Il mostro e la fanciulla

di Beauty
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Quando tutto cambia ***
Capitolo 2: *** Una nuova speranza ***
Capitolo 3: *** La rosa ***
Capitolo 4: *** Mille modi per utilizzare una padella ***
Capitolo 5: *** Un padre e una figlia ***
Capitolo 6: *** Schiava ***
Capitolo 7: *** Il mostro ***
Capitolo 8: *** Nella foresta ***
Capitolo 9: *** Con un abito di seta scarlatto ***
Capitolo 10: *** L'ombra di un sorriso ***
Capitolo 11: *** Che la partita abbia inizio! ***
Capitolo 12: *** Il patto ***
Capitolo 13: *** Neve ***
Capitolo 14: *** Un Natale al maniero ***
Capitolo 15: *** Bianco come la neve, rosso come il sangue ***
Capitolo 16: *** L'urlo della bestia ***
Capitolo 17: *** Senza scampo ***
Capitolo 18: *** Il segreto del medaglione ***
Capitolo 19: *** Echi dal passato ***
Capitolo 20: *** Attacco al castello ***
Capitolo 21: *** La fine della strega ***
Capitolo 22: *** Più forte della morte ***
Capitolo 23: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Quando tutto cambia ***


 

La carrozza avanzava velocemente lungo la strada sterrata; forse un po’ troppo velocemente. Infatti, una delle ruote prese improvvisamente una profonda buca, facendo sobbalzare la vettura e i suoi passeggeri.

Catherine fece un salto sul sedile, e sua sorella, esile e minuta, per poco non picchiò la testa contro il tettuccio.

- Oh, i miei poveri nervi…- gemette Lady Julia, premendosi un fazzoletto sulla bocca.

Catherine alzò istintivamente gli occhi al cielo. Era tipico della sua matrigna lasciarsi andare a quei gesti teatrali, quando si vedeva lontano un miglio che non era neanche pallida, figuriamoci se poteva avere addirittura la nausea.

Stava benissimo; quei suoi finti capogiri erano solo una messinscena per attirare l’attenzione di suo padre. Messinscena che funzionava sempre a meraviglia.

- Vetturino, insomma!- tuonò infatti il mercante.- Vuole stare un po’ più attento?! Mia moglie si sta sentendo male, a causa sua e delle sue follie alla guida!

- Chiedo scusa, signore…- fece il cocchiere, e i cavalli rallentarono immediatamente il passo.

- Grazie, tesoro…- squittì Lady Julia, facendo gli occhioni da cerbiatta.

Altro gesto che non mancava mai di attirare l’attenzione del mercante, che infatti le rivolse un’occhiata adorante.

Catherine lanciò uno sguardo d’intesa a sua sorella, la quale non mancò di esprimere tutto il suo disgusto con un sonoro sbuffo.

- Che c’è, piccola, ti annoi?- chiese il mercante, fraintendendo quel gesto.

- Un po’…Quanto manca?- domandò Rosalie.

- Non molto. Dovremmo quasi esserci.

Rosalie si appoggiò stancamente allo schienale. Catherine si sporse dal finestrino.

Alberi, nient’altro intorno a loro.

- Certo che siamo proprio lontani dalla città, eh?- fece il mercante, intuendo i pensieri della figlia maggiore.

- Un bel guaio!- sentenziò Lady Julia.- Avresti anche potuto pensarci, prima di concludere un affare così avventato…- sibilò poi, in direzione del marito.

Il mercante sospirò, abbassando lo sguardo sulle proprie ginocchia, colpito nel segno.

- Mi dispiace tanto, ragazze…- mormorò, senza trovare il coraggio di guardare in faccia la moglie e le proprie figlie.

Catherine digrignò i denti; la sua matrigna non perdeva occasione per rinfacciare a suo padre quel che era successo solo pochi mesi prima, ben sapendo che non era stata affatto colpa sua. L’avrebbe volentieri presa a schiaffi, ma non voleva dare un ulteriore dispiacere a suo padre, che già soffriva abbastanza sia per il dissesto finanziario sia per i rapporti tesi che si erano instaurati fra matrigna e figliaste. Posò dolcemente una mano su quella dell’uomo, leggermente sollevata quando vide che lui ricambiava il suo sorriso.

- Non credo che sia il caso di prendersela tanto, signora madre - disse poi, rivolta a Lady Julia.- Vivere in campagna non sarà poi così male…d’altronde, Rosalie avrà molto più spazio per sé e potrà divertirsi un po’, anziché starsene tutto il giorno sui libri…- aggiunse, ammiccando verso la sorella minore, di cui conosceva il profondo odio nei confronti della geometria e dell’aritmetica…

- Ci sarà anche un giardino?- domandò Rosalie, che, pur avendo tredici anni compiuti, ancora si divertiva a giocare all’aria aperta come una bambina.

- Penso proprio di sì - rispose il mercante, sorridendo un po’ rincuorato che le figlie non avessero preso a male quell’improvviso trasferimento.

Ma Lady Julia non era affatto convinta. Non credeva per niente a quello che aveva detto la figliastra, e, in ogni, caso, mai l’avrebbe data vinta a Catherine.

- Non sono affatto d’accordo, mia cara…- fece, sventolando il ventaglio ad una velocità impressionante, mentre sulle labbra le si disegnava un sorriso gelido.- Vedi, mia cara Catherine, ci sono cose che tu pensi di sapere, ma che non immagini neanche lontanamente…

- Oh, davvero?- fece Catherine, senza preoccuparsi di nascondere l’ironia.- E quali sarebbero?

- Beh, innanzitutto, la campagna non è affatto il posto adatto per una signora…mi ci vedi, tu, a fare i lavori domestici come una sguattera? Tuo padre per il momento non può permettersi neanche uno straccio di domestica…- disse acida la donna, scoccando un’occhiata di rimprovero al marito, il quale, per tutta risposta, tornò a volgere lo sguardo affranto alle proprie ginocchia.

- Di questo non dovrete preoccuparvi, signora madre - saltò su Catherine, fissandola con aria di sfida.- Penserò io ad occuparmi della casa…

- E io l’aiuterò!- intervenne improvvisamente la donna seduta accanto a Rosalie, che fino a quel momento se n’era stata zitta.

- Grazie, Lydia - sorrise Catherine.

Lydia era stata la balia di Catherine e Rosalie, e il mercante, allorché si era trovato a dover licenziare tutta la servitù, aveva deciso di tenerla con sé, benché avesse ormai sessant’anni e le due ragazze fossero cresciute. Lydia era in casa loro da anni, si era occupata di tutti e tre i figli del mercante ed era stata l’infermiera della povera prima signora Kingston; era considerata praticamente come una di famiglia, e lui non se l’era sentita di licenziarla.

Lady Julia non si scompose, ma anzi, sorrise ancora più freddamente.

- Fai pure, cara. Sono certa che, con i vestiti stracciati e la faccia sporca di fuliggine, per di più senza un soldo bucato di dote, una marea di ottimi partiti farà la fila per chiederti in sposa…- ironizzò la donna.

- Non importa come sarà vestita o quanti soldi avrà, la mia Catherine sarebbe in grado di far innamorare tutti gli uomini del regno…- sorrise Lydia, accarezzando lievemente una guancia della ragazza.

Ora, non era un mistero che l’anziana domestica nutrisse una vera e propria ammirazione per le due sorelle Kingston. Definiva sempre Rosalie una bambolina, per il suo visetto ovale e angelico, circondato da una lunga chioma di capelli biondo scuro così simili a quelli della sua povera madre, che contrastavano sublimemente con i grandi occhi scuri e penetranti. Quanto alla maggiore, beh, secondo Lydia Catherine aveva tutti i pregi di questo mondo. Era buona, intelligente e bellissima. Catherine era piuttosto alta, e snella, con gli occhi verdi e una cascata di capelli neri e mossi lunghi fino alla vita, che mettevano in risalto la sua pelle di porcellana.

- Come no!- tornò all’attacco Lady Julia.- Svegliati, vecchia, e guarda in faccia alla realtà! La tua preziosa Catherine ha già diciotto anni, e non ha ancora ricevuto lo straccio di una proposta di matrimonio!

- Sapete quanto me ne importa!- sbuffò Catherine.- Non ho nessuna intenzione di sposarmi, non ora, almeno. Per ora sto bene così, voglio proseguire i miei studi e stare accanto alla mia famiglia. Non voglio assolutamente un marito, tantomeno per un matrimonio di convenienza!

- Parla, parla pure. Quel bel visetto non durerà per sempre. Alla tua età, io ero già al mio primo matrimonio…

- Questo spiega come mai tutti i vostri mariti tendano a defilarsi!

- Caro, le permetti di parlarmi così?- piagnucolò Lady Julia.

