?» Mi guardava dal basso, con il visino speranzoso. Sorrisi e annuii, e lei si illuminò. Le offrii la mano, mentre procedevamo lungo il corridoio.
   «Faccio un salto a parlare con una persona. Mi ci vorrà un attimo».
   L’ufficio del Presidente e Vice-Rettore era in uno degli edifici più moderni e imponenti, dall’altro lato del comprensorio, lontano dal campus. Negli ultimi anni, nei quali lui era stato Rettore, ero entrata nelle sue grazie a seguito di episodi di spicco che mi avevano vista protagonista, e che avevano fatto aumentare il prestigio di questa già rinomata università. Infatti, fu lieto di vedermi, benché non avessi preso appuntamento.
   Avevo deciso di rivolgermi a lui poiché eravamo in migliori rapporti, seppur prettamente professionali. Non era più il Rettore ma lo era stato negli anni cruciali della mia carriera, e se non altro lui si trovava, mentre il nuovo Rettore, la giornalista ed ex Governatrice Generale Michaëlle Jean*, era evaporata da parecchio tempo, ovviamente impegnata ma irraggiungibile. 
   La segretaria, una donna anziana che faceva al Presidente contemporaneamente da moglie, fu contenta di badare a Sarah.
   L’ufficio del Vice-Cancelliere e Presidente Rock* aveva da sempre un aspetto che mi aveva contagiato, allegro e arredato con mobili chiari. Come il proprietario, mostrava eleganza e disponibilità, invece che cupa autorità. Sorrideva mentre mi faceva cenno di accomodarmi.
   «Presidente***, lei sa che sono Americana», cominciai. «Sa che sono venuta in Canada grazie a una borsa di studio di Carleton. Io le sono veramente grata per la fiducia che ha dimostrato, affidandomi un così importante ruolo nonostante la mia giovane età; ma credo sia giunto il momento di tornare a casa».
   Rimase a fissarmi composto, le mani giunte poggiate sulla scrivania di mogano chiaro. Infine parlò: «Dottoressa****, so riconoscere subito le persone di valore come lei. È stata una grandissima risorsa, per questa università e non solo per il suo dipartimento. È di Washington D.C., giusto?»
   «No, di Seattle, a Washington, ma non si preoccupi, non ho intenzione di smettere di collaborare con Ottawa. Se lei me lo concederà, vorrei continuare a essere utile, anche se da lontano».
   Annuì. «Potrei inviare per lei una lettera di referenze. Il Cancelliere Young** sarà lieto della sua partecipazione».
   Sorrisi. «Sarebbe fantastico da parte sua. Le sarei grata».
   «Rimane l’incognita di chi la sostituirà per la sua classe di biochimica», disse. «Lei ha qualche proposta?»
   Scossi la testa. «Quello che mi preoccupa è di averla lasciata senza un sostituto con così poco preavviso».
   «Poco preavviso?» Corrugò le sopracciglia. «Quando ha intenzione di andarsene, Dottoressa?»
   «Io la prossima settimana vorrei già trovarmi a Seattle, Presidente».
   «Dottoressa, le ho già concesso delle ferie con un preavviso di qualche ora, e tutto per agevolare le sue esigenze familiari. Tuttavia, non vorrà anche dimettersi con un così ritardatario avviso? Potrei pretendere da lei sei mesi e la lettera di dimissioni».
   «Mi spiace, ma non ho sei mesi. Anche ora si tratta di esigenze familiari. Il programma per il resto dell’anno è già stato stilato nel dettaglio; l’ho qui con me. Chiunque abbia una minima competenza nella mia materia potrà completarlo».
   «Lei lascia un intero dipartimento scoperto. Tutti gli altri suoi colleghi contano sul suo aiuto».
   «Potrà affidare a uno di loro le mie lezioni, Presidente. Sono certa che saranno in grado di portare a termine ciò che resta del programma. Per quanto riguarda la ricerca, continuerò da Seattle, manderò istruzioni e comunicherò tramite fax e mezzi informatici».
   Sospirò. «Ne è proprio sicura? Questa università, e penso di poter palare anche a nome del Cancelliere Jean*, riconosce il suo valore. È disposta a offrirle ciò che vuole».
   «Non si tratta di soldi, Presidente».
  Detti un’occhiata all’orologio appeso al muro. Si stava facendo tardi. Avrei dovuto già essere a casa, davanti al telefono, per cercare di sentire la sua voce. Questo nuovo pensiero mi bloccò un istante, dovetti spostare lo sguardo per ricordare dove mi trovassi.
   «Se ne è sicura, Dottoressa, non mi resta che augurarle buona fortuna».
   Ci alzammo entrambi. La sua stretta di mano fu fiduciosa, ufficiosa e gentile.
   «La ringrazio ancora, Presidente».
   «Io ringrazio lei, Dottoressa. Buon viaggio».
  Annuii e mi diressi alla porta. Sarah era impegnata con un foglio e una matita. Salutai la segretaria e ci dirigemmo all’uscita.
   «Proviamo un posto nuovo? Che cosa vuoi mangiare?»
 
   Già dal vialetto d’ingresso, udii il suono del telefono. Mi affrettai ad aprire la porta e a poggiare sul mobile di fianco all’entrata la busta della spesa. Sarah entrò dopo di me e furtiva trafugò dalla sporta un pacchetto di Marshmallow.
   «No no», le dissi, trafelata, correndo verso il telefono. «Fra poco pranziamo».
   Sorrise e sparì in salotto mentre alzavo la cornetta. Allo stesso tempo, detti un’occhiata al display e sorrisi senza rendermene conto.
   «I Latnok sono tutti così ricchi da possedere una Volvo del duemilatredici che non è ancora sul mercato?», domandai, ironica, senza aspettare la sua consueta presentazione. «Se è così, questa è una carriera che mi attira».
   Lo sentii sorridere. «Hai riconosciuto il numero?», domandò.
   «Sì. Come mai hai chiamato?»
   «Taylor ha chiamato me».
   «Davvero? A mia figlia ha detto che non l’avrebbe fatto».
   «E invece l’ha fatto. Hai qualche nome da darmi o la targa della macchina?»
   «Sì, la targa». Gliela dettai. «Se ne sono andati, e non sono certa che non abbiano creduto alla mia storia».
   «Come?» Sembrò sorpreso.
   «Sanno che non gli sto dicendo qualcosa, ma sono stata abbastanza brava da dimostrargli che, se sapessi dove si trova, non mi farei problemi nel dirlo. Come hanno fatto a non trovarlo per tutto questo tempo?», chiesi.
  «Le notizie non uscivano da quel villaggio. Quando si sono stabiliti lì, sapevano la situazione, e sono riusciti a rimanere nascosti. Kyle ha delle conoscenze in Arabia, per questo anche tu sei riuscita a entrare, ma non ha detto a quelle persone, dove sarebbe andato».
   «E ora che si sta spostando? Lui è esonerato dal mostrare i documenti?»
   «Se loro sapessero che si sta spostando, sarebbe un problema».
   «Non possono rintracciarlo, quindi?»
   «È difficile che lo trovino, sì. Piuttosto, come hanno trovato te? Tuo padre ha parlato?»
   «No».
   «E allora? Nessuno si è avvicinato alla famiglia di Kyle, di questo sono sicuro».
   «Firm», mormorai.
   «Accidenti», borbottò tra sé.
   «Non preoccuparti. Se non altro, ho una scusa per disdire il suo contratto. E poi, chiunque parlerebbe per dei soldi. Il doppio dei nostri soldi, a quanto pare».
   Stette in silenzio per un attimo. Infine chiese: «Parti presto?», con una nota d’impazienza nella voce, come se avesse voluto che fosse così.
  «Relativamente presto. Mi sono già dimessa dal lavoro. Dammi il tempo di staccare i contatori e di spegnere il riscaldamento, e sarò là, con anche una lettera di referenze da parte del mio datore di lavoro». Tacqui un istante. «Dove siete?»
   Non ebbi il coraggio di dire: dove sei?, benché stessi pensando a quello. Non volevo riportare l’attenzione sulla mia figura della sera precedente, sulla mia risposta, sulla mia confessione. Non volevo riparlarne.
   «Loro sono già partiti. Io sto aspettando il mio volo».
   «Dove sono andati?»
   «Passeranno un po’ di tempo in Svezia, da vecchi amici. Kyle però sente la mancanza di casa. Presto vorrà tornare».
   «Renderebbe tutti felicissimi, se lo facesse», mormorai. Non come il mio, di ritorno.
  «Sì, lo penso anch’io». Non parlò per qualche altro istante. Sentivo il rumore della confezione di dolciumi, nell’altra stanza, e mi augurai che avesse il buon senso di non finirli, o sarebbero stati guai. Una carie il primo giorno nel quale era affidata a me non sarebbe stata un buon precedente. «Stanno annunciando il mio volo», disse infine. «Per questa sera dovrei essere a Lione. Tra qualche giorno partirò per Seattle. Se hai bisogno, sulle quattro dovrei atterrare a Istanbul per uno scalo, e il cellulare sarà acceso per le successive tre ore».
   «So badare a me stessa, l’hai dimenticato?»
   «Io no, ma tu?» Il tono era divertito.
   «Che vorresti dire?»
   «Taylor mi ha detto che sei stata tu, a chiedere che fossi avvertito».
   «Nel caso avessi avuto dei corpi da recuperare, sì. Questo non significa che dubitassi della mia capacità di difendermi o di metterli fuori combattimento nel caso in cui non si fossero limitati a offrirmi un caffè». Ero sincera, e sicura. Non avrei fallito, se avessi dovuto proteggermi.
   «D’accordo, allora. A presto».
   «Direi di sì. Se hai qualche informazione, sulla targa o su qualsiasi altra cosa, lasciami pure un messaggio a questo numero», gli dettai il mio numero di cellulare, sapendo che presto, staccati i fili del telefono, questa casa sarebbe diventata disabitata, anche se ancora di mia proprietà. Non avrei avuto più un numero fisso, almeno finché non avessi deciso dove sistemarmi.
   «Mi stavo giusto chiedendo, come avrei fatto a rintracciarti, d’ora in poi». Mi colpii il suo tono serio. Capii che ci stava pensando, ma non me l’avrebbe chiesto.
   Risi. Parlava come se non dovessimo trovarci nella stessa città entro una settimana.
   «Ora devo proprio andare, o mi toccherà aspettare altre sei ore, e solo per un aereo che vada sino a Parigi. A presto».
   «Certo».
  Riattaccai, inspirai profondamente, spossata come se avessi corso per chilometri, e mi diressi in salotto. La bimba era rilassata sul divano; notai come pian piano si stesse accasando.
   Un lato positivo in questa storia c’era: lasciare il Canada così presto, avrebbe fatto sì che lei si abituasse a Seattle senza nuovi traumi. Se avessimo dovuto vivere per anni a Ottawa, allora le cose sarebbero state diverse, ma così non era male.
   Dopo pranzo, mentre lei era impegnata a leggere seduta sul divano, mi misi al computer per prenotare un volo per Seattle. Mentre ero alla scrivania e scorrevo le varie offerte, lasciai vagare la mente, pensando all’ironia di quegli ultimi giorni, a come avessi fatto il pieno di telefonate e incontri di vecchi amici e conoscenti da poter considerarmi a posto per almeno cinque anni.
   Alla fine, scelsi un volo in classe turistica che avrebbe compreso solo uno scalo a Toronto. Avrei avuto qualche giorno di tempo per prepararmi. Le cose di Sarah erano ancora tutte impachettate ordinatamente; mancavano le mie. In previsione di un mio addio, riflettei se fosse il caso di affittare anche questa casa, per garantirmi introiti regolari nel caso in cui non fossi stata assunta dall’università di Washington. Scossi la testa, sospirando: mi era già stato dimostrato che dire a gente estranea dove mi trovassi, dargli recapiti e indizi e soldi per il loro mutismo, non aveva funzionato. Forse sarebbe stato meglio lasciare questa casa a sé.
   Nei giorni seguenti, disdissi tutti i contratti, da quello del telefono a quello per la luce e il gas. I viveri bastarono, proprio come avevo previsto, esattamente sino al giorno della partenza, quando pranzammo con l’ultima porzione di insalata e carne. L’aereo sarebbe partito alle tre, perciò lasciammo la casa subito dopo pranzo. La mia auto, una Ford di qualche anno prima cui ero molto grata per non avermi mai lasciato a piedi, sarebbe rimasta per un tempo indefinito in un garage coperto; non volevo venderla, ma nemmeno costringere una bimba a quasi due giorni di viaggio, per percorrere quattromila cinquecento novantacinque chilometri e soddisfare i miei capricci. Già un volo che prevedeva un’attesa di un’ora e mezza in un aeroporto di Toronto, sedute su delle panche e mangiando panini, sembrava eccessivo, anche se era la via più breve e indolore. Se fossi stata sola, avrei scelto l’auto come mezzo di trasporto. Ora invece dovevo anteporre le sue necessità alle mie. Mi ci sarebbe voluto un po’ d’allenamento, abituata com’ero a preoccuparmi solo di me stessa, a trascurarmi spesso pur di non avere pensieri che mi strappassero al lavoro.
   «Sei nervosa?», domandai a Sarah, in fila con me sotto il portico del parcheggio sotterraneo, in attesa di pagare il primo mese dell’affitto.
   Annuì. «Non piaccio, forse?»
   «Temi che non gli piacerai? Tranquilla, sono tutti contenti che stai arrivando. Sei la prima nipotina, sai?»
  Si lasciò andare a un sorrisino, poi tornò a guardare in avanti, verso la signora che ci precedeva.
   Quella che le avevo detto non era tutta la verità. Sarebbero stati sicuramente contenti di vederla, di conoscerla. Tuttavia, forse poco interessati. Il centro, per tutti loro, sarebbe sempre stato solo Kyle.
 
 











Grazie mille per essere ancora qui. Pomeriggio piovoso, capitolo scritto con tempi di attesa accettabilissimi ^^, e le solite, ma oggi molte, noticine:
 *È stato veramente Allan Rock il Rettore fino al primo febbraio 2012, e ora è il Vice-Rettore e Presidente; tuttavia qualsiasi cosa che lo riguardi, che sia l’arredamento dell’ufficio, il fatto che abbia una segretaria, il modo in cui parla o il rapporto che ha con i suoi dipendenti, è tutto frutto della mia immaginazione. L’unica cosa vera è il suo aspetto fisico, merito delle foto su Internet. La stessa cosa vale per Michaël Jean, ogni notizia su di lei a parte il nome è frutto della mia immaginazione. Inoltre, in inglese non ci sono problemi per le sigle, maschile e femminile non si differenziano, da noi sì, invece, quindi sono costretta a usare il maschile, perché il femminile non c’è. Così, ecco che avremo il Cancelliere Jean: solo, sappiate che è una donna.
**Michael K. Young è il rettore dell’università di Washington, che assumerà Jessi.
***Ho letto che solo in alcune parti del Canada si usa sì il termine “rector”, da noi comunemente rettore. È usato soprattutto nelle scuole cattoliche e private e in quelle di Quebec. Nelle università più antiche. In tutte le altre prevale il termine “chancellor”, che è traducibile sia come rettore sia come cancelliere. Quando io parlo di rettore in questo capitolo e qui, intendo il termine ”chancellor” traducibile in entrambi i modi e usato da me in entrambi i modi.
****Jessi ha il titolo di Dottoressa perché ha preso lauree e il dottorato, non perché sia un medico, come ad esempio lo è Kyle.   
Mi sono resa conto che forse non ho spiegato chiaramente il primo asterisco nel corso del precedente capitolo, la cui criptica spiegazione è qua. Il fatto era che volevo fare notare come, in quell’occasione, ubriaca e confusa, abbia però pensato a Foss, e come non abbia più dato per scontate le sue telefonate. A come si sia accorta di loro, dopo anni.
 
 

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Capitolo 10
*** A Seattle ***


Dopo la seconda morte

10 - A Seattle

                                                                                                                                                    Alle storie dei bambini.
E alle loro risate.
 
   Quando la spia si accese, rivelando l’obbligo di mettere le cinture, iniziai a pensare che la mia offerta, la voglia di rendermi utile e di ritornare a casa Trager, fosse stata solo un sintomo di pazzia. Che nessuno aveva pensato di diagnosticare, peraltro.
  Guardai Sarah, abbandonata sul sedile, ipnotizzata dalle luci dell’aeroporto che si avvicinavano. Scorgevo i suoi occhi chiari spalancati. Era elettrizzata. Per lo meno, il mio umore non la influenzava.
   L’aereo cominciò a virare e a scendere, e pochi minuti dopo stavamo decelerando sulla pista di atterraggio. Una volta arrivate, bloccate in fila, le mani sulle spalle di mia figlia, non riuscii a resistere alla tentazione di lanciare un’occhiata fuori dai finestrini. Era buio, ma riuscii a scorgere lo stesso aeroporto che avevo attraversato anni prima, intristita e delusa, con Foss che, con ancora il motore acceso, era rimasto nel parcheggio sinché non avevo distolto lo sguardo, per addentrarmi alla ricerca del primo aereo diretto in Canada. 
   Ero nervosa; cercai di mascherare persino a me stessa questa sensazione, di fingere di non conoscerla, d’essere confusa, ma quando misi piede sulla pista, diretta alla dogana per mostrare i documenti, la farsa si smontò. Non mi sentii a casa: ero solo terrorizzata, e avrei volentieri fatto dietrofront per tornarmene sull’aereo.
   Parlai con gli agenti doganali in tono quasi concitato, frettoloso. Perquisirono i bagagli a mano e ci dettero il via libera impiegandoci un’infinità. Infine ci potemmo dirigere all’area dedicata al ritiro dei bagagli, troppo sovraffollata e caotica per il mio umore incontrollabile.
   Sbuffai. Sarah si volse a guardarmi, e mi sorrise. Mi prese una mano e si mise al mio fianco. Presi a fissarla, mentre le luci forti catturavano la sua attenzione e la grande vetrata mostrava ancora il nostro aereo. Era meravigliata. «È grandissimo, questo posto», disse.
   «Serve questa città e Tacoma», spiegai. «Sei stanca?»
   Scosse la testa. «Tu sei agitata».
   «No, perché…», ma la mia protesta morì presto. Non me l’aveva chiesto.
   «Hai detto che sono contenti», mi ricordò.
   «Che lo saranno», la corressi, mite ma decisa a far sì che imparasse la corretta grammatica il più in fretta possibile. «Ancora non abbiamo incontrato Nicole e gli altri, devi usare il verbo al futuro».
   «E devo chiamarli per nome?»
  Restai interdetta, pensando. Brian lo chiamava nonno, dopotutto, e i Trager si potevano considerare i genitori di Kyle a tutti gli effetti, benché Stephen in particolare, quando parlava di me, mi considerasse come la quarta figlia. Non c’era bisogno di confonderle le idee, e decisi che avrei lasciato ai Trager l’opportunità di contraddirla, se mai a loro non fosse andato bene che li avesse chiamati per nome. «Sì», risposi. «È una buona idea».
  «Saranno contenti di vederci, allora, mom*».
  Rimasi bloccata nell’atto di afferrare uno dei nostri borsoni, che continuò la sua corsa; non ci badai: il senso di smarrimento che per un momento mi colse, mi tolse ogni capacità, che fosse di muovermi o di respirare. Poi il mondo tornò alla sua corsa ed io ritornai a sorridere. La strinsi a me con energia. «Ne sono sicura!», dissi con entusiasmo.
  Sorrise. Recuperammo gli ultimi bagagli e ci dirigemmo all’uscita. Era buio, il sole era tramontato da poco; chiamai un taxi con la fastidiosa sensazione che avrei dovuto trovare un modo per portare negli Stati Uniti la mia macchina. Salii in auto con la fastidiosa sensazione che avrei speso una fortuna e percorremmo le strade con la fastidiosa sensazione di poca familiarità. Seattle mi dava fastidio, perché non vi ero ritornata ben voluta, né tantomeno permanentemente e né per una vacanza spensierata. Solo per un pericolo: quello rappresentato dai Latnock, che avrebbero potuto usare la famiglia di Kyle per stanarlo. Non sapevamo esattamente perché lo stessero cercando, ma data la reale minaccia che avevano rappresentato l’ultima volta, nessuno li sottovalutava. Loro ne erano a conoscenza, esattamente come sapevano che ero in Canada e come avrebbero saputo presto, senza alcuna difficoltà, che mi trovavo di nuovo a Seattle. Avrebbero subito pensato a una traccia: se mi riavvicinavo alla famiglia, voleva dire che li stavo proteggendo perché sapevano qualcosa; io avrei utilizzato la scusa dell’offerta di lavoro, dalla quale avrei sicuramente preteso uno stipendio più alto, e avrei negato l’intenzione di voler ristabilire un contatto. In realtà, quella sarebbe stata la verità: non avevo mai avuto bisogno dei Trager per sopravvivere, Nicole era solo piombata in una casa troppo silenziosa e vuota e l’aveva riempita della sua voce, invitandomi a raggiungerla dove le voci non avrebbero mai smesso di tuonare. Niente famiglia, niente madre. Mi era stata strappata di mano ogni cosa, mentre tentavo disperatamente di tenere insieme i pezzi e mia madre mi implorava di seguirla lontano, mentre una parte del cuore mi ordinava di restare per Kyle e il cervello rideva, perché Kyle non mi avrebbe mai voluta. Dopo che Sarah morì, una parte di me aveva pensato spesso al fatto che ora stavo avendo l’opportunità di vedere come sarebbe finita con Kyle. Nel sottosuolo della coscienza, pensavo che perdere Sarah mi aveva portato a Kyle, e ciò non poteva che essere positivo…
   «Eccoci, signorina».
  Le parole del tassista mi trovarono ancora persa nei miei pensieri. Ci misi molto a riscuotermi. L’uomo restò a fissarmi dal retrovisore con perplessità.
  «Grazie infinite», dissi, mentre scuotevo la testa. «Vieni, tesoro».
  Pagai e attesi che scaricasse i nostri bagagli. Dopo di che sgommò lungo la strada e sparì, mentre Sarah si era voltata verso la casa ed io non riuscivo a smettere di fissare il punto in cui il taxi era svanito.
  Riuscii a caricarmi in spalla tutte le borse e le valigie. Delle sette che avevo in mano e sulla schiena, solo due appartenevano a me. Brian si era redento ai suoi stessi occhi viziando mia figlia con oggetti materiali sino all’inverosimile. Tuttavia, era una bimba tranquilla e riservata, che non sentiva il bisogno di gridare per farti sapere che c’era, e amava restarsene seduta sul divano a leggere libri illustrati piuttosto che acconciare barbie o rompere bambole; un’indole che era cresciuta in sintonia con quella che sarebbe stata la piccola Jessi se fosse vissuta, o con quello che era stato il piccolo Brian. Un carattere schivo e tranquillo che era di famiglia, o quantomeno genetico.
  Procedemmo lungo il giardino. La casa era rimasta la stessa, negli anni, così come probabilmente ogni singolo arredo o suppellettile. Forse Nicole aveva mantenuto intatte anche le stanze. Ricordai di quando Lori mi aveva raccontato di Kyle, che era partito per raggiungere Baylin, e di come sua madre avesse coperto la vasca e tramutato la stanza in un museo dedito al culto del terzo figlio della famiglia.
  «Il cortile è piccolo piccolo. Il tuo era piccolo».
  «Quindi vuoi dire che questo è più piccolo del mio?»
  «Sì. Così».
  «No, Sarah, sono quasi uguali. Sei pronta?»
  Annuì.
  «Bene, allora suoneresti tu, tesoro?»
  Non avevo le mani libere né propense a farlo. Lei invece premette il campanello tranquillamente, e poco dopo sentii dei passi farsi sempre più vicini. Una sagoma oscurò la porta.
  Nicole apparve incorniciata dallo stipite. Sorrise. Subito ricordai l’ultima volta che la vidi, poiché in quell’occasione tutto stava facendo tranne che sorridere. La miccia della discussione era stata banale («Finché fai parte di questa famiglia, segui le sue regole!» «No!»), ma poi tutto era degenerato, avevo detto frasi che non pensavo, rinfacciandole cose alquanto stupide, sinché non si era offesa e l’unica cosa che mi era rimasta da fare era di preparare le valigie.
  «Ciao!» Lieta, si sporse per abbracciarmi. Sprizzava felicità da tutti i pori. «Stephen, Lori, sono arrivate! E tu come ti chiami?»
   Si chinò per guardare Sarah negli occhi. Lei sorrise. «Sono Sarah. Ciao, Nicole».
   «Che bimba educata!» Nicole batté le mani.
  Sarah mi fissò, perplessa. Avevo notato subito come non fosse stata abituata agli atteggiamenti infantili che si usano per rivolgersi ai bambini. Mio padre probabilmente le aveva sempre parlato con tono adulto e semplice, senza tanti fronzoli o moine.
  Sorrisi. Nicole era emozionata e allungò una mano per darle un buffetto sulla guancia proprio mentre aprivo la bocca per dire: «Davvero, Nicole, trattala normalmente, come se parlassi con me».
  Dubbiosa, mi fissò. «Con te? E come? È una bimba!»
  Sarah a quel gesto si era mossa infastidita, facendo un passo indietro. Costatai che l’indole schiva e poco propensa di Sarah sarebbe potuta apparire strana, ma tutto stava nel comprendere l’educazione che gli era stata data. Non era colpa sua. Se una bimba sin da piccola sente parlare ed è educata a esprimersi in modo adulto, se i gesti d’affetto non sono molti e se già di per sé è molto timida, crescerà poco affine alle carezze e diffidente verso chi non consoce. Il processo è talmente automatico che qualsiasi intervento pedagogico che segue quello principale, potrebbe essere nullo. Se io o Nicole da un giorno all’altro avessimo iniziato ad abbracciarla, coccolarla, rivolgerle versi o paroline storpiate, solo perché era una bambina bellissima e ancora nell’età dei giochi, non avremmo ottenuto risultati, se non il suo viso confuso e le sue occhiate basite.
  Anche Nicole notò il suo fastidio. Mi lanciò un’occhiata e poi le sorrise. «Entrate!» Si spostò per lasciarci passare.
  Stephen ci raggiunse in quel momento. Il tempo non sembrava essere passato nemmeno per lui, che fu l’unico della famiglia a tentare un contatto. «Ciao», sorrise. «Com’è stato il viaggio? Sarete stanche. Porto i bagagli nella tua stanza, Jessi?»
  È tutto come prima, pensai. Ogni cosa è dov’era cinque anni fa. Tranne me stessa.
  «Se non vi è di troppo disturbo. Prometto che troverò presto un posto mio».
  «Sciocchezze!», esclamò Nicole con entusiasmo. «Non disturbi mai».
  Seguii Stephen sino alla porta al piano terra, che spalancò cedendomi il passo. «Grazie. Lasciali pure lì». Accennai ai bagagli con la testa, che lasciò cadere ai suoi piedi senza riuscire a nascondere uno sbuffo di fatica. Poi si guardò alle spalle, controllando probabilmente che il corridoio fosse sgombro, cosa che avevo già intuito dall’assenza di rumori. «Siamo davvero lieti che tu sia tornata», cominciò, mentre Sarah scorrazzava in giro per la stanza aprendo i cassetti, che erano ancora pieni di roba – oggetti che loro mi avevano comprato e che mai avevo considerato miei –. «Solo, non forzarle».
  Quell’affermazione mi prese in contropiede. «Come?»
 «Ecco… Lori, Nicole». Gesticolò, in imbarazzo. «Sono contente, davvero, solo anche preoccupate».
  «Quindi?»
 «Se ti assaliranno con domande su Kyle e sempre continuamente su di lui, mostrando magari poco interesse, non prenderla a male o sul personale».
  «Stephen, non preoccuparti. Sapete la situazione. Sapete perché sono qui. Non vorrei starci, ma sono venuta, per cercare di garantire la massima protezione a Kyle e…», mi fermai, perché la famiglia non sapeva dei suoi disturbi, che lo stress faceva peggiorare. Erano preoccupati per Kyle perché vivevano nella costante ansia per la sua sorte, e temevano i Latnock poiché già una volta si erano mostrati senza scrupoli, però non avevano idea di ciò che aveva bloccato Kyle in Asia così a lungo. «Grazie», dissi infine, distogliendo lo sguardo dal suo viso mortificato. «Non essere così preoccupato. Andrà bene».
  Annuì. «Vi lascio riposare, allora. Lori è uscita dal retro per sgattaiolare a una delle sue feste. Più tardi le dirò che siete arrivate. Buonanotte, Sarah».
  Lui non si era avvicinato, ma si era limitato a parlarle tranquillo e cordiale. Mia figlia sorrise, salutandolo con la mano per poi nascondere il viso nell’ombra.
  Sorrisi a mia volta. Dopo un mio cenno del capo, Stephen si richiuse la porta alle spalle.
 «Hai fame?», domandai. Sarah scosse la testa, per poi sedersi sul letto e aprire la sua valigetta che conteneva libri, quaderni e pennarelli. In silenzio, li dispose alla scrivania e si mise tranquilla a disegnare.
  A me non restò che munirmi di accappatoio e beautycase e ritirarmi in bagno. Sapevo che il disegno avrebbe distratto la bimba per ore, sinché stanca non avesse indossato il pigiama e fosse sgattaiolata a letto. Mi sarei potuta facilmente dimenticare della sua esistenza, se ogni tanto non avesse avuto l’abitudine di schioccare la lingua e quel rumore non avesse rimbombato per la casa.
  Seduta sul pavimento del bagno, le gambe raccolte al petto, l’acqua della doccia che scorreva, la chiave che aveva fatto due giri nella toppa, mi sentii libera di sbuffare e lanciare occhiate indispettite al cellulare, di cui ancora stavo aspettando il suono. Scossi la testa pensando a come quest’ultimo mese mi avesse fatto male, fisicamente e psicologicamente. Ora non ero più in grado di restare senza cellulare, senza la sua voce? Era ridicolo! Non avevo mai avuto bisogno di nessuno, non potevo iniziare proprio in quel momento, e non l’avrei fatto.
  Una volta lavata e sistemata, tornai nella mia stanza. Poco prima di entrare, notai l’altra porta poco distante. Scoprii che era chiusa a chiave, perciò non potei vedere cosa nella stanza di Kyle Nicole avesse modificato e cosa fosse ancora in attesa del suo ritorno. Vi rimasi davanti per un tempo che mi sembrò infinito, sinché non sentii dei passi dietro di me e scorsi Nicole, ferma con un vassoio in mano. Sorrise.
  «Ho portato un po’ di tè. Pensavo aveste fame».
  «Grazie», sorrisi. «Entra pure. Sarah è ancora sveglia».
 Mi precedette aprendo la porta con una mano sola. La seguii chiudendomela alle spalle. Sarah era seduta sul letto, sotto le coperte, con un libro in mano. Alzò lo sguardo quando udì Nicole, che questa volta si mantenne a distanza. «Ciao! Ti va un po’ di tè?»
  La bimba mi lanciò un’occhiata. Da dietro le spalle di Nicole, annuii, domandandomi perché cercasse un mio assenso prima di dare il proprio. Forse era davvero una mancanza di fiducia. Avrebbe voluto la mia conferma, la mia rassicurazione, finché non avesse deciso che poteva arrischiare a fidarsi.
  Nicole posò il vassoio sulla scrivania. Sarah vi si risedette e prese la propria tazzina, con qualche biscottino che si mise a intingere nel tè. Nicole si volse a guardarmi: ero rimasta ferma sulla soglia, a braccia conserte, intenta a riflettere sugli strani comportamenti di mia figlia. Non aveva cercato lo sguardo di Brian, quando aveva dovuto avvicinarsi a me, nelle poche ore in cui eravamo tutti in Asia. Tuttavia, Brian le aveva spiegato distintamente le cose, confermando chi fossi e dove sarebbe andata. In pratica, le aveva detto che poteva fidarsi. Io non avevo fatto altrettanto con i Trager, ma solo chiarito che avrebbe conosciuto i genitori di Kyle, non che erano amici miei o conoscenti o, ancora, persone di cui io stessa mi fidavo. A mia discolpa, posso dire che non pensavo fosse necessario. Era sì un processo mentale cui io stessa ero abituata, ma non credevo lo fosse anche Sarah.
  «Allora». Nicole si schiarì la gola, cercando di attirare la mia attenzione. «Ti trovo proprio bene. Il lavoro?»
  «L’ho lasciato. Forse ne riprenderò uno simile qui a Seattle».
  Annuì, fissandomi. Non la assecondai. Se trovava difficile cambiare discorso perché sarebbe apparsa maleducata, avrebbe dovuto trovare il coraggio a quattro mani e farlo, perché non l’avrei incoraggiata né avrei portato io la conversazione su Kyle. Quello che davvero avrei voluto mi chiedesse, erano notizie su Sarah, o che per lo meno si mostrasse indignata, visto che mi ero tenuta per me una notizia del genere per anni. Inspirò.
  «E il lavoro di Kyle, come sta procedendo?»
 Doveva averci pensato su molto, se era riuscita a virare il discorso legandosi alla parola lavoro, senza saltare da un concetto a un altro. In questo modo, non avrei potuto rinfacciarle nulla.
  Sorrisi. Distolsi lo sguardo, puntandolo su Sarah, ancora intenta a finire il tè. Avrei voluto cacciare Nicole fuori dalla stanza, ora, smettendola con quest’assurda farsa; avrei voluto dirle che sì, era lei ad avere torto e che, se mi rivoleva come prima, avrebbe dovuto chiedere scusa. Sarei voluta stare zitta, ignorare lei e le sue domande. Come fossi qui, ma in realtà non fossi veramente qui.
  Potevo vivere un’esistenza così intermedia? Per un momento ci pensai sul serio. Mi sarebbe piaciuto rimanere rinchiusa in questa stanza, senza essere costretta a chiacchierare e sorridere, in pace, sola e indipendente.
  Sospirai. Il compito di proteggerli non sarebbe stato svolto, se non avessi avuto l’occasione di vederli spesso.
  Così, continuai la mia farsa. «Sì, davvero bene. Sta aiutando tantissima gente. Tutti gli sono grati».
  Sorrise, sollevata del fatto che avessi risposto. «E lui, come sta?»
  Vidi subito come questa domanda le interessasse molto più della precedente. Quello che non ero mai riuscita a capire, in quel brevissimo periodo in cui ancora una volta mi ero ritrovata in mezzo a quella gente pazza, era perché non chiedesse a Kyle stesso le cose che pretendeva di sapere da me. Si sentivano spesso, e dunque perché doveva stressare me?
  Persino quando, nell’ultimissimo periodo, aveva ricominciato a telefonarmi, adducendo come scusa il fatto che le mancassi, le domande e le notizie che portava erano su di lui. Stressava Declan, da quanto avevo capito, il quale era stato costretto a mentirle per un anno, a edulcorare molto i fatti asiatici.
  «Sta bene», mormorai, annuendo. «Si dà molto da fare».
  «Aveva bisogno del tuo aiuto per un progetto, per questo l’hai raggiunto?»
  Annuii. Quella era una situazione intermedia che mi piaceva, perché non si rendevano conto di cosa fosse: interesse riflesso. Chiedevano informazioni su di me solo perché essenziali per averne altre su Kyle.
  «Sì. Un progetto mastodontico», ricordai; al campo di lavoro ci sarebbero voluti ancora mesi di duro impegno per arrivare anche solo all’abbozzo di ciò che Kyle aveva insegnato e progettato. «Ho velocizzato un po’ i tempi». Mandando avanti i piani nei giorni in cui Kyle era fuori combattimento.
  «Meglio così. E ora dove si trova?»
  «Lontano dai Latnock, te lo assicuro Nicole».
  Se non altro, quest’ultima parte non era inventata o modificata. Sempre che non ci fossero Latnock svedesi, amanti del köttbullar**o del julmust***, potevamo stare certi che in quello Stato per un po’ sarebbe stato al sicuro.
  «E dove?»
  «Questa informazione te la darà Declan, se lo desidera. Io non so di quanto sia meglio che siate informati».
  «Ma tu lo sai!»
  «Mi è stato detto da… Declan».
  Bugia numero trecentosessantaquattro! Pazienza, pensai. Questa non avrei potuto risparmiarmela.
   «Ah sì?»
   Annuii. «C’è altro che hai voglia di sapere?» Tipo informazioni su tua nipote?
   Scosse la testa, inespressiva. «Immagino sia tardi, ora. Vi lascio riposare. Buonanotte a tutte e due. Ci vediamo, domani».
 
   Il timer del telefonino suonò puntuale alle otto del mattino successivo. Durante la notte, avevo sentito mia figlia avvicinarsi e stringermi una mano; la bocca schiusa e i capelli scuri sparpagliati sul cuscino, le davano un aspetto ancor più pallido.
   Quando aprii gli occhi, tuttavia, non la trovai. Detti un’occhiata veloce intorno, ma di lei non c’era traccia. Afferrai il telefonino come gesto automatico, mettendo da parte le coperte e sedendomi. Sul display, in primo piano, c’era l’avviso di un messaggio che non avevo letto. Mi era stato inviato alle tre di notte.
 
    Mandami un resoconto appena puoi.
 
   Ancora assonnata, strabuzzai gli occhi. Il numero era sconosciuto: Tom Foss.
  Un resoconto di cosa, esattamente, della mia incapacità di lasciare andare il rancore e di come invece fossi il massimo nel legarmi tutto a un dito? Bé, questo sarebbe stato molto semplice da scrivere: “Sta andando tutto orrendamente male. Facciamo cambio?”.
  Scossi la testa, appuntandomi mentalmente di scrivergli due righe più tardi. Arrancai in bagno e poi in cucina, da cui sentivo provenire delle voci. Trovai mia figlia seduta a une delle sedie del ripiano, davanti ad un piatto di uova, dei toast e del latte. Ai fornelli, che si dava da fare con aria davvero compiaciuta, vidi Lori, i capelli più corti e scuri. Approfittando del fatto che non mi aveva ancora notato, rimasi ferma sulla soglia, sinché Sarah non alzò lo sguardo e si illuminò.
   «Hallo, mom! Vuoi un po’ di kaffe?».****
  Lori si volse, sorridendo. Con ancora la spatola in mano, mi corse incontro. Mi abbracciò stretta. Ricambiai.
  «Scusami! Ieri sera ho fatto molto tardi».
  «Sì? Dove sei stata?»
  «Oh, un po’ qua e un po’ là, sai come vanno queste serate».
  Annuii, occupando il posto accanto alla bambina, che si sporse verso di me. Mi allungai automaticamente, credendo volesse dirmi qualcosa a bassa voce, e invece mi baciò una guancia, con le sue labbra leggere e spensierate. Le sorrisi, carezzandole il viso. «Mi offri il caffè, tesoro?»
  Annuì. «Senti il profumo, mamma? In quella tazza è pieno».
  «Tieni». Lori mi porse una tazza e la caraffa. L’odore del caffè invase la stanza. A quanto pareva, a mia figlia piaceva da impazzire. «Nonno me ne dà sempre un po’», mormorò, con il naso a tre centimetri dalla mia tazza.
  «Sarah, non iniziamo a raccontare bugie», le dissi. «Oggi dovevo uscire per andare a fare certi giri, però non mi costerebbe nulla lasciarti a casa con Nicole. So che le fa piacere quando si aiuta a pulire casa».
  Sbuffò. «Solo un pochino».
  «Neanche per sogno. E ora per favore fila in doccia, così per le nove e mezzo potremmo esser pronte». Scese dallo sgabello. Stava per uscire dalla cucina quando la richiamai. «Ricordati di bussare, prima di entrare in bagno o in qualunque altra stanza. Non siamo più…», avrei voluto dire a casa, ma poi mi sarei dovuta sorbire le occhiate di Lori per l’intera mattinata, così glissai, dicendo: «in Canada. Vivono altre persone con noi ora, va bene?»
  Annuì. Sparì alla vista proprio mentre Lori metteva nel piatto altre uova e della pancetta per sé. Mentre si sedeva, mi fissò, improvvisamente preoccupata.
  «Non ti ho offerto niente!», esclamò. «Che cosa preferisci?»
  Saltò in piedi e si mise di nuovo ad armeggiare con la padella. Mi alzai anch’io.
 «Non preoccuparti, faccio io. Davvero, Lori, mangia. Non sono venuta qua per essere servita».
  Sorrisi mentre aggiravo il tavolo e mi adoperavo per prepararmi un toast. Ci aggiunsi sopra un po’ di marmellata, mi versai altro caffè e occupai il posto di fianco a Lori, che in silenzio mangiava la sua colazione.
  «Come va la scuola?», domandai.
  Mi lanciò un’occhiata, sorpresa. Non avrei incoraggiato la conversazione, se non avessi avuto un punto che mi premeva discutere da quando aveva ammesso che passava fuori molte notti; ma sarei dovuta arrivarci per gradi, altrimenti sarebbe sembrato palese che la stavo accusando.
  «Tutto bene. Purtroppo il mercato è fermo, lo sai; non ci sono più richieste dalle aziende statali. Sto facendo tirocinio grazie a mamma, che è riuscita a inserirmi, ma probabilmente aprirò uno studio mio, una volta laureata».
  Il suo discorso mi stupii, tanto che dimenticai la provocazione che volevo lanciarle. «Sembri avere le idee molto chiare», dissi.
  «Bé, sai com’è: ho perso anni a New York. Devo rimettermi in carreggiata. Ormai Josh si laureerà prima di me, e solo per un titolo in Redazioni Strutturali».
  «In realtà», la corressi, «è una certificazione professionale, non c’è nessuna laurea. È un corso che dura un anno; ma tuo fratello se la sta prendendo comoda pur di non tornare».
  «Sì, sappiamo tu ed io quanto a loro piaccia stare lì da soli. In effetti, tu hai capito che cosa sta studiando?»
  «Impara a disegnare tecnicamente dettagli di un progetto, come tetti o fondamenta. Utile. Potrebbe persino fare carriera come architetto, se solo i libri non gli facessero tanto schifo». Rimasi in silenzio per un istante. Poi chiesi: «Ti senti in dovere di battere Josh sui tempi di laurea?»
  «Tu e Kyle siete già avviati», rise del suo termine, «e avete una vita vostra e un vostro lavoro».
  «Io ho un lavoro. O meglio, l’avevo. Kyle si dedica al volontariato».
  «E come fa a sopravvivere?», domandò, presa alla sprovvista.
  «Grazie ai soldi di Baylin e alle donazioni di privati».
  Mi guardò stralunata. Possibile che solo io sapessi esattamente ciò che stava facendo? Non erano loro che lo veneravano sino all’esasperazione?
  «Personaggi di un certo spicco sociale gli fanno donazioni perché continui nella sua opera. E ogni tanto le sue capacità finiscono al servizio di qualche privato».
  «Kyle che vende ciò che Baylin gli ha dato? Non è possibile». Sorrise, alzandosi per portare le stoviglie al lavandino.
  «Non che lo faccia sempre, ma ogni tanto gli è capitato. Non ha messo alcun annuncio sul giornale, se è questo che temi». La imitai, iniziando a lavare i piatti, alcuni avanzati anche dal giorno prima. Riconobbi la caraffa e le tazzine da tè della sera precedente. Lori tese le mani e prese i piatti bagnati, iniziando ad asciugarli per riporli al loro posto.
  Decisi di riportare la conversazione sulla questione che mi premeva discutere.
  «Con Declan non ti senti spesso?»
  «Come? No, invece, molto spesso. Ogni giorno. Perché?»
  «Bé, non sembri molto informata su quel che stanno facendo, ma d’altronde una relazione come la vostra non deve essere semplice».
  «Potrebbe anche non esserlo, ma quando torna a casa, io poi ne traggo tutti i benefici». Rise.
  «Lori! Per carità!» Sbuffai. «Io in realtà parlo solo di quando lui è via. So che ne trai i benefici, anche quando lui non è con te».
  A quel punto si bloccò. Perché mi stavo impicciando in questi affari, lì per lì non lo capii né me lo chiesi. Sentivo solo che era una cosa che dovevo farle notare, se non altro perché vedere Declan fermo in quel microscopico villaggio da mesi, mi aveva fatto provare un poco di pena per lui. Poche settimane lì dentro, con le solite persone, i soliti visi e la snervante routine, mi stavano per fare impazzire; Declan era insofferente, anche se lo nascondeva bene; mi sarei dovuta solo premurare che la sua fidanzata non facesse anche la fidanza di qualcun altro e poi sarei potuta tornare all’apatia, verso Declan, Lori e tutta la cricca.
  «Che vorresti dire?», domandò.
  «Declan sa che passi le notti fuori?»
  «E Declan sa che ti impicci degli affari che non ti riguardano?»
 «Non sta facendo una bellissima vita, in giro per il mondo. Sono certa che gli manchi. Potresti evitare di tradirlo, ecco tutto».
  «Insinua scemenze su altra gente, per cortesia. Ma sentitela! Vieni qua, dopo anni, e la prima cosa che mi sai dire è che sono una puttana!»
  «No, no. Io ho insinuato che tu sia infedele, non che tu sia una sgualdrina».
 Sospirò, mettendo via gli ultimi piatti. «Sai, e poi ti chiedi il motivo di tutta questa indifferenza nei tuoi confronti».
  «Sì, la tua famiglia si è schierata chiaramente perché io preferisco dire la verità piuttosto che stare zitta».
  «No, ci siamo schierati chiaramente», mormorò sarcastica, «perché non la smettevi mai di giudicare tutto e tutti dimenticando di farti un esamino di coscienza. Insomma, anche durante quei mesi prima della tua partenza, le cose sono andate nello stesso modo. Hai straparlato contro mamma finché non hai finito per offenderla, e di te stessa non volevi sentir parlar male. Non è così che funziona. Non si esce da mesi come quelli pretendendo di avere la ragione solo da una parte, non si butta veleno sulle altre persone perché si sta male». Ripose lo straccio e si avviò verso le scale. «E siccome t’interessa tanto, ieri sera ero a una festa con delle amiche. Solo amiche. Puoi chiedere a chiunque».
  Sbuffai. Non era esattamente a questo che puntavo. Volevo solo farle ammettere che trascorreva le serate in compagnia, non c’era bisogno di prendersela tanto. Quei pochi mesi estivi prima del College erano stati orrendi per tutti. Se Nicole era stata perdonata per aver discusso sino alla nausea con me, per aver insistito sino all’esasperazione, se Kyle era stato assolto dall’accusa di avermi mollato così, dalla sera alla mattina, perché aveva vissuto settimane da incubo, allora perché io non potevo essere scusata di ciò che avevo detto, visto che come Nicole avevo passato mesi a logorarmi il fegato in cerca di soluzioni?
  Tutto stava nel riconoscere chi fosse il giudice. E se Lori si era nominata capo supremo del processo, per me non poteva esserci un’assoluzione. Per lo meno non rapida e indolore; avrebbe dovuto essere umiliante e fastidiosa.
  «Pronta, mamma!»
  Sarah apparve vestita e pettinata, e immaginai che avesse persino rifatto il letto in camera e piegato i pigiami. Avrei dovuto iniziare a precederla, non era giusto approfittarmi delle sue buone maniere.
  Le sorrisi, infilando la giacca e prendendo la borsa. Mentre uscivamo da casa, non vidi nel vialetto la macchina di Lori, e pensai che fosse uscita dal retro e sgattaiolata via appena finita la nostra conversazione.

