Mahinete degli spiriti

di Annaluz
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1 ***
Capitolo 2: *** 2 ***
Capitolo 3: *** 3 ***
Capitolo 4: *** 4 ***
Capitolo 5: *** 5 ***
Capitolo 6: *** 6 ***
Capitolo 7: *** 7 ***



Capitolo 1
*** 1 ***


Sono nata su quest’isola, e su quest’isola ho contato diciannove primavere e altrettante reincarnazioni dell’uomo uccello.
Sono nata su quest’isola, come i miei genitori e i miei nonni, e i loro genitori prima di loro. E come loro non ho fatto altro che vedere acqua intorno a me, rassicurata e minacciata da questa presenza ingombrante, dolce e soffocante.
Ma a differenza loro, io sono da sempre convinta che il mondo non finisca qui, che i confini della nostra isola non siano i confini del mondo, e che le mie orme non debbano per forza ricalcare le loro. Anche se non so dove altro potrei portare i miei passi.
D’altronde sull’acqua le impronte non rimangono.
 
Distesa su una roccia, rimuginando tra i miei pensieri, fissavo il cielo e godevo del vento fresco che imperversava sulla rupe. Mi misi a sedere e portai le gambe a pendolare sul ciglio del dirupo, mentre vagando con lo sguardo fino a Moto Nui, realizzai che anche quest’anno quasi c’eravamo... ancora qualche settimana e poi sarebbero tutti impazziti e non avremmo più avuto un attimo di pace per giorni. La odiavo questa storia dell’uomo uccello, e la odio ancora adesso.
Ma non potevo dirlo, e non avrei dovuto neppure pensarlo, probabilmente.
In effetti il tempismo con cui si interruppero i miei pensieri sarebbe apparso di natura quasi magica, se non avesse avuto, invece, la concretissima irruenza del mio cugino più piccolo che arrivò urlando e annaspando da dietro un arbusto.
“Mahinete! Mahinete!” si fermò appoggiando le piccole mani alle ginocchia, piegando il busto in avanti e ansimando e sbuffando come un cavallo stremato.
“Arona, calmati, respira e dimmi cosa c’è” non riuscivo a trattenermi dal sorridere mentre mi alzavo per raggiungere mio cugino, arruffato come sempre. Non potei comunque evitare di guardare con rimpianto gli ultimi disegni che avevo iniziato, e non ancora finito, sulla roccia di Orongo.
“Allora? Vuoi dirmi perchè sei qui o devo tirare a indovinare?”
“Nanihi...” prese fiato, di nuovo.
“Nanihi, cosa?” la preoccupazione era salita in me come una marea improvvisa, al sentire il nome di mia sorella.
“Nanihi... sta per avere il suo bambino” sputò tutto d’un fiato.
 
Corsi. Corsi come poche altre volte in vita mia. Mi resi conto solo vagamente di essermi ferita un piede su una roccia e continuai a correre, a correre, a correre.
Sul ciglio della scogliera i miei occhi presero nota in maniera superficiale di quanto il mare si andasse ingrossando e il cielo scurendo. Era di certo in arrivo una tempesta, il che non era una novità, ma in quel momento, non lasciava presagire niente di buono. Il mare era sempre più burrascoso e oscuro, e il vento freddo e sferzante portava con sé piccole goccie salate.
Avevo lasciato indietro Arona da parecchio ormai quando arrivai a casa di Aniata. Mi abbassai velocemente per entrare e non feci nemmeno caso a dove ella fosse mentre, raccogliendo la sacca che teneva sempre alla destra della soglia, inizia a farfugliare a voce decisamente troppo alta e a vagare per la casa in maniera confusionaria.
 
“Aniata, Aniata presto! Non c’è tempo... Nanihi sta per dare alla luce il bambino, presto, sbrigati!”
La vecchia si stava alzando con irritante calma e stava sistemandosi la veste, mentre io mi agitavo in preda alla più cupa preoccupazione.
“Mahinete, mia giovane figlia, calmati” mi disse serafica e leggermente divertita.
La sua tranquillità mi stava oltremodo irritando quindi spazientita esclamai “Avanti, sbrighiamoci, non c’è tempo!”.
Aniata sorrise comprensiva e, spostando i suoi occhi ciechi verso la mia voce, esplose in una risata di dolce scherno.
“C’è più tempo di quanto tu possa immaginare, e di certo, più di quanto piacerebbe sapere a tua sorella!”
Finii di raccogliere quello che immaginavo potesse esserci utile, poi le andai vicino prendendola per il gomito. Scalpitavo per uscire di lì. Aniata si bloccò.
“Hai preso la pietra?” mi chiese con un sospiro rassegnato.
“Che pietra?”
“La pietra di Rano Kau... Mahinete, ma non ti ho insegnato nulla in questi anni?”
Senza nemmeno risponderle iniziai a cercarla freneticamente per tutta la casa. Ero affannata, stanca, preoccupata e assolutamente poco lucida.
“Dov’è quella maledetta pietra?” sbuffai stizzita pestando un piede sulla terra rossa e profumata.
“L’avresti già trovata se riuscissi a calmarti. Non puoi sperare di sostituirmi se non impari l’arte della pazienza e della ragionevolezza.”
Il suo tono di voce era calmo, freddo e sapeva vagamente di rimprovero.
Mi ghiacciai, immobile, inginocchiata tra un tavolo e il pavimento e con le mani quasi del tutto immerse nella terra.
L’ennesima lezione di Aniata arrivava nel momento meno opportuno.
Sapevo che non potevo risponderle come il mio istinto mi suggeriva, così feci l’unica cosa possibile: respirai a fondo, abbassai le palpebre e con gli occhi del cuore provai a sentire le vibrazioni e l’energia della pietra. Percepii nell’aria la mia forza, frenetica e nervosa, che, come un sasso nello stagno riempiva l’acqua di cerchi evanescenti, scandagliando la casa in cerca della pietra.
“Non la trovo! Maledizione, non la trovo!” l’ansia non mi rendeva abbastanza lucida da affrontare quel pur semplice compito. Mi sentivo affrante e inutile.
“Basta Mahinete!” la voce imperiosa di Aniata mi sorprese, non usava mai quel tono se non quando era molto arrabbiata.
“Questo è il massimo che sai fare per tua sorella?” mi fissava, ed era incredibile come sembrasse vedere molto oltre il visibile.
“Ah, mia cara Mahinete, ne hai di strada da fare…” scuotendo la testa con aria desolata mi si avvicinò piano, mi mise una mano sulla nuca, e improvvisamente mi sentii percuotere dal più freddo, potente e sferzante di tutti i venti dell’oceano.
Chiusi gli occhi e mi lasciai trascinare dalla sua energia, mi alzai e mi diressi sicura verso una nicchia nella roccia.
Affidandomi a lei, dopo appena un battito di ciglia, avevo trovato la pietra e l’avevo messa nella sacca.
Aniata mi guardava, pur senza vedermi, con aria ironica e mesta. “Ah, ma quando imparerai Mahinete… ascolti ancora troppo il tuo cuore, e i tuoi istinti… finchè non li padroneggerai dovrai accontentarti della tua mente… ne parleremo di nuovo, in un altro momento, mia giovane allieva. Ma ora andiamo da tua sorella”
Sorrisi, finalmente sollevata, e mi avvicinai da sola alla soglia della casa. Sapevo che sarebbe stata perfettamente in grado di trovare la strada anche senza di me, e forse anche meglio di come avrebbe fatto se l’avessi accompagnata.
“Ti precedo” urlai schizzando via più veloce del pensiero. Mentre correvo sentii Aniata lasciarsi andare ad una risata argentina e vivace come quella di una bambina, e mi chiesi, per l’ennesima volta, come fosse possibile. Di certo la sua anima non era vecchia quanto il suo corpo poteva far pensare.
 
Vidi per primo mio padre, seduto su un masso, che parlava con un altro degli anziani del villaggio. Stava gesticolando in maniera nervosa e scoordinata, non riusciva a nascondere del tutto la tensione che lo attanagliava. In questi casi eravamo più simili di quanto gli sarebbe piaciuto ammettere.
Non vedevo da nessuna parte la mia matrigna, né alcuna delle mie sorelle, ma immaginai che fossero tutte dentro con Nanihi e così inizia a correre verso l’entrata, finchè un braccio, abbronzato e muscoloso, si tese come un fulmine davanti al mio viso, fermando bruscamente la mia corsa. Un urlo di frustrazione mi si strozzò in gola.
“Orava…” sibilai ferocemente con tutto la rabbia di cui mi sentivo capace.
“Togliti immediatamente di mezzo, o stavolta ti ammazzo sul serio!” alzai lo sguardo e fissai con sdegno e disprezzo l’uomo che meno tolleravo nel mio clan, e probabilmente nell’intero universo.
“Oh-oh! Mahinete è arrabbiata...” mi fissava con aria divertita, mentre scuoteva la testa sorridendo beffardamente.
“E come mai la tua strega non è qui? Ha deciso che non ne può più di farti da balia?” mi fissava con la sua solita aria arrogante e presuntuosa e, ancora, non mi lasciava passare. Ormai ero fuori di me e ad un solo passo dall’aggredirlo.
“La strega è qui, valoroso Orava, proprio dietro di te”
Solo io avevo avvertito i passi leggeri di Aniata, prima ancora di sentire la sua voce, e dentro di me iniziai a sorridere pregustando la vittoria sul borioso Orava, ‘grande, veloce ed ammirabile eroe’. I nomi dei Moehau avevano tutti un significato, percui non mi spievago il suo, non avevo ancora trovato niente di grande, veloce od ammirabile in lui.
“Dovresti imparare che guardarsi le spalle è il miglior modo di difendersi...” gli disse Aniata mentre lo superava con leggerezza.
Orava era inebetito e sorpreso dall’arrivo silenzioso e inaspettato di Aniata;  il rispetto dovuto all’anziana e il suo senso dell’onore non gli concedevano di ribattere.
“E ora ti consiglio di lasciarci passare”. Orava si fece da parte con deferenza, abbassando il capo, e Aniata passò tra la piccola folla che si era formata alle nostre spalle.
Quasi tutto il villaggio era lì, sullo spiazzo polveroso, in trepidante attesa della nascita di mio nipote; e intanto si intratteneva sbirciando l’ennesimo diverbio mio e di Orava.
L’anziana mi si avvicinò e mi fece un cenno veloce con la mano.
La sua ramanzina avrebbe atteso che fosse passata l’emergenza, ma ero certa del suo arrivo come ero certa che di lì a poco si sarebbe scatenata una bella tempesta, ed in entrambi i casi, ero preparata.
Passando accanto a Orava lo guardai con rabbia e sussurrai minacciosa verso di lui “Questa me la pagherai”. Ignorando il suo minaccioso sguardo di risposta, proseguii decisa, seguendo Aniata all’interno della capanna.

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Capitolo 2
*** 2 ***


L’aria dentro era satura degli odori più diversi: erbe, acqua salmastra, sudore, terra e attesa. Le mie sorelle più piccole erano distribuite ai margini della capanna e, tutte visibilmente scosse, parlottavano tra loro, mentre la mia matrigna era a terra e teneva alta la testa di mia sorella che sudava copiosamente, stringendo le palpebre e mordendosi la lingua per non urlare. Il silenzio era assordante. Dovevo romperlo se non volevo mettermi ad urlare dall’angoscia.
“Ci stavate aspettando?” dissi col tono di voce più allegro e squillante che riusciì a trovare nella mia gola stretta dall’ansia. Mia sorella non appena udì la mia voce spalancò gli occhi e sospirò; la gratitudine che lessi in quei gesti mi mise addosso una preoccupazione ancora maggiore. Mi avvicinai velocemente a lei, mentre Aniata e la mia matrigna parlavano sottovoce tra loro.
“Come stai Nanihi?” le chiesi dolcemente avvicinandomi a lei e prendendola tra le braccia. Mia sorella era nata tre anni prima di me, ma eravamo diverse come il giorno e la notte, il sole e la luna... ed era decisamente lei il sole di un giorno splendente.
Eravamo le uniche due figlie della prima moglie di mio padre, morta dandomi alla luce. Dopo poco tempo, nostro padre aveva preso una nuova moglie, Tehea. Il capoclan non poteva restare solo, aveva bisogno di una donna al suo fianco, e Tehea era indubbiamente la più bella e la più desiderata del villaggio. Avevano avuto altre tre figlie, ma nessun maschio, e probabilmente, vista l’età di Tehea, non avrebbero avuto altra progenie. Perciò era così importante questa nascita. E lo era per tutto il villaggio, che attendeva l’erede dell’ultimo valoroso Aitu, e che coltivava da tempo la speranza di vedere coi proprio occhi il nuovo sacerdote e dare inizio ai festeggiamenti che si preparavano da mesi.
“Sto malissimo Mahinete, mi sento morire, ho caldo e poi freddo, sono stanca, e ho paura...” si interruppe all’improvviso, piegata da una scossa di dolore troppo profondo per farla anche solo respirare.
 “Non voglio che lei lo sappia...” sussurò al mio orecchio spostando lo sguardo lucido verso Tehea.
“Voglio che stia il più lontano possibile da me e da mio figlio, per favore!”
L’implorazione negli occhi di mia sorella e il suo tono accorato mi convinsero sempre di più che non mi sarei mossa di lì, almeno fino alla nascita del piccolo.
Aniata era rimasta leggermente in disparte, armeggiando con la sacca che avevamo portato, poi venne verso di noi. Mi sorprendeva sempre come sapesse muoversi in maniera aggraziata e leggera, nonostante il suo mondo fosse fatto di sole ombre. Si accucciò vicino a mia sorella e iniziò ad accarezzarla piano, le mise le mani intorno al collo, poi ai polsi e infine sui fianchi. Le accarezzò lievemente la pancia.
“Sta bene ed è forte. Non manca molto Nanihi, respira a fondo e fra poco sarà tutto finito” dopo aver sussurrato dolcemente queste parole all’orecchio di mia sorella tirò fuori dalla sacca alcune foglie, dei semi e la pietra; poi mi chiamò.
“Mahinete, preparale un infuso... lascia che la pietra rimanga sul fondo” mise il tutto nelle mie mani, velocemente.
“No! Voglio rimanere con lei, non la lascio proprio ora, non chiedermelo” il mio tono di
supplica doveva essere evidente, perchè mi rispose con una certa tenerezza.
“Mahinete! Non era una richiesta. Sii veloce e precisa, e poi potrai tornare”
Ubbidiì, ancora una volta. Ero troppo preoccupata per non farlo, ma, soprattutto, non ero in grado di prendere nessuna decisione coerente, se non quella di eseguire gli ordini di Aniata, della quale mi fidavo nella maniera più assoluta.
L’anziana si alzò in piedi, così che tutte potessero sentirla.
“Dobbiamo rimanere da sole, uscite. Tutte” il suo tono perentorio non ammetteva repliche. Nemmeno un minuto dopo eravamo solo noi tre. Tehea non perse l’occasione di incenerirmi con lo sguardo, com’era sua abitudine.. La mancanza di cordialità era reciproca, ma avevo altro a cui pensare e soltanto con un angolo della mia mente presi nota dell’ennesimo sgarbo.
L’infuso era quasi pronto, stavo per togliere la pietra dal fondo quando un ringhio animalesco, cupo e profondo mi fermò la mano.
Mi voltai, terrorizzata, mentre Aniata, mormorando qualcosa che non riuscii a sentire, teneva le mani tra le gambe di mia sorella. Era stata Nanihi ad urlare in quella maniera.
Mi riscossi dal mio torpore e mi avvicinai a loro. Mia sorella sudava, era rossa in viso e aveva gli occhi spalancati, lo sguardo perso e vitreo, con i denti si mordeva le labbra e con le mani artigliava la terra sotto di sé. E dal più profondo del suo essere emetteva suoni lugubri, che non avrei mai nemmeno immaginato potessero appartenere ad un essere umano.
“Mahinete, la pietra, ora!” Aniata allungò la mano e le passai subito la pietra. La posò sul ventre teso di mia sorella, delicamente.
“Tienila, non farla cadere Mahinete” tesi spaventata la mano sulla pietra e, appena la sfiorai, una scarica di energia potentissima mi investì.
Sussultai spalancando gli occhi “Cos’era, Aniata?”
Mia sorella era fuori controllo, le sue urla erano senz’altro udibili fino al villaggio Aifa’.
“Non ora Mahinete” Aniata sudava copiosamente mentre mi intimava il silenzio.
Un borbottio in lontananza ci avvisò che la tempesta era ormai vicina.
E poi tutto finì.
In un attimo che cristallizzò il tempo e lo spazio intorno a sé, in quell’attimo, mio nipote, il nuovo sacerdote, venne alla luce, tra un grido, una lacrima, una pietra e un tuono.

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Capitolo 3
*** 3 ***


I festeggiamenti iniziarono la sera stessa. La tempesta sembrava essersi temporaneamente spostata, ma sapevamo tutti che sarebbe potuta tornare coi venti della notte. Erano stati preparati i cavalli migliori per la corsa che si sarebbe tenuta in onore del piccolo Nani. In molti erano intorno ai fuochi intenti a preparare il cibo che avrebbe allietato la festa, mentre altri ballavano e altri ancora suonavano. Il clan sarebbe andato avanti per tre giorni e tre notti, tra balli, canti e corse.
Ero ancora molto scossa da quello che avevo vissuto nel pomeriggio.
L’assenza del ricordo di mia madre mi aveva fatto temere per mia sorella più di quanto avrei amato ammettere, perciò avevo preferito nascondermi tra una capanna e l’altra, aspettando la corsa. Tracciavo dei disegni sulla terra rossa con un ramoscello, seduta su un masso dietro la capanna di mio padre, quando avvertiì sempre più vicina la presenza di Aniata e mi preparai all’inevitabile.
“Mahinete...” mi accarezzò il capo dolcemente “tutto sommato, sei stata brava...” Aniata si era fermata in piedi al mio fianco e si era voltata verso il mare che incombeva sotto di noi; sembrava quasi stesse annusando l’aria, percependo molto di più di quanto ognuno di noi potesse vedere coi soli occhi.
Rimasi a bocca aperta per lo stupore e lasciai cadere il ramoscello che tenevo stretto nel pugno. Un complimento di Aniata era più raro di una giornata senza vento, oltretutto non mi ero sentita affatto brava. Anzi.
“Sono stata un disastro! Non trovavo la pietra, ci ho messo dieci minuti a ricordare come fare un infuso che normalmente saprei fare anche senza guardare...”
Se avessi potuto, mi sarei strappata la linguaccia che mi ritrovavo con le mie stesse mani. Invece, tacqui all’istante, conscia e scossa dalla mancanza di rispetto che m’era scivolata dalla bocca. Ma Aniata mi sorprese di nuovo: scoppiò a ridere.
“Ragazza mia, stai tranquilla, so vedere più lontano io coi miei occhi ciechi di quanto possa fare tu coi tuoi...” non riusciva proprio a nascondere il tono di scherno nella voce ed era di nuovo sull’orlo di una risata mal trattenuta. Mi tranquillizzai e le posi la domanda che da ore mi premeva nella gola.
“Aniata... dimmi... è sempre così?”
“Cosa intendi?” il suo tono si era fatto improvvisamente serio; doveva aver intuito il mio stato d’animo forse meglio di quanto potessi fare io stessa.
“Mettere al mondo dei bambini... voglio dire... mia madre... e Nanihi... non lo so... so solo che io non lo farò mai...”
“Mahinete... la nascita non è mai una cosa semplice. Tutte le cose che nascono hanno prima fatto parte di qualcos’altro, devi sentirlo nel tuo cuore e ricordarlo sempre... credi che vengano dal nulla? Credi che quella creaturina sia nata poco fa? Esisteva già, era solo diversa. Ma esisteva, come me e te, come quell’albero, o il mare sotto di noi. Ha dovuto trasformarsi, diventare qualcos’altro... e i cambiamenti non sono mai indolori, semplici o puliti... capisci cosa intendo Mahinete?”
Certo che capivo, capivo perfettamente. Ma non volevo sentire. Non volevo sentire le ragioni del mio dolore, non volevo che tacesse, volevo che continuasse a essere la ragione delle mie ragioni. Mi sembrava tutto più facile così. Il mio silenzio dovette sembrarle piuttosto eloquente.
“Mahinete, non è colpa tua se tua madre è morta. Io ero lì, e credimi, non è colpa tua. Ma devi convincertene tu, e quando lo farai, sarai libera. Non dalla tua rabbia, ma dalla tua cecità. Il tuo mondo è fatto di ombre molto più del mio. Devi liberartene se vuoi essere all’altezza del compito che ti sei scelta. Devi sentire il tuo cuore e i tuoi istinti, ma devi farti guidare dalla tua ragione.”
Mi lasciò con queste parole e si allontanò verso la sua casa, mentre intorno a noi i festeggiamenti imperversavano.
 
            “Padre! Padre!” stavo correndo verso di lui, pronta a presentare la mia richiesta. Ero decisa ad ottenere un consenso e speravo che l’ottimo umore che regnava nel villaggio mi avrebbe aiutata.
Non aspettai nemmeno che si voltasse verso di me per parlare.
“Voglio partecipare alla corsa!” mi fermai e appoggiai le mani sulle ginocchia riprendendo fiato. Ero tesissima.
Si girò piano verso di me, con il sorriso congelato sulle labbra carnose e gli occhi neri sgranati dalla sorpresa, sovrastati dalle sopracciglie folte schizzate verso l’alto.
“Che cosa!?” si schiarì la voce con un colpo di tosse forte e profondo.
“Figlia mia, forse la nascita di tuo nipote ti ha confuso le idee...” il suo sguardo aveva acquistato una vena di condiscendenza che non mi piacque affatto e il sorriso sulle sue labbra dava a intendere che non mi aveva assolutamente presa sul serio.
“Padre, è proprio per la nascita di mio nipote che voglio e devo partecipare”
Si rabbuiò immediatamente.
“Non se ne parla nemmeno! E’ pericoloso e tu non sei in grado di...”
Lo interruppi come solo io potevo osare, guadagnandomi gli sguardi di rimprovero di tutti quelli che si trovavano nelle immediate vicinanze.
“Sono perfettamente in grado padre, e voi lo sapete! Potreste, in tutta onestà, affermare che tra i nostri guerrieri c’è qualcuno che cavalca meglio di me?” lo guardavo fiera e risoluta. Sapevo, come anche tutti i presenti, che quella era una verità incontrovertibile.
Mi sentivo la vittoria in tasca.
Nessuna donna aveva mai partecipato ad una delle nostre corse. Ma questo non significava che non potesse accadere e, d’altronde, nessuna delle nostre leggi lo vietava esplicitamente.
“Non è questo il punto, Mahinete!” stava iniziando a perdere le staffe, lo capivo dalla vena rigonfia e pulsante sulla sua fronte. Ma non avevo paura di lui, non avrei mai potuto averne. Ero così certa dell’amore di mio padre che avrei potuto sfidarlo altre mille volte senza temere niente. Forse era per la somiglianza con mia madre, ma sapevo che difficilmente avrebbe mai potuto negarmi qualcosa, e io ne stavo approfittando.
“Padre, non mi avete risposto...” sorrisi con sfrontatezza.
“Potreste affermare che, tra i nostri guerrieri, ne esiste anche uno soltanto, migliore di me a cavallo?” Il silenzio che si era creato mi stava facendo pregustare una vittoria completa.
“Certo che può farlo... c’è il sottoscritto!”
Alzai gli occhi al cielo e sospirai. Non mi girai verso di lui, volevo ignorare quello sbruffone di Orava finchè mi era possibile, perciò finsi di non averlo nemmeno sentito ma il ‘grande, veloce ed ammirabile eroe’ si intromise con assoluta noncuranza.
Mi sorpassò con passo felino e si avvicinò a mio padre, parlandogli con rispetto e deferenza.
“Grande Tanui... se posso permettermi, noi tutti conosciamo le abilità della piccola Mahinete, non deve dimostrare nulla...” mi guardò con aria di sfida e di scherno, sogghignando.
“Ma la corsa non è adatta ad una delle nostre ragazze. Oltretutto rischierebbe di venire umiliata e questo non si addice alla figlia dell’ultimo Aitu” sussurrò queste parole molto vicino all’orecchio di mio padre, che lo seguiva con la coda dell’occhio senza proferire parola.
Ero infuriata. Lasciai sfogare la mia rabbia urlando verso di lui.
“Taci Orava! Nessuno ha chiesto la tua opinione! O forse hai paura che sia io ad umiliare te?” Gliel’avrei fatta pagare, questa insieme a tutte le altre.
Mi si avvicinò in un lampo, veloce e implacabile mi prese il mento tra le dita della sua mano destra e spostò  il mio viso verso il suo, strattonandomi.
“Non provare mai più a zittirmi, ragazzina!” mi sussurrò con voce bassa e roca.
“Altrimenti?” non riuscivo a staccare gli occhi dai suoi e la tensione fra i nostri sguardi sembrava creare scintille nell’aria.
“Orava!” mio padre alzò la voce riscuotendo tutti.
Ci si avvicinò con calma sorridendo leggero “Orava! Sei un guerriero valoroso, ma con le donne non ci sai proprio fare!”
Scoppiò a ridere, contagiando quasi tutti con la sua allegria.
Orava abbassò la testa in segno di rispetto e se ne andò in silenzio, non senza aver prima scoccato uno sguardo di sfida nella mia direzione.
Lo ricambiai con un’occhiata che avrebbe incendiato il mare.
Mi rivolsi di nuovo a mio padre, intimandomi di mantenere un contegno. Non ancora soddisfatta, tornai alla carica.
“Allora padre? Posso correre?”
Il grande Tanui sospirò, volgendo gli occhi al cielo, poi sorrise verso di me.
“Figlia mia..” scosse la testa rassegnato.
Era fatta.
“Va a preparare il tuo cavallo. E non farmi fare una brutta figura... sei pur sempre mia figlia!”
Saltai al collo di mio padre abbracciandolo forte.
“Grazie! Grazie! Non ve ne pentirete! Sarà la corsa più bella di sempre e voi sarete orgoglioso di me!”
“Per ora pensa a non romperti l’osso del collo, mi basta questo, mia bimba degli spiriti” poi mi baciò la fronte. Lo presi come un congedo e mi rilassai, lasciando mio padre e gli anziani alle loro faccende.
Prima del cavallo e prima della corsa, dovevo pensare alla mia vendetta.

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Capitolo 4
*** 4 ***


    Lo trovai poco lontano, vicino ad un fuoco scoppiettante, intento a parlottare con uno dei suoi soliti tirapiedi, ragazzini affascinati dal grande guerriero, che speravano di seguirne le orme e guadagnarsene la stima. Non volevo dargli il vantaggio della mia collera perciò, prima di avvicinarmi e affrontarlo, mi fermai sull’orlo della scogliera a fissare le onde che si infrangevano sotto di me, tentando di calmarmi il più possibile.
Era uno spettacolo che mi affascinava sempre. Quella sera in particolare tutto sembrava catturare i miei occhi in maniera innaturale: la tempesta che rombava lontana, il riflesso della luna piena che si moltiplicava in mille scaglie di luce sull’acqua, e le stelle che sembravano brillare più del solito.
L’odore della salsedine aveva risvegliato la mia energia, la mia connessione col mare e con la nostra terra, con Rano Kau e con lo spirito di Orongo. Mi sentivo invincibile in quel momento, pronta ad affrontare lui e la corsa. E se le sfide si fossero sovrapposte, poco importava. Avrei affrontato entrambe contemporaneamente.
Mi avvicinai silenziosamente e, con il miglior tono di indifferenza che conoscevo, interruppi le loro chiacchiere.
“Si può sapere qual è il tuo problema?” gli chiesi con un ghigno sul viso che speravo essere degno di quello di mio padre. Non mi sforzai di sembrare gentile nè mi disturbai a chiedere scusa al ragazzino; ma evidentemente era abbastanza intelligente da capire che allontanarsi in quel frangente era la scelta più saggia, e così fece. Ero pur sempre la figlia di Tanui.
Orava si girò verso di me con sguardo divertito e un sorriso sghembo sul volto abbronzato. Mi squadrò da capo a piedi, fece un profondo respiro, poi tornò a rivolgere la sua attenzione al fuoco, come nulla fosse.
“Ma tu non ti stanchi mai?” la sua domanda arrivò alle mie orecchie chiara e limpida.
E mi spiazzò, più per il tono che per le parole. Sembrava amareggiato e mi pareva di intuire qualcosa d’altro nella sua voce, qualcosa al quale, però, non seppi dare un nome.
“Cosa intendi Orava? Sei tu che continui a starmi tra i piedi! Non posso muovere un passo senza che tu mi stia alle costole! Si può sapere cosa vuoi da me?” ero arrabbiata, molto, e doveva averlo capito, se non altro da quanto stavo gesticolando.
“Mahinete, non voglio discutere con te. Non ora.” lapidario e secco, come sempre.
Ero sbalordita.
Era la prima volta che Orava fuggiva da uno scontro con me.
Da bambini eravamo inseparabili. Andavamo a cavallo insieme, nuotavamo tra le onde e facevamo gare sciocche fino a sfiancarci. Poi, qualche anno prima, lui era stato scelto per diventare un guerriero, e io... beh, io seguivo il mio destino con Aniata.
A quel punto qualcosa tra noi si ruppe, anche se non saprei dire quando o come. I bambini che eravamo non esistevano più. L’Orava che conoscevo io non c’era più. E non potei far altro che rassegnarmi alla mia ennesima perdita. Ormai per me, come per tutti, non era altro che il migliore dei nostri guerrieri, per quanto mi costasse ammetterlo. Era freddo, calcolatore, scaltro e brutale. Opportunista e crudele in battaglia, indisponente e manipolatore nei rapporti con gli altri.
“Coniglio” non lo dissi con rabbia, ma come una semplice constatazione. Lo sussurrai quasi, aspettandomi una reazione che non tardò ad arrivare.
Si era lentamente girato verso di me, gli occhi fiammeggianti e i lineamenti decisi del viso contratti dalla rabbia: “Come mi hai chiamato?”
“Sei troppo prevedibile Orava.”
Sorrisi soavemente, anche se la sua rabbia mi incuteva una certa paura, che fui abile a  nascondere tra le pieghe della voce.
“Ti ho chiamato coniglio e se non ti è chiaro il concetto, posso spiegartelo” sputai queste parole come fossero veleno.
Mi si avvicinò scattando rapido e, proprio come prima, fu troppo veloce perchè potessi reagire. Mi afferrò l‘avambraccio sinistro con la mano destra e strinse forte. Mi faceva male, ma non gli avrei mai dato la soddisfazione di vedermi sofferente a causa sua, perciò sostenni ostinatamente il suo sguardo, sfidandolo. Strattonandomi mi avvicinò a sè con uno scatto rabbioso e violento, il suo petto premeva sul mio e sentivo il suo respiro caldo sulla mia fronte.
“Mahinete...” sibilò lentamente nel mio orecchio sinistro “Stai giocando col fuoco, e credimi... tu non vuoi bruciarti”
Non riuscivo a muovere un muscolo, avevo davanti agli occhi la vena del suo collo che pulsava visibilmente e non riuscivo a distogliere lo sguardo dalla sua pelle. Il fuoco che splendeva dietro di lui lo faceva apparire ancora più minaccioso. Dovetti deglutire prima di riuscire a rispondergli.
Quando ripresi possesso delle mie corde vocali, sibilai piano nel suo orecchio, con tono quasi dolce, come lui aveva fatto con me.
“Orava... non osare nemmeno pensare di sapere cosa voglio... non farlo mai più” avevo abbassato ancora di più il tono di voce.
Improvvisamente mi lasciò il braccio come si fosse scottato, tornando a guardarmi ostinatamente negli occhi. Quando si allontanò da me, sentii improvvisamente freddo.
I suoi occhi mi guardavano con una luce che non riuscivo a decifrare, ma era diversa da qualunque altra cosa avessi mai visto, e mi fece tremare.
“Mia piccola Mahinete degli spiriti... non oserei mai” parlò talmente piano e con tono così profondo che pensai di averlo solo sognato. Poi liberò il mio sguardo, si girò e se ne andò velocemente, oltrepassando il fuoco.
Io rimasi a fissare il falò, intontita e scioccata, chiedendomi cosa fosse davvero successo, mentre la sua figura scura si allontanava nella notte e rimpiccioliva fino a diventare un’ombra tra i fuochi.



Il mio spazietto
non voglio rubare tempo a chi già ne sprecherà leggendomi, quindi sarò breve... per ora questa storia ha avuto soltanto una recensione, anche se alcune visualizzazioni, e onestamente mi chiedo se sia il caso di continuare o no... l'idea è che possa avere dei riscontri, di qualunque tipo, per migliorare la storia se e dove sia possibile... quindi pls help me! :) ho assoluto bisogno di sapere cosa ne pensate, anche se non vi piace eh! purchè me lo diciate :)

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Capitolo 5
*** 5 ***


“Rorotea... stasera dobbiamo essere più veloci del fulmine... dobbiamo fargli mangiare la polvere a quel presuntuoso...” stavo intrecciando la criniera del mio fedele cavallo, e cercavo di prepararlo alla corsa ormai imminente, sussurrandogli nelle orecchie. Era già concentrato, teso e pronto a scattare. Sentivo i suoi muscoli caldi e guizzanti, pronti a dare battaglia. E io mi sentivo carica esattamente come lui.
Mi ero incamminata senza una meta precisa dopo la discussione con Orava. Poco più tardi avevo trovato Rorotea che brucava solitario in uno spiazzo d’erba più a valle. Durante la festa si era già sparsa la voce della mia partecipazione alla corsa, e potevo immaginare in quali termini, ma non me ne curavo. Avrei dato una bella lezione a Orava e a tutti i chiacchieroni del villagio. Almeno questa era la mia intenzione.
Ero assolutamente sicura di potercela fare, e mi fidavo ciecamente di Rorotea... ma avevamo sempre cavalcato da soli, sulla spiaggia o per la scogliera. E le uniche gare che avevamo mai fatto erano contro il vento e le onde. Dovevo ammettere, almeno con me stessa e con il mio fidato cavallo, di essere un pò preoccupata.
Improvvisamente il rullo dei tamburi del villaggio mi riscosse dai miei pensieri. La corsa stava per iniziare, dovevo muovermi.
“Sei pronto?” sorrisi e accarezzai affettuosamente il mio cavallo che mi fissava, serio e concentrato.
Mi tolsi il vestito della festa, troppo scomodo per cavalcare, e rimasi col minimo indispensabile indosso. Vagamente pensai che forse mio padre avrebbe avuto da ridire dopo, ma ora non importava.
“Andiamo” saliì in groppa con un salto, presi le redini in una mano e spronai Rorotea ad avanzare su per la salita verso il villaggio.
In lontananza vedevo già le cime delle capanne e i fumi dei falò, sentivo sempre più vicini i tamburi e il ritmo del mio cuore aumentava insieme a quello della musica. Sul lato orientale del villaggio i cavalieri si stavano preparando, i cavalli fremevano e il resto del clan era in attesa intorno al piazzale erboso dal quale saremmo partiti.
Mi avvicinai agli altri lentamente. Dovevo trattenere Rorotea che alla vista degli altri cavalli si era agitato, intanto ne approfittavo per studiare i partecipanti. C’erano alcuni miei parenti, cugini per lo più, e qualche fratello di mio padre; e c’era ovviamente Hoanui, che contava di vincere per suo figlio e sembrava tanto felice quanto concentrato.
“Questa corsa sarà mia!” mi disse salutandomi allegramente. “Ho saputo che correrai anche tu Mahinete! Ne parlano tutti. Pensano che la nascita di Nani abbia fatto dare di matto a tuo padre…” sorridemmo insieme prima che continuasse “Ah, mi raccomando, fa’ attenzione! A tua sorella si spezzerebbe il cuore se ti accadesse qualcosa, e non me lo perdonerebbe mai”
“Oh! Grazie della fiducia Hoanui! Soprattutto grazie di preoccuparti per me! Me ne ricorderò!” dissi divertita mentre sorridevo di nuovo all’indirizzo di mio cognato, poi mi allontanai dandomi ancora un’occhiata intorno.
La corsa sarebbe partita dal villaggio, e lì si sarebbe anche conclusa. I cavalli avrebbero dovuto costeggiare il lato nord dell’isola, passando per la spiaggia e gli scogli di Tahai, proseguire fino alla spiaggia di Anakena, aggirare il villaggio Aifa’ (possibilmente senza incontrarne gli abitanti), salire in cima al Poike e tornare indietro attraverso la costa sud, che era in assoluto il posto meno ospitale, più aspro, pericoloso e insidioso dell’isola.
Le rocce li erano frastagliate, aguzze e scivolose, non c’era spiaggia, non c’era prato. Solo rocce e terra rossa. Era il tratto che mi spaventava di più: io e Rorotea saremmo stati  stanchi e provati dalla strada percorsa fino a quel punto, e in più sarebbe stato completamente buio, il sole ormai era calato del tutto e gli altri erano più abituati di noi a percorrere quella strada. Ma ero fiduciosa.
Mi ero allungata e accucciata sulla schiena e sul lungo collo di Rorotea per accarezzargli la criniera e tranquillizzarlo, quando nitrì e scosse il capo per attirare la mia attenzione. Sollevai lo sguardo per vedere cosa l’avesse turbato e finiì per incontrare gli occhi scuri e selvaggi di Orava.
Sorrise, ma solo a metà, come faceva sempre, un sorriso che sembrava più un ghigno che un vero sorriso, in effetti.
“Allora corri davvero…” prese a far girare il suo cavallo intorno al mio, come per studiarci con aria sorniona.
“Sei sorpreso?” continuai ad accarezzare Rorotea senza guardarlo, con noncuranza, nonostante la sua presenza, e quella sorta di accerchiamento, mi infastidissero più del dovuto.
Rispose con voce piatta e apparentemente sovrappensiero.
“Sono sorpreso, in realtà, del fatto che tuo padre non ti abbia ancora detto che non ci si presenta ad una festa sacra... in quella maniera!” e poi fece un gesto con la mano che mi fece letteralmente infuriare, di nuovo. Mi aveva indicata e guardata come fossi letame.
Spalancai la bocca troppo arrabbiata per trovare le parole.
Boccheggiai un pò prima di ritrovare la voce.
“Tu! Arrogante…viscido…” se in quel momento non fosse arrivato mio padre, sarei esplosa come uno dei nostri vulcani.
Mi interruppe con voce tonante.
“Orava ha ragione…” disse brusco e con aria estremamente seria “In quel modo farai il bagno in mare con le tue sorelle, non una corsa sacra come questa. Te lo proibisco. E non voglio sentire altro da te.”
Aveva ragione, ovviamente. Oltretutto non potevo tirare troppo la corda: almeno per oggi, avevo già avuto la mia vittoria. Scesi da cavallo e presi un pareo poggiato su una panca lì vicino, me lo drappeggiai intorno al collo e poi lo incrociai tra i seni, in modo da mantenere le gambe libere, ma anche da coprire la pancia e la schiena, quasi fino alle ginocchia. Per lo meno non ero più soltanto coperta da un pantalone cortissimo e un reggipetto.
“Così è accettabile, padre?” dissi piano e con timore.
Sentii Orava ridacchiare e non riuscii a trattenermi oltre. Mi girai ferocemente verso di lui, e lo aggredii con furia fredda e violenta. Mi allungai e presi le redini del suo cavallo tra le mani tirandole forte verso di me, strattonandolo.
“Riderai ancora, dopo che Rorotea avrà distrutto e umiliato te e questo fantoccio di cavallo?” sibilai trattenendo a stento la mia rabbia.
Offendere il cavallo di un guerriero, per il nostro popolo, era come offenderne il fratello o l’amico più caro. Ma io volevo provocarlo, farlo infuriare quanto lui faceva con me. Eppure, nemmeno quella volta ci riusciì.
Rise ancora più forte, poi, ignorandomi completamente, si riprese le briglie e si allontanò elegantemente al trotto. Mi girai implorante verso mio padre.
“Lo odio!” pestai i piedi e digrignai i denti “Non potreste esiliarlo padre? Vi prego!”
Sorrise, come se trovasse immensamente divertenti queste nostre schermaglie. Mi rispose con dolcezza.
“Figlia mia, non voglio esiliarlo, e se anche volessi, non potrei.” ridacchiò un pò prima di aggiungere che comunque, secondo lui, non gliel’avrei mai perdonato.
Poi mi lasciò così: arrabbiata e perplessa. Ma decisamente più coperta.
 
Eravamo pronti e in riga sul piazzale, un cavallo vicino all’altro. Come prevedevo io e Rorotea eravamo stati oggetto di scherno e occhiate continue, che avevo ostinatamente tentato di ignorare.
Finalmente mio padre intimò il silenzio e invitò tutti a prepararsi alla partenza.
Era di fronte a noi, in groppa al suo enorme cavallo pezzato, trottando avanti e indietro, in attesa che fossimo tutti allineati e che sul piazzale regnasse il silenzio.
Mio padre, il grande Tanui, era temuto e rispettato da tutti, anche dai nostri nemici del villaggio Aifa’. Le sue gesta nel corso della battaglia del ‘Te pito o te henua’ erano diventate leggenda, fonti di canzoni e storie infinite. Io ero troppo piccola quando la guerra finì e non avevo ricordi di quel periodo. Dopo qualche anno di inutili tentativi smisi anche di fare domande a mio padre, il quale evitava sempre accuratamente di dare delle risposte. Mi ero dovuta accontentare dei racconti degli altri, e ormai sapevo che così sarebbe stato sempre.
“Cavalieri!” la voce di mio padre risuonò tonante e decisa.
“La corsa di oggi è sacra. Il vincitore non avrà solo gloria e fama, non sarà soltanto ricordato nelle nostre canzoni e nelle nostre preghiere per sempre, ma, prima di tutto, sarà il protettore di mio nipote Nani. Sarà l’ombra e il primo aiuto del nuovo sacerdote. E’ un onore cavalieri…” si stava lentamente allontanando dal piazzale, spostandosi lateralmente rispetto al gruppo di cavalli “…perciò, onorate questa corsa e il nostro generoso Make Make che ha voluto donarci questo giorno di gioia…” nessuno riusciva a distogliere lo sguardo da lui.
Tese la mano nella quale teneva una delle nostre innumerevoli pietre rosse e porose, e dopo un attimo di silenzio irreale la lasciò cadere urlando.
“Avanti!!!”



Il mio spazietto:
aumentano le visualizzazioni, ma ancora nessuna nuova recensione :( e ditelo che vi fa schifo, almeno smetto di aggiornare e non vi tedio più ;) no sul serio, ho bisogno di qualche commento costruttivo... se potete, mi fate un enorme favore... grazie sempre e comunque di aver letto (almeno presumo lo abbiate fatto, se siete arrivati a leggere qui!)

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Capitolo 6
*** 6 ***


IL MIO SPAZIETTO (pre-capitolo stavolta!) Questo è un capitolo breve, molto, ma cruciale... incontrerete un personaggio fondamentale per tutto il resto della storia... continuo perchè mi sento ancora ottimista, spero di avere qualche recensione... eh su che non si pagano!!! ;)

Dopo pochi secondi ci eravamo lasciati alle spalle il villaggio e i suoi abitanti. Eravamo tutti vicini e formavano una nube polverosa e palpitante di muscoli, sudore, fiato e terra.
Quasi tutti i cavalieri si erano fatti dipingere dalle donne dei simboli rituali sul corpo, ma io, in quanto donna ancora nubile, non potevo farlo. Mentre cavalcavo notavo ogni tanto un segno blu su un corpo che mi sfrecciava accanto, in questa maniera mi ero fatta l’idea di essere più o meno nel centro del gruppo. Non volevo spingere al massimo Rorotea, non ancora almeno, preferivo prima vedere come si sarebbero assestati gli altri nel primo tratto, dal momento che avrei avuto ancora molto tempo per recuperare e non volevo che il cavallo si sfiancasse troppo. Nella parte finale avremmo avuto bisogno di tutte le nostre energie.
Dalla mia posizione riuscivo a vedere Orava che conduceva il gruppo, apparentemente senza sforzarsi nemmeno troppo. Stavamo passando più o meno indenni per la prima parte di Tahai, che era sabbiosa e non presentava particolari rischi. Decisi che avrei osato di più sugli scogli. Rorotea amava quel tratto, perciò contavo di lasciare indietro qualche cavallo dei meno agili e giovani proprio lì. Sentivo che annusava l’aria e mi tenni stretta al suo collo chiudendo gli occhi e lasciando che avvertisse la mia decisione di avanzare e guadagnare terreno. Poggiai la mia fronte sulla sua nuca tenendomi forte alla criniera e strinsi i talloni e le ginocchia ai suoi fianchi. Nello spazio di un pensiero Rorotea era schizzato avanti, le narici dilatate e il muso abbassato verso il terreno. Io lo assecondavo nei movimenti mentre lo spronavo. Stavamo guadagnando terreno.
Seguivo il gruppo di testa ormai, formato da Orava e da Hoanui affiancati, e da altri tre cavalieri alle loro spalle che non riuscivo a riconoscere. Eravamo una ventina, e avevo davanti solo cinque cavalieri, ma più della metà dell’isola ancora da percorrere.
Non avevo voluto pensare a come passare indenne il tratto che affiancava il villaggio Aifa’, non ancora. Era rischioso. Certo, non c’erano più stati contatti tra i nostri clan dopo la fine della guerra per l’Ombelico, ma capitava, ogni tanto, che piccole diatribe o rivalità minori tra singoli guerrieri rischiassero di riaccendere la miccia delle ostilità. Eravamo consapevoli che un passaggio di venti cavalieri poteva essere considerato una vera e propria minaccia, se non addirittura una sfida aperta.
Il passaggio senza conseguenze, invece, ci avrebbe assicurato che Make Make aveva gradito la nascita e la consacrazione di Nani come nuovo sacerdote. Il caso contrario sarebbe stato letto come un segnale negativo e di sfortuna per l’intero villaggio.
Ormai ero vicinissima ai tre cavalieri del gruppetto che seguiva Orava e Hoanui, ma dovevo far riprendere fiato a Rorotea, perciò continuai a tallonarli, ma non troppo da vicino. Preferivo evitare che intuissero le mie intenzioni e le condizioni ancora buone del mio cavallo. Dalla mia avevo la sorpresa, e dovevo giocarmela bene.
Eravamo sempre più vicini al villaggio Aifa’. Decisi che, almeno per quanto mi riguardava, avrei portato Rorotea quasi a passo d’uomo, e sarei passata tra un albero e l’altro sperando che la notte mi proteggesse.
Alcuni dei cavalieri che mi precedevano si muovevano più vicini all’oceano, evidentemente volevano continuare a correre sfruttando il rumore dell’acqua sugli scogli per coprire quello dei cavalli al galoppo. Erano in posizione più scoperta rispetto alla mia e la luna piena di quella notte avrebbe stagliato nitidamente le loro figure sullo sfondo nero dell’acqua. Dovevano contare su una buona dose di fortuna.
Io fortunata non mi sentivo, e scelsi la via più lenta ma che mi pareva più sicura. Tra gli alberi ero da sola, procedevo piano ma costantemente, e intanto Rorotea si riposava un po’, prima di intraprendere la parte più difficile della corsa.
“Amico mio” dissi accarezzando la criniera del mio cavallo “riprendi fiato, dopo dovrai correre come non hai mai fatto prima.”
Sussurrai al suo orecchio continuando ad accarezzarlo. “Finora sei stato bravissimo, il migliore, ma dobbiamo fare ancora meglio”
Improvvisamente sentii come un fruscio, o il rumore di un rametto spezzato dietro di me. Feci girare Rorotea immediatamente, mentre guardinga ispezionavo lo spazio intorno. Non vidi nulla di strano; cercavo di scrutare tra le fronde degli alberi, ma era troppo buio.
Continuavo ad avvertire una strana sensazione, come se gli alberi mi osservassero. Mi spostai solo qualche metro più avanti e, proprio mentre Rorotea ubbidiva ai miei ordini silenziosi, con la coda dell’occhio notai un luccichio tra i tronchi alla mia destra.
Ero ormai certa che ci fosse qualcuno e mi dibattevo tra il desiderio di scappare e la curiosità di vedere chi fosse. Vinse la curiosità.
Una voce dentro di me, che per un attimo mi parve somigliare paurosamente a quella di Orava, mi sussurrò che ero prevedibile in maniera imbarazzante. La ignorai.
Rimasi in groppa e finsi di voler continuare per la mia strada avanzo di qualche spanna. All’improvviso strattonai le redini e  Rorotea scattò veloce come il fulmine verso gli alberi.
Accadde tutto in un attimo e senza nessun tipo di preavviso i miei occhi si immersero dentro un altro paio di occhi, giovani come i miei, ma sorpresi e leggermente spaventati.
Era alto e longilineo, con gli occhi del verde più intenso che avessi mai visto e mi fissava curioso e apparentemente senza paura, mentre per evitare Rorotea si era schiacciato contro il tronco di una palma.
Non sapevo cosa fare, ci fissavamo da qualche secondo ormai, entrambi in silenzio. Fermi: io a cavallo, lui a piedi. Ci scrutavamo. La parte della mia mente ancora ricettiva si era resa conto che, da come era tatuato il suo corpo muscoloso e abbronzato, doveva essere qualcuno di importante del villaggio Aifa’.
Temevo che qualunque cosa si fosse cristallizzata in quel momento, al minimo accenno di movimento, si sarebbe potuta infrangere in mille pezzi.
All’improvviso una consapevolezza spaventosa si fece strada nella mia mente: stavo mettendo a rischio il mio intero villaggio, e tutta la mia famiglia. Per la mia stupida curiosità.
Mi guardava divertito, aveva un sorriso sincero sul volto e nessuna cattiva intenzione. Alla fine parlò lui.
“E tu chi saresti?” mi chiese inarcando un sopracciglio.
“Io… io….” Mi guardavo intorno cercando una sorta di ispirazione che mettesse fine a quel momento di imbarazzo. Non riuscivo a mettere insieme una frase di senso compiuto, non se continuava a guardarmi in quella maniera. E non sapevo nemmeno spiegarmi perchè.
“Tu? Continua...” era gentile, il suo tono aveva qualcosa di caldo e confortevole, e il suo sguardo mi invitava a continuare. All’improvviso, mi ricordai chi fosse, o per lo meno a chi appartenesse. E mi ricordai che cosa ci facevo lì.
La corsa! Avevo già perso troppo tempo.
“Io sono Mahinete, figlia di Tanui il Grande” lo dissi con tutta l’arroganza di cui ero capace, fissandolo piena dell’orgoglio di sapere chi ero e da dove venivo. Poi, alla velocità della luce me ne andai, proseguendo la mia corsa. Non senza prima aver dato un’ultima occhiata veloce al ragazzo con gli occhi verdi, che mi guardò andar via fissandomi con una strana luce negli occhi.

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Capitolo 7
*** 7 ***


Non dovevo aver perso molto terreno, mi ero allontanata per pochissimo tempo, ma non potevo rischiare di perdere di vista gli altri cavalieri, perciò spinsi Rorotea al galloppo appena fummo fuori dal territorio nemico. Non riuscivo però a dimenticare quello che era accaduto nella foresta, lo strano incontro con l’Aifa’. Mi chiedevo soprattutto come mai non avesse chiamato immediatamente a raccolta i guerrieri del suo villaggio, o come mai non mi avesse attaccata o uccisa o qualunque altra cosa io stessa avrei fatto al suo posto. Mi imposi di smetterla, dovevo concentrarmi sulla corsa e dovevo raggiungere gli altri.
“Vai Rorotea, vai…” urlai al mio cavallo con tutto il fiato che avevo in gola, e decisi che non mi sarei più fermata fino all’arrivo al mio villaggio. Non c’era ormai altro modo di giocarmela. Gli altri si erano allontanati troppo.
All’improvviso mi trovai davanti alle pendici del vulcano Poike, e appena dietro la curva della montagna vidi in lontananza alcuni degli altri. Non riuscii a capire chi fossero, ma spinsi i talloni nei fianchi di Rorotea in maniera spasmodica, finchè non fummo abbastanza vicini da distinguerli. Non era il gruppo di testa, ma non dovevano essere troppo lontani nemmeno loro, visto quanto stavano correndo i cavalieri. Continuai a spronare Rorotea fino a che non superammo di volata il gruppo, che sembrava essersi assottigliato. Evidentemente qualcuno doveva essere rimasto indietro o doveva aver rinunciato. Li passai senza troppa fatica. Sapevo che stavo rischiando di sfiancare Rorotea, e in vista del tratto finale della corsa poteva non essere una buona idea. Ma sentivo di non poter fare altrimenti. Stavamo correndo come avessimo alle calcagna frotte di Aifa’ infuriati. Mi resi vagamente conto dei capelli che mi frustavano viso e spalle, evidentemente dovevo aver perso il laccio di cuoio regalatomi da mio padre; anche il pareo ormai lo stavo perdendo, era rimasto quasi solo intorno al collo e appena poggiato sul petto.
All’improvviso potei scorgere, dietro degli scogli enormi e ferocemente impervi, le sagome del gruppo di testa stagliarsi contro la luce della luna piena. Quella vista mi riempì di nuova determinazione.
“Avanti Rorotea, avanti!” spronai di nuovo il mio cavallo e vidi i profili degli altri avvicinarsi ad una velocità che non credevo possibile. Urlai di gioia mentre li superavo e facevo imboccare a Rorotea il primo tratto della costa sud. Sentii immediatamente degli zoccoli e l’ansimare furioso di un cavallo dietro di me che riguadagnava terreno.
Ero certa che fosse quel pallone gonfiato di Orava.
“Ti eri persa?” lo sentii urlare dietro di me.
“Ho deciso che potevo riposarmi visto quanto siete lenti tu e il tuo cavallo!” risi e urlai nel vento.
Mi fu al fianco un momento dopo. Sorrideva, e per un attimo, un solo attimo, mi sentii di nuovo come fossimo solo Mahinete e Orava. Non il guerriero e la donna degli spiriti.
“Non penserai davvero di poter vincere?” ecco, appunto.
Fu solo un attimo, dopo il quale ci fu il prevedibile e brusco ritorno alla realtà.
Cavalcavamo vicinissimi sulla scogliera. Un solo movimento sbagliato ed entrambi saremmo finiti male, molto male. Ne eravamo entrambi consapevoli, ed avevamo leggermente rallentato l’andatura, come in una sorta di tregua.
“Perchè?” urlò Orava nel vento.
“Perchè, cosa?” gli risposi voltandomi leggermente verso di lui da sopra la spalla.
“Perchè hai voluto correre?” non era irritato e non stava cercando di provocarmi. E questa certezza mi spiazzò al punto tale che l’unica maniera per rispondere, era quella di usare il mio solito e rassicurante sarcasmo.
“Per darti una lezione, sbruffone!” gli urlai sogghignando. Afferrai le redini di Rorotea il più vicino possibile al suo collo e la spronai furiosamente, allontanandomi da lui il più velocemente che potevo. Se fossi rimasta anche solo un altro secondo avrei rischiato di passare dallo stato di assoluta euforia nel quale mi trovavo, a quello decisamente più scomodo, ma indefinibile, nel quale Orava a volte riusciva a gettarmi. Decisi di proseguire con ferocia la mia corsa e non badai nemmeno più al terreno instabile, alle rocce infide e alle onde furiose sotto di me. Volai sulle ali della mia rabbia cieca e della fiducia incondizionata nel mio cavallo. 
Non mi volsi più indietro.
Quello fu solo il primo dei miei errori.

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