- Catherine, quante volte te lo devo ripetere che devi portare rispetto a tua mad…

- Siamo arrivati!- esclamò Rosalie, interrompendo la nascente ramanzina di suo padre.

Le due sorelle Kingston si sporsero dal finestrino della vettura, mentre la carrozza rallentava lentamente il passo, fino a fermarsi di fronte al cancello di una grande villa.

Proprio come aveva detto il mercante, c’era un giardino, ma più che altro sembrava una specie di giungla. Erbacce e piante rampicanti spuntavano da ogni dove, insinuandosi fra le mattonelle della staccionata e arrampicandosi su per i muri della casa, la quale aveva le pareti esterne sporche e scrostate.

- Oh…- gemette Rosalie, non appena la vide. Catherine le lanciò un’occhiata di rimprovero, che la ragazzina colse al volo.

Benché quella non fosse esattamente una reggia, mai e poi mai avrebbero dovuto manifestare la loro delusione al padre…come invece stava palesemente facendo in quel momento la loro adorata matrigna!

- Cielo, una baracca per i porci sarebbe stata migliore!- bofonchiò Lady Julia, sollevando appena la gonna dell’abito viola scuro, mentre il marito l’aiutava a scendere dalla carrozza.

- Vedrai che con un po’ di olio di gomito tornerà come nuova…- disse il mercante, tentando di assumere un tono allegro.

- Bah, sarà…ma siamo in mezzo al nulla! C’è almeno uno straccio di paese, in questo posto dimenticato dal mondo?!

- Sì, certamente, tesoro, è poco distante da qui…tra poco, potrò cominciare a vendere di nuovo i miei prodotti…

Lady Julia, sbuffò, togliendosi alcuni aghi di pino dalla gonna con un gesto seccato, avviandosi quindi in direzione della porta d’ingresso.

- Vendere roba al mercato come dei volgari bottegai, bah…!

Rosalie scese dalla carrozza con un balzo.

- Dici che Henry sarà già arrivato?- chiese alla sorella.

- Sì, certo. Guardalo, è laggiù…- disse Catherine, indicando il fratello maggiore che, in piedi sull’uscio della loro nuova casa, le stava salutando agitando timidamente una mano.

Rosalie fu la prima a corrergli incontro, abbracciandolo con calore. Henry rise, scompigliandole affettuosamente la chioma bionda così simile alla propria. Rosalie gli sussurrò qualcosa all’orecchio, per poi entrare in casa, seguita immediatamente da Lydia, che invece gli rivolse uno sguardo freddo.

- Buongiorno, signorino Henry…- disse, per poi passargli accanto quasi fosse stato un cumulo di letame.

Se Lydia non si era mai risparmiata di manifestare tutta la sua simpatia e la sua devozione alle due signorine Kingston, così non aveva mai nascosto di detestare profondamente il loro fratello maggiore. E Catherine sapeva benissimo il perché, si disse, sospirando alla vista di Henry che, dopo aver salutato la matrigna con un casto baciamano, stringeva con poca energia la mano al padre, senza però riuscire a guardarlo negli occhi.

Quando anche il padre fu entrato, Catherine si fermò di fronte al fratello.

- Allora, come state?- chiese lui, imbarazzato.

Catherine fece spallucce.

- E tu? Da quanto tempo sei qui?

- Sono arrivato solo due giorni fa…Ho dato un’occhiata in paese, sai…- continuò, nel disperato tentativo di tenere in piedi la conversazione.- E’ una bella cittadina…ci sono molti negozi, qualche osteria…si gioca a carte, e…

- Non ti sarai di nuovo cacciato nei guai, vero?- interruppe improvvisamente la ragazza.

- Che? Io? No, certo che no…ho chiuso con quella roba…vieni, entriamo, che ne dici?

Catherine annuì, mentre suo fratello le cedeva il passaggio.

Henry era sempre stato la sua croce, fin da quando erano piccoli. In genere, era il fratello maggiore che si occupava del più piccolo; beh, con loro, era sempre stato il contrario. Henry aveva la stramaledetta tendenza a cacciarsi nei guai, a cercare di affrontare imprese più grandi di lui, da cui puntualmente usciva sconfitto.

E, per quanto Catherine detestasse ammetterlo, era in parte colpa sua, se ora lei e la sua famiglia si ritrovavano in quella situazione assurda, costretti a trasferirsi e a ricominciare tutto daccapo, senza un soldo.

Suo padre, un mercante di seta una volta molto ricco, aveva perso tutto quanto solo pochi mesi prima, quando, durante una tempesta, la nave che trasportava il suo carico di stoffe e materiali preziosi era naufragata. La stessa sera in cui era giunta la notizia, erano anche venuti a sapere che Henry si era giocato tutto il loro patrimonio a carte, e lo aveva perso.

Catherine gettò un’occhiata d’insieme al salone d’ingresso. Era molto grande, ma pieno di polvere e ragnatele, le assi del pavimento scricchiolanti, tarlate e mezze marce, e i mobili ricoperti da teli bianchi tutti bucherellati.

Lady Julia, senza smettere di agitare il ventaglio, le rivolse un sorriso sprezzante.

- Promessa fatta, promessa mantenuta, mia cara Catherine - disse.- Spero tu abbia intenzione di onorare ciò che hai detto riguardo all’occuparti tu stessa della casa…

- Statene certa, Lady Julia…- rispose Catherine, guardandola con sfida.- Non mancherò.

Sua sorella Rosalie le passò accanto di corsa, cominciando a salire le scale in fretta e furia.

- La prima che arriva sceglie la stanza!- gridò, riprendendo a correre.

Catherine rise, accettando silenziosamente la sfida e prendendo a correre dietro alla sua sorellina.

- Prima! Ho vinto!- gridò Rosalie.- Allora, io scelgo…questa!- e indicò una camera da letto molto spaziosa e luminosa.

Catherine sorrise.

- E va bene…allora vorrà dire che io prenderò…questa - ed entrò nella stanza di fronte, più piccola ma sicuramente, pensò la ragazza, più adatta a lei.

C’era poca mobilia; un letto, una libreria vuota e mezza tarlata, un tappeto consunto e una vecchia sedia a dondolo. E, a pochi metri dal letto c’era una piccola finestra. Catherine vi si avvicinò; la vista che le si prospettava era quella della foresta che avevano appena attraversato e che, a quanto pareva, doveva essere sterminata. Gli alberi si stagliavano in lontananza quasi non avessero fine.

Rosalie la raggiunse, abbassando lievemente le palpebre per vedere meglio.

- Quello cos’è?- chiese ad un tratto.

Catherine guardò meglio. In lontananza, all’orizzonte, si stagliavano alcune torri scure, alte e cupe, vagamente inquietanti.

- Sembrerebbero delle torri…- mormorò la ragazza.

- Quindi, lì c’è anche un castello - fece Rosalie.

- Non saprei. Può darsi.

- Chi lo sa…magari ci abita un principe…- disse la ragazzina con aria sognante.

- Ma che dici? Ti pare che un principe verrebbe a vivere qui? In questo luogo sperduto?

- E allora come me lo spieghi il castello?

- Girano diverse voci su quel castello…- fece una voce alle loro spalle. Le due ragazze si voltarono; a parlare era stato il mercante, in piedi sulla soglia della stanza.

- E’ abbandonato da anni…non credo che ci abiti nessuno…

- Oh…- fece Rosalie, un po’ delusa.

Il mercante diede un’occhiata in giro.

- Ti sei scelta una stanza molto graziosa, Catherine. Se volete scusarmi, io vado nel mio studio a…a sbrigare un po’ di conti…

Detto questo, se ne andò. Le due sorelle si scambiarono un’occhiata piena di tristezza.

 

***

 

- Papà?- fece Catherine, aprendo piano la porta dello studio.- Papà, posso entrare?

Trovò suo padre chino sulla scrivania, con le mani affondate nei corti capelli ingrigiti. Aveva un’aria stanca e avvilita che mai Catherine gli aveva visto prima. La ragazza gli si avvicinò, inginocchiandosi accanto a lui e cingendogli le spalle con le braccia.

- Ehi, papà, va tutto bene?- sussurrò, pur conoscendo già la risposta.

Il mercante scosse la testa, senza guardare sua figlia.

- Mi dispiace tanto, Catherine…- mormorò infine.- Mi dispiace…So di avervi deluso…

- Tu non hai deluso nessuno papà! Quello che è successo non è stata colpa tua…

- Non è vero. Ce l’avete tutti con me, lo so. Perfino tua madre…

- Lady Julia non è mia madre!- disse Catherine.- E, sinceramente, papà, non riesco proprio a capire perché l’hai sposata. Non fa altro che criticare tutto quello che fai e umiliarti in continuazione…

- Ma…- cercò di giustificarsi il mercante.- Ma…ma dovevo pur dare a te, a Rosalie e a Henry una nuova madre dopo che…

- Nessuno potrà mai sostituire la mamma, papà…- disse Catherine, osservando il ritratto sorridente di sua madre, la sua vera madre, posato sulla scrivania.- Nessuno…

Il mercante non rispose, limitandosi ad abbassare nuovamente il capo.

Catherine sorrise, accarezzandogli lievemente una guancia e posandovi quindi un tenero bacio.

- Andrà tutto bene, papà…- sussurrò.- Ne sono sicura. Vedrai che si sistemerà tutto…

- Spero davvero che tu abbia ragione, Catherine…- sospirò il mercante.- Ma nel frattempo…ti chiedo di occuparti della nostra famiglia…e di essere buona e rispettosa con Lady Julia…me lo prometti?

- Te lo prometto, papà…- la ragazza lo abbracciò.- Farei qualunque cosa per te. Qualunque cosa.

 

Angolo Autrice: Ciao a tutti! Ok, questo primo capitolo è un po’ noioso, ma d’altronde gli inizi lo sono sempre…Spero comunque che abbiate la bontà di leggerlo e di recensire, fosse anche un commento negativo, critiche e consigli sono ben accolti…Dunque, il termine signora madre è una citazione da Cenerentola della Disney, anche se penso che l’abbiate capito, è solo che volevo che Catherine mantenesse un tono distaccato con Lady Julia…che, lo anticipo, è una matrigna veramente cattiva! J. Dunque, questa storia trae ispirazione da La Bella e la Bestia, anche se troverete dei vaghi riferimenti anche ad altre favole…

Spero che il personaggio di Catherine non sia risultato troppo antipatico, non era nelle mie intenzioni…anzi, lei è una tipa dolce ma al contempo molto tosta.

Bene, ringrazio molto Ellyra che è riuscita a convincermi a pubblicare questa ff.

Grazie a tutti x aver letto! Appuntamento al prossimo capitolo (se vorrete)!

Ciao!

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Capitolo 2
*** Una nuova speranza ***


 

Catherine si sollevò dal pavimento, con uno sbuffo. Aveva mal di schiena e non si sentiva più le ginocchia, ma se non altro ora il pavimento era pulito.

- Siete veramente in gamba, signorina Catherine…- si congratulò Lydia, osservando compiaciuta le piastrelle lucide.

- Pfff!- fece la ragazza.- Sei troppo buona con me, Lydia. Senza di te non ce l’avrei mai fatta…

- No, dico sul serio - insistette la governante.- Sapete esattamente cosa fare, e non lasciate mai nulla al caso. Sarete una perfetta padrona di casa, un giorno, farete felice vostro marito…

- Lydia - l’ammonì Catherine, raccogliendo da terra lo straccio e il secchi d’acqua.

- Beh, che ho detto?- protestò la donna.- Ho detto un giorno. Non vi dovete sposare subito, certo che no, ma prima o poi dovrete farlo…Nessuno vuole restare solo per sempre, no?

- Io non voglio restare sola per sempre, Lydia, ma non voglio nemmeno sposarmi ora - disse Catherine.- Mio padre ha bisogno di me, lo so. E in ogni caso, non mi sposerò se non per amore…

- Se ci fosse qui la vostra matrigna direbbe che le vostre sono tutte sciocchezze…com’è che ha detto l’ultima volta? Ah, sì…stupidi sogni da ragazzina immatura.

- Questo spiega anche la natura del suo matrimonio con mio padre, non credi?

Prima che la povera Lydia si trovasse nella situazione di dover dare una risposta alla pungente domanda di Catherine, la porta d’ingresso si spalancò di colpo.

- Questo posto non è soltanto orrendo, è anche sudicio!- ringhiò Lady Julia, entrando in casa con gli stivaletti infangati e sporcando così il pavimento appena pulito.

Lydia digrignò i denti, trattenendo a stento la sua indignazione.

- Così certo non aiuterete a renderlo più pulito, signora madre - disse Catherine.

Lady Julia dapprima le rivolse uno sguardo di fuoco, poi però assunse subito quella sua solita aria sprezzante coronata da quel sorriso gelido. Squadrò Catherine da capo a piedi.

- Sai, Catherine, quell’abito ti dona proprio - ironizzò.

Quando ancora erano ricchi, la ragazza aveva degli abiti non lussuosi, ma comunque eleganti, benché semplici. Ora, invece, complice sia la tragedia che li aveva colpiti, sia la “promessa” fatta alla matrigna di occuparsi della casa, indossava un vecchio abito prestatole da Lydia, che risaliva forse ad una trentina di anni prima, marrone chiaro, con gli orli strappati e la gonna rattoppata, nascosta in parte da un grembiule bianco pieno anch’esso di toppe.

- Mai quanto la poderosa macchia di fango sul vostro fondoschiena, signora madre - ghignò la ragazza.- L’erba del giardino ha avuto l’onore di attutire la caduta sul vostro regale deretano, vedo…

Lady Julia digrignò i denti; quella ragazzina presuntuosa doveva sempre avere l’ultima parola!

- Basta, non sopporto più questo posto!- gridò, avviandosi a grandi passi verso la scalinata.- Lydia, chiama anche l’altra mia figliastra e preparala! E fa’ lo stesso anche con la padroncina di casa, qui!- disse, indicando Catherine.

- E perché mai, signora Kingston?- domandò la vecchia governante, perplessa.

- Il tuo compito non è chiedere, è eseguire gli ordini!- abbaiò la donna.- Ma, se proprio vuoi saperlo, andiamo in paese! Primo, perché non sopporto più questa casa; secondo, perché non mi fido minimamente del lavoro che sta facendo il mio figliastro; terzo, perché qualcuno dovrà pur provvedere a trovare uno straccio di marito alla signorina! A meno che la principessina non sia certa di guadagnarsi un posto come sguattera in qualche bettola!

Detto questo, finì di salire le scale ed entrò nella sua stanza sbattendo la porta.

Catherine volse lo sguardo alle chiazze di fango sul pavimento.

- Lydia, io…- cercò di scusarsi, ma l’anziana balia sorrise.

- Non preoccupatevi, signorina, voi avete fatto anche troppo. Correte a prepararvi, penserò io a tutto…

 

***

 

Benché fosse ormai un mese che si erano trasferiti, era la prima volta che mettevano piede in paese. Beh, pensò Catherine scendendo dalla carrozza al seguito della matrigna, definirlo paese era già un complimento. Un ammasso di neanche cinquanta casupole raggruppate intorno ad una piccola piazza, in cui sorgeva il mercato.

Lady Julia, in un elegantissimo abito viola scuro con i lunghi capelli biondi sciolti sulle spalle, si guardava intorno con aria critica – secondo Rosalie, più che altro schifata – facendo saettare gli occhi neri alla ricerca di qualche giovane ricco e scapolo.

- Come mai ti ha fatto mettere tutta in ghingheri?- sussurrò Rosalie, in un abito di broccato rosso, indicando il vestito verde acqua della sorella, uno dei pochi capi di abbigliamento sopravvissuti alla razzia di quegli avvoltoi dei creditori di suo fratello.

- Perché spera di trovarmi marito - bisbigliò la ragazza di rimando.

- Ancora?!

- Purtroppo temo di sì…

- Ma non l’ha ancora capito che tu non ti sposerai mai?

- Evidentemente no.

Presto, la matrigna si allontanò da loro, lasciandole libere di girovagare come volevano.

- Dov’è Henry?- domandò Rosalie.

Henry aveva avuto il compito di vendere al mercato la merce sopravvissuta al naufragio, in modo che le finanze della famiglia si risollevassero minimamente. Ma, per quanto Catherine detestasse ammetterlo, per una volta era d’accordo con la matrigna.

Neanche lei si fidava di Henry.

Fece saettare lo sguardo in tutta la piazza, alla ricerca del banco dove teoricamente avrebbe dovuto esserci il fratello. E infatti eccolo lì: il bancone di legno con sistemati sopra in bella vista le balle di seta e i gioielli. Mancava soltanto una cosa: suo fratello!

- Dannazione, ma dove è andato a cacciarsi?!- sbottò Catherine, dirigendosi di corsa in direzione del banco, prima che qualche spiritoso decidesse di far sparire tutto quel poco che gli era rimasto.

- Ma che fine ha fatto?- ansimò Rosalie, non appena ebbe raggiunto la sorella.

- Non lo so, ma appena lo trovo lo rivolto come un calzino…

Catherine, vedendo che il fratello non si decideva a farsi vivo, si rassegnò a condurre lei stessa le vendite.

La mattinata passò così in questo modo; la ragazza concluse qualche affare, non molti, ma comunque abbastanza proficui. Certo, il fatto che la matrigna se ne restasse fuori dai piedi aiutava parecchio.

Tuttavia, né Catherine né Rosalie poterono fare a meno di notare che tutti, in paese, le guardavano in modo strano, ostentando una curiosità a volte anche imbarazzante.

Catherine si sforzò di non pensarci, concentrandosi sulla vendita della merce e sulla tortura migliore da infliggere a Henry quando si fosse fatto vivo.

Era quasi mezzogiorno; la gente cominciava ad allontanarsi, i clienti diminuivano sempre di più, non c’era traccia né di Lady Julia né di Henry, e Catherine cominciava a perdere le speranze di riuscire a concludere ancora qualche affare.

Un gruppo di ragazzini aveva preso a giocare a pallone al centro della piazza.

Uno di loro calciò il pallone sin dall’altra parte delle bancarelle, esultando poi per il tiro.

-  No, Luke, questo non vale!- protestò un biondino, andando a raccattare la palla.

- Vale eccome, invece!- protestò Luke. - Piuttosto sei tu che sei una schiappa!

- Ah, sì? Te la do io, la schiappa!

Il biondino diede un violento calcio alla palla, scagliandola in direzione del banco di Catherine. Gli altri ragazzini emisero un gemito di delusione. La palla colpì in pieno un panno di seta, facendolo cadere a terra. Catherine si precipitò a raccoglierlo, gemendo alla vista della stoffa impregnata di fango.

- Vi dispiacerebbe fare un po’ più di attenzione?- gridò, rivolta ai ragazzini.- Questa è roba di valore, avete idea del danno che avete fatto?

Il biondino, anziché mostrarsi dispiaciuto, la guardò con un sorrisetto superiore.

- Scusateci, signorine tanti-soldi!- le sbeffeggiò.- Ci dispiace di aver rovinato i vostri begli abitini!

- Bada a come parli!- saltò su Rosalie, che aveva sempre detestato sentirsi dare della riccona snob.

- Io parlo come mi pare e piace!- gridò il biondino.- Soprattutto con due figlie di papà che un pallone non l’hanno mai visto neanche da lontano!

Il gruppo di ragazzini scoppiò in una risata frenetica; a Rosalie, colpita nel segno, cominciarono a salire le lacrime agli occhi.

Catherine non fece una piega; si diresse lentamente verso il pallone caduto poco distante; lo sollevò con entrambe le mani. I ragazzini ammutolirono. La ragazza lanciò la palla in aria; nel contempo sollevò la gonna dell’abito, lasciando intravedere le gambe. Palleggiò tre o quattro volte con le ginocchia, lanciando infine il pallone in aria. Quando tornò giù, Catherine fu pronta a riceverlo con il capo, tenendolo in equilibrio sulla fronte per qualche secondo.

Infine, sotto lo sguardo esterrefatto dei ragazzi, lasciò cadere la palla, facendola scivolare lungo il corpo e fermandola alla fine con una gamba. La ragazza tenne in equilibrio il pallone nell’incavo fra il piede e la caviglia.

- Allora, signori, che ne dite?- gridò poi sorridendo, rivolta ai ragazzini che la guardavano a bocca aperta.- Cosa avete da dire riguardo a questo? Mi sa che siete voi quelli che non sanno com’è fatto un pallone!

Dopodiché, con un calcio lanciò indietro la palla, che atterrò proprio ai piedi del biondino. Il ragazzino la raccolse, sconcertato.

- Ehm…scusate, noi…- provò a dire.

- Ci dispiace - concluse Luke.

- Che ne dite, vi va di fare una partita con noi?- propose un terzo.

- Che dici, Rose?- fece Catherine, ammiccando verso la sorella.- Accettiamo la sfida?

- Certo!- esultò Rosalie.

La ragazzina si precipitò a calciare il pallone, seguita da Catherine, che prese a correre, con la gonna sollevata fino alle ginocchia, ridendo come una bambina.

- Ehi, altro che signorine, queste ci massacrano!

- Mica male il tiro della biondina!

- E’ di quell’altra che ti devi preoccupare, guarda che roba!

- Gioca come un ragazzo!

- Puoi scommetterci!- rise Catherine, segnando un punto a suo favore.

Il quel mentre, Lady Julia si stava avvicinando, circondata da due o tre signore che, a giudicare dagli abiti e dall’aria annoiata e altezzosa, dovevano essere parecchio altolocate.

- Ma certo, signore, le mie figliastre dovrebbero essere proprio…

Lady Julia ammutolì di colpo.

- Ma…ma cosa…- boccheggiò.- Che…Rosalie…Catherine…

Non poteva credere ai propri occhi. Lì di fronte a lei, in mezzo a tutto quel polverone di terra, le sue figliastre stavano giocando a pallone con un gruppo di ragazzacci di strada; Rosalie correva e rideva come una matta, mentre quella piccola serpe di Catherine stava correndo come una scalmanata, con l’abito sporco di terra, accaldata, i lunghi capelli neri spettinati e la gonna sollevata come la volgare figlia di due vagabondi!

Le signore che l’accompagnavano, capito che ebbero che quelle due scalmanate erano le figliastre di Lady Julia, cominciarono a ridere sotto i baffi, allontanandosi bisbigliando commenti senza dubbio poco simpatici sulla moglie del mercante.

D’un tratto, un calcio un po’ troppo entusiasta di Rosalie scaraventò il pallone lontano dalla traiettoria prevista. Anziché si dirigersi verso il campo nemico, la palla andò in direzione di un giovane uomo che in quel momento stava consegnando il proprio cavallo nero ad uno scudiero. Il pallone finì proprio in una pozza d’acqua ai piedi del giovane, il quale venne subito ricoperto da schizzi di fango.

L’uomo digrignò i denti, osservando rabbioso la propria camicia bianca immacolata ora sporca di terra e acqua.

- Oh-oh…- fece uno dei ragazzini.

Immediatamente, l’intero gruppo di amici si dileguò, lasciando le due ragazze sole al centro della piazza.

Rosalie, tutta vergognosa, si avvicinò lentamente al giovane, raccogliendo timorosa il pallone da terra.

- Ehm…mi dispiace tanto, signore…- balbettò, ricordandosi che il padre le aveva insegnato che bisognava sempre domandare scusa, in quei casi.

- Ma insomma, mocciosa, guarda che hai fatto!- abbaiò il giovane, indicando il proprio abito.

- Vi chiedo scusa…- mormorò Rosalie.- Non era mia intenzione…

- Risparmia le scuse! Sai da dove viene questo tessuto? Da Pechino, hai capito, mocciosa? Cento sterline buttate via per colpa tua e del tuo stupido pallone!

- Io non…

- Ah, ma sta’ zitta, non ti rendi neanche conto…

- Vi ha chiesto scusa, signore - intervenne Catherine, accorsa a dare man forte a Rosalie.

Guardò il giovane con aria truce.

- Mia sorella non l’ha fatto apposta…

- Ma questa camicia…

- Questa camicia, signore, tornerà come nuova, con un po’ di acqua e sapone!

Il giovane fece per ribattere, ma alla fine si calmò. Squadrò Catherine da capo a piedi, riconoscendo che, seppur tutta scarmigliata e con l’abito strappato, era davvero graziosa.

Sorrise in una maniera strana, che Catherine non aveva mai visto; più che un vero e proprio sorriso, era piuttosto un ghigno.

- Beh, sì, forse avete ragione…- disse, con voce suadente.- Forse non è il caso di prendersela così tanto…soprattutto se a domandarmi scusa è la sorella di una fanciulla così graziosa…

Catherine non rispose, ma trattenne a stento una smorfia. Si trattava senza dubbio di un giovane piacente, sui venticinque anni, con un fisico alto e slanciato, dei folti capelli castani che gli circondavano il volto ovale e abbronzato. Tuttavia, alla ragazza non ispirava molta fiducia.

Catherine aveva sempre avuto una sorta di sesto senso, nel giudicare le persone, che non l’aveva mai tradita. Non era il tipo che si basava troppo sulle apparenze, ma c’era qualcosa, come un campanello nella sua testa, che suonava avvertendola ogni volta che si trovava di fronte ad una persona di cui era meglio non fidarsi.

L’allarme era scattato la prima volta che aveva incontrato Lady Julia, e non si era sbagliato; ora, di fronte a quel giovane che la guardava come se fosse stata un succulento pasticcino, il campanello era suonato di nuovo.

- Noi…noi dovremmo andare, ora…- disse la ragazza, prendendo per mano Rosalie.

- E perché mai? Perché non vi fermate? Potremmo fare due chiacchiere…

- No, vi ringrazio, ma noi dobbiamo proprio…

- Mi dispiace infinitamente signore!- cinguettò una voce alle loro spalle.

Oh, no!

Lady Julia le raggiunse a passo svelto, ponendosi fra le due ragazze. Afferrò un braccio di Catherine, conficcandole le unghie laccate nella carne.

- Sono costernata…- disse, con la sua voce melliflua.- Le mie figliastre in genere non si comportano così…non so proprio che cosa…

- Non preoccupatevi, signora - disse il giovane.- Io e le vostre figliastre stavamo giusto facendo conoscenza…Con chi ho il piacere di parlare?

- Lady Julia Kingston - squittì la donna porgendogli la mano. - E loro sono Catherine e Rosalie…

- Incantato - ghignò il giovane, baciando la mano a Lady Julia e a Catherine, la quale dovette fare uno sforzo immenso per non ritrarsi.- Il mio nome è Lord William Montrose.

D’un tratto, Lady Julia, che si apprestava a continuare la conversazione, venne interrotta da un gran clamore. Tutti e quattro si voltarono; in paese stava facendo il suo ingresso un vecchio carro di legno trainato da un malandato e macilento ronzino, e scortato da quattro guardie. Su di esso, coperto da un telo bianco chiazzato qua e là di rosso, c’era qualcosa la cui figura era molto somigliante a quella di una carcassa.

Una gran folla cominciò ad accorrere, e i gendarmi ebbero un bel da fare a tenerla a bada. Dovunque si sentivano mormorii sommessi.

- Incredibile!

- Ne hanno trovato un altro…

- Un altro morto…

- Ma chi è?

- E’ il povero Conte DeBourgh…mancava da casa da una settimana…

- Poveretto, ma che gli è capitato?

- Ucciso, mia cara. Morto ammazzato.

- Morto ammazzato?- ripeté Rosalie.- Voglio vedere…

Detto ciò, la ragazzina prese a correre in direzione del carro.

- No! Rose, non voglio che tu…- provò a dire Catherine, cercando di raggiungerla.

Riuscì a bloccarla solo a pochi centimetri dal carro, su cui il corpo del Conte era stato scoperto. Catherine strinse a sé la sorella, impedendole di vedere.

- Ma chi è stato?- chiese una donna.

- E chi lo sa! E’ il terzo morto…

- Il terzo?- fece Catherine.

- Sì, il terzo. Tutti e tre nobili, trovati nella foresta morti ammazzati. Sbranati vivi, si direbbe…

- Ma chi può essere stato?- disse qualcuno ad alta voce.

- Lupi, magari.

- I lupi non hanno delle zanne così grosse…

- Ehi, che succede?

Catherine riconobbe la voce; si voltò, scorgendo suo fratello Henry avvicinarsi barcollando, decisamente alticcio. La ragazza gli andò incontro, furiosa.

- Ma dove diamine eri finito?- ringhiò, anche se già sapeva la risposta.- Saresti dovuto essere al mercato! Dove sei stato in tutto questo tempo?

- Laggiù…- biascicò Henry, indicando una squallida osteria poco lontano, su cui campeggiava l’insegna Il leone d’oro.

- Sei stato lì tutta la mattina?!

- No, io…beh, forse sì…solo per bere un goccetto…sai, mi rende più capace nelle vendite, e…

- Oh, ma sta’ zitto!- sbottò Catherine, tentando di trascinarlo verso la carrozza.

- Ehilà, ci si rivede!- esclamò d’un tratto Lord William.

Catherine si bloccò, stralunata. Henry sorrise in maniera ebete.

- Lord William - biascicò in segno di saluto.

- L’oste del locale mi ha detto che sapete giocare molto bene d’azzardo…- ghignò il giovane.

- Henry…- boccheggiò Catherine.- Henry, non avrai…?

- Zitta, donna!- Henry la spinse malamente di lato. - E’ così, in effetti.

- Per una partitella ci sono sempre…- ammiccò quello.

Catherine afferrò il braccio di suo fratello prima che questi potesse rispondere.

- Grazie, Lord William, ma noi ora avremmo fretta…

Detto questo, si avviò verso la carrozza trascinando con sé Henry e Rosalie.

- Arrivederci, Lord William - cinguettò Lady Julia.

- Lo spero tanto…

 

***

 

Non fecero in tempo a mettere piede in casa che Lady Julia diede completo sfogo a tutta la sua rabbia.

- Ora io e te facciamo i conti!- ringhiò, strattonando Catherine per un braccio, sotto gli occhi esterrefatti di Lydia e Rosalie. La ragazza si divincolò.

- Non ho niente da rimproverarmi e, in ogni caso, non è a voi che devo rendere conto delle mie azioni, signora madre - disse.

- Lo sai chi era quello?! Eh?! Lo sai?!- strillò Lady Julia, fingendo di non averla sentita.

- Lord William Montrose?- ironizzò la ragazza.

- Lord William Montrose, l’uomo più nobile e ricco di tutto il paese!

- Avete fatto in fretta ad informarvi sulle cose che contano…

- Non fare la spiritosa con me! Scarmigliata, sporca, con le gambe in bella mostra come una monella di strada! Avresti potuto accalappiarlo in meno di due secondi, se non fossi così…

- Selvaggia?

- Cattiva! Tu sei perfida, Catherine! Se sposassi un uomo ricco, allora leveresti dai guai tutta la tua famiglia!

- Mio padre non approverebbe mai un matrimonio d’interesse, e comunque, se state ancora cercando di trovarmi un marito, devo avvertirvi che sprecate il vostro tempo!

- Lo vedremo.

D’un tratto, si sentirono dei colpi sommessi risuonare nell’atrio. Lady Julia e Catherine ammutolirono.

- Qualcuno ha bussato alla porta - pigolò timidamente Rosalie.

Catherine colse al volo l’occasione e si precipitò ad aprire.

- Sì?- fece, ritrovandosi di fronte il cocchiere della diligenza che recapitava la posta.

- Una lettera - disse l’uomo, porgendole la missiva.

- Grazie.

Catherine la prese e si chiuse la porta alle spalle, leggendo il nome del destinatario sulla busta.

- Che cos’è?- domandò Rosalie.

- Una lettera per papà.

Lady Julia tese la mano aperta nella sua direzione.

- Beh, che aspetti a darmela?

Catherine nascose la lettera dietro la schiena.

- E’ per mio padre - ripeté.

- Ma io sono sua moglie, ho il diritto di leggerla!

- E’ per mio padre, e sarà lui a leggerla per primo!

Catherine cominciò a salire le scale di corsa, inseguita da Lady Julia, che a sua volta aveva alle calcagna Lydia e Rosalie, allo stesso tempo incuriosite e angosciate.

La ragazza attraversò di corsa il corridoio, sentendo alle spalle le grida di rabbia di Lady Julia.

- Papà!- chiamò, battendo il pugno contro la porta dello studio del padre.- Papà, apri!

- Piccola serpe! Qualcuno dovrebbe curarsi di darti una bella frustata, ogni tanto!

- Che succede?- il mercante, con il viso stanco, si affacciò alla porta.

Catherine scivolò nello studio, seguita da Lady Julia che riuscì ad evitare per un pelo di beccarsi la porta in faccia.

- Che succede, si può sapere?- ripeté il mercante.

- Una lettera per te - ansimò Catherine, porgendogli la busta.

- Caro, io ho cercato di leggerla, così avrei potuto riferirti il contenuto!- frignò Lady Julia.- Ma tua figlia me l’ha impedito! E’ sempre così cattiva, con me!

- Sì, come no! Riferirgli il contenuto, dite? La vostra è solo curiosità, niente di più!

- Ragazze, non litigate…- borbottò il mercante, leggendo attentamente la missiva.

D’un tratto, quand’ebbe finito, il suo volto s’illuminò. Sembrava quasi ringiovanito di vent’anni.

- Ma è meraviglioso!- esclamò, interrompendo per un momento gli sguardi d’odio che intercorrevano fra la figlia e la moglie.

- Che succede, caro?- chiese Lady Julia.

- Buone notizie?- incalzò Catherine.

- E’ un mio vecchio amico, il mercante Von Rubens. Vuole concludere un affare con me…vuole comprare una balla di seta d’Arabia…e ad un prezzo…- il mercante si bloccò, incapace di contenere l’entusiasmo.- Tesoro, Catherine, provate a pensarci: con quel denaro riusciremmo finalmente ad uscire dalla povertà…potrò riprendere i miei affari…potremmo tornare a casa…

- Oh, amore, è meraviglioso!- cinguettò Lady Julia, battendo le mani.

Catherine abbracciò suo padre con slancio.

- Sono così contenta per te, papà…

- Grazie, piccola mia…devo partire immediatamente…

- Partire?!- fece Catherine, incredula.- Come sarebbe a dire che devi partire? Pensavo che avreste concluso l’affare in termini burocratici…

- Beh, anch’io lo preferirei, Catherine, ma Von Rubens vuole incontrarmi di persona. Vive a parecchie miglia da qui, se mi metto in viaggio subito dovrei riuscire ad arrivare lì entro domani sera…

- Oh…beh, se devi proprio…

Il mercante sorrise, dandole un bacio sulla fronte.

- Non preoccuparti…sarò di ritorno entro una settimana…

 

***

 

- Fa’ buon viaggio, papà…- disse Catherine, sollevando lo sguardo sul mercante, in sella al suo cavallo grigio.

- Grazie, Catherine.

- Il paese dove abita il mercante Von Rubens è famoso per i suoi allevamenti di gatti soriani…- sospirò Rosalie.

- E anche per le sue torte di mele - aggiunse Lydia.

Il mercante rise bonario.

- Facciamo così. Quando sarò di ritorno, porterò a te, Rosalie, un bel gattino bianco, e a te, Lydia, una di quelle ottime torte. Che ne dite?

- Sì! Che bello, un gattino…- esultò Rosalie.

- Troppo gentile, signore - sorrise Lydia.

- A te, mia adorata, ho già promesso un collier di brillanti - disse il mercante rivolto alla moglie, che in quel momento si stava impegnando come non mai per mostrarsi più addolorata possibile.- E a te, Catherine, cosa vuoi che ti porti?

La ragazza sbuffò.

- Non voglio nessun regalo, papà, non preoccuparti.

A me basta solo che ritorni presto, sano e salvo.

- Ma qualcosa dovrò pur prenderti! Avanti, dimmi quello che desideri, così non correrò il rischio di sbagliarmi clamorosamente, come quella volta in cui ti ho regalato quel vestito di pizzo a fiori…

- Regalale un libro!- saltò su Rosalie.- A lei piace tanto leggere!

- Oh, certo, leggere aiuta un sacco a combinare un buon matrimonio…- borbottò Lady Julia.

- Sul serio, papà, non voglio niente - insistette Catherine, ignorando il commento della matrigna.

- Ah, sei incorreggibile, Catherine…- sorrise il mercante.

- Allora una rosa!- disse Rosalie.

Tutti la guardarono.

- Una rosa?- ripeté Catherine, inarcando un sopracciglio.

- Tutte le ragazze che non vogliono regali, alla fine chiedono sempre una rosa. E’ così in tutte le favole…- spiegò la ragazzina.

- Tu vivi in un mondo tutto tuo, Rose…

Il mercante rise; quindi, tornato serio, salutò ciascuna delle quattro donne.

- Ci vediamo fra una settimana!

Il cavallo partì al galoppo. Le quattro donne rimasero a guardarlo finché il mercante e la sua cavalcatura non scomparvero nella foresta rischiarata dal sole del tramonto.

Non appena il marito se ne fu andato, Lady Julia sorrise di quel suo sorriso gelido.

- Ci saranno molti cambiamenti, ora, mia care…- disse.

- Cambiamenti?- fece eco Rosalie.

- Esatto. Cambiamenti molto radicali - si rivolse a Catherine.- E io ti giuro, mia cara Catherine, che quando tuo padre tornerà avrà l’annuncio del tuo fidanzamento.

- Sapete come si dice, signora madre?- ghignò la ragazza.- Aspetta e spera.

Lady Julia non si degnò di risponderle, ma entrò in casa, facendo cenno a Lydia di seguirla. Le due sorelle Kingston rimasero ferme in giardino.

- Uhm…- fece Catherine.

- Che c’è?- domandò Rosalie.

- Niente…stavo solo pensando.

- A che cosa?

- Se davvero papà mi regala una rosa - dichiarò Catherine.- Allora la prima cosa che farò sarà sistemare le sue spine sulla poltrona preferita di Lady Julia.

 

Angolo Autrice: M’inchino di fronte a tutti coloro che sono riusciti ad arrivare alla fine di questo chilometrico capitolo! J. Lo so, è un po’ lunghetto, ma se l’avessi diviso non avrebbe avuto alcun senso e l’avrei tirata troppo per le lunghe. Dunque, per chi non avesse ben chiara la descrizione di Catherine, è così che io me la sono immaginata:

   

Sì, ok, lo so, è “Morgana” della serie Merlin…allora nessuna violazione di copyright (spero! XD), e niente pro o contro Katie McGrath o il personaggio da lei interpretato, solo che la mia Catherine (che, come avrete capito, è la protagonista della storia) le somiglia molto, e siccome non sono per niente brava nelle descrizioni…Se troverò altre immagini adatte ai vari personaggi della storia, le pubblicherò insieme agli altri capitoli.

Dunque, in questo capitolo Catherine e sua sorella hanno fatto la conoscenza del misterioso Lord William, e sono venute a conoscenza di una strana serie di omicidi…ora che il padre di Catherine è partito, che cosa succederà? Riuscirà la ragazza a sopravvivere alla terribile matrigna che farà di tutto per trovarle un marito e al fratello irresponsabile? E il mercante riuscirà ad arrivare a destinazione…o ci sarà qualche imprevisto?

Bene, finita la sfilza di domande retoriche J. Ringrazio molto le 33 persone che hanno letto questo capitolo (spero migliore dell’obbrobrio precedente) e in particolare Alex_J e ilariuccia per aver aggiunto questa storia alle seguite, ed Ellyra per averla aggiunta alle seguite e per aver recensito.

Come sempre, vi invito a commentare e a farmi sapere che ne pensate!

Ciao a tutti, al prossimo capitolo!



 

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Capitolo 3
*** La rosa ***


L’autunno era alle porte, e quella sera aveva cominciato a tirare un vento gelido, che faceva sollevare le foglie da terra, frusciare i rami degli alberi, ed emetteva un fischio nell’aria molto simile al lamento di un’anima del Purgatorio.

Il vecchio cavallo grigio era inquieto, sembrava quasi avvertire il malumore del suo padrone. Il mercante si strinse ancora di più nel suo cappotto da viaggio marrone scuro, sollevando il colletto nel tentativo di ripararsi quanto più poteva dal vento.

Imbruniva, presto sarebbe stato completamente buio. Il mercante stava cominciando a preoccuparsi; stando a quanto aveva programmato prima della partenza, avrebbe già dovuto essere arrivato al prossimo villaggio, dove – sempre stando alla tabella di marcia – si sarebbe fermato in una locanda per la notte per poi ripartire il mattino seguente alla volta della casa di Von Rubens.

Invece, era ancora nella foresta. E va bene, forse aveva calcolato male i tempi, ma era pur sempre un mercante, un uomo abituato a viaggiare, per Giove, non poteva essersi perso!

Eppure…

Il cavallo si arrestò improvvisamente, con un breve nitrito che al mercante suonò stranamente lugubre.

- Che c’è, bello?- fece l’uomo accarezzando il collo dell’animale con una mano inguantata.

La bestia scosse il capo, quindi indietreggiò di qualche passo.

- No, fermo!- il mercante tirò le briglie nel tentativo di arrestarlo.- Fermo. Lo so che sei stanco, ma dobbiamo proseguire. Vedrai, presto saremo al villaggio…- quest’ultima frase la disse più a se stesso che al cavallo.

L’animale riprese la marcia, lentamente, quasi fosse in grado di misurare i propri passi. Il mercante si guardò intorno, facendo saettare lo sguardo da destra a sinistra. Ormai era diventato completamente buio. Maledizione, era meglio che si sbrigasse ad arrivare a quel dannato villaggio. Non aveva nessuna voglia di passare l’intera notte nella foresta…

Proseguì, sempre dritto, dieci minuti, mezz’ora, un’ora…All’uomo sembrava quasi di girare in tondo. E, alla fine, dovette ammettere che era proprio così.

Si era perso.

- Ma dove diavolo sono finito?- mormorò, cercando di mantenere la calma.

Sollevò lo sguardo al cielo, alla ricerca della stella polare, ma non la trovò. Il cielo era coperto da spesse nubi, che, spostandosi a causa del vento, lasciarono intravedere una splendente luna piena.

Questo bastò un poco per fare un po’ di luce.

La luce della luna proiettava sul terreno le ombre degli alberi, i rami sembravano lunghe braccia provviste di artigli pronti ad afferrarlo. Il mercante spronò il cavallo, timoroso; procedevano molto lentamente, l’uomo non riusciva ad impedirsi di voltarsi in continuazione a guardare alle sue spalle.

All’improvviso, un ululato.

Il cavallo si arrestò di colpo, nitrendo spaventato. Un altro ululato. Il mercante cominciò a guardarsi intorno freneticamente, cercando di capire da dove provenisse. Un terzo ululato, alle sue spalle.

Lupi, pensò, voltandosi in preda al panico.

Sentì il fruscio delle foglie, dei passi canini che si avvicinavano. Il cavallo cominciava a spaventarsi, lo sentiva. Avrebbe voluto spronarlo al galoppo, ma era come paralizzato. Il fruscio si fece più intenso, quindi una sagoma sbucò dal buio, ringhiando.

Non era un lupo, realizzò il mercante con sollievo. Era un cane.

Era un grosso cane nero, a prima vista si sarebbe detto un doberman; il mercante si sentì sollevato quando vide che aveva un collare. Ma il suo sollievo non tardò a svanire.

L’animale avanzò lentamente nella sua direzione, ringhiando e schiumando bava dalla bocca, mentre metteva in mostra i lunghi denti affilati.

- Buono…- fece il mercante, allungando una mano nel tentativo di sfiorargli il muso.

Il doberman abbaiò, cercando di morderlo. L’uomo ritrasse la mano di scatto, mentre il cane riprendeva a ringhiare e alle sue spalle comparivano altri sei o sette cani, tutti neri, e tutti con l’aria feroce e famelica.

Il doberman spiccò un balzo nella direzione del cavallo, ma il mercante fu più veloce a spronare l’animale a correre. Il cavallo si lanciò al galoppo, seguito di corsa dal branco di cani.

Il mercante si abbassò fin quasi a stendersi sulla groppa della bestia, scansando i rami degli alberi, in quella folle corsa nell’oscurità. I cani gli stavano alle calcagna, feroci come lupi.

Il doberman gli si affiancò, spiccando un balzo; raggiunse il muso del cavallo, azzannandogli il collo. La bestia emise un debole nitrito, prima che un bulldog, mordendolo a sua volta alla gola, facesse in modo di farlo cadere. L’animale rovinò a terra, sollevando un gran polverone; il mercante emise un urlo soffocato, rimanendo intrappolato con una gamba sotto il ventre del cavallo. L’uomo cercò disperatamente di liberarsi, mentre i cani cominciarono a dilaniare il corpo del vecchio cavallo, che presto soccombé con un ultimo mortale nitrito.

Il mercante riuscì ad estrarre la gamba da sotto la carcassa dell’animale, tentò di alzarsi ma uno dei cani lo afferrò per un lembo del mantello, tirando e ringhiando. L’uomo cercò di slacciare il mantello al collo che lo stava strangolando, ma quando un altro cane lo aggredì al braccio, si alzò di scatto, allontanando l’animale e strappando un lembo della veste, che venne lacerato dai denti del pitbull.

Il mercante, ferito ad un braccio e con la gamba dolorante, cominciò a correre, di nuovo alla cieca, zoppicando nel buio, mentre i cani si erano nuovamente lanciati all’inseguimento. L’uomo ansimò, sfinito, quando, mentre stava cominciando a rallentare la corsa, vide un flebile bagliore in lontananza. Avvicinandosi di più, ebbe la certezza che si trattava di una vera e propria luce; una luce proveniente da una finestra.

Il mercante si ritrovò ben presto di fronte ad un altissimo cancello in ferro battuto, il quale dava accesso ad un imponente e cupo maniero. In un’altra situazione, forse l’uomo si sarebbe ricordato che quello era lo stesso castello intravisto dalla finestra della stanza di sua figlia, ma in quel momento non pensò ad altro se non ad aprire faticosamente il cancello e a gettarsi dentro.

Inciampò sulla soglia, finendo carponi sul terriccio. Si rialzò immediatamente, appena in tempo per richiudere l’uscio, prima che i cani vi si fiondassero contro. Il mercante indietreggiò di corsa, osservando gli animali che si sollevavano sulle zampe posteriori, abbaiando attraverso le inferiate.

L’uomo non smise di guardarli neanche mentre, quasi senza rendersene conto, saliva gli scalini di pietra che portavano alla porta d’ingresso. La spalancò e, una volta entrato, vi si appoggiò con le spalle, riprendendo fiato.

Una volta ripresosi dallo spavento e dalla corsa, il mercante sollevò lo sguardo da terra. Si trovava in un ampio e buio atrio, completamente privo di mobilia e molto sudicio, con il pavimento ricoperto di polvere e i muri scrostati e pieni di muffa, per non parlare delle ragnatele che spuntavano da ogni dove. D’un tratto, l’uomo udì dei passi.

Pochi secondi dopo, ecco aprirsi una malandata porta tarlata in un angolo, da cui entrò un uomo, con addosso degli abiti sbrindellati e trascinando un secchio.

- Ehi…- chiamò il mercante, debolmente, sentendosi la gola secca.

L’uomo sollevò lo sguardo, fissandolo stralunato. Il mercante si accorse solo in quel momento che non si trattava di un uomo, bensì di un ragazzo.

Era un ragazzo piuttosto alto e magrolino, e molto giovane. Il mercante pensò che dovesse avere all’incirca l’età di sua figlia Rosalie. Aveva i capelli neri e arruffati, il viso senza barba sporco di fuliggine e gli occhi castani.

- Ehi, ragazzo!- lo chiamò ancora, ma quello non rispose. Se ne stava lì, immobile, a fissarlo con gli occhi sbarrati, quasi si trovasse di fronte ad un fantasma.

- Ragazzo…- ripeté il mercante, vagamente preoccupato da quella reazione.- Che hai? Ti senti male?

- Come…- boccheggiò quello.- Come…come siete entrato?

- Ah, ce l’hai la lingua, allora - sorrise il mercante.

- Come siete entrato?- ripeté quello, senza smettere di fissarlo con quegli occhi da triglia.- Da quanto tempo siete qui? Avete idea del rischio che correte? Sapete cosa succede se il padrone viene a sapere che…

- Senti, ragazzo, non mi può capitare niente di peggio di quel che mi è appena successo, credimi.

Quello non rispose, continuando a fissarlo. Il mercante ormai ci si era quasi abituato, perciò proseguì:

- Ascolta, ragazzo, la situazione è questa: sono stato aggredito, il mio cavallo è morto, e mi sono perso nella foresta. Potresti chiedere al tuo padrone di essere così gentile da ospitarmi?

- No!- scattò subito il ragazzo.- No, ma che, vi siete ammattito?!

- Calma, calma…- fece il mercante, accompagnando le parole con un gesto delle mani. - Non c’è bisogno di scaldarsi tanto…Ora non ho denaro con me, ma tu puoi dire al tuo padrone che, non appena riuscirò a tornare a casa, sarà ricompensato profumatamente…

Se mai riuscirò a concludere questo maledetto affare!, pensò.

Ma quello scosse il capo con energia.

- No, no, voi non capite…- mormorò.- Al padrone non interessa il denaro…se vi scopre qui…

- Ma insomma, non ci si può proprio ragionare con questo tuo padrone?!- sbottò il mercante.

- No, signore. Non si può.

Il mercante sospirò, tentando di pensare ad un’altra soluzione. Il ragazzo rimase un attimo in silenzio.

- Però…- esordì poi.- Però, forse…forse potrei ospitarvi…solo per questa notte, però!

- Oh, grazie…- fece il mercante, rincuorato.

- Ma…ma non lo deve sapere nessuno, chiaro? Se il padrone…Ascoltatemi: posso offrirvi una cena e un letto, se volete, ma non dobbiamo fare il minimo rumore…

- PETER! CHE FINE HAI FATTO?- una voce femminile ruppe i sussurri del giovane.

- Ecco, appunto…- sospirò questo.

Un’altra porta si aprì, rivelando la figura di una donna, anche lei con addosso dei vestiti rattoppati; era una donna sulla quarantina, con un fisico non snello ma nemmeno grasso, il viso gentile e i lunghi capelli castani striati qua e là da fili grigi.

- Peter, insomma! Hai portato l’acqua o…- la donna si bloccò non appena vide il mercante.

Boccheggiò, spostando lo sguardo ora su di lui ora sul ragazzo.

- Ehm…salve…- fece il mercante dopo un po’.

- Peter!- sbottò quella per tutta risposta.- Peter, ma che hai combinato?!

- Mamma, aspetta, lascia che ti spieghi…- fece il ragazzo.

- Spiegarmi?! Cosa c’è da spiegare?! Cosa ti è venuto in mente di farlo entrare?!

- Non l’ho fatto entrare io, mamma, te lo giuro, è entrato da solo…

- Oh, se il padrone lo sapesse…

- Constance, che succede qui?- fece una terza voce.

Dalla stessa porta da cui un minuto prima era uscita una donna, sbucò fuori ora un anziano uomo, alto e allampanato, con capelli bianchi e una lunga barba canuta.

- Ma che…?- fece, stralunato, non appena scorse il mercante.- Constance…ma cosa diavolo…?

- Ernest, ti prego, caccialo fuori!- lo implorò Constance, che non la smetteva di guardarsi intorno con aria spaurita.

- Ehm…sentite, signore…- esordì Ernest.- Mi dispiace di dirvelo, ma voi non potete assolutamente rimanere qui un minuto di più…

- Ha bisogno di ospitalità per la notte, Ernest - disse Peter.

- Cosa?

- Sono stato aggredito, signore - ripeté il mercante, che stava cominciando a chiedersi se non fosse finito in una gabbia di matti.- E vi sarei molto grato se poteste…

- No! Assolutamente no!- strillò Constance con fare isterico.

- Shhht!- fecero in coro Peter ed Ernest.

- Vuoi che il padrone ci scopra?- sbottò l’uomo.

- Lui comunque non può restare qui!- insistette Constance, gettando occhiate preoccupate in direzione dello scalone centrale.- Se il padrone lo scopre, finiamo nelle beghe pure noi!

- Mamma, sii ragionevole - disse Peter.- Se stiamo attenti non ci sarà alcun pericolo. Gli diamo qualcosa da mangiare, gli prepariamo un giaciglio di fortuna in cucina, dorme qui per una notte e domattina se ne va!

- La fai troppo facile! Eppure dopo tutto questo tempo dovresti aver imparato cosa succede a disubbidire al padrone!

- Mamma, quanto la fai lunga…

- Ehm…io sono ancora qui…- fece timidamente il mercante, che aveva assistito alla discussione con la sensazione di essere uno spettatore a teatro.

- Sì, ce ne siamo accorti, purtroppo…- borbottò la donna, torcendosi nervosamente le mani.

- E vi chiedo di nuovo, vi prego, signori, di ospitarmi per la notte.

I tre ammutolirono, fissandosi con aria interrogativa; il mercante era visibilmente scocciato dal loro atteggiamento, e avrebbe anche fatto a meno di elemosinare un’ospitalità che si presentava così sgradita, ma il pensiero di quel branco di cani lo spingeva ad insistere.

- E va bene - acconsentì infine il vecchio, mentre Constance stringeva i pugni, contrariata.- Ma solo per una notte, sia ben chiaro.

- Grazie - disse il mercante, chinando lievemente il capo in segno di gratitudine.

- Ma dovrete accontentarvi!- fece Constance, dirigendosi impettita in direzione della porta da cui era appena uscita.- Seguitemi, prego.

Il mercante le andò dietro, un po’ titubante, seguito a ruota da Peter ed Ernest, che continuavano a lanciare occhiate furtive tutt’intorno. Si ritrovarono in una stanzetta piccola e incredibilmente buia, presumibilmente la cucina, dato che il mercante riuscì a distinguere un vecchio tavolo tarlato con quattro seggiole malandate, qualche bacinella d’acqua, un lavello mezzo incrostato e un piccolo braciere, l’unica fonte di luce, su cui era posto un pentolone annerito.

Peter chiuse in fretta la porta, mentre il mercante prendeva timidamente posto a tavola; Constance prese un piatto dalla credenza, e, sempre con aria corrucciata, si avvicinò al pentolone, cominciando ad estrarne con un mestolo un liquido fumante.

Regnava il silenzio più totale; intanto, Ernest era sparito dentro un’altra stanzetta, a cui dava accesso una porticina in un angolo. Constance si avvicinò al tavolo, sbattendovi malamente sopra un piatto di minestra e un cucchiaio.

- Mangiate - disse, acida.- Siete fortunato che stasera ne sia avanzata un po’…

Il mercante ne sorseggiò un cucchiaio.

- E’ ottima - disse, giusto per spezzare il silenzio.- L’avete cucinata voi, signora?

- Sì, perché, credete forse che mio figlio e quel vecchio bacucco siano in grado di cucinare?- ringhiò lei.

- Meglio che non ti vanti troppo, Constance - disse Ernest, riapparendo con in braccio un ammasso di lenzuola e coperte. Cominciò a disporle metodicamente sul pavimento lurido.- Cucinare è l’unica cosa che sai fare come si deve…basta dare un’occhiata a questo posto…

- Come diavolo pretendi che riesca a pensare a tutto da sola, Ernest?!- abbaiò la donna.- Non è che voi due facciate un granché. Tu poi, con la solita scusa dei reumatismi…

- Mi stai forse dando dello scansafatiche, brutta befana? Guarda che io ti…

- Ma insomma, volete fare silenzio?!- li rimbrottò Peter.

I due si zittirono; rimasero in silenzio finché il mercante non ebbe terminato di mangiare la minestra.

- Grazie, davvero deliziosa - disse, educatamente.- Ora, se non vi dispiace, andrei a letto…

- Certo. Eccolo lì, accomodatevi pure…- disse Constance, indicando, non senza una nota beffarda nella voce, l’ammasso di coperte che Ernest aveva portato poco prima.

- Quello?!- fece il mercante, incredulo e disgustato insieme.

- Quello. Vi avevo avvertito che avreste dovuto accontentarvi.

- Ma voi non penserete veramente che io…

- L’alternativa, signore, è tornarsene nella foresta.

Il mercante si alzò di malavoglia.

- E va bene…- borbottò, dirigendosi verso il giaciglio.

Vi si accoccolò, bofonchiando qualche maledizione.

- Domani mattina verrò all’alba a svegliarvi - annunciò Constance, aprendo la porta della cucina.- In capo a dieci minuti dovrete essere fuori da qui, intesi?

- Contateci.

La donna uscì, rigida, seguita immediatamente da Ernest, il quale gli rivolse uno sguardo preoccupato. Peter fu l’ultimo ad uscire.

- Buona notte, signore - disse, prima di chiudere la porta.

- Buona notte.

Rimasto solo, il mercante prese a rigirarsi convulsamente fra le lenzuola, alla ricerca di una posizione un po’ più comoda che, si disse dopo poco, forse non avrebbe trovato mai.

- Ma che bella ospitalità, davvero!- esclamò indignato, cominciando a fissare il soffitto.

Sospirò, sollevandosi sui gomiti; quella notte l’avrebbe passata in bianco, lo sentiva.

Gettò un’occhiata alla porta da cui Ernest era uscito poco prima; chissà dove portava, si disse. Si alzò in piedi, gettando le lenzuola di lato; se non poteva dormire, tanto valeva levarsi lo sfizio di dare un’occhiata in giro.

 

***

 

Una figura incappucciata se ne stava in piedi in una stanza buia; di fronte a lei, uno specchio appeso ad un muro rifletteva l’immagine di un uomo dai capelli grigi che, uscendo dalla cucina, si ritrovava in un immenso giardino.

La figura ringhiò sommessamente, prima di allontanarsi facendo frusciare il mantello.

 

***

 

Il mercante osservò il giardino intorno a sé; era ampio, luminoso alla luce della luna, ma con l’erba alta ed incolta, gli alberi spogli con alla base cumuli di foglie secche, fiori che crescevano ovunque senza un filo logico.

Fra questi, il mercante notò una bellissima rosa, fiorita non si sa come in quel periodo freddo. Ricordò improvvisamente l’insinuazione della sua figlia più piccola, e sorrise fra sé. Si avvicinò e raccolse la rosa, recidendole il gambo da terra.

Avrebbe fatto un bello scherzo a Catherine, si disse, infilando il fiore nel taschino della camicia. Chissà che faccia avrebbe fatto, scoprendo che aveva preso in parola il suo desiderio…

La porta alle sue spalle si spalancò di colpo.

- Ma allora non avete capito!- sbottò Constance, correndo nella sua direzione dell’uomo, seguita da Ernest e Peter.- Ma cosa c’è di tanto difficile da comprendere? Lo volete capire o no che se il padrone…

La donna si bloccò di colpo; cominciò a boccheggiare, portandosi una mano alla bocca con aria scioccata. Anche Peter e il vecchio s’immobilizzarono.

Fissavano tutti e tre qualcosa alle spalle dell’uomo.

- Ma che succe…

- Tu!- ululò una voce alle sue spalle.

Il mercante si voltò di scatto, ma venne immediatamente afferrato per il bavero del mantello da una figura molto alta, il cui corpo era vestito con un lungo mantello nero; un cappuccio ne celava completamente il viso.

- Tu!- ringhiò l’uomo incappucciato.- Come osi?! Come hai osato intrufolarti in casa mia?!

- Io…

- Padrone, vi prego, calmatevi…- provò a dire Constance, tutta tremante.

- Zitta tu!- urlò l’uomo, al che Constance si ritrasse spaventata, e non disse più nulla.

L’uomo sollevò il mercante da terra, con una forza sovrumana.

- Vi prego, signore…- boccheggiò l’uomo, atterrito.

- Silenzio!- ruggì la figura incappucciata.- Entri in casa mia, mangi il mio cibo, dormi nelle mie stanze…e non contento, mi derubi!

Il mercante abbassò lo sguardo sulla rosa.

- E’ solo una rosa - provò a giustificarsi.- E’ una cosa senza importanza…

- Senza importanza?!- ululò l’uomo, imbestialito.- Prova un po’ a pensare cosa potrebbe succedere se anch’io considerassi senza importanza un tuo braccio…o la tua testa…- aumentò ancora di più la stretta alla gola.

- Vi prego…- ansimò il mercