Sunset's blood

di Marti88
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Nuova strada ***
Capitolo 2: *** Si salvi chi può. ***



Capitolo 1
*** Nuova strada ***



Correvo, come mai prima d’ora. Brevi sguardi all’essere alle mie spalle per poi riportare i miei occhi sulla strada deserta, ma allo stesso tempo, vittima del caos della strage. Il non-morto, che aveva l’acquolina in bocca (per quanto potesse ancora chiamarsi così), iniziava a rallentare, forse perché il suo piede si stava staccando, o forse perché anche quei “cosi” possono stancarsi (opzione meno probabile). Lanciai un’occhiata alla mia 44 magnum scarica, mi servivano munizioni. Cominciai a sentire un forte dolore al fianco, correvo veloce... molto veloce. Scrutai attentamente tutto ciò che mi circondava, ma niente di abbastanza forte per colpire lo zombie. Arrivai davanti ad un’officina meccanica e mi ci fiondai, sperando di trovare un piede di porco o anche una chiave inglese. Con l’adrenalina e la tensione che scorreva tra le mie vene, cercai dentro i cassetti. Non c’era niente. NIENTE. Il panico stava arrivando. No, era già dentro di me. “Calma Kathrin. Ce la farai Kat.” Mi dissi. Sentivo lo zombie ansimante che si avvicinava, il rumore dei suoi passi era sempre più vicino, il mio cuore batteva a mille e lanciai sguardi ovunque in cerca di un’arma improvvisata. Sentii i suoi passi a pochi centimetri da me. Mi voltai di scatto e mi ritrovai faccia a faccia con quell’abominevole scherzo della natura. Mi allontanai, terrorizzata, mentre lui tentava di assaggiarmi. Non gliel’avrei permesso. Mentre indietreggiavo, calpestai qualcosa. Un cacciavite! Mi chinai a raccoglierlo ma lo zombie era già vicino a me. Il cacciavite mi scivolò dalle dita ma agilmente lo ripresi e lo conficcai nella fronte del non-morto, il quale, continuava a rimanere in vita. Dopo qualche tentativo, riuscii a farlo cadere a terra ma, non essendo sicura di averlo “ucciso”, scappai, sperando di non incontrarne altri. Il sole picchiava sull’asfalto sgretolato, macchiato di sangue innocente, caldo e diverso. Tutte le volte che avevo alzato gli occhi al cielo, lui era sorridente e splendente ma, al giorno d’oggi, era malato e triste. Brutto. Camminavo strusciando i piedi a mo’ di zombie (tanto per restare in tema), non c’era anima viva, nessuno che avrebbe potuto aiutarmi. Continuavo ad avanzare senza meta, nella speranza di essere soccorsa. Ma nessuno avrebbe aiutato una sconosciuta, ora, tutti pensavano a loro stessi, evitando situazioni scomode e rimanendo al riparo. Era anche un qualcosa di giusto, dopotutto, nemmeno io avrei aiutato un estraneo quando io stessa stavo male. Osservavo malinconica la boscaglia ai lati dell’autostrada. Non era color verde, ma un giallo scialbo e triste. Era primavera. Nell’aria odore di gasolio e benzina, forse anche puzza di bruciato. I non-morti emanavano un odore a dir poco disgustoso. Ma non appestavano l’aria, fortunatamente. Lanciai un’occhiata allo zombie che avevo abbattuto (o meglio, speravo), era ancora lì immobile. Sentii il sollievo accarezzarmi la pelle e tutto l’ossigeno di troppo uscì via con un sospiro. Ero stufa, controllai un’auto vicina e ci entrai. Non riuscii a metterla in moto, così, mi stesi nei sedili posteriori. Chiusi gli occhi. Il silenzio era assordante, neanche un po’ di vento, nulla. Mi addormentai. Sognai di essere nel mio salotto a vedermi uno dei miei programmi preferiti. Era un sogno figo, riuscivo a sentire tutti gli effetti sonori del programma: degli spari, la fuga in auto, i litigi (anche se non capivo bene di cosa discutessero).  «Ehi... », una voce maschile arrivò alle mie orecchie mentre venivo scossa da una mano.  «Ehi tu! Sveglia!», gridò. Mi alzai di scatto, sicura di essere sul punto di morire. Posai la mano sulla fondina, vuota. «Calma!», disse il giovane chino su di me. M’immobilizzai, fissandolo. «Ciao», sorrise. Era un bel volto. Giovanile. Gli occhi scuri, i capelli neri fissati con del gel, la barba un po’ trasandata ma corta (probabilmente, l’accaduto, gli impediva di radersi spesso) e la pelle altrettanto scura. Aveva delle macchie d’olio di motore su viso e sulle mani. Mi guardai attorno, ero sull’auto, ma essa non era più sull’autostrada nella quale mi ero persa. Ero in uno spiazzo verdeggiante, una roulotte, due fuoristrada e due motociclette. «D-dove sono?», balbettai ancora spaesata. «Ti abbiamo portato in un luogo sicuro. Non è consigliabile dormire in un’auto nel bel mezzo dell’autostrada, lì gli zombie fanno delle parate, non lo sai?», scherzò. «Abbiamo?», chiesi siccome io vedevo solo lui e nessun altro. «Gli altri stanno arrivando e alcuni sono nella roulotte, temiamo che tu sia contagiata», disse con tono esperto. Contagiata? No, nessuno mi aveva morsa... o almeno, lo speravo! Mi auto-scrutai, ma non vidi niente di preoccupante. «Posso dare un’occhiata?», mi chiese indicando fuori. Voleva “perquisirmi”. Uscii dall’auto, notando della gente affacciata alla finestrella della roulotte. Il ragazzo si avvicinò con un sorriso malizioso. Chiusi gli occhi ignorandolo e mi feci perquisire. Passò le mani sulle braccia, alzò la maglietta, senza esagerare, osservò i miei jeans soffermandosi dove avrebbe morso un cane arrabbiato e non uno zombie. Controllò sotto le parti sporche di sangue per essere sicuro che fossero solo macchie. «Tutto ok», sorrise, «Tutto ok gente!», ripetè gridando verso la casa con le ruote. La gente all’interno della roulotte esitò, ma dopo qualche istante uscì. C’erano tre bambini, cinque ragazze e un signore anziano con un grosso fucile in mano, probabilmente una banale doppietta. «Loro sono Tom, Kate e Jenn», cominciò il ragazzo al mio fianco, indicando i tre bambini, il maschio, Tom, era piuttosto mingherlino, con i capelli e gli occhi chiari. Kate era anche lei bionda, occhi azzurri e assomigliava moltissimo a Tom, probabilmente erano fratelli. Infine, Jenn, era diversa, ma allo stesso tempo bella. Aveva i capelli scuri, e gli occhi azzurri. Era piuttosto bassa rispetto agli altri due e aveva uno sguardo innocente e molto dolce. «Loro sono Matilde, Selly, Abbie, Georgia e Marta», le cinque donne, tutte molto diverse, che avevano un viso che raccontava una storia altrettanto diversa, Matilde aveva una corporatura così esile, che dava l’impressione di spezzarsi, due enormi occhiaie nascevano sotto gli occhi, ma niente da ridire, probabilmente io ero messa peggio di lei. Selly, aveva i capelli corti color miele, un viso dolce che le dava l’aria di perfetta mamma e casalinga, secondo una mia ipotesi lei era la madre dei due bambini, Tom e Kate. Abbie più che una donna era una ragazza, come me. Ma sembrava molto diffidente. Georgia e Marta erano molto simili fisicamente, magari erano parenti. «e infine c’è Billy. Dì “ciao” Billy!», scherzò riferendosi al più anziano. Egli però si voltò ignorandolo ed emettendo uno strana suono scocciato. «Ah, dimenticavo: io sono Adam», sorrise. «Tu? Come ti chiami?», mi chiese. Un po’ spaesata e intontita da tutti quei nomi, «Kat», risposi. Mi guardarono un po’ perplessi. «Come gatto?», mi prese in giro Adam (l’unico di cui ricordavo il nome). «No, è l’abbreviazione di Kathrin», sospirai. «Ok... beh, benvenuta», il suo entusiasmo si smorzò e tornò dentro l’auto dalla quale mi avevano pescata. Gli altri nove si erano sparpagliati e avevano cominciato a svolgere varie mansioni. Billy stava di guardia sopra al tetto della roulotte, tre delle ragazze stavano piegando dei panni e altre due spostavano delle bacinelle, i tre bambini giocavano con delle bambole improvvisate ed io, come un’idiota, me ne stava immobile al centro dello spiazzo, come una statua al centro della piazza.

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Capitolo 2
*** Si salvi chi può. ***


Billy stava di guardia sopra al tetto della roulotte, tre delle ragazze stavano piegando dei panni e altre due spostavano delle bacinelle, i tre bambini giocavano con delle bambole improvvisate ed io, come un’idiota, me ne stava immobile al centro dello spiazzo, come una statua al centro della piazza. Mi dondolai sui piedi. C’era odore di carne, di quale tipo non avrei potuto dirlo, ma ero certa che era sicuramente carne. Il mio stomaco era come una voragine, faceva versi strani e sembrava gridasse: “Manda giù qualcosa! Qui c’è bisogno di cibo!”. Poggiai la mano sulla pancia. «Hai fame piccola?», disse la donna che avrebbe dovuto chiamarsi Selly. Esitai, ma poi feci un piccolo cenno col capo, annuendo. Lei si avvicinò con un piatto tutto scheggiato. «Ecco tieni: selvaggina», mi porse il cibo. Volevo chiederle che tipo di carne era, ma ero troppo affamata, così divorai tutto in meno di un minuto. «Quanti anni hai?», chiese. «Venti», risposi. Immaginai che lei avesse sui trent’anni. «Capisco... se hai ancora fame, qua è avanzato del cervo», continuò Selly. Scossi il capo, non volevo diventare un peso. Guardai Adam, stava pulendo delle m9, p99, mp7. Mi avvicinai a lui, «Ti serve una mano?», chiesi. Ridacchiò, «sai pulire una di queste?», domandò divertito, quasi per deridermi. «Se non l’avessi saputo fare, non te l’avrei chiesto. Ti pare?», tentai di sembrare sicura di me. Sorrise, «Se insisti, tieni», mi porse la p99. Iniziai a smontarla, fingendo di essere sola. Non so perché, ma la sua presenza m’innervosiva. Notai che ogni tanto lanciava sguardi alla pistola e a me. «Dove hai imparato?», chiese. «Mio padre, spesso andavamo al poligono e a caccia», sorrisi. Lui fece uguale poi alzò lo sguardo. Io seguii il suo e notai due macchine avvicinarsi. «Sono tornati!», disse una ragazzina correndo verso le auto parcheggiate. Era quella chiamata Jenn. Quattro uomini uscirono dall’auto, con uno sguardo perso e distrutto. Adam lo notò e si avvicinò. Jenn era rimasta immobile. Si sentiva la tensione che dal terreno veniva fuori a smorzare l’animo a tutti. «Dov’è?», chiese la ragazzina. «DOV’È?», gridò. Adam si passò una mano tra i capelli e tirò un pugno al cofano dell’auto, ammaccandola, dopo di che se ne andò. I quattro uomini si scambiavano sguardi, poi, uno di loro, si avvicinò a Jenn. Vidi che, in silenzio, le diceva qualcosa, tenendole la piccola mano. Poco dopo scoppiò in lacrime e corse via. Io osservavo piuttosto perplessa. Il ragazzo che stava parlando con la ragazzina mi osservò. Dopo di che si avvicinò. «E tu?», chiese. «e io?», feci il verso. Lo sguardo triste se ne andò e lasciò spazio ad un sorriso. «Sono Malcolm, piacere», disse. «Io Kat», dissi, prima dell’ennesima battutina misera, aggiunsi: «e, no, non come gatto, è solo l’abbreviazione di Kathrin» Lui sorrise e se ne andò. Gli altri ragazzi non mi degnarono di uno sguardo e se ne andarono dentro le tende. Essendo rimasta sola, continuai il mio lavoro con la p99. Quando ebbi finito, passai all’altra pistola e infine alla mitraglietta. Era diventata sera nel frattempo. Il cielo era color arancione. Misi le armi nella sacca lì vicino e andai vicino al fuoco che avevano acceso. Lì c’era Abbie con Tom e Kate, Selly e due dei ragazzi di cui non sapevo il nome. «Ehi gatto! Vieni a sederti con noi!», disse uno di quei ragazzi. Probabilmente o Selly o Abbie aveva spiegato chi fossi. «Preferisco Kat», dissi sedendomi sul tronco che faceva da panchina. «D’accordo. Io sono Gabe e lui è Sergey. Viene dalla Russia», si vantò dell’amico. Gli sorrisi e iniziai a fissare il fuoco, che danzava leggero sui legni che scricchiolavano. Sullo sfondo, notai Jenn, uscire dalla sua tenda ed entrò nel bosco. Mi alzai di scatto. «Che hai?», chiese Gabe. Scossi la testa e mi allontanai. Quando non mi osservavano più, seguii Jenn, che avevo tenuto d’occhio. Per un po’ non mi avvicinai troppo, stava gironzolando per il bosco. Il cielo si scuriva, dovevo farla tornare indietro. «Jenn», la chiamai, tentando di avere una voce più dolce possibile. Lei si voltò di scatto, con una pistola in mano. «Ehi, ehi! Calma!», le dissi alzando le mani, in segno di resa. Lei abbassò l’arma. «Non volevo spaventarti», mi avvicinai a lei e le presi la pistola, «mi dici che succede?», chiesi mentre mettevo la sicura all’arma. Lei rimase silenziosa, con gli occhi lucidi. «Perché oggi piangevi dopo aver parlato con Malcolm?», domandai. Tentavo di sfilargli le parole di bocca. Ma quella piccoletta era decisamente una testa dura! Continuava a fissare il vuoto. «Io sono Kat», le dissi per cambiare discorso e provare a farmela amica. «Io Jenn», un po’ per volta: era riuscita almeno a dire il suo nome! «Che bel nome... e... da dove vieni?», continuai a fare l’amica. «Non ti interessa», rimasi un po’ perplessa. Probabilmente avevo uno sguardo da ebete, ma dopo una risposta del genere è una cosa normale! Io annuii, «d’accordo, torniamo all’accampamento», conclusi. Lei puntò i piedi a terra e non si mosse. «La metti così eh?», risi. Mi piegai e la presi sulle spalle. Lei cominciò a darmi dei pugni e a gridare. Così persino in città gli zombie ci avrebbero sentito. Le tappai la bocca, ma lei iniziò a mordermi. Sopportai fino a che non arrivammo nello spiazzo. Erano tutti attorno al fuoco, intenti a scherzare. Quando ci videro, sguardi sconvolti e confusi si posarono su di noi. «Abbiamo una fuggiasca», dissi avvicinandomi a loro. Selly venne a prendere Jenn e, con difficoltà, la portò nella tenda. Tutti mi fissavano e mi sentii leggermente in imbarazzo. Jenn cominciò a strillare, così, per togliermi da quell’imbarazzante situazione, entrai nella tenda per parlarle. Mi guardò e per un po’ si azzittì, dopo di che cominciò a gridare contro di me. Io per farla stare zitta, mi sedei vicino a lei, sul sacco a pelo. «Scusami...», dissi. Lei rimase in silenzio, ignorandomi. «Volevo solo proteggerti. Tu non sai quante cose brutte ci sono là fuori! Soprattutto la notte» lei continuò a stare zitta. Entrò anche Adam nella tenda, con uno sguardo un po’ preoccupato. «Ragazzi ci penso io», disse Selly. «Vai pure fuori, è una questione tra noi due», dissi sorridendo. Selly uscì, ma Adam non fece altrettanto e occupò il posto della donna, seduto dall’altro lato del sacco a pelo, sempre vicino a Jenn. «Ehi bambolina, mi dici che è successo? Dove accidenti stavi andando?», disse Adam riferendosi alla ragazzina. Da come le parlava, intuii che erano molto amici. «Via», disse. «E perché?», domandò Adam mettendole un braccio intorno alle spalle. «Perché ora non c’è papà e non ha senso rimanere», le parole che uscivano dalla bocca di Jenn erano tremendamente tristi e con un tono freddo, senza emozioni. Capii che le lacrime versate oggi, erano probabilmente per il padre. Morto? Mi chiesi. «E a me non ci pensi?», domandò dolcemente Adam. «Tu non centri», disse Jenn, «il papà era mio, non tuo», continuò. Adam storse il naso. «Non è vero! Per me John era come un padre, questo lo sai. Sai anche che tu sei la mia piccolina e non puoi lasciarmi così», disse, con una lacrima che gli rigava il viso ma continuando a sorridere. «E tu sei il mio fidanzato», disse lei ridendo. Mi lasciai scappare un sorriso. Era bello vedere una scena del genere. «Sì che lo sono!», la prese in braccio e finse un balletto. Mi sentii in mezzo. Non centravo niente con loro, mi ero solo illusa di poter risolvere la situazione. Oltre che il terzo incomodo mi sentii anche decisamente stupida. Io ero l’ultima arrivata, non avevo voce in capitolo, soprattutto con quella ragazzina. Che credevo di fare? Arrivare lì dal nulla e tentare di diventare l’eroina di turno? Stupida, Kat! Anche se, dopotutto, avevo salvato Jenn da morte certa. Se non l’avessi vista andare via, sarebbe morta. Ma questo, chiunque l’avrebbe fatto. Però, io, al contrario di “chiunque”, ho provato ad esserle amica e a fare “la grande”. I due continuavano a fare il loro balletto ridendo. Io mi alzai e me ne andai. Non aveva senso continuare a stare lì. «Tutto bene?», chiese Selly. «Sì, non ti preoccupare. Senti, sono molto stanca, non dormo da quasi due giorni... dov’è che potrei stare per questa notte?», domandai un po’ imbarazzata. «Puoi stare nella tenda dei bambini... se per te non è un problema. Le altre sono completamente piene», mi disse. «Certo che per me va bene», risposi. Lei mi fece strada e aprì uno dei sacchi a pelo che tenevano dentro il bagagliaio dell’auto. «Ecco fatto piccola», mi disse accarezzandomi i capelli. Ringraziai. C’era una torcia che faceva da lampada e la tenda era verde, con le cuciture nere. C’erano tre sacchi a pelo, più il mio. Mi sfilai gli scarponi e feci un cuscino con degli stracci lì vicino. Chiusi gli occhi e il sonno arrivò in un baleno. Arrivò, ma non si potrebbe definire una delle mie nottate migliori. Mi svegliavo spesso, spaventata dall’idea di potermi trovare ancora in mezzo ai morti viventi, in pericolo e, ogni volta che richiudevo gli occhi, sognavo di essere inseguita dall’ennesimo stomachevole non-morto. 

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