 

    

 

 

 

 

 

 

*Mom è mamma in tedesco e danese. Si legge “mum”, con l’ultima lettera che non si sente molto. È molto più facile del Tiefkühlkost, che non vi dico come si legge perché davvero non importa, ossia del surgelato di qualche capitolo fa!
**È semplicemente un secondo piatto a base di carne, accompagnato da patate lesse, uova e cipolla. 
***Bevanda svedese prevalentemente natalizia.
****Buongiorno mamma e caffè in tedesco. La piccola mischia le lingue – inglese, tedesco e a volte qualche parolina di danese – poiché le sa tutte e tre, le viene naturale usarle tutte.

 

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Capitolo 11
*** Venale ***


Dopo la seconda morte

11 - Venale

                                                                                                                                              Per la ‘Purepura-Svizzera’

 

   C’erano molte cose che mi erano mancate di Seattle, come il mio bar preferito, molto lontano dal The Rack e che serviva muffin alla cannella a un prezzo davvero basso.
   Con tutti e tre i Trager fuori di casa sino all’ora di pranzo, io avevo la mattinata libera, così decisi di fermarmi a prendere un caffè. In verità, ne avevo già consumate due tazze prima di uscire da casa, ma decisi di infischiarmene ed entrai al Purple Cafe* desiderosa di ritrovare un ambiente familiare. Mi bastò un’occhiata per capire che non era cambiato per niente. I giovani ragazzi che un tempo avevano gestito il locale erano rimasti tutti e cinque, solo un po’ meno inesperti.
   Emily aveva insistito perché mi introducessi nel gruppo e quindi frequentassi il The Rack, e poi avevo continuato ad andarci per vedere Kyle, ma durante la breve estate passata con mia madre, avevamo scoperto questo bar, distante dal centro città e assolutamente anonimo, frequentato dai ragazzi di una scuola privata che distava pochi isolati. Gli studenti della Lakeside** mi erano sempre apparsi come teenager che non sapessero di appartenere a una scuola privata; l’assenza di un’uniforme immaginavo avesse influito. Si riunivano al bar e ci passavano interi pomeriggi, chiacchierando, mentre io e mia madre ce ne stavamo in un angolo a sorseggiare bibite fresche.
   Quando io e mia figlia entrammo, il locale era pressoché vuoto: gli studenti erano a scuola a quell’ora.
   «Che cosa vuoi da bere, Sarah?», chiesi, mentre lei sedeva.
   «Succo». Si guardò intorno; a quanto pareva il luogo le piaceva.
   Ritornai al tavolo con la sua bevanda e un giornale. Non degnai di un’occhiata la prima pagina, cercando le inserzioni locali. Non trovai nulla di particolarmente rilevante: a Seattle, il tasso di criminalità non era elevato. Lo richiusi e riposi da un lato proprio mentre arrivava il mio caffè. I camerieri non mi avevano riconosciuta, ma del resto avevo frequentato il bar per poche settimane, cinque anni prima.
   Mentre ero concentrata sul caffè, sentii l’avviso di un messaggio. Tirai fuori il telefono e per la seconda volta scorsi il numero sconosciuto.
 
   Se non mi farai sapere niente entro un’ora, dovrò supporre che sia successo qualcosa.
 
   Accidenti! Mi affrettai a inviare a Foss un messaggio di poche parole per fargli sapere che gli avrei telefonato subito. Il fatto era che non avrei saputo cosa dirgli. Mi ero inimicata Lori nel giro di una mattina, Nicole si sforzava di non ignorarmi e Stephen aveva già messo le mani avanti***.
   Mi rispose dopo un solo squillo.
   «Finalmente!» Sembrava irritato.
   «Calma. A Seattle era notte fonda quando hai inviato il messaggio».
   «Come va lì?»
   «Tutto ok. Solo una cosa: non sono un’esperta di spionaggio. Quando sono in casa, sono perfettamente al sicuro, ma non posso sdoppiarmi in tre e seguirli al lavoro o a scuola».
   Ci stavo pensando da quando avevo notato che la macchina di Lori non era nel vialetto. E non avevo trovato soluzioni.
   «Limitati alla casa. Non prenderanno di mira altri luoghi».
   «Sicuro? Se Kyle si lamenta, dirò che sei stato tu a ordinarmi di non seguirli», lo avvertii, già io stessa poco convinta del fatto che l’avrei veramente detto.
   «Perché tu eri tanto disponibile a seguirli dappertutto», disse, sarcastico. «Sai per quale ragione sei lì, no? Tieni a bada la situazione generale e terrai calmo Kyle. Non puoi certo controllare tutto l’universo».
   «I Latnok non sono una minaccia per la famiglia?»
  «A te hanno chiesto informazioni. Perché dovrebbero comportarsi diversamente con loro, col forte rischio che Kyle si rifiuti di collaborare se ai Trager succede qualcosa? A proposito, ho notizie sulla targa. La macchina è intestata a un certo Ben Grid. Ti dice nulla?»
  «Uno dei due si chiamava Ben. Perché sono qui, se non occorro? Devo richiamare Declan per urlargli di smettere di darmi istruzioni inutili».
   «Kyle è più tranquillo, ora, grazie alla tua disponibilità. Niente stress. La famiglia è fuori?»
  «La casa è vuota. Io sono dall’altra parte della città. Se eri così impaziente di sapere come andasse, potevi chiamarmi», aggiunsi.
   «Ricordo la fatica di telefonare a Kyle e mantenere segreti. Non volevo metterti nella stessa situazione».
   «Il telefono avrebbe squillato a vuoto, se non avessi potuto rispondere».
   «Sento un vago rimprovero nella tua voce», mormorò, perspicace. Non sembrava divertito. «Stai bene?»
   Scossi la testa, per risposta, dicendo: «Sì, certo».
   Tacque un attimo, per poi dire: «Non dirmi che siamo tornati indietro di cinque anni e che dovrò aspettare mesi prima che tu capisca che puoi dirmi ciò che vuoi». La sua voce era gentile.
   Sbuffai. «Non ti stavo rimproverando proprio di niente!». Irritata, espirai pesantemente.
  «Sei tranquilla, infatti».
  «Ho detto cose… che avrei dovuto edulcorare. Tutto qui». Non mi andava di parlarne. Speravo che avrebbe creduto alla mia conferma, ma evidentemente c’era stato qualcosa che mi aveva tradito. «Perché stai insinuando che abbia qualcosa?»
   «Le risposte telegrafiche».
   «Tu mi stai chiedendo un resoconto».
   «Questo per messaggio. Ora stavo cercando di conversare».
   «Anche le tue frasi sono brevi».
   «Si adattano alle tue».
   «La tua prima parola è stata un’affermazione scocciata!»
   «Sono stato in pensiero per ore».
   «Avresti sempre potuto telefonare a casa di Nicole per…».
   «Non per la famiglia, Jessi». La risposta fu impaziente.
   Restai in silenzio con il telefonino attaccato all’orecchio e il cervello bloccato. La bimba mi fissò curiosa per qualche istante, battendo poi una mano sul dorso della mia. A quel punto, riuscii a riscuotermi.
  «L’altra volta, hai riattaccato con una scusa», mi ricordò, quando sentì che mi stavo schiarendo la voce. «Ora?»
  «Io darò anche risposte telegrafiche, ma tu getti granate come se fossero fatte di neve». La voce era roca. Il cervello mi suggeriva di defilarmi. Non ero pronta ad affrontare l’argomento per telefono.
   «C’è qualcosa che mi suggerisce d’essere molto schietto».
   «Sarà la logica, o peggio: l’istinto di conservazione. Molti rispondono alla mia schiettezza con altrettanta decisione». Feci una pausa. «Vuoi seriamente parlarne al telefono?»
   «Io voglio parlarne. Tu eviti l’argomento».
   Sbuffai.
  «Ok, senti: ne parleremo la prossima settimana. E non al telefono», concluse. «Però devi trovare la voglia di discuterne».
   «E dove?»
  «Non lo so. Pensa a come fa stare meglio chiarire le cose. Non vorrai certo trascinarti problemi irrisolti ovunque».
   «Io vivo di problemi irrisolti. Sono io stessa un problema irrisolto, sotto molti aspetti».
  Sospirai. Ero rassegnata, ormai. Qualsiasi affermazione facessi, qualsiasi cosa confessassi, chiaramente era carica di un fattore emotivo che di solito riuscivo a escludere. Non c’era più nulla di distaccato, nelle cose che dicevo a lui. Cinque anni passati a cercare di lasciare fuori le emozioni nonostante la sincerità, mi avevano sfinito, e così ora non avevo più la voglia di fingere che ciò di cui discutevamo non mi toccasse.
  Non insistette né indagò sulla mia affermazione, forse volendone riservare la predica al giorno in cui ci saremmo visti. «Ci sentiamo, allora», disse invece. «Se hai bisogno…».
  «Sì», lo interruppi. «Ti farò sapere. A presto».
  Riattaccai, poggiando malamente il telefono sul tavolo. Il caffè si era ormai freddato, ma non ero mai stata schizzinosa in fatto di caffè. Lo bevevo freddo, amaro, troppo dolce, corretto, con il latte e persino espresso.
   «Hai finito?»
   Sarah annuì. «Ora dove andiamo?»
   «Ho una persona da incontrare. Ti va di vedere il posto in cui abitava la mamma prima di trasferirsi in quella grande casa?»
  «La mamma con la nonna?»
  Mentre le tenevo la porta aperta, mi sorpresi a sorridere. Sarah cosa sapeva di Sarah, a parte che era stata lei a darle il nome?
  «Sì», dissi, mentre attiravo l’attenzione di un taxi fermo dall’altra parte della via.
  «Nonno ha una foto della nonna. Era bella come te».
    Le sorrisi, poggiandole una mano sulla guancia e chinandomi a baciarla. Lei stessa, con il suo primo gesto affettuoso, aveva sbloccato me, come se non stessi aspettando altro che il suo permesso, e forse era proprio così.
    Se l’avessi seguita come mi chiedeva, sarebbe viva, con me. Mia madre…
    Scossi la testa, mentre le strade trafficate ci scorrevano davanti agli occhi. Non potevo lasciarmi andare a quei pensieri, benché fossero nel giusto. L’avevo abbandonata. Avrei potuto difenderla da Cassidy, se fossi stata lì. Invece, ero corsa da Kyle, mentre lei mi stava implorando di rimanere.
  Che razza di figlia ero stata? Che madre sarei diventata? Queste domande mi fluttuavano ancora nel cervello quando il taxi accostò nel parcheggio del condominio. Non ebbi tempo di riflettervi oltre, poiché, appena misi piede sul marciapiede, notai che l’unica finestra che dava sul parcheggio, si era spenta. A quanto pareva, qualcuno si era accorto di chi era sceso dall’auto.
  Con Sarah per mano, mi diressi al citofono. Il suo cognome spiccava ancora sugli altri, attirava la mia attenzione nonostante l’avessi visto scritto fra i tanti una sola volta.
  Premetti il pulsante e attesi. Non ci fu risposta. Riprovai, ma niente. Allora alzai la testa per osservare l’interno della casa. Da quel che riuscivo a vedere, non c’era movimento.
  Dovevo parlare con lui, sapere esattamente cosa aveva detto ai Latnock e sbatterlo fuori di casa, anche non esattamente in quest’ordine.
  Per questo, presi il telefonino e digitai il suo numero di casa, facendo in modo che il mio apparisse come privato. Rispose, il deficiente.
  «Sì, pronto?»
  «È la sua padrona di casa, che la prega di farla entrare. Subito».
  Restò in silenzio.
  «Non è furbo, proprio per nulla. Mi spiace».
  Riattaccò e, dopo qualche altro istante, il portone si aprì; Sarah mi precedette nell’ingresso. La tenni per mano mentre salivamo le scale, sinché non vidi la porta socchiusa. Allora bussai lievemente, affacciandomi. «È permesso?» La cortesia era comunque una cosa cui non potevo rinunciare.
  «Venga». La voce proveniva da destra. Con un bicchiere in mano, apparve e aprì del tutto, facendo un cenno perché mi accomodassi, il volto stranamente rilassato.
  Rimasi sorpresa dalla sua cordialità. Non avevo dimenticato i primi tempi, quando si rifiutava di credere che una ragazza tanto giovane e graziosa potesse anche essere in grado di minacciarlo di ritorsioni; però ero ricca, e questo gli piaceva, e aveva continuato ad apparire interessato anche dopo che Foss gli ebbe parlato.
  Suo figlio mi aveva rintracciato nonostante non avesse nemmeno il mio nome. Conosceva gente che aveva partecipato alla mia stessa festa, ed era riuscito a risalire al nome della mia collega, quella che si era procurata gli inviti. Aveva lasciato il suo nominativo, mi aveva spiegato, e lui aveva scoperto chi fosse e dove lavorasse. Mi avevano vista con lei, e Rob aveva ristretto il campo. La mia collega insegnava nel mio stesso dipartimento, ed era arrivato a me tramite il sito della facoltà, in cui vi erano i miei dati e la mia foto.
  Quando gli avevo chiesto perché mi avesse cercato, aveva risposto che era rimasto colpito. Ridendo, gli avevo domandato da che cosa, e in quell’occasione avevo scoperto che a letto non ero tanto male.
  «Tutta questa pena per del sesso decente?», avevo domandato, mentre distrattamente mi chiedevo se fosse il caso di riagganciare. «Seriamente? Adesso perché non ti dovrei dare del pervertito?»
  «Nessuna pena. È stato divertente, in verità, vedere come sono bravo a rintracciare le persone», aveva risposto. La voce era esattamente quella che ricordavo, amichevole, nonostante ogni parola nascondesse in sé un avvertimento. «Avresti già riattaccato, se davvero stessi pensando che lo sono».
  «Io non sono libera». Avevo mentito solo per mancanza di voglia. Lo ricordavo come un ragazzo molto carino, dal viso semplice e gentile, moro e alto. Non aveva niente che avrebbe potuto farmi rifiutare la sua corte. Era anche riuscito a rintracciarmi nonostante fossero anni che abitavo un altro Stato.
  «Peccato», aveva mormorato. «Ti farebbe piacere sapere che ti ho contattato anche per un altro motivo?»
  «Ossia?»
  «Ho dei parenti nella tua vecchia città che cercano casa».
  «Come sai da dove vengo?»
  «Sono stato in grado di trovarti nonostante non mi avessi detto nemmeno il tuo nome; non è stata una cosa difficile, captare le voci che girano per il campus. Possiedi una casa vuota che vuoi affittare. Io conosco gente che vuole una casa a Seattle».
  «Quali persone?»
  «Mio padre. Sta aprendo una succursale da quelle parti».
  «Una filiale di che cosa?»
  «Negozi di elettronica».
  La conversazione mi era venuta facile, come il sesso. Era galante persino quando parlava.
  Gli avevo detto che mi era impossibile ritornare a Seattle, ed era stato allora che era intervenuto Foss. Durante una delle sue telefonate, era saltato fuori il problema, e si era offerto di occuparsene. Jason Firm aveva visto e sentito solo lui. L’unica volta in cui avevo notato l’inquilino, senza che ci fossero state presentazioni ufficiali, era stato in un pomeriggio piovoso, nel quale ero stata obbligata a recarmi all’Università di Washington. In quell’occasione, ero fuggita da Seattle talmente in fretta da non essermi nemmeno resa conto di dove realmente mi trovassi.
  Quella mattina, quindi, ci potemmo vedere bene per la prima volta. Ero certa che sapesse il motivo della mia visita: non avevo mai fatto mistero dell’amore per la mia privacy. Purtroppo, i contratti d’affitto prevedono il nome e il cognome dell’affittuario, e avere dei figli mi obbligava a far sì che qualcun altro sapesse la mia esatta posizione. Mettere informazioni complementari nelle mani di due idioti non avrebbe potuto portare a un diverso risultato.
  «Prego». Con un cenno rassegnato, mi indicò il divano. «Posso offrirle qualcosa?»
  «No. No, grazie. Sono qui per parlarle della visita che ha ricevuto settimane fa».
  Mi guardò confuso.
  «Non faccia finta di non capire. Le hanno offerto soldi in cambio d’informazioni sul mio conto».
    Si schiarì la gola. «E se anche fosse? Non ero vincolato da nessun cavillo legale».
   Capii che era tanto tranquillo perché aveva la certezza che non avrei potuto fargli nulla. Nemmeno la minaccia dello sfratto, a questo punto, sarebbe andata a segno, poiché non avrei potuto offrire un motivo legalmente accettabile.
  Avrei dovuto escogitare un altro modo, per farmi dare le informazioni che mi servivano.
  «Il nostro era un accordo verbale, che lei ha infranto. Voglio indietro tutti i soldi che le ho dato in questi anni». Sapevo che era impossibile che il denaro ricevuto dai Latnock equivalesse a tutti gli anni d’ingenti mazzette. Infatti, lo vidi sussultare. «Se non ha intenzione di mettere insieme l’intero importo, le consiglio di iniziare a parlare sin da subito e ripetere tutto ciò che ha detto loro».
  «Oh, andiamo, signorina». Il tono voleva essere conciliante; alzò una mano e la passò davanti al viso, come a schermire la mia richiesta. «Mi sfratti. Tra sei mesi me ne andrò, senza bisogno di altri soldi. Ne ha già così tanti».
  «Lei lascerà sicuramente questa casa, non si preoccupi. Prima, però, voglio quelle informazioni».
  «Non ho informazioni. Mi hanno solo fatto qualche innocente domanda. Mi creda, non ho nemmeno tutti i soldi che mi chiede».
  «O l’uno o l’altro, Signor Firm. Ci risentiamo tra qualche giorno, quando avrà deciso quale dei due offrirmi, d’accordo?»
  Sarah, rimasta silenziosa al mio fianco, si alzò insieme con me e mi precedette alla porta.
  «Ma non ho niente di quel che vuole lei!» Mi fermai, a un passo dalla maniglia. Era in piedi, ora, e mi fissava, ansioso. «Loro non mi hanno…».
  «Sono pressoché sicura che l’abbiano convinta a non rivelare il contenuto del vostro incontro. Esigo di sapere di che cosa avete parlato».
  «Loro hanno detto che…». Si bloccò, passandosi una mano sulle labbra.
  «Sì?»
  «Tutti i soldi. Mi hanno promesso tutti i soldi solo se avessi tenuto la bocca chiusa. Arriverebbero a me, se parlassi, e non mi pagherebbero».
  «Lei è così bravo a rompere gli accordi. Avrebbe dovuto rispettare quelli presi con me, Signor Firm».
     Si bloccò, adesso, e mi fissò. Aveva colto ciò che speravo rimanesse opaco: era riuscito a udire il tono di minaccia che aveva sporcato la mia voce spazientita.
      «Andiamo, tesoro».
    Chiusi la porta dietro a un Jason Firm decisamente attonito. Non avrei voluto che si rendesse conto della promessa di ritorsioni che implicita mi era scivolata fuori dalle labbra. Non era questa l’immagine di me che volevo lasciargli. Non sarebbe stata un’immagine legale.
    Benché il mio passato non fosse stato certo immacolato, avrei voluto cercare di far restare il presente più trasparente possibile, per potermi riservare un futuro semplice.
     Purtroppo, nella mia vita, per quanto avessi cercato di scappare, nulla poteva dirsi semplice.
 
 
 
   
 
 
 
 
 
 
*Il bar non esiste, è puramente inventato. Se ho per sbaglio azzeccato il nome di un bar veramente esistente e addirittura a Seattle, potete farmelo sapere tranquillamente!^^
**La scuola invece esiste. Si trova nel quartiere di Haller Lake e si occupa dei ragazzi dai dieci ai diciassette anni, quindi dal quinto al dodicesimo grado. Anche per questo luogo, tutto ciò che descriverò, tutti gli studenti di cui potrei parlare e a cui potrei fare commentare le lezioni o l’istituto in generale, sarà tutto farina del mio sacco, tutta immaginazione.
***Mettere le mani avanti sta a indicare qualcuno che ti preavverte di qualcosa, che può accadere come non può accadere. Stephen ha avvertito Jessi del fatto che avrebbero potuto mostrare poco interesse verso di lei, senza sapere se l’avrebbero fatto. Però ha preferito avvertirla in ogni caso. Ehm, non so come spiegare, è un’azione preventiva ecco. Tutti questi paroloni per qualcosa che probabilmente saprete già!^^

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Capitolo 12
*** Impaziente ***


Dopo la seconda morte

12 - Impaziente

                                                                                                                                                                                                                             Per la mente,
in grado di pensare oltre.

 
   Il telefono squillò diverse volte, prima che riuscissi a trovarlo, nel fondo della borsa. Ero ferma a un semaforo, diretta verso casa Trager, quando lo sentii, ma non potei rispondere finché il taxi non accostò e fui scesa.
   «Canada!», mi salutò una voce squillante. «Avete già fatto i bagagli?»
   «Andy! Andy, ciao!» Feci cenno a Sarah di precedermi in casa. Io mi sedetti in giardino, sui gradini, con la schiena appoggiata al muro e il telefono incastrato tra la spalla e l’orecchio. «Come va? Io ho già passato i confini statunitensi. Sei in ritardo di un giorno».
   «Tutto bene. Sei già arrivata? Josh ha detto che dovevi ancora partire».
   «Sono seduta sui gradini dell’ingresso di casa sua, in questo momento».
   «È seduta davanti a casa tua», sentii che diceva a qualcuno, probabilmente proprio a Josh.
   «Josh ti ha chiesto di domandarmi dove fossi? Perché non mi ha chiamato lui?»
   «Perché è un cretino, che domanda».
   Risi. «Metti il vivavoce un attimo».
   «Ecco», mi disse.
   «Josh?», chiamai.
   Udii la sua voce, incerta. «Sì?»
   «Alla fine hai detto a tua madre che vi siete sposati, o pensano ancora che siate bravi ragazzi che si stanno solo impegnando per la laurea?»
   Andy scoppiò a ridere. Sorrisi.
   «E tu come cavolo…», mormorò. «Andy!», sbraitò dopo un istante.
   «Mi è scappato dalla bocca», disse, continuando a ridere. «Tranquillo! Lei lo sa da anni e non lo dirà».
   Ora che il sonno non mi turbava più, potevo giocare un po' col cuore di Josh. Andy me l’aveva rivelato una sera di due anni prima. Le avevo telefonato per semplice curiosità sui risultati di un test per il quale mi aveva rotto le scatole settimane intere, ed euforica aveva strillato che sarebbero usciti a festeggiare, visto che era anche il loro anniversario. Accortasi di quanto aveva detto, aveva cercato di convincermi che stava parlando del giorno in cui si erano conosciuti, nel bagno del liceo, ma non c’ero cascata. Sinché non si era arresa e aveva ammesso che sì, si erano sposati in una chiesetta vicino al campus.
   «Perché?», avevo domandato, in preda a risate isteriche.
   «Smettila di ridere!» Avevo sentito come cercasse di rimanere seria, ma non vi era riuscita, perché entrambe ci eravamo ritrovate piegate in due. «È una cosa seria», aveva aggiunto.
   «Oh, béh, lo spero bene! Il matrimonio impegna, è un contratto che vincola l’intera vita».
   «Perché non mi hai mai detto che lo sapevi? Tutte le volte che ci siamo visti, non ne hai mai fatto parola».
   La voce indignata di Josh mi riportò alla mattinata soleggiata.
   «Josh, quand’è che ci siamo visti, di grazia? Perché io non c’ero».
   «Oh, béh…», cincischiò. Fece silenzio. «E tu, Andy, cosa aspettavi a informarmi?», chiese.
   «E che differenza avrebbe fatto? Comunque i tuoi e i miei parenti lo ignorano». Andy si fermò un istante, per poi aggiungere in fretta: «Non che tu non sia della famiglia, Jessi. Certo che lo sei. Intendevo dire che le mie mamme ancora non lo sanno, e i suoi genitori…».
   «Ho capito», mentii, riflettendo vagamente sul fatto che non sarebbe stato compito di Andy rimarcare quanto invece, a detta loro, io facessi parte della famiglia. «Non preoccuparti. È comunque da un po’ che non mi si vede in casa». E ciò avrebbe potuto spiegare perché mi avesse escluso dall’elenco dei parenti: anni a non sentire più il mio nome o la mia presenza e quelli si erano persi nei discorsi. «Voi quando partite?»
   «La prima settimana di aprile».
   «Fra tre settimane, quindi».
   «Oh, cavolo, davvero?»
   «Già».
   «Il che significa che ho solo venti giorni per dare l’esame di Fisiologia?»
   «Partite esattamente tra ventuno giorni?»
   «Oddio, non saprei!»
   «Béh, non ti converrebbe sapere di preciso il giorno dell’esame, almeno?»
   «Può darsi».
   «Asina. Vai a studiare, di corsa!, così, prima finisci, prima entri nel magnifico mondo del lavoro».
   «Sì, magnifico. Come no! Vedo le mie mamme sempre così stanche…».
   «Kyle farà in modo che tu abbia turni da niente, avanti».
   «Oh, sì! Userò la sua notorietà per lavorare poco e guadagnare molto».
   «Inizierai con lo spirito di sacrificio giusto, non c’è dubbio. Come sta Josh?»
   «È ancora incredulo, ma gli passerà presto. E la piccola, si trova bene lì?»
   Scrollando le spalle, decisi di mentire di nuovo. Sarah era a Seattle da troppo poco tempo, perché potessi ripetere con esattezza come vi si trovasse, ma in fondo che cosa mai avrei potuto dire di diverso? «Certo! Lori ha scoperto il piacere di farle da mangiare e mia figlia quello di abbuffarsi!»
   «Oh, non ci pensare. A questa età non ingrassano mai, qualsiasi cosa mangino».
   Ci fu una pausa. Andy sospirò. «Josh è impaziente di sgridarmi ancora un po’. Ci sentiamo, ok?»
   «Va bene».
   Riattaccò. Scossi la testa, mentre mi alzavo e raggiungevo mia figlia in casa. Era strano che Josh questa volta non mi avesse chiamato, ma avesse dato il compito a qualcun altro. Una settimana prima si era mostrato molto interessato a ciò che avevo da dire su Kyle. Forse la difficoltà nasceva dal fatto che, chiamandomi adesso, avrebbe avuto informazioni personali. Durante i mesi di convivenza, non si era mai impicciato di ciò che mi riguardava: era stato scontroso ma discreto. A differenza mia, riflettei con un sorriso. Nessuno mi aveva ancora insegnato il concetto di privacy.
   Trovai Stephen a casa per pranzo, e insieme a mia figlia si era già messo all’opera con i menù del take-away.
   «Perché non prepariamo un bel piatto d’insalata?», provai a proporre.
   «Vuoi che tua figlia ricordi il primo giorno trascorso con il nonno come noioso e privo di divertimenti?»
   «Io vorrei solo che imparasse ad apprezzare la verdura fresca».
   «Il cibo indiano ha carne e verdure».
   «Béh, è sempre migliore di un fast food», ammisi.
   Mi arresi, occupando la poltrona e osservandoli mentre decidevano insieme che cosa ordinare.
   «Come mai sei a casa, a quest’ora?», domandai. «Credevo avessi molto da lavorare».
   «Di mattina ho tanti corsi da tenere, ma qualche pomeriggio a settimana sono libero. Tu hai fatto domanda?»
   Annuii. «Non so se mi prenderanno, però».
   «Guarda che non mi offenderesti, se mi chiedessi di metterci una buona parola».
   «Il Presidente, a Ottawa, metterà una buona parola. Tu ritieni la tua posizione così influente?», domandai scettica.
   «Io volevo solo essere gentile». Mi scoccò un’occhiata, per poi scrollare la testa e digitare il numero del ristorante indiano. Quando ebbe finito di ordinare, si rivolse di nuovo a me. «Non sei proprio in grado di apprezzare un gesto di cortesia senza dover rispondere?»
   Lo fissai, leggermente confusa. Non era lui che di solito lasciava correre per il quieto vivere?
   «Non siete stati voi ad avermi preso sotto la vostra tutela? Non spetterebbe a voi educarmi?»
   «Jessi». Pronunciò il mio nome in tono di rimprovero.
   Da sempre ero stata in grado di cavarmela da me, ma ciò non significava che atteggiamenti paterni e materni non potessero essermi utili. Il mio corpo impresse a fondo quel rimprovero, facendomi reagire in modo da non dimenticarlo mai.
   Un sorrisino involontario si fece largo sulle mie labbra. Abbassai il volto, mormorando: «È la verità».
   Fece silenzio. «Può anche essere come dici tu, ma sei venuta da noi all’età di diciassette anni – ormai una diciottenne – ed eri già stata affidata a tuo padre e tua madre. Io credevo che certe cose fossero assodate».
   «Brian Taylor, il Latnok che ha tradito, insegnarmi la cortesia? Non si è perso in lezioni. Non si è perso in niente».
   Fece un cenno verso Sarah. Scossi la testa. «Non conta», dissi. «Non si aspettava nulla da lei».
   «E tua madre?»
   «Credeva che… come dicevi? Ah, sì. Certe cose fossero assodate».
   «Taylor era cortese con te».
   «Ti ho già detto che aveva aspettative, per me, vero? Guarda cosa è successo quando ho detto il mio primo no».
   «E non ti dispiace che si sia comportato così?»
   Considerato che ero morta dal dispiacere, letteralmente per di più, la domanda poteva quasi suonare ironica. La risposta l’avevano già avuta tutti.
   «Sai che è così».
   «Perché gli hai affidato tua figlia, allora? Io non l’avrei fatto. Avresti potuto lasciarla con noi».
   «Kyle non doveva saperlo. Se i suoi genitori avessero ospitato una ragazzina che si può dire essere la sua copia sputata, forse si sarebbe fatto delle domande».
   «L’hai detto anche tu, che Taylor è un uomo senza scrupoli».
   «Non è proprio così. Ha scrupoli e ha addirittura dei principi. È nell’onorare tali principi e per arrivare ai suoi scopi, che rinuncia alla morale. Però, non c’erano valori da preservare e scopi cui aspirare, nell’occuparsi di una nipote».
   «Cioè? Non c’era niente che potesse pretendere in cambio? Non aveva nulla da guadagnarci e quindi si è comportato da persona normale?»
   «Sì. Riceveva liquidità semestrale ed io avevo notizie mensili sulla situazione. Tutto sommato, è stato un bravo nonno». Feci silenzio per un istante, riflettendo. Era vero ciò che avevo detto. La bambina lo adorava ed ero certa che gli mancasse. Lui se ne era distaccato, ma non ero certa l’avesse fatto a cuor così leggero.
   Arrivò il pranzo e mangiammo seduti sul divano. Alla bimba piacque quel momento, e si divertì con Stephen. Poi rassettammo la cucina mentre Sarah guardava la televisione e Nicole rincasò ore prima di Lori.
   Io ero seduta al tavolo della sala da pranzo e stavo finendo una delle tante ricerche che avrei dovuto inviare a Ottawa. Si trattava semplicemente di un controllo prima che fosse inoltrata a una delle mie assistenti, ma era un lavoro che mi stava snervando, perché c’erano passaggi chiave che non tornavano e avevo il brutto sospetto di averne impostato male una buona parte. Per questo, non udii assolutamente l’arrivo di Lori, né Nicole e Stephen che la richiamavano per sapere cosa fosse successo. Fu solo quando il telefono di casa squillò, che mi ricordai dove fossi e guardai intorno.
   Vidi Stephen attraversare l’ingresso con il cordless in mano, per poi dirigersi al piano di sopra. Chiamò sua figlia a voce alta e io rimasi interdetta.
   «Quando è arrivata Lori?», domandai, avvicinandomi alla base delle scale. Nicole era ferma e guardava in alto con aria preoccupata.
   «Un momento fa», rispose, senza voltarsi. «Con chi sta parlando al telefono?»
   Sul momento pensai se lo stesse domandando tra sé e sé, poi notai che mi stava fissando, in attesa. Aggrottai le sopracciglia, gettando un’occhiata al soffitto. Certamente avrei potuto risponderle. Sentivo la voce di Lori e, se mi fossi concentrata un altro po’, avrei udito anche quella dell’interlocutore. Tuttavia, ricordavo anche i primi tempi e come la mia capacità di sapere tutto degli affari degli altri fosse stata messa al bando.
   «Ehm…», esitai. «Non so se sia il caso. Sai: la privacy».
   «È Declan». La voce di Stephen ci raggiunse molto prima che lui stesso scendesse le scale, liberandomi dal momento d’imbarazzo. «Sembrava alterato. Dice che non risponde al telefono e aveva bisogno urgente di parlarle».
   «Per cosa?»
   Alzò le spalle. «Non ho sentito, Nicole, ma sai che non si vedono da tanto; non deve essere facile, per loro».
   Proprio quel che avevo detto a Lori quella mattina, ma lei aveva negato tutto, dicendo che le cose andavano a gonfie vele. Che stesse mentendo, se suo padre invece rimarcava la difficile situazione sentimentale? A giudicare dai toni accesi con cui Lori in quel momento si stava rivolgendo a Declan, era probabile che avesse omesso molte cose, con me.
   Entrambi si voltarono verso di me. Scossi la testa. «Non mi metterò in mezzo». Mi voltai e ritornai in salotto. Mi seguirono da vicino.
   «Magari sanno qualcosa su Kyle», disse Nicole. «Magari Declan le sta parlando di…».
   «Non credo», dissi. «L’anonimato è la loro carta migliore, ora come ora. Col rischio che lei venga a dirlo a voi? Che qualcuno vi rintracci e ve lo estorca? Nessuno parlerà con voi, per ora».
   «Ma tu lo sai!»
   Di nuovo Nicole e quella frase.
   «Se qualcuno obbligasse te a parlare?», continuò. «Magari usando Sarah come…».
   «Tieni a freno quella lingua!» Le parole mi erano uscite velenose. Si bloccò e sospirò, arricciando le labbra. Era evidente che il non sapere non piaceva ai Trager; che Nicole considerasse un insulto, il fatto che io sapessi e loro no.
   Non potevo farci proprio niente. Non avevo obbligato Foss a rivelarmelo.
   Sospirai, dando loro le spalle. Certo che avevo preso in considerazione l’eventualità che potesse essere danneggiata. Era il motivo per cui quattro anni prima avevo deciso che se ne sarebbe andata. Ora era ritornata contro il mio volere ed io non avrei voluto volerla.
 
   Quando raggiunsi la sua stanza, Lori era stesa sul letto. Mi dava la schiena e, come di consueto, entrai senza permesso.
   «Tua madre mi sta assillando. Vuole che le dica di che cosa hai parlato al telefono col tuo ragazzo».
   «Dille pure che se non tornerà entro una settimana potrà iniziare a chiamarlo ex». La voce di Lori si mantenne tediosa, esattamente come in passato quando era rassegnata.
   «Addirittura», mormorai. Ero rimasta ferma a pochi centimetri dalla soglia.
   «Dal tono sembri molto interessata». Si girò verso di me. Notai che aveva una rivista in mano e dei dolcetti posati sul letto.
   «A me interessa solo che tua madre la pianti di rompere. Stai facendo briciole appiccicose sulla coperta, Lori», aggiunsi.
   «Sei diventata la nuova governante? Non sapevo».
   «Nemmeno questo m’interessa. Era solo per…».
   «Avere qualcosa da criticare», concluse lei. Alzò la testa in alto e la lasciò penzolare all’indietro. «Non è così?»
   «No». Alzai le sopracciglia e scossi il capo, le mani sui fianchi. «No, non volevo criticare proprio nessuno. Solo che…», non terminai la frase, ma la voce si spense e lasciai cadere il discorso. «Tieni tua madre impegnata, possibilmente dall’altra parte della casa».
   Mi voltai e scesi le scale senza aspettare una sua risposta. Io non mi divertivo a criticare. Forse solo un poco a fare notare che, mentre tutti erano intenti a farcire il mio carattere con aggettivi orrendi, loro stessi non si potevano certo definire santi.
   «Mamma! Mamma!»
   Mentre stavo scendendo gli ultimi scalini, Sarah apparve alla fine della rampa con il cellulare in mano. Corrugai le sopracciglia e le feci un cenno. Lei mi mostrò il display, dove lessi il nome di Kyle. Allora allungai una mano credendo mi stesse cercando, invece allontanò il telefono tenendolo saldamente con due mani.
    «No!», disse, con lo stesso tono di voce col quale aveva chiamato. Alto e cristallino. Eccitato. «Vuole parlare con me». Tornò in camera trotterellando, lasciandomi con un piede ancora sull’ultimo gradino e un’espressione interdetta. Cercai di resistere all’impulso di seguirla, ci provai sul serio, perché volevo che il loro rapporto fosse molto semplice, senza alcuna interferenza da parte mia. Tuttavia, mi resi conto che la bimba aveva solo quattro anni, e lui non aveva ancora sostenuto una conversazione con lei; certo non sarebbe potuto andare tutto liscio, soprattutto se il loro rapporto fosse iniziato tramite un telefono. Mi appostai fuori dalla porta, sedetti e prestai attenzione.
   Di caratteri affini, curiosi e gentili, padre e figlia parlarono per venti minuti buoni. Sarah rideva, e parve intenzionata a proseguire ancora, se Kyle non le avesse fatto notare che erano al telefono da tanto. «Papà deve andare», le disse. «Ci sentiamo più tardi, va bene? Mi passi la mamma, adesso?»
   Sentii i passetti veloci di Sarah, che apparve nel corridoio proprio mentre io sgusciavo in cucina. Feci in tempo ad aprire il frigo, fingendo di stare cercando qualcosa, quando sentii la sua presenza accanto a me.
   «Ciao. Dimmi».
   Sorrise e mi porse il telefono.
   «Sì?»
   «Io. Non sapevo avessimo una figlia così spigliata nella lingua inglese».
   «Hai una figlia che è stata istruita dalle discendenti delle allieve più rigide della Montessori».
   «Allora, la prossima volta che senti Taylor, digli di chiamarmi».
   «Perché? Cosa non ti va bene, adesso?»
   «Taylor», rispose in tono ovvio.
   «Perché?», sorrisi. «È una scelta che avrei fatto anch’io».
   «Davvero?»
   «Ne sei sorpreso? Eppure è un’ottima scuola, e le potenzialità dei bambini sono incoraggiate al massimo». Feci una pausa, continuando a gironzolare per la cucina con il telefono attaccato all’orecchio. Non potei mettere a tacere la sensazione che quei due se la intendessero senza bisogno di me… «Sarah è stata contenta, di parlati», continuai. «Suppongo si sia innamorata di te dalla prima volta che ti ha visto».
   «A questo proposito: non ti dispiacerebbe se chiamassi più spesso? Se chiamassi lei, cioè».
   «No. No, certo che no! Perché dovrebbe?»
   «Béh, me l’hai nascosta per anni. Potrei pensare che sia perché non vuoi che abbia contatti con me».
   Sospirai. «Me lo rinfaccerai per l’eternità?»
   «Sì».
   «Perfetto!»
   «A me pare il minimo», disse. «Ho lasciato correre perché finalmente pare ti sia assunta le tue responsabilità, ma non credere che la cosa sia finita qui o che non mi abbia infastidito».
   «Infastidito è anche dire poco, vero?»
   «Già».
   Sospirai di nuovo. «Che cosa vuoi che ti dica? Mi sono già scusata, ma pare non basti. Lo sai perché l’ho fatto».
   «La motivazione non giustifica il gesto».
   Sembrava irremovibile. Avevo sperato veramente che la cosa fosse stata archiviata. Mi rendevo conto che non era facile, per lui, ma era in Svezia tutto solo, sereno e senza pensieri. La sua vita non era cambiata granché.
   Invece, era irriconoscibile la mia situazione.
   «Io mi sto facendo carico di nostra figlia», dissi. «Te l’avrò anche tenuta nascosta, ma ciò non significa che io me ne sia disinteressata in questi anni. Tu, invece, adesso, che cosa farai? Resterai là in Svezia così che la prossima volta in cui la vedrai si starà diplomando?»
   «Ti ho appena chiesto il permesso di poterla sentire più spesso», rimbeccò. «Sto pensando di tornare a casa, almeno per un po’. Solo, non voglio rischiare di metterli in pericolo. Sarei troppo facile da trovare».
   Non avevo aggiornato Kyle sul fatto che alcuni Latnok avessero rintracciato la mia posizione in Canada. Credeva che fossero lontani, ma io sapevo che non lo erano poi tanto. La sua riflessione non era così errata.
   «Forse non penseranno mai che ti sia rifugiato in un posto ovvio come casa tua, no?»
   «O forse è il primo posto in cui controllerebbero, se mai sapessero dei miei spostamenti».
   «Touché», mormorai. «Quindi cosa pensi di fare?»
   «Costruire una falsa pista da diffondere. I Latnok seguiranno quella».
   «E come?»
   Fui sorpresa della sua risposta. Bugie come quelle avevano vita breve, soprattutto se riguardanti un personaggio come lui, che era riuscito a lasciare il segno in pochi anni e al cui semplice accenno popoli e comunità si abbandonavano a sospiri sollevati.
   «Ci sto lavorando», rispose. «È per questo che non sono venuto a Seattle. Qui in Svezia sono tranquillo. Ho amici riservati e gentili».
   «Quando avrai deciso, se hai bisogno, dimmelo».
   «D’accordo».
   «Come sta Declan?»
   Rise. «E Lori?»
   «Sai che è successo?»
   «Perché, tu no?»
   «Ovvio che sì, anche se non so da cosa sia partito tutto».
   «Davvero? Perché pare che si chiami Jessi».
   Mi morsi un labbro. Forse ciò che avevo detto aveva turbato Lori più di quanto avesse lasciato intendere; poteva anche darsi fosse meglio ritornare nel mio angolino, perché la gente con le forche non fosse invogliata a inseguirmi.
   «Le persone devono sempre dare la colpa a qualcun altro».
   «E tu ne sai qualcosa, no?»
   Il perdono non mi sarebbe mai stato concesso…
   «Cosa pretendi di saperne? Tu eri partito da mesi».
   «Nicole…».
   «Se ascolti solo una versione, di sicuro non avrai una visione oggettiva, ma probabilmente non t’interessa nemmeno. Avresti creduto a lei in ogni caso».
   «È mia madre».
   Tacqui. A quel commento non seppi cosa replicare. Avrei dubitato anche io delle parole del mio ex, se mia madre avesse detto che l’aveva offesa.
   «Puoi chiamare quando vuoi», conclusi. «C’è altro?»
   «No. Ci sentiamo».
   «A presto».
   Poggiando il telefono sul ripiano della cucina, mi sorpresi a pensare con nostalgia alla mia vita da rinnegata. L’eremita che ero stata non sarebbe mai riuscita ad abituarsi a tutte quelle telefonate; non avrebbe mai accettato di vivere ancora con loro, quando aveva raggiunto picchi di malignità mai visti solo per poter fuggire. Il senso del dovere era stato prorompente.
   Accusavo gli altri di accentrare la loro vita sul percorso di un uomo solo, ma in quel momento non mi stavo comportando diversamente.
   Avrei dovuto prendere in mano la mia esistenza, indipendentemente dal mio compito; finito quello, non mi sarebbe rimasto altro, e ciò sarebbe stato terrificante.
   Non dovevo dimenticare chi fossi. Non potevo.  

 

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Capitolo 13
*** Dividersi tra ***


Dopo la seconda morte
13 - Dividersi tra

                                                                                                                                                                                                                                                                                   Per la sorellina dagli occhi come fari.

   Se Lori avesse recepito la mia richiesta d’aiuto, non lo diede mai a intendere, e probabilmente si divertì a vedermi in difficoltà.
  Nicole aveva preso l’abitudine di ronzarmi sempre intorno, quando mi trovavo intrappolata in casa. Con una scusa o con l’altra, faceva in modo di avere sempre il mio telefonino accanto a sé. Pensava non ci facessi caso, e sperava di poter intercettare Kyle per obbligarlo a confessare, ma mi trovai costretta a lasciarlo nella camera o ad appiccicarmelo addosso. Rabbrividivo al solo pensiero di quel che sarebbe accaduto se avesse risposto e si fosse ritrovata a parlare con Tom Foss.
   Ancora con le mani in mano, senza notizie da parte dell’università, mi ritrovavo con distese d’ore vuote che non sapevo come occupare. Avevo fatto in modo di poter intercettare i loro telefoni, stilato una lista dei posti che frequentavano più spesso e in quelli in cui sarebbe apparso strano se si fossero recati, perlustrato le zone limitrofe il quartiere e iniziato spontaneamente ad occuparmi dei pasti. La vita in quella casa stava assumendo una routine quasi rilassante, cui stavo ormai per arrendermi. Giorno dopo giorno mi ripetevo che si trattava di una cosa temporanea, che presto avrei potuto tornare alla mia vita, che possedevo ancora una vita, ma le mie vecchie conoscenze, il mio impiego e il francese, che ormai non usavo più, mancavano come l’aria nei polmoni. Per cercare di non smarrirmi, tenni aperti i contatti con la mia vecchia facoltà, continuando a inviare suggerimenti e consigli a chi al posto mio si occupava delle lezioni di biologia.
   Quattro giorni dopo il mio arrivo, Nicole tornò per pranzo. Avevo sempre compagnia, perché Stephen aveva molti pomeriggi liberi, Nicole il venerdì e Lori il weekend, ma io ero arrivata in città di giovedì, per cui lei era totalmente inattesa.
   Entrò in casa tranquilla e rilassata. La sentii armeggiare nell’ingresso e chiamare mia figlia a voce alta, e fu solo allora che mi fermai. Avevo creduto fosse Lori, non sua madre.
   Sarah era in sala da pranzo; aveva sparpagliato molti fogli sul tavolo e con i pastelli a cera tracciava un disegno che debordava dalla singola pagina. Saltellò sino a me, impegnata a sbucciare carote in cucina. «È tornata Nicole». Sembrava contenta.
   «È lei?», domandai, confusa.
   Fece cenno di sì proprio mentre la padrona di casa appariva alle mie spalle e si avvicinava. «Che cosa fai? Uh! Brodo? Ti do una mano?»
  Annuii, spostandomi alla sua destra. Il mio telefono era abbandonato sul ripiano, distante da noi ma non troppo. Mentre stava mettendo a bollire l’acqua e le verdure e io ripulivo la cucina, squillò. A quanto pare i mesi in cui non aveva potuto vedere suo figlio, avevano reso Nicole maleducata. Talmente tanto da farle afferrare il telefono ancor prima che potessi alzare gli occhi.
   «Scusa?»
   Tesi la mano, pensando che me l’avrebbe ridato subito, invece lo allontanò e lesse attentamente il messaggio. Poi lo ripeté ad alta voce, in tono interrogativo, prima di alzare lo sguardo e fissarmi.
   «Devi controllare le condizioni del magazzino per me
   Trattenni il respiro, finché mi resi conto che mi stava guardando perché non capiva il senso della frase, e non ci riusciva perché non era nemmeno firmata. Sgusciai alle sue spalle. Il numero era sconosciuto, il mittente no, e Nicole proseguì a studiarmi.
   Mi finsi confusa, prendendo finalmente possesso del telefono. «Non ho idea di chi possa essere».
   «C’è un numero. Perché non chiami?»
   Rimasi a osservarla, lo sguardo corrucciato. Era perfettamente a suo agio, come se non si rendesse conto che si stava impicciando nei miei affari.
   «Non è Kyle, e non so chi sia; non ti devo altre spiegazioni, e sinceramente mi sto stancando del tuo atteggiamento».
   «Casa mia, regole mie. Mi pareva che avessimo già affrontato questo discorso, anche se in quell’occasione di dimostrasti niente di meno che maleducata».
   «Potrei dire la stessa cosa di te, ora. Non ho altro posto in cui andare. Non posso andarmene».
   «Perché sei venuta?», domandò improvvisamente. Non me l’avevano mai chiesto. Sapevano dei Latnok e delle domande che avevano iniziato a fare, dell’interesse che pareva risvegliatosi, ma non della visita in Canada, né dei problemi di Kyle e della minaccia che quegli scienziati stavano diventando.
   «No, la domanda che vorresti farmi è: quando te ne andrai?»
   «Non è…».
   Non le lasciai il tempo per continuare. Mi diressi a passo pesante verso la mia stanza, iniziando a riempire un borsone con le prime cose che mi capitavano a tiro. Non avrei dovuto venire. Non volevo venire. Settimane prima mi ero ripetuta che lo stavo facendo per Kyle, che non avrei dovuto lasciarmi coinvolgere di nuovo; sarei potuta andarmene e continuare a vivere separata da quell’intrico di rifiuti e delusioni.
   Stavo mentendo a me stessa. Niente di tutto ciò sarebbe stato possibile, perché ora la responsabilità di quella famiglia era mia. Mi fermai con una maglia spiegazzata in mano, che lasciai cadere sul letto. Non posso abbandonarli. Chiusi gli occhi, poggiando le mani sul materasso e prendendo un grosso respiro. Cercavo di calmarmi, per poter vedere le cose sotto una luce diversa: quella della necessità. Che doveva pervadere ogni sentimento.
   Dovevo prendere aria. Mi avrebbe aiutato a calmarmi.
   «Sarah!» Mi affacciai nel salotto. Era ancora tutta presa dai suoi disegni. «C’è Nicole in casa, se hai bisogno. Io esco un attimo».
   Il magazzino. Foss. Ecco cosa mi avrebbe distratto. Arrivarci a piedi, sarebbe stato fuori discussione, in un giorno normale nel quale ero tutto fuorché arrabbiata. Ora l’ira mi diede energia, e non ci misi più di venti minuti. Cosa avrei dovuto controllare? Che fosse vivibile? Che non fosse diventato casa per tossici o ratti?
   L’edificio era ancora lì. C’ero entrata una sola volta, quando, riuniti tutti in cerca della soluzione definitiva che avrebbe salvato Kyle, avevamo preferito quel luogo isolato rispetto a casa Trager, per poterne discutere senza interruzioni, al riparo dalle orecchie della signora Bloom e della figlia, impicciona e preoccupata dalla lunga assenza dell’ex. Non l’avevo esplorato molto, allora; vidi solo la stanza principale, il grande salone dalle pareti grigie che conteneva ancora le basi d’allenamento, quelle che Kyle non usava più da tempo. Mi guardai intorno interessata, ispezionando l’intero complesso. Vi era una parte in rialzo, cui si accedeva tramite le scale. A quanto pareva, non l’aveva mai usata, mentre invece il pianterreno era molto ampio, con una sezione esterna e una più interna, nella quale sembrava averci passato giorni. C’era ancora il letto, il piano di lavoro e un fornellino a gas; come avesse fatto a non morire di freddo, era un mistero.
   Il telefono squillò di nuovo. Era lui, che mi chiamava.
   «Erano belle le notti in cui ti chiedevi se avessi ancora tutte le dita dei piedi?»
   «Usavo molte coperte, se proprio t’interessa».
   «Dovresti comprarti una stufa».
   «Sei freddolosa?»
   Restai in silenzio. Poi capii di nuovo ciò che evitava di esplicitare. «Sarai anche molto timido, ma ogni cosa che ti gira per la testa me la stai dicendo. La nascondi, ma la dici».
   «Tu la capisci senza bisogno che te la spieghi. La cosa è differente».
   «Se fossi qualcuno di meno sveglio, ti riterrei un timido sgarbato».
   «Sono felce che tu sia molto sveglia, allora».
   «Questo non vuol dire che non sembri un uomo sgarbato».
   «Anche tu lo sembri».
   «Un uomo?»
   «Sgarbata. Come sta il magazzino?»
   «Qualcuno gli ha dato fuoco. Dovrai trovarti un altro posto in cui dormire».
   «Certo. Ad esempio?»
   «Un posto con il riscaldamento».
   «Ho capito l’antifona. Comprerò una stufa. E più coperte. Tante, tantissime coperte».
   «Di pile, di quelle morbide».
   «Ricevuto».
   Risi. «Com’è Lione?»
   «Sempre la stessa. Come stanno i Trager?»
   «Ancora più paranoici. Nicole ha letto il tuo messaggio».
   «Mi dispiace», si affrettò a scusarsi, con un tono che passò dal colloquiale al preoccupato. «Forse non avrei dovuto scriverti. La prossima volta mi limiterò a chiamarti. Almeno sarò certo che mi risponderai proprio tu».
   «Oh, sì, è proprio stata colpa tua. Avresti dovuto scrivermi in aramaico». Sospirai. «È lei che è una ficcanaso stupida e ansiosa. Non ha capito nulla, comunque, stai sereno. Le ho detto che avevano sbagliato destinatario. D’ora in poi terrò il cellulare nel reggiseno, voglio proprio vedere se così me lo ruberà». Feci un attimo di pausa, per dirigermi di nuovo verso l’esterno e incamminarmi per tornare verso casa Trager. «Comunque hai fatto bene, a non essere più chiaro di così. O avrebbe certamente preteso spiegazioni che tu avresti insistito che non dessi».
   «In realtà ho pensato che più sintetico sarei stato, minori erano le probabilità che sbandassi per la strada».
   «Sei in macchina?»
   «No, cammino e rischio di sbandare scrivendo un messaggio».
   «Bé, avresti potuto essere in nave, in jet, in autobus o persino in treno. Stai arrivando qui in macchina? Dalla Francia?»
   «Sì, ho attraversato l’Atlantico a nuoto. Dall’aeroporto di Seattle».
   «Oh». Oh! Cosa?
   Mi aveva chiesto di condividere il letto poco prima di rivederci. Erano in programma lunghi momenti d’imbarazzo da parte sua.
   «Rimani lì. Almeno che tu non abbia altro da fare».
   Mi fermai nel bel mezzo del marciapiede. Avevo attraversato solo un isolato; ero vicinissima. Quel giorno avrei avuto da fare? No, in effetti no. Era ora di pranzo, e Nicole si sarebbe potuta occupare di Sarah per qualche ora. Non ci sarebbe stato nulla di strano, se fossi rimasta fuori più del solito. Ero uscita adirata. Tornare nel giro di un’ora on mi avrebbe fatto sbollire.
   «Per quanto?»
   «Cinque minuti».
   «Va bene».
   Tempo che passò all’insegna dello scandire dei miei passi. Feci su e giù dalla scala molte volte, contando ogni singolo chiodo e tutti i gradini. Ero irrequieta, e non era mai capitato. Degli altri mi importava quel tanto che bastava da non trattarli eccessivamente male. Così non era stato con Kyle, l’unico periodo in cui ero stata per lui qualcosa più di me stessa, o con mia figlia.
   Ora era diverso: Kyle era stato il mio mondo per così tanto tempo, e da prima che mi riscoprissi adulta, che lasciare entrare altri mi pareva strano. Ma la voce di Foss si era fatta largo nel mio cervello, anno dopo anno, ed era stato impossibile rifiutarla.
   L’auto rumorosa non si fermò all’esterno, ma entrò. Ero dall’altra parte dell’edificio, tuttavia udii perfettamente lo sportello sbattere. Così mi alzai e lo raggiunsi, fermandomi a qualche metro di distanza, intenta a osservarlo mentre dal retro del furgone stava raccogliendo qualcosa. Ne riemerse con una scatola, chiuse gli sportelli e poi si fermò: mi aveva notata, immobile e illuminata dalla luce.
   «Scusa», dissi, lo sguardo puntato sulle braccia cariche. «Ti ho spaventato?»
   Mi guardava in silenzio, per cui mossi il viso per capire quale fosse il problema, e lo vidi fissarmi le gambe nude. Così andai verso di lui, nella speranza di indurlo a spostare gli occhi. «Ti do una mano?»
   Si riscosse. Sapeva d’esser stato scoperto; non incrociò il mio sguardo ma tornò indietro, riaprendo il retro del furgone. «Ho ancora un po’ di roba, mi saresti di aiuto».
   Mi avvicinai, affiancandolo e scoprendo il retro invaso da ogni tipo di oggetti.
   «Non dirimi che hai dormito anche qui dentro», mormorai.
   «Può darsi».
   «Comodo?»
   «Sì», sorrise. «Ho riposato in posti peggiori».
   Scaricammo e svuotammo, per poi depositare nella stanza interna, quella che necessitava di una stufa.
   Mi scoprii intenta a studiarlo più volte, quando invece mi si richiedeva di chiudere scatoloni e imballare vestiti. Mi sentii osservata tutto il tempo, ma il più delle volte non me ne era importato. Tutti gli uomini che avevo avuto, tutte le sere passate con qualcuno, non avevano lasciato niente, tranne l’ultima. Le mie gambe tremanti, le bugie che uscivano più facili, le sue mani; tutto apparteneva a una duna rialzata, che non coincideva con la mia vita quotidiana. Era fuori, fuori dalla mia realtà. Irreale.
   «Adesso chi è che s’incanta?»
   La sua voce mi riportò al presente, e non ebbi bisogno di cercare il suo volto, perché mi accorsi con enorme disagio di osservarlo, probabilmente da più di due minuti.
   Guardai altrove, rossa di vergogna e irritata: l’imbarazzo non era per me; ero quella schietta, menefreghista, sincera.
   Piegai l’ultimo scatolone e lo poggiai sopra gli altri, in bilico vicino all’uscita, per poi passarmi una mano fra i capelli e voltarmi. L’avevo già sentito: il suo respiro mi solleticò la nuca ancor prima di vederlo. Mi toccò il viso con entrambe le mani: qualsiasi cosa fosse, l’energia tra noi, per la prima volta partì da lui.
   Mi tenne il volto sollevato, mi guardò e poi mi baciò. Perché lo fece, così tranquillamente come fossimo insieme da secoli, ancora oggi mi sfugge; ma le sue labbra mi misero in allarme, le gambe di nuovo si sciolsero e mi ritrovai appoggiata al muro con la schiena: le ginocchia non mi avrebbero tenuto in piedi.
   Non avevo certo fretta di interrompere il contatto, finché lui sembra gradirlo, ma il mio telefono squillò. Voltai il viso, solo per scoprire che a casa Trager qualcuno mi stava cercando.
   «Sì?»
   «Dove sei?», domandò Stephen. «Noi saremmo pronti per mangiare».
   «Iniziate. Io sono bloccata nel traffico».
   «D’accordo. Ti teniamo qualcosa in caldo».
   «Grazie».
   «A dopo».
   Riposto il telefono nella tasca posteriore, mi sarei aspettata che si fosse allontanato. Invece, era rimasto di fronte a me, il corpo totalmente appoggiato al mio. Non sfuggì al mio sguardo.
   «Hai voglia di parlare, allora?», domandai. «O preferisci fare altro?»
   Sorrise. «Mi sa che vince l’altro».
   «Lo immaginavo».
 
   «Domandina», mormorai, acciambellata sotto le coperte e per nulla desiderosa di muovermi. «Hai attraversato tutta l’Europa con questo chiodo fisso in testa?»
   Non mi rispose subito. Notai il suo sguardo che vagava per la stanza, sinché non si posò su di me. Sorrise. «Perché?»
   «Non hai aspettato tanto».
   «E tu mi hai provocato».
   Accennò con la testa ai miei vestiti, per terra da qualche parte.
   Risi. «E tu cedi così facilmente?»
   «Non l’avrei mai detto, ma a quanto pare davanti alle tue gambe sì».
   Continuai a ridere, rotolando sulla schiena per poterlo guardare in viso. Il letto era stretto, allora era ancora una branda, per cui non dovetti muovermi più di tanto. Abbracciai l’unico cuscino, poggiai il mento sulle braccia e sospirai; avevo finto d’essere infastidita e scomoda, in quello spazio esiguo, ma in realtà avere il mio corpo contro il suo, permetteva al calore di non disperdersi e, a dirla tutta, alla mia eccitazione di non spegnersi. Mi carezzò una guancia, di nuovo le sue mani sul mio viso, e subito dopo mi baciò, in una specie di sequenza armonica che non si sarebbe mai più interrotta.
   «Un’altra domandina», mormorai, le mie labbra vicinissime alle sue. «Hai fame?»
   «No». Un altro bacio. «Ho già mangiato, però ti accompagno».
   «A mangiare?»
   «A casa».
   Aggrottai le sopracciglia. «Non voglio andarmene».
   «Non puoi rimanere, invece».
   Sobbalzai; non potei trattenermi. Sollevai il viso per allontanarmi. La sua mano scivolò e si poggiò con leggerezza sul materasso.
   «D’accordo». Mi alzai a sedere, dandogli la schiena, e i brividi m’invasero subito; stavo per alzarmi in piedi, quando la sua mano sulla spalla mi fermò.
   «E invece non siamo d’accordo per niente, perché tu hai capito male. Non voglio mandarti via. Certo che no, ma guarda l’orologio».
   «Non è tardi», dissi.
   «È l’orario giusto per rientrare, invece. Io devo sistemare delle cose, in ogni caso. Ti chiamo stasera».
 
   Kyle mi prometteva di chiamare. Seduta in veranda, fissavo le fronde degli alberi smosse dal vento, una tazza di succo abbandonata per terra. E il cellulare, il telefono attaccato addosso, nel reggiseno, silenzioso.
   Quando la cosa si era trasformata? A Lione, mi era parso distaccato, divertito, mentre ora prometteva appuntamenti, dava regole, stilava orari. Orari. Tecnicamente, circoscriveva pezzi di giornate, non certo momenti.
   Vibrò, e ancora prima che iniziasse a fare rumore l’avevo portato all’orecchio. Ero irritata, così tirai corto. «Tu mi hai chiesto di aspettarti, se ben ricordo», attaccai. «E dopo poco, mi chiedi di andarmene. Capisci, vero, che la cosa non è logica?»
   «Altro che mezza Europa», disse, dopo un istante di silenzio. «Tu sì che ci hai pensato tutto il giorno».
   «Se mi hai chiesto di rimanere solo per toglierti una voglia… Bé, ecco, potrei anche non lamentarmi come penseresti, basta che tu me lo dica sinceramente».
   Rise, ma di una ilarità amara che non compresi. «Non ti lamenteresti? Davvero? Non dopo quello di cui dovremmo parlare?»
   «Posso decidere di non provare sentimenti».
   Come mi fosse venuta, non lo capii. Restò in silenzio, quasi volesse rimarcare l’assurdità della frase.
   «Come?», chiese. «Sai quante persone sarebbero disposte a pagare, pur di apprendere i tuoi trucchi?»
   Mi stava chiaramente prendendo in giro. E io stavo ingannando me stessa. Consapevolmente.
   Dovevo defilarmi, e presto, trovando una scusa che l’avrebbe distratto.
   «I Latnok», dissi. «Dovremmo parlarne. Presto sapranno che sono qui».
   «Jessi…».
   «Per favore», mormorai. «Non questa sera». Mai.
   Sospirò. «Posso fare in modo di rintracciarne i telefoni».
   «Questo l’ho già fatto. Soluzioni a lungo termine?»
   «Aspettare».
   «Questa non è una soluzione».
   «Almeno sappiamo chi dobbiamo aspettarci».
   «Si può sapere cosa vogliono?»
   Tacque. «Tuo padre non te l’ha detto?»
   «E quando avrebbe potuto? Se l’è data a gambe».
   «Ti ha chiamato».
   «No, ha parlato con Sarah».
   «E loro hanno parlato con te».
   «Non ero nella posizione giusta per pretendere informazioni», dissi. «Tu lo sai, però».
   «Cosa te lo fa credere?»
   «Stai evitando di rispondermi».
   Rise. «Come tu eviti di parlare di quello che non ti piace».
   Sbuffai. «Ma questo non ha niente a che fare con me. La famiglia è a rischio. Kyle mi ha chiesto…».
   «Kyle non sa che sono così vicini a te, no?»
   «No, certo che no!»
   «Bene, allora lascialo fuori dai discorsi, dato che è tranquillo in Europa lontano da questo clima assurdo».
   «Tornerà, però».
   «Dopo la falsa pista. Il che significa che lo cercheranno altrove».
   «Sì, ma…».
   «Jessi». Stephen si era affacciato in veranda e mi fissava dubbioso. «Posso parlarti? Nicole ha detto…».
   «Che abbiamo discusso», completai. «Sì, e allora? Ha cominciato lei».
   Mi fissò inarcando le sopracciglia.
   «Quanti anni hai, Jessi?» Questo era Foss, che sussurrava e ridacchiava.
   «Possiamo parlare? Ti avevo chiesto d’esser comprensiva».
   «E lo sono stata, finché non mi ha rubato il cellulare».
   «Accidenti!» Foss sembrava sarcastico. «Che dispettosa!»
   «E ha letto anche il messaggio», aggiunsi.
   «Oh», disse al telefono. «Quello».
   «Ah», mormorò Stephen. «Sperava che Kyle…».
   «Ve l’ho già detto: non mi direbbe nulla di utile. Al massimo chiederebbe notizie su sua figlia».
   «La prossima volta…».
   «Le ho risposto con calma. La prossima volta, sarò maleducata sin da subito».
 
   Soli nel suo furgone, soli nella mia auto, soli nella mia casa. Soli e silenziosi, percorrevamo le vie della città col tachimetro che non superava i cinquanta. Forse voleva dimostrarmi che non aveva fretta di liberarsi di me, e tuttavia la sensazione mi era rimasta addosso per più tempo del previsto, ancor prima che mi baciasse per l’ultima volta, subito dopo aver ottenuto da me l’assenso e la promessa che sarei rincasata dai Trager.
   Perché fosse il momento buono per tornare, non me l’aveva rivelato, ma mi aveva baciato e rimarcato che si sarebbe fatto vivo. E così avevo pranzato con la mente totalmente altrove, vissuto il pomeriggio fra il telefonino e mia figlia, ed evitato la cena per rifugiarmi fuori, all’aria aperta, dopo che Nicole aveva evitato me.
 
   Nei giorni successivi riuscii a distrarlo evitando di indossare per molto tempo i vestiti, e non parlammo più dei nostri argomenti più scomodi. Sapevo che non se ne era dimenticato, ed ero anche convinta che la mia richiesta fosse più urgente della sua. Se conosceva il motivo per cui stavano di nuovo minacciando Kyle, avrebbe dovuto farmelo sapere, ma sembrava che avesse una particolare predilezione per riuscire a chiudermi la bocca non appena cercavo di affrontare l’argomento.
   Così passarono le settimane, proficue e divertenti, mentre dividevo il mio tempo fra l’impegno di babysitteraggio e l’impegno Foss. In una mattinata particolarmente uggiosa, gli squillò il telefono. Dormiva, il viso premuto contro il mio collo, ma si svegliò di soprassalto come fosse stato colpito in testa da qualcosa di duro, quando io nemmeno mi ero mossa.
   «Kyle?», domandai, perché era rimasto immobile a fissare il display e sinceramente avrei preferito che ritornasse sotto le coperte.
   «No. Sua sorella».
   «Chi?»
 
 
  
 

 

 

 

 

 

Almeno ho aggiornato prima del 2014, e prima di Natale. Quest’anno ci sono riuscita! ^^
Da più capitoli siamo più o meno nella stessa settimana di narrazione. Me ne rendo conto, non mi sono dimenticata di dover sbloccare la situazione! E ci sono tante cose che i personaggi non si dicono fra loro, lo so, e apparentemente lo fanno senza motivo, ma appunto: apparentemente!
Ne approfitto per augurarvi Buone Feste!

 

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Capitolo 14
*** Verso Vancouver? ***


Dopo la seconda morte
14 - Verso Vancouver?

                                                                                                                                                                                                                                                                                   Per i cambiamenti.

   «E perché avresti il suo numero?»
   «Shhh», mi zittì, per poi portare il telefono all’orecchio. «Pronto?»
  La conversazione non durò granché, visto che l’oggetto principale era la posizione geografica del suo ragazzo e di suo fratello. Ovviamente, non gli disse nulla, ma spese troppo tempo a sottolineare il fatto di trovarsi in Francia e di non avere la possibilità di sincerarsi delle loro condizioni; tuttavia lei non avrebbe dovuto preoccuparsi affatto. «Declan è bravo, nel suo lavoro. Si fidi».
   Dopo i convenevoli e un sorriso imbarazzato, riattaccò e sospirò di sollievo per poi ributtare il telefono sul pavimento.
   «Perché le dai del lei?*»
   «Si chiama rispetto per persone estranee, Jessi».
   «E perché sapevi chi fosse prima di rispondere?»
   «Memoria fotografica».
   Alzai le sopracciglia. «Ha chiamato altre volte?»
   «Sì».
   «E quando?»
   «Cinque anni fa».
  Oh. Certo! Allora tutti telefonavamo a tutti senza tante distinzioni fra ciò che fosse appropriato e cosa non fosse imbarazzante.
   «D’accordo», dissi, continuando a riflettere; c’era qualcosa che mi disturbava, nel fatto che lei si fosse adoperata per cercare il suo recapito – forse da Declan, o dal fratello – e che potesse contattarlo. Ora non era più una cosa mia, quell’insieme di numeri e frasi telefoniche. Ora ero dannatamente infantile.
   «Pensi che ti richiamerà presto?»
   «Non saprei. Molto probabilmente, no. Era imbarazzata».
   «Bene. Allora puoi cambiare numero, domani? Ed evitare di distribuirlo troppo in giro?»
   «In giro? Soltanto Declan e Kyle ne sono informati, e Lori probabilmente l’avrà preso da loro».
   Risi, perché mi era appena venuto alla mente un pensiero. «In tutti questi anni di felice convivenza, quando Lori contattava Declan, non le è mai venuto in mente di farsi semplicemente passare Kyle? In questo modo, io non dovrei litigare tutti i giorni per mantenere segrete certe cose con sua madre».
   Scosse la testa. «Tutto quello che so è che si sentono periodicamente».
   «Allora glielo chiedo io». E recuperai il telefono dalla borsa, senza togliermi le coperte di dosso. «Declan, sono Jessi. Sì, sì, ciao, certo. Ascolta, visto che la tua fidanzata sta esasperando gli animi, tu come fai a tenerla buona quando chiama? Sei insieme a Kyle. Come fa a non costringerti a passarglielo?»
   Foss rideva, la testa affondata nel cuscino, con le mani a coprire la bocca per cercare di fare meno rumore possibile.
   «Cosa? Cosa stai dicendo?»
   «Ci convivo, e con sua madre vogliono a tutti i costi avere notizie, e sinceramente o tu le dai l’ordine di piantarla o dico tutto. Qualsiasi cosa purché non mi stressino più».
   «Non puoi! Le parlerò io, ma tu resta zitta».
   «D’accordo. Arrivederci».
   Riattaccai senza aspettare risposta.
   «Svelato il mistero?»
   «No, ma ho collaudato il potere del ricatto».
   Ricacciai la borsa ai piedi della branda, sedendomi con la testa appoggiata alla parete.
   «Quindi i nostri pomeriggi saranno sempre così?», domandò.
   «All’insegna del sesso, dici?»
   «Io mi riferivo al telefonare ad altre donne o ad altri uomini mentre condividiamo il letto, ma anche quello non mi dispiace».
   «Le aziende telefoniche sono in crisi. Noi le stabilizziamo».
   «Le arricchiamo».
   «Quella cosa lì».
   Ormai mi ero persa completamente a causa della sua mano fra le mie gambe, per cui non ero molto presente e parole casuali erano il massimo che ci si potesse aspettare.
 
   La prima ad annunciare il ritorno imminente di Kyle fu Lori, che con i capelli gocciolanti raggiunse la cucina in una mattinata frettolosa. Nicole non c’era, e segretamente rimpiansi la sua assenza, perché toccò a me, ore dopo, renderla partecipe, e Stephen le sorrise tranquillo, per poi rituffare il naso nella tazza. Mia figlia, che stava giocherellando con il latte, senza aver voglia di mangiare, fissò la zia per minuti interi, mentre quella strepitava e tirava fuori dal frigo una quantità insolita di cibo e bevande.
   «Papà ritorna?», domandò infine.
   «Sì! Sei contenta?»
   Mia figlia annuì vivacemente.
   No.
   «Hanno detto quando arriveranno?»
   «Tra qualche giorno, tre, o al massimo quattro». Lori si grattò il mento pensierosa e, da degna figlia di sua madre, continuò: «Potrai veramente cambiare aria, se proprio non ami stare qui».
   Al che il pensiero andò a tutte le parolacce che avrei potuto usare contro il padre di mia figlia per avermi fatto sradicare la mia vita, che mi piaceva e avrei voluto terminasse in Canada, in favore di un luogo come Seattle, del quale apprezzavo solo l’aeroporto. A questo punto, l’opinione negativa che mi ero fatta dell’operato di Declan, andava estesa anche a quello di Kyle: entrambi degli idioti che mi facevano correre per l’intero globo quando era evidente la mia inutilità.
   Avrei tanto voluto tornare a Ottawa, ma mi ero organizzata prevedendo una lunga assenza, ed ora sarei stata comunque costretta a restare, anche se per lo meno non con loro.
   Mentre Nicole quella sera non faceva che festeggiare e cucinare, preparai mentalmente il piano per svignarmela non appena lui fosse arrivato, grata che Declan lo seguisse ovunque, prevedendo come prima tappa la necessità di una casa, o almeno di qualcosa che gli somigliasse. Non avevo bisogno di un grande e lussuoso appartamento, solo di un bagno e un letto, perché la voglia di non vederli, di distanziarmi e ritornare a mangiare gelati alle quattro del mattino o ad avere chi volevo nel mio letto, stava raggiungendo vette preoccupanti.
   Il pomeriggio seguente, quando ne parlammo, per la prima volta scegliemmo una location differente; Foss non mi face entrare ma, sentendomi bussare, uscì con delle chiavi in mano e il furgone ancora dentro.
   «Andiamo a fare un giro», disse. «C’è il sole. Perché rinchiudersi lì dentro?»
   «Perché c’è il letto». Lo seguivo da vicino, ma non degnava di uno sguardo nessuna auto parcheggiata lungo quelle strade. Svoltammo diversi isolati, prima che si fermasse. Si guardò intorno, puntò verso una serranda poco distante e mentre armeggiava con la serratura disse: «Devo parlare con te».
   «Potevamo farlo a letto».
   Dentro quello che si rivelò essere un garage, era parcheggiato il suo vecchio pick-up, rosso e sporco.
   «Non l’hai venduto?», domandai, con un tono che sottintendeva l’ovvietà del gesto.
   «Perché, tu la tua auto l’hai data via?»
   «Bé, la mia è bella», borbottai, mentre accendeva la luce e si accingeva a prendere posto. Lo seguii, chiudendo lo sportello del passeggero. «Dove andiamo?»
   «A cena».
   «Alle quattro di pomeriggio?»
   «Non andiamo dietro l’angolo. Non voglio farmi vedere troppo».
   «Oh, giusto. Tu non sei qui. Dimenticavo».
   Mi scoccò uno sguardo, per poi imboccare l’autostrada che porta a Vancouver.
   «Andiamo così lontano?», domandai, accennando al cartello con la grossa scritta a lettere scure. «In Canada, potrai stare tranquillo, almeno».
   «Usciremo prima», disse. «Fammi solo allontanare un po’ dalla città. Devo allentare i nervi. Sono stufo di uscire solo a tarda sera».
   Eccole, le lamentele. Tuttavia, ricordavo come gli avessi chiesto se ne fosse sicuro, nella nostra ultima telefonata canadese, e il suo assenso.
   «Che cosa dovrei fare, io?», domandai, scocciata; sembrava mi volesse incolpare di qualcosa. «Più che rassicurarti sul fatto che ne puoi parlare volentieri, se tu non vuoi farlo risparmia le recriminazioni».
   «Io mi lamento quanto voglio, se tu ti senti libera di rispondermi così».
   «Mi dà fastidio, invece».
   «Sono problemi tuoi».
   «Anche le tue proteste! Tu scegli di non voler risolvere i problemi confidandoti con Kyle. Questa situazione evidentemente non ti piace, ma non vi poni nemmeno fine. Ti limiti a lamentarti con me, quando ti ho detto chiaramente che non m’importa di cosa pensa Kyle, che niente di quello che faccio lo riguarda. Per cui, cosa posso fare?»
   Mi voltai a fissarlo. Teneva lo sguardo piantato sulla strada, che ci scorreva veloce sotto i piedi. Mi aveva fatto arrabbiare, perché non avrei voluto scoprire cosa in realtà gli passava per la testa. Mi stavo divertendo, il sesso era fantastico e i giorni scorrevano veloci; a me non interessava altro. Poi mi resi conto che, se fosse rimasto infelice, se non il sesso quanto il rapporto ne avrebbe risentito e, per la prima volta da che era arrivato, mi fermai a riflettere sul genere di legame che ci univa.
   «Mi piace trascorrere il mio tempo con te», disse, senza ancora incrociare il mio sguardo. «Lo sai, però…».
   «No, non lo so», lo interruppi. «Non me l’hai mai spiegato. Che cosa di questa storia ti fa vergognare? L’età? Io?»
   «No!»
   Aveva risposto troppo precipitosamente perché non mi sfuggisse. Sospirai, spostando lo sguardo fuori dal finestrino, il sole che abbagliava, a tratti nascosto dalla vegetazione che fiancheggiava quel pezzo d’autostrada.
   «Dove stiamo andando?», chiesi, nel tentativo di indurlo a riportarmi indietro. «Non posso stare via molto. Nicole sa che sono in biblioteca per completare alcuni saggi, non certo fuori dallo Stato».
   «Bothell. È piccola e anonima quanto basta perché nessuno dei tuoi voglia metterci piede, oggi».
   «I parenti sono di Kyle», mormorai. «Il che ci riporta al nodo centrale del discorso: sei un bugiardo».
   «Non ho mai negato niente», disse. Da basso, il tono si alzò improvvisamente. «Tu ti sei costruita nella testa cose che non ho detto, non ho mai parlato di vergogna!»
   «Me l’hai confermato adesso».
   «Davvero? Io ricordo invece di averlo negato».
   «Magari hai mentito!»
   «Forse proprio come hai fatto tu».
   «Quando?», domandai incredula, perché davvero era l’ultima cosa che avevo avuto intenzione di fare, quel pomeriggio.
   «Come posso essere sicuro dei tuoi sentimenti se ogni volta che provo ad affrontare l’argomento tu costruisci non uno, ma ventisette muri tra me e te?»
   «E perché vorresti esserne sicuro? Nessuno di noi due vuole dare retta a questi sentimenti, no?»
   «Non stai negando che ci siano».
   «Non ho mai voluto farlo, infatti», risposi. «Volevo solo evitare di parlarne. C’è una certa differenza».
   Non adesso, per favore. Non adesso.
   «E cosa vorrebbe dire: ‘non dare retta’? Pensi di poterli ignorare? Credi che non mi stia bene vederti ma continui a farlo per il sesso?»
   «Non vuoi dirlo a nessuno».
   «Hai ventiquattro anni!»
   «Questo non ti ha impedito di divertirti, in queste settimane. Perché tiri fuori l’argomento solo quando ti fa comodo? E perché non prima di venire a letto con me, ma sempre dopo
   «Cosa stai insinuando, adesso?»
   «Niente! Ti ho fatto semplicemente una domanda. Smettila di essere così sulla difensiva. Stai parlando con me. Da anni, non faccio che sentire la tua voce mese dopo mese, e ne so riconoscere ogni inclinazione e sbavatura, per cui non pensare di essere così bravo a nascondere le cose».
   Fece per rispondere, ma lo interruppi, perché mi premeva sottolineare un ultimo concetto. «E se temi il giudizio altrui, specialmente di qualcuno con una fibra morale molto forte come è quella di Kyle, questo significa che ti vergogni, ed è inutile che la rigiri. È così. Quello che puoi fare, ora, è dirmi di cosa, ti vergogni. Se hai qualche problema con me, parlamene, e vedremo se si potrà risolvere».
   Mi lanciò una veloce occhiata, che fu probabilmente uno spasmo nervoso del collo, per poi scuotere la testa e svoltare finalmente per una strada provinciale, la cui scritta Bothell Way torreggiava con la promessa di una sosta. Parcheggiò nel primo spiazzo disponibile, ed era già uscito dall’auto ancor prima che mi sganciassi la cintura. Però mi stava aspettando sul marciapiede, notai, quando finalmente scesi.
   «C’era una cosa che volevo farti vedere, ma a questo punto perché non ci sediamo da qualche parte e finiamo questo discorso?»
   Come se fosse destinato ad avere una fine precisa…
   «Perché non camminiamo, invece, mentre parliamo? È da più di venti minuti che sto seduta».
   Isolato dopo isolato, ci stavamo avvicinando al centro della città. Aspettavo che parlasse, perché io avevo già fatto la mia arringa sconclusionata.
   «Io avrei voluto che tu parlassi con me, prima di arrivare a lamentarmi. È evidente che provi qualcosa ma anche che non vuoi pensarci. Mi sento in trappola: da un lato ci sono gli altri, che mi giudicherebbero troppo male, e dall’altro tu, che vuoi lasciare le cose ad un livello troppo superficiale, quando è palese che non è più possibile. Non siamo più divisi da migliaia di chilometri, capisci?»
   «Se davvero provi quello che pensi di provare, cosa t’importa di quel che pensano gli altri? Il nostro benessere dovrebbe avere la precedenza, no? Invece non è così. Non stai bene, me l’hai detto chiaramente, giusto?»
   «Tu non mi permetti di stare bene!» A questo punto si era bloccato e, a differenza di quanto mi aspettassi, si era voltato verso di me, un braccio che scattò dall’alto in basso, per poi afferrarmi l’avambraccio con l’altra mano.
   «Sarebbe colpa mia? Ti ho chiesto se te la sentivi e non hai negato, sei venuto qui perché c’ero io, non fai che…» farmi impazzire, scivolare, sgretolarmi. Scossi la testa, cercando di allontanarmi, ma forse l’aveva previsto, perché continuò a tenermi stretta. «Io ne posso essere il fulcro, ma non la causa. I problemi li hai tu. Io ti sto cercando di spianare la strada». Di nuovo, tacqui. Dovevo mettere in chiaro un’ultima cosa, finché restava vicino e attento. «Se non te la senti più, comunque, puoi sempre tornartene al tuo esilio autoimposto. Credimi se ti dico che sopravvivrei tranquillamente».
   Distolse lo sguardo. «Perché parli così, come se la cosa fosse già finita?» Mi lasciò andare, affondando le mani nelle tasche della giacca. «Sono ansioso perché Kyle sta per tornare, questo è vero, ma non pensare che ti ritenga colpevole di qualcosa. Lo so, che tu non mi stai dando alcun problema, e che sono io quello che si ostina a portarli avanti. Non riesci a capire quello che ti sto dicendo, però. Non provi nemmeno a considerare l’eventualità di andare oltre, di fare un passo in più, che non significa niente di plateale o a lungo termine, ma se ti ostini a ignorare questa cosa, io come dovrei comportarmi?»
   «Esattamente come me». Per me era ovvio, non avevo nemmeno considerato la possibilità che lui volesse parlare di implicazioni sentimentali. Le sue ragioni erano scontate, bastava vedere come aveva reagito dopo la prima notte insieme, e le mie erano private, certamente riconducibili alla mia pigrizia e svogliatezza; tutto sarebbe stato più facile, quando avesse deciso di farla finita, ed ero certa l’avrebbe fatto, prima o poi, per poter tornare a piangere la famiglia uccisa tanti anni prima. Sembrava uno di quegli uomini destinati ad amare una sola volta, passando il resto della loro vita dietro un ricordo sconfitto. Ero convinta che lo fosse. Per cui, quello di cui parlava, le cose che diceva di sentire, ero certa fossero momentanee; presto si sarebbe stufato o avrebbe sentito come dovere morale ritornare sui suoi passi.
   «Quindi d’ora in poi facciamo finta di niente, i discorsi seri sono aboliti e chi se ne importa se sento di tenerci a questo rapporto, devo fingere che non sia così».
   «Tu ci terrai finché non deciderai di aver sprecato troppo tempo dietro a qualcun’altra, che tua moglie ha di nuovo la precedenza e te ne andrai a trascorrere tutto solo il resto della tua vita».
   Tacque, il volto animato da una consapevolezza che volevo nascondere. «È questo? Stiamo discutendo da un’ora! Speravo mi dessi spiegazioni, ma non immaginavo che temessi questo. Perché?»
   Perché? Perché perdo il controllo, perché se tu ti allontanassi non credo basterebbe cambiare Nazione; mi distruggi quando tenti di non ammettere a te stesso che hai dei dubbi, e mi distruggeresti parlando chiaramente.
   Ignorai la domanda. «Io non sono disposta a cambiare le cose», ammisi. «O continuiamo a tenerle così, o te ne vai».
   Gli ultimatum, insieme ai ricatti, erano certamente il mio forte.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
*Lo sappiamo tutti che in inglese non si dà del lei, ma ho potuto utilizzare questa distinzione grazie alla santa lingua italiana, che invece me lo consente

Ora, lo so!
Farete sicuramente molta fatica a seguire la discussione, ma realisticamente quale discussione è lineare e comprensibile?
Se non capite, chiedete. Se non vi aggrada, ditelo.
A presto!^^
 

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Capitolo 15
*** Senza esito ***


Dopo la seconda morte

15 - Senza esito

Per le buone nuove.



    «Non posso decidere a priori di dimenticarmi di mia figlia e di mia moglie».
    Il bar era affollato, ma per certi versi era un bene: nessuno faceva caso a noi, seduti in uno dei piccoli tavoli al centro del locale e intenti a sorseggiare del caffè.
    «Infatti non ti ho mai chiesto questo».
    «Mi sembrava molto chiara, invece, la risposta di pochi minuti fa».
    «Nella quale non mi pareva di aver nominato la tua famiglia».
    Lasciò la tazza sul tavolo, appoggiandosi allo schienale della sedia. Mi fissò, soprappensiero, scuotendo la testa in quello che doveva essere un movimento involontario.
    «Non capisco cosa vuoi, allora».
    Mi passai una mano fra i capelli, nel tentativo di svegliarmi dal torpore che mi aveva colto appena avevo preso posto. La giornata era stupenda, ma non sentivo altro che il ronzio fastidioso delle nostri voci nella testa. Non volevo più parlare di questa storia.
    «Che tu la smetta di discuterne. Se non vuoi rivelarlo a Kyle, a questo punto mi posso anche dire d’accordo, ma non stressare me, non chiedermi di parlare di cose su cui non voglio riflettere».
    «Che cosa pensi ci sia di male?»
    «Nell’amarti? Un sacco di cose, ma non voglio che prendano il sopravvento».
    «Perché questo sminuirebbe il resto?» La sua voce si era fatta più dolce, mentre il mio sguardo rimaneva incollato al pavimento.
    Ad alta voce! Mi sembra ancor più sciocco di quel che è.
    «Me lo farebbe apparire più problematico, ecco tutto».
    «È problematico. Me lo hai detto, Jessi».
    «Scusa». Ed ero veramente convinta di dovermi scusare, perché quel che dopo ore mi era scappato non poteva più esser cancellato.
    Rise, a gran voce. Sorrisi anche io; non potei evitarlo, perché come al solito la sua risata era contagiosa. La sua mano raggiunse l’angolo della mia bocca e lo accarezzò. «Non è certo problematico per me. Guardati. Settemila pensieri e altrettante paranoie, dico bene?»
    Sbuffai, stropicciandomi gli occhi. La tazza era vuota e il mio stomaco anche, ma non ci badai. «Perché non è così tragico, per te?»
    «Non stai confessando un crimine orrendo».
    «È una complicazione. L’hai detto pochi secondi fa. Rende questa storia non più divertente, ma in procinto di diventare seria».
    «Non potrebbe essere sia seria sia divertente?»
    «Perché ti comporti come se lo volessi? Non sei mai stato con nessun’altra; quella mattina eri in crisi, è inutile che ora fingi che non sia mai esistita».
    Fece silenzio, continuando a studiarmi. «Lo vuoi finire?», chiese, accennando alla tazza. «Si è freddato».
    Annuii, mentre il suo sguardo vagava per la sala, per poi bloccarsi su un punto imprecisato fuori dalla finestra.
    «Ricordi? Sarà stato due o tre anni fa. Ti chiamai e rispose un uomo».
    Sorrisi. Certo che rammentavo, dal momento che era stato uno dei pochi che avevo visto per più di una sera, anche se gli appuntamenti terminarono dopo che ebbe risposto al mio telefono.
    «Disse che era caduta la linea», ribadii.
    Tornò a fissarmi, inarcando le sopracciglia.
    «E allora?», continuai. «Che cosa cerchi di dimostrare? Che ci stavamo sentendo al telefono e quindi eravamo ufficialmente pronti al matrimonio?»
    «Certo che no, ma perché continui a incontrarmi se davvero non vuoi riconoscere di…».
    «E per quale motivo chiamarmi ogni mese se sapevi perfettamente dei miei appuntamenti?»
    «Speravo sempre che vi avresti rinunciato».
    «Solo perché ti sentivo al telefono?»
    «No, perché un giorno casualmente mi avresti detto che eri felice insieme a qualcuno».
    «E quindi mi hai portato a letto poche settimane dopo avermi rivista, tanto eri speranzoso che fossi felice con un altro».
    «Siccome sapevo che non lo eri, ho deciso di approfittarmene spudoratamente».
    «E come l’hai capito?» Ero curiosa; non mi aveva mai posto una domanda del genere.
    «Da come lo guardavi».
    Aveva capito che ero senza un uomo da come ne guardavo un altro? E aveva trascorso la notte con me perché potevo apparire innamorata di un altro?
    «Ma cosa…?» Scossi la testa. «È una battaglia persa. Non sei in grado d’essere una persona sincera. Stai mentendo».
    «Assolutamente no. Perché dovrei?»
    «Per quale motivo sei rimasto con me, quella notte? Rispondi sinceramente, non inventare storie assurde. Hai paragonato quella sera alla mattina di tanti anni fa e, da quel che ricordo di quel giorno, se mi avessi proposto di passarlo insieme avrei accettato, anche solo per dimenticarmi d’essere…». Sospirai. «È stato così, come ho detto io? Ci siamo fatti compagnia a vicenda? Nulla di più, quindi».
    «Tu stessa sai che non è vero, ma se ti fa comodo pensarla così potrei rinunciare presto nel tentare di farti ammettere la verità».
    Perché mi faceva tremare le gambe…
    «Sei rimasto», insistetti.
    Annuì. Dopo un secondo di silenzio, disse: «Perché non lo guardassi più».
    «Inoltre, ti pare corretto reagire male una mattina e pretendere che io reagisca bene… cosa?!» Tacqui. Aveva parlato contemporaneamente a me, potevo anche aver capito male. Corrugai le sopracciglia, fissandolo. Schioccò la lingua, facendo vagare lo sguardo per il locale, a disagio.
    «Cosa?», ripetei.
    «Niente».
    Piegai la testa di lato. «Cosa?», domandai ancora, molto piano. Forse non mi sentì nemmeno.
    Scosse la testa, passandosi una mano fra i capelli. «Mi hai sentito», disse. «Non lo ripeterò».
    «E che cosa pensi ci sia di male?»
    Si fermò. Aveva colto l’allusione. Sorrise. «Nell’amarti?», ripeté. «Un sacco di cose». Poi si sporse in avanti, posando una mano sul mio polso. «Le so io, le sai tu, non c’è bisogno che le sappiano altri».
    «Non ce n’è bisogno», concordai.
    «No», rimarcò.
    Convinti entrambi, davanti a Kyle dimenticavamo automaticamente di condividere il letto e di essere più che due semplici conoscenti.

    I motivi di scontro non erano certamente esauriti, ma spostò l’argomento sulla cosa che avrebbe voluto farmi vedere, così non ebbi più occasione di lamentarmi delle sue proteste e, in maniera indiretta, del fatto che avesse un passato.
    Ci spostammo dal locale al marciapiede, camminando senza fretta. Sfiorava il mio braccio con il suo, ma tentava anche di non toccarmi, lo sguardo fisso davanti a sé.
    «Non avresti voluto rilassarti, venendo qui?», domandai. «Non mi pare ti stia impegnando molto».
    «Tu ti devi impegnare per riposare?»
    «Sì», ammisi. «In genere la testa è sempre attiva». Anche di sera, soprattutto di notte.
    «E quali pensieri affolleranno mai la tua testa? Ti rifiuti di parlare di ogni cosa sia un minimo conflittuale».
    «Di parlarne, non di riflettervi in solitudine».
    «Condividerli non li renderebbe più sopportabili?»
    «No».
    Svoltammo lungo una stretta viuzza affiancata da alti palazzi. Si fermò davanti a uno di questi, da quel che leggevo il numero civico venti, e tirò fuori un mazzo di chiavi.
    «Dove andiamo?»
    Non rispose alla domanda, invece chiese: «Tenere tutto per te, non ti fa implodere?»
    «No».
    Si voltò a fissarmi, mentre si faceva strada per il piccolo ingresso e voltava a destra, aprendo le doppie porte di un minuscolo ascensore.
    «No?» Premette il pulsante del secondo piano, e sfrecciamo a una discreta velocità verso l’alto.
    Scossi le spalle. «Se accade a te, non è certo sottinteso che succeda a tutti».
    «Ovvio, però tu stai mentendo».
    Non negai, ma spostai lo sguardo alla porta blindata che mi stava di fronte. Il pianerottolo ospitava due appartamenti, uno di fianco all’altro, e Foss puntò quello a sinistra; lo seguii. Non entrò, ma si fermò sulla soglia, con me che gli spuntavo da dietro le spalle. Il luogo era buio, intravidi solo un salotto di piccole dimensioni con un angolo cottura sulla destra. Guardai Foss con aria interrogativa.
    «È per te», disse. «Non avevi l’asfissiante desiderio di andartene da lì?»
    «Asfissiante per chi?», domandai, mentre lo sguardo vagava ancora per la sala. «Mi hai comprato un appartamento?»
    «No! Ti ho trovato un appartamento da affittare».
    «Davvero?» Sorpresa, seguitai a fissare l’interno della casa. «Avrei voluto scappare di nuovo in Canada, Foss. Non voglio rimanere», ammisi.
    «Credo tu sia obbligata, adesso, a restare», ribatté. «Non hai guardato l’e-mail di recente?»
    Aggrottai le sopracciglia. «Perché, tu sì?»
    Scrollò le spalle.
    «La mia roba?», continuai. «Credo sia un reato, infiltrarsi nei computer altrui».
    «Ho deciso di tenere d’occhio tutte le cose di cui posso occuparmi», disse. «Spero tu non abbia dimenticato l’ultima volta, e tutte le nostre sviste. Questa volta non accadrà».
    «Non con la mia privacy», dissi. «Non con la mia posta e il mio telefono».
    «In ogni caso, l’università ti ha contattata».
    Alzai le sopracciglia.
    «Oh, andiamo!» Impaziente, sospirò. «Non sto tutto il giorno a controllare la tua posta. Voglio solo tutelarvi, e siccome non ho tutti questi passatempi controllo che la famiglia non apra e-mail dannose, non legga contenuti forvianti o non ceda a ricatti informatici. Tutto qui. Tu ne sei una conseguenza, davvero. È capitato che leggessi quella mail e che pensassi di farti un favore».
    «Bé, non è così».
    «Non vuoi questo appartamento?»
    «Non voglio che tu mi faccia favori».
    «Oh». Spostò lo sguardo, chiudendo con forza la porta e girando a più mandate, per poi voltarsi e dirigersi all’ascensore. Premette il pulsante mentre lo affiancavo.
    «Senti, sono rimasta sorpresa, non credevo t’impicciassi così tranquillamente nei miei affari, né pensavo l’avresti osato mai fare; non hai mai nemmeno insistito che ti dicessi la verità, quando chiamavi. Questa invadenza mi ha urtato».
    «Proteggo te come proteggo la famiglia. Credimi, non l’ho fatto con un intento…». Si fermò, increspando le labbra. Capii subito che cosa volesse intendere.
    «Possessivo?», completai per lui.
    Annuì. «Davvero», rimarcò.
    «D’accordo», dissi. «In ogni caso, preferirei non lo facessi. So badare a me stessa. L’ho fatto per anni, splendidamente, senza la tua collaborazione…».
    Mi fermai, scossa da un’illuminazione.
    Si stava fissando le scarpe, adesso, e premette con impazienza il pulsante di chiamata, ma l’ascensore si era fermato al piano sottostante e non sembrava intenzionato a raggiungerci presto.
    «Non posso crederci», dissi. «Da anni
    «No», disse, tacendo per un istante. Sospirò, aggiungendo: «Più o meno».
    «Perché? Come ti è venuto in mente? Credevo che Kyle ti avesse relegato fuori dandoti il via libera».
    «Sentivo Declan e sentivo te. Questo era abbastanza per ritenermi ancora dentro».
    «Credevo che mi chiamassi perché volevi farlo», mormorai. Entrai nell’ascensore senza aspettarlo, premendo il pulsante per il piano terra, sperando non mi raggiungesse. Invece, occupò lo spazio angusto che rimaneva, vicinissimo.
    «Certo», disse con ovvietà.
    Non aveva capito l’obbiezione, e del resto non mi ero prodigata per renderla più chiara. Avevo sempre pensato d’essere al di fuori, per lui; che non significassi Kyle e tutto ciò che circondava quel nome. Quello che mi stava confessando, tuttavia, era che in quegli anni non ero valsa per lui più di quanto fossi per i Trager.
    Il pensiero mi lasciò stordita per qualche istante. L’ascensore era arrivato e Foss era uscito ma, nonostante mi stesse aspettando tenendo le porte aperte, non mi ero ancora mossa.
    «Allora?», domandò.
    Mi riscossi dopo qualche altro momento, fissandolo.
    Parlare non t’impedisce di implodere? Adesso, sì.
    «Non sono mai stata niente di diverso», mormorai.
    Il suo sguardo, sino a poco prima irritato per il mio atteggiamento, tramutò, divenendo confuso. «Cosa vorresti dire?»
    Non mise in dubbio che mi stessi riferendo a lui; come se si fosse aspettato quell’obiezione sin da quando ci eravamo ritrovati in Asia.
    «Negherai adesso che l’unico motivo per cui mi chiamavi era che speravi avessi sue notizie? Non eri tanto diverso da quella stupida famiglia che mi ritrovo a dover sorvegliare».
    «Questo non è vero. Per quale motivo lo pensi?»
    Sembrava sinceramente sorpreso dall’ultima mia protesta.
    «Le cose che mi stai dicendo sono inequivocabili».
    «Se lo fossero non ti starei contraddicendo».
    Sbuffai, alzando gli occhi al cielo; una mano sul fianco, tamburellai un piede per terra, avviandomi verso l’uscita. La gita era stata infruttuosa, avevamo semplicemente perso un pomeriggio senza nemmeno pranzare.
    «Chiamare Declan era come chiamare me. Sei stato molto chiaro».
    «Non sono rimbecillito all’improvviso. Ho detto esattamente che ‘sentivo Declan e te’. Non mi pare sia la stessa cosa che mi hai rinfacciato tu».
    «A me sembra di sì».
    «No, non vi ho paragonato, vi ho accostato. Non mi sarò laureato con il massimo dei voti, ma so la differenza fra una congiunzione e una preposizione».
    «Non prenderti gioco di me!»
    Mi ero voltata ad affrontarlo in mezzo a un marciapiede affollato. La gente ci scansava, mentre lui incrociò le braccia, portò il peso sulla gamba destra e coprì il sole col suo corpo.
    «Non credo sia possibile», disse. «E non pensare che non ci abbia provato. Ho avuto cinque anni di tempo per capirlo».
    Sospirai, passandomi una mano fra i capelli, legati lenti in una crocchia.
    «Quello che volevo dire», disse, parlando lentamente, «era che, per quanto Kyle provasse a tenermi fuori per farmi vivere la mia vita, non lo ero, perché venivo informato di quello che gli succedeva e inoltre sentivo te, che sei parte del suo mondo, per quanto, a questo punto, posso dire per certo che non ti piaccia. Ora è più chiaro?»
    «E non mi sentivi per lui?»
    Lo domandai in maniera tanto esplicita perché, se la risposta fosse stata positiva, volevo davvero saperlo, per poterlo mandare al diavolo prima che la cosa divenisse troppo irreparabile.
    «Ti ho già spiegato per quale motivo ti telefonavo, e non lo ripeterò. Se sei così ostinata da voler credere che fossi solo un centro informazioni, fa’ pure, ma non è ciò che ho detto». Si voltò, incamminandosi verso il centro, dal quale dovevamo passare per raggiungere il parcheggio. «Mi preoccupavi e mi divertivi. Tutto qui. Non sembra un buon motivo per inalberarsi».
    Certo che no, se solo fossi sicura che durerà.
    Non replicai, ma mi misi al suo fianco. Insieme camminammo per qualche minuto, poi domando: «Davvero non vorresti affittare quella casa?»
    «No».
    «No non vuoi affittarla, o no non è vero che non vuoi affittarla?»
    «No, non è vero che non voglio».
    «Bene», disse. «Questo posto mi piacerebbe di più che il cupo magazzino, di cui Declan, Kyle e l’intera famiglia conoscono l’ubicazione».
    «Continua pure a declamare con tanta tranquillità la tua vergogna, poi domani chiedimi di spogliarmi: vedrai come sarò accondiscendente!»
    Sbuffò. «Ancora con questa storia? Tu l’hai nominata. Io non volevo dire quello!»
    «Certo. Hai palesemente mentito quando ti ho chiesto se fossi io, quella di cui ti vergognavi».
    «Hai meno di venticinque anni!»
    «Ancora con questa storia?», gli feci il verso. «Sei tu, l’unico che si fa dei problemi in proposito».
   «Certo, perché sono l’unico che è a conoscenza della cosa. Pensa a quello che direbbero Nicole o tuo padre, se venissero a scoprirlo. Come reagirebbe Kyle?»
    «Quindi se lo scoprisse e se ne lamentasse, mi lasceresti?» Il mio tono era quieto. La risposta mi angustiava, ma riuscii a tenere fuori dalla voce la tensione. Non sarebbe stato ancora tutto irreparabile, o forse stavo solo cercando d’ingannare me stessa. Era diventato irrimediabile dopo che la prima spallina del vestito era stata scostata, era divenuto irrinunciabile, lui e la sua vergogna, dopo che mi aveva sospinto sul divano troppo piccolo e quando il calore del suo corpo aveva raggiunto il mio.

    Notai le sue labbra incresparsi, ma non commentò. Non insistetti, fra me e me non volevo saperlo davvero e, se mai fossimo giunti all’occasione annunciata, l’avrei scoperto allora.
    «Mi piace passare il mio tempo con te», disse, forse pensando che volessi a tutti i costi una risposta. Questa era una frase che aveva ripetuto parecchie volte, come se nella sua testa volesse dire qualcosa di specifico, che ancora non avevo intuito. Forse che la risposta, in fin dei conti, sarebbe stata negativa, ma come potevo crederlo o anche solo sperarlo? Più volte si era lamentato della preoccupazione che la cosa venisse a galla, della mia età, della sua, dei giudizi di persone così irreprensibili come il figlio di Baylin. Una volta che fosse stata palese l’opinione negativa che si era tirato addosso portandomi a letto, per recuperarla – ed ero certa volesse essere stimato da Kyle – avrebbe fatto di tutto, e sarei stata messa in un angolo.
    «Se siamo i soli a saperlo», lo stuzzicai.
    «Può darsi», ammise, un filo d’impazienza a macchiarne il tono conciliante. «È un reato? Tu mi lasceresti se fosse così?»
    «No», dissi. «Puoi tranquillamente ammettere di vergognarti di me, della mia età e continuare nonostante ciò a portarmi a letto, perché la cosa non mi scalfirebbe; però devi darmi atto che qualche dubbio in più io possa farmelo venire, invece: se al primo ostacolo pianteresti tutto per riconquistare la fiducia dell’Eroe Supremo, almeno preannuncialo e lascia che mi prepari».
    «Io non voglio piantare niente». Svoltò nella via dov’era parcheggiata l’auto. Non mi sentii in dovere di rispondere al suo commento, ma compresi quante cose volesse e quanto queste fossero agli antipodi. Speravo che fosse già a conoscenza del fatto che quasi mai la vita concede anche solo una cosa da te desiderata; forse avrebbe fatto meglio a ridimensionarsi.

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Capitolo 16
*** Conteggiando il nuovo ***


Dopo la seconda morte
16 – Conteggiando il nuovo.



Per le felicità scoperte





    Gentilissima Dottoressa Taylor,
    la informiamo con estremo piacere che la cattedra di Biologia si presenta adatta alle sue richieste, e ci auguriamo di vederla lunedì 8 aprile, all’orario precedentemente concordato, per discutere gli ultimi dettagli e presentarla agli altri colleghi del Dipartimento.
    Cordialmente, Julian Dean*, Capo del Dipartimento


    Bé, l’e-mail era davvero arrivata, constatai, seduta al tavolo della cucina. Esattamente come aveva detto Foss, mi avevano assunta e, proprio il giorno in cui erano previsti il ritorno di Kyle e la mia fuga, mi sarei anche dovuta recare al lavoro. Perfetto! Avrei iniziato a guadagnare esattamente quando mi sarebbe servito lo stipendio.
    Stavo ultimando le pratiche di affitto, facendo avanti e indietro da Bothell. Avevo mostrato l’appartamento a Sarah e, fatta eccezione al borbottio in riferimento all’assenza di un giardino, non aveva detto nulla, facendomi pensare che non ne fosse particolarmente contenta. Non sapevo cos’altro fare, perché davvero non me la sentivo di rimanere, anche se per la bambina vedere i genitori cordiali, conviventi, avrebbe rappresentato una sicurezza in più. Potevo capirlo, questo, ma non ero disposta ad assecondarlo; la mia sanità mentale ne avrebbe risentito, per non parlare del mio benessere fisico – le endorfine liberate, lo stress che tenevo sottocontrollo tramite la fase sesso-distrazione. Misi a tacere la coscienza che ricordava come le esigenze di mia figlia dovessero precedere le mie, dicendo che in fondo non era un bisogno vitale, che avrebbe potuto benissimo vedere il padre altrettanto spesso.
    Inviai una breve e-mail di risposta, ringraziandoli per l’opportunità, e poi feci scorrere il cursore fino all’intestazione del messaggio che avevo ricevuto. Jessi Taylor. Vederlo nero su bianco mi lasciò stordita: non che non avessi usato questo cognome per tutte le mie firme, non che non ci fosse sulla patente, sulla carta d’identità e sulla tessera sanitaria, ma che gli altri mi conoscessero così, per un attimo mi parve assurdo. La bambina era Sarah Taylor, e potevo anche arrivare ad accettarlo per rendere a mio padre le cose più facili, ma io non ero figlia sua, non volevo essere considerata tale. Non mi ero mai azzardata a pensare di cambiare cognome, fino a quel momento, perché, se ci fossero stati problemi e avessero dovuto rintracciarmi per ridarmi la piccola, volevo che la cosa fosse palese e che nessuno si fermasse a pensare se fossi davvero una parente, ma ora che lei era con me, perché non prendere il cognome di mia madre? Scoprii che mi dava fastidio, vedere quella scritta; come non fossi veramente io, mi faceva riapparire invece la figlia in debito col Latnok cattivo che sta zitta e fa tutto quello che lui le chiede. Tuttavia, non ero più quella persona da anni, ormai, e ora avrei voluto che la cosa diventasse ufficiale, senza dovermi più preoccupare di lasciare tracce sparse per far sì che lui e sua nipote mi potessero trovare.
    I preparativi per il ritorno di Kyle, intanto, stavano procedendo e, mentre mi trovavo seduta al tavolo della cucina per assicurarmi un futuro finanziario, Lori entrò, portando un grosso vaso di fiori che finì nel lavandino. Aprì l’acqua senza degnarmi d’uno sguardo; canticchiava una canzone che non riconobbi, i capelli acconciati in una treccia ordinata.
    «Perché tanti fiori?», chiesi. «Non è il primo vaso che porti. Chi è morto?»
    Sbuffò. «Jessi, sei sempre così spiritosa! Nessuno, volevamo abbellire un po’ la casa. Sai, a Kyle farà piacere vederci tutti sotto lo stesso tetto».
    Per una volta, constatai, il suo commento m’includeva nell’elenco. Meglio che niente!
    Alzai le spalle, decidendo d’insistere: «E i fiori? Anche i fiori fanno parte della famiglia e devono rientrare in casa?»
    Sorrise; per la prima volta da che ero arrivata, sogghignava a una mia battuta. Forse era solo questione di abitudine: ognuno doveva nuovamente fare il callo alla presenza dell’altro, per poi ritornare alle vecchie routines, tanto antiche da essere divenute per me insignificanti. Un po’ come rimembrare l’infanzia, faticoso e triste, conducente alla melanconia; così, spesso, si tende a lasciar perdere e procedere oltre, guardando avanti.
    «Sì, è proprio così». Posò il vaso sopra al ripiano della cucina, per poi affiancarmi. Giunse le mani e le appoggiò sotto al mento, il sorriso ormai perenne a incorniciare il volto allegro. Come se riuscisse a leggere i miei pensieri, vi fece eco, aggiungendo: «E inoltre Declan sarà con lui! Non lo vedo da molto. Mi manca».
    Il volto sognante, si lasciò andare a un sospiro, che coprì abbondantemente il mio, sintomo di un’esasperazione congenita. Lei e la madre riuscivano a darmi noia anche se restavano immobili, zitte e sedute; figuriamoci al massimo della loro allegria e dinamismo.
    «Allora, sei proprio decisa a trasferirti?»
    Le lanciai un’occhiata: era stata proprio lei, qualche giorno prima, a suggerire la cosa. Non pareva molto interessata ma nemmeno annoiata dall’argomento, così decisi di rispondere normalmente. «Sì. L’università mi ha accettata e c’è un campus, a Bothell: non escludo che la cattedra possa essere lì. Così le cose saranno più facili per tutti». Per me, in realtà; m’interessa solo questo: riuscire a non vedere le vostre facce troppe volte a settimana.
    Annuì, senza aggiungere nient’altro. Il silenzio si propagò per la stanza, culmine di un rapporto nato forzatamente e proseguito verso l’indifferenza, finché il telefono di casa – casa Trager, casa loro – non prese a suonare, facendola scattare in piedi.
    Chi speri che sia, non lo è mai. Josh chiamava per fare un saluto, e mi domandai vagamente se i suoi sapessero che ci eravamo sentiti – io, lui e sua moglie – e se in quel caso l’avrebbero considerato tradimento o, ancora meglio, ammutinamento. Andy era stata parte di quel gruppo decisamente più di me, ma non si era mai adeguata alle regole implicite: escludere Jessi e considerarla inaffidabile. Aveva mantenuto accesi i contatti per sua sola volontà, per piacere personale e per amicizia, snocciolando le ragioni una sera ventosa di tanti anni prima, quando le avevo domandato sgarbatamente se ci fosse la mano di Nicole, dietro le sue telefonate. Confusa, mi aveva domandato perché, ma non avevo risposto decidendo infine di crederle.
    Lasciai la stanza mentre Lori, tamburellando le dita sul ripiano, non faceva che starnazzare su quello e quell’altro, quando a un suo commento mi fermai sulla soglia: «Certo che vi aspettiamo! Ma ci pensi? Nemmeno lo scorso Natale eravamo tutto qui!» Mi ero dimenticata che anche Andy sarebbe arrivata. Meglio così! Sarei stata, se non contenta, divertita dal suo arrivo.
    Mia figlia era fuori con Stephen. Era parsa molto felice, mentre attraversava il vialetto mano nella mano con lui. Non pareva volesse comprarne l’affetto, ma solo che desiderasse stare con lei perché entrambi – e davvero a volte lei sembrava più adulta di lui – comunicavano facilmente. Per questo motivo, mi ritrovavo con il pomeriggio completamente sgombro, fatta eccezione per il mio noioso, ma per fortuna in scadenza, ruolo di protettrice.
    Con la collaborazione di Foss, questo compito si era rivelato semplice: le registrazioni dei loro telefoni potevano essere ascoltate liberamente, come uscenti da una radio, mentre eravamo intenti a fare altro, e le loro auto, ogni singola mattina, erano controllate minuziosamente. Ignoravo, ogni volta, la voce nella testa che mi suggeriva di non cercare dell’esplosivo, e allo stesso tempo garantivo loro di non viaggiare con un mezzo che perdeva olio. Dopo aver esaurito i miei compiti da meccanico e da potenziale artificiere, mi ritiravo in casa; preparavo da mangiare, stavo con mia figlia e attendevo che qualcuno rientrasse, così da poter ‘uscire per controllare l’isolato’, anche se molto spesso la passeggiata si prolungava per un’ora, parte della quale la passavo senza vestiti.
    Uscii nel vialetto salutando il pomeriggio luminoso. Riflettei su come in così poco tempo mi ero trasformata in ciò che assolutamente mai avrei voluto diventare: una casalinga. Nata libera da stereotipi, nel breve tempo passato con Sarah avevo avuto la possibilità di apprenderne alcuni, insieme alle reazioni ad essi confacenti, come il ribrezzo all’idea che la donna fosse automaticamente relegata in casa, una volta avuto figli. Per questo, stavo cercando di sbrigare in fretta le pratiche di assunzione e di affitto, così da poter ritornare a concentrarmi sul lavoro e a trascurare casa.
    Camminavo distratta per la città. Arrivare a piedi sino al quartiere industriale mi diede modo di riflettere sui giorni trascorsi, su come mi stavo ponendo verso la famiglia e su cosa mi aspettavo cambiasse una volta che fosse arrivato Kyle. Intendevo davvero sparire, anche se avrei dovuto iniziare a convincere me stessa che non avrei potuto fare il lavoro minuzioso che era stato il trasferimento canadese: gradualmente le telefonate con la famiglia si erano ridotte a zero, Kyle era riuscito ad arrabbiarsi con me sentendomi due minuti al telefono, Andy mi aveva presa in simpatia, io avevo iniziato a considerare Andy; tutto ciò avrebbe dovuto ribaltarsi di centottanta gradi, il che avrebbe voluto dire che avrei dovuto chiarire con Kyle, che covava del risentimento per come avevo trattato sua madre e, molto di recente, per il fatto che mi fossi dimenticata di menzionare la bimba e a chi l’avessi affidata. Non desideravo granché affrontare l’argomento, ma ero certa avrebbe voluto parlarne, e con lui non potevo più svicolare togliendomi i vestiti – chissà se qualcuno avrebbe avuto da ridire, nel caso avessi provato.

    «Io mi prenderei il rimprovero e starei con la bocca chiusa».
    Ero sdraiata sopra le lenzuola della branda scomoda, senza cuscino e il sole a illuminare l’ambiente, così da farlo apparire meno tetro. Foss, invece, era seduto sulla sedia di alluminio posta dietro il banco di lavoro; dava le spalle alla finestra e guardava me, coperta solo di un corto vestito estivo, senza biancheria intima. Quel giorno aveva abbandonato il letto immediatamente, come non potesse sopportare di indugiarvi un secondo più del necessario – eppure vi si era adagiato, eccome se vi si era adagiato!
    Potevo sentire risuonare nella sua testa il conto alla rovescia: poche ore ancora, e Kyle avrebbe messo piede in questa città. Ciò, immaginavo, avrebbe dato inizio ai suoi complessi.
    «Tu sei in Francia, no?», ribattei. «Comportati da assente».
    «E tu accetta di ammettere la tua colpa», rispose in tono divertito, inclinando la testa di lato senza togliermi gli occhi di dosso.
    «Ma quale! Ho agito nel miglior interesse di tutti».
    «Se ne sei convinta…».
    «Certo!»
    Annuì, alzandosi a aggirando il tavolo. Avevo chiuso gli occhi non appena si era mosso, ma udii distintamente i suoi passi avvicinarsi. Oscurò il sole, riprendendo a parlare: «Gli hai mentito».
    Non mi stava rimproverando; piuttosto, stava constatando un dato di fatto, come qualcuno che ammette, osservando le nuvole grigie, come sia nuvoloso quel giorno.
    «Così come hai fatto tu, se è per questo». Desideravo spostare la conversazione dalla mia persona, per evitare di dover ammettere qualcosa che non credevo dovesse macchiarmi: una colpa in più, avrebbe potuto far rovesciare l’equilibrio, in quel momento precario perché in restauro.
    «Sarebbe un problema se sapesse della mia bugia, ma a quanto sembra ha scoperto solo della tua, che è in carne ed ossa e più difficile da mascherare».
    Sbuffai. «Saremmo potuti entrare a far parte di una famiglia di ebrei e festeggiare lo Yom Kippur**», mi lamentai. «Anche se credo avremmo dovuto aspettare la fine dell’estate», aggiunsi dopo un istante.
    «Quindi in questo periodo dell’anno non sarebbe stato tenuto a perdonarti?»
    Scossi la testa in segno di diniego. «Quanti minuti mancano?», domandai, girandomi su un fianco per osservarlo meglio. Era ancora in piedi di fianco a me, a coprire il sole col suo corpo, e non mi guardava in viso. I suoi occhi erano virati più in basso: contava ma non riusciva a evitare di osservare.
    Sogghignò, abbassando lo sguardo sulle sue scarpe. «Tu pensi che sbaglio a preoccuparmi», affermò. «So che non capisci perché mi comporto così, ma se scoprisse… se pensasse che non sono più meritevole della sua fiducia, io non…». Espirò l’aria dalla bocca, senza concludere la frase. Continuava a contare, però, e mi diede la schiena per tornare verso la finestra, cui si appoggiò.
    Sentivo, più che saperlo, come avrebbe potuto finire la frase. Non la completai per lui, non volevo aiutarlo a dar voce ai suoi pensieri. Non credevo fosse una persona che si preoccupava del giudizio altrui, e invece così si stava svelando, ogni momento di più. Questo mi bastava per esser certa del fatto che presto avrebbe chiesto che tutto terminasse; avrebbe proposto, se non quel giorno uno dei seguenti, di porvi fine, e io dovevo smettere di vederlo prima che tutto questo accadesse, perché non gli avrei dato la soddisfazione di vedermi turbata. Avrei assunto il controllo della situazione, e l’avrei allontanato prima che lui allontanasse me.
    Io non avrei più nulla. non mi resterebbero più motivi per…
    Intuivo che era questo, il luogo e il momento per rovesciare le cose di centottanta gradi, ma, mentre la mia testa aveva afferrato la necessità di colpire per prima, la gola si era seccata, la lingua impastata, la saliva era scomparsa, rendendomi impossibile verbalizzare ciò che sapevo.
    Girai la testa per gettare un’occhiata alla sveglia, posta sulla sedia che affiancava la branda. Ero lì da quasi quaranta minuti, e molto probabilmente mia figlia doveva essere tornata. Era ora che mi ripresentassi: immaginai la tensione, l’euforia che si propagava tra gli abitanti della casa, e iniziai a rivestirmi cercando di espirare e di rendere il mio corpo e la mia mente insensibili e non influenzabili.
    Dovremmo smetterla. Se la vivi in questo modo ora, quando sarà qui cosa accadrà? Non vorrei dovermi agitare ogni volta che ti vedrò.
    Lui non avrebbe obbiettato, ne ero più che convinta. Forse sarebbe stato persino sollevato, e allora perché non l’aveva proposto? Perché ammetteva di essere nervoso eppure persisteva nell’accogliermi nel suo letto?
    Lasciandolo al suo conteggio, ancora appoggiato alla finestra, mi diressi verso l’uscita. Il sole non aveva abbandonato il cielo, e una pozza di luce formava un cerchio proprio a un angolo della strada, vicino a un basso muretto, su cui mi sedetti, lasciando che i raggi mi riscaldassero.
    Mi raggiunse poco dopo, ma non si sedette; rimase in piedi, le sue caviglie all’altezza del mio viso, e mi tese il golfino azzurro che dovevo essermi dimenticata. Anche io stavo contando, perché lasciavo indietro pezzi, parti, mi dimenticavo di mia figlia – per quei quaranta minuti non avevo pensato di telefonare a Stephen; per tutta la mattina, non gli avevo telefonato. Tuttavia, ciò che la mia mente scandiva era il tempo che avrei impiegato per pronunciare una frase di senso compiuto e rovesciare le cose.
    «Forse…». La saliva era tornata. La voce era piuttosto bassa, roca, ma per lo meno elaborava i pensieri, ora, senza combatterli. «Basta. Possiamo dire basta».
    Avrei potuto davvero dire basta? La correttezza valeva l’assenza dei suoi tocchi?
    «Fallo», disse.
    «Fallo tu». Io non voglio piantare niente. Mentiva, e l’onestà doveva prevalere, perché voleva la sua stima, viveva della sua stima da quando Adam li aveva lasciati; perderla per colpa mia avrebbe significato troppo per lui. «Per te sarebbe un dramma, non per me».
    Era ancora in piedi, le braccia abbandonate lungo i fianchi; sospirò piano, appoggiando una spalla al muro di mattoni. Non lo guardavo in viso: la strada di fronte, il vicolo che mi avrebbe ricondotto a casa Trager, era un’attrattiva.
    «Tu lo vuoi».
    «Tu! Tu stai…». Sospirai, passandomi le mani sul viso. Tu stai cosa? Aspettando? Tremando? Stai aspettando di smettere di tremare? Mi stai facendo tremare? «Lascia perdere. Devo andare».
    Il golfino azzurro si muoveva al ritmo dei miei passi, dondolando all’altezza delle mie caviglie nude. Al ritorno, camminai più lenta, e temporeggiai davanti alla casa, cercando di concentrarmi per distinguere i rumori che provenivano dal suo interno. C’era Lori in cucina, muoveva pentole e padelle con un ritmo regolare, mentre le trotterellava a fianco mia figlia. Forse stava apparecchiando. Era un’abitudine che aveva preso quasi subito: qualsiasi membro della famiglia stesse cucinando, lei apparecchiava. Al piano superiore, udii dei passi più pesanti coprire continuamente la distanza tra il bagno e la camera dei coniugi: Stephen, che doveva essere appena rientrato con la bambina.
    Le piaceva molto Stephen. Potevo azzardare ne avesse una qualche predilezione. Forse era l’uomo che più si avvicinava al carattere affabile del padre, col quale aveva già mostrato di possedere una certa sintonia, o, più correttamente, era un uomo con un carattere affabile a lei. Quale che fosse il motivo, se proponevo che passasse un po’ di tempo insieme a Stephen accettava allegra, e non la rivedevo per almeno due ore.
    Entrai facendo tintinnare le chiavi. L’ora di pranzo si avvinava, e odore forte di cipolla mi colpì le narici. Raggiunsi la sala da pranzo, scoprendovi mia figlia intenta a posizionare i bicchieri in corrispondenza di ogni piatto – e ne contai sette.
    «Jessi!» L’esclamazione pronunciata a mo’ di saluto proveniva dalle mie spalle. Riconobbi la voce, ma il tono era mutato: se in Asia era stato scostante, scocciato, malato, ora era limpido, alto, chiaro. Non era guarito, questo lo percepii dalle crepe che, sul finale, la voce mandò, e che gli fece abbassare il tono, come fosse affaticato, ma era lì, in quel momento, era ritornato a casa, e davvero settimane prima ero arrivata a pensare che non l’avrebbe rivista, casa.
    Si fece avanti, sicuro, e spalancò le braccia, pronto ad abbracciarmi, facendo arrivare sino a me l’odore penetrante di detersivo, come fosse appena uscito da una lavatrice. Più probabile che fossero stati i suoi abiti, ad essere appena usciti da una lavatrice, ma la fragranza portò con sé una domanda: che odore sentirà, addosso a me, ora che ho appena lasciato il suo letto? Il pensiero mi fece fare un passo indietro, e lui si bloccò: non avevo mai rifiutato un suo tocco, che fosse intenzionale o dettato da secondi fini, e quel comportamento in quell’occasione, dopo settimane che non ci vedevamo e la dimostrazione involontaria che in Asia aveva ricevuto – i battiti aumentati, il rossore, il respiro – sembrò semplicemente assurdo.
    «Cosa c’è?», domandò, sorpreso, bloccando l’avanzata.
    Scossi la testa. «Non ti aspettavo. Mi occorre un attimo per abituarmi».
    Rise, e riprese a camminare. Probabilmente, se avessi risposto sinceramente, non avrebbe ripreso a camminare, ma la sua persona mi avrebbe lasciata sola, nella sala da pranzo. Mi arrivò di fronte e mi strinse le mani, in un gesto tanto caloroso quanto poco familiare.
    «Come stai? Ho visto la bambina: non immagino la casa prima del suo arrivo».
    Risi. Avevo formulato un pensiero simile, settimane prima, solo relativo alla casa di Taylor, di come dovesse essere ora, in assenza di Sarah.
    «Sarà stata contenta di vederti. Dove è andata?», domandai. «Ti aspettava. Scommetto starà saltellando allegra per la casa».
    «È di sopra». Sorrise. «Si è illuminata. Sinceramente, pensavo non si sarebbe nemmeno ricordata di me».
    «Te l’ho detto: ti aspettava». Alzai il viso al soffitto. «Sarah! Puoi scendere?»
    «Dov’eri, tu, invece?», domandò. «Pensavo di trovarti».
    A fare cosa, esattamente? Il mio cervello arginò il momento di adorazione, comandando alle mie mani di allontanarsi dalle sue. A venerare il tuo ricordo, o la presenza del sole che illumina questo tuo rientro?
    Sarah saltellò a quel punto nella stanza, evitandomi di dover fabbricare una bugia. Alzò le braccia verso l’alto, arrivò al fianco del padre e gli toccò la vita con le punte delle dita. Kyle abbassò lo sguardo: «Dimmi», le disse, sorridendo.
    «Sono stanca», disse, la voce bassa, quasi mortificata. «Ho messo solo io tutte le posate».
    «Oh, povera!» Kyle, complice, la prese in braccio, e lei allacciò subito le gambe alla sua vita. Si fissarono, occhi azzurri negli occhi azzurri, continuando a sorridersi. «C’è una bimba che ha bisogno di sdraiarsi un po’?»
    Sarah annuì, appollaiando la testa sulla sua spalla. Kyle continuò a ridere mentre si voltava e lasciava la sala, completamente dimentico della mia presenza e della sua domanda.
    Il pensiero che quei due non avessero bisogno di me, per capirsi e trovarsi, si fece di nuovo largo nella mia testa. Come se Sarah facesse parte della vita di Kyle da sempre, padre e figlia si intuivano a vicenda, e io ero davvero stata lasciata sola, nella sala da pranzo.















*Inventato, nome, cognome, che sia il capo del Dipartimento ad occuparsi di ultimare le assunzioni, qualsiasi cosa riguardi le procedure burocratiche!
**Festa ebraica, letteralmente traducibile con “giorno dell’espiazione”, in cui è usanza “terminare ogni disposta o litigio”. Naturalmente io ne cito solo l’aspetto più superficiale, perché la festa è accompagnata da preghiere, pentimenti religiosi e più solenni, che qui Jessi ignora spudoratamente, per cui chi è ebreo non si senta offeso dalla superficialità della citazione: io ho letto per lo meno che non è solo questo, nonostante non citi il resto.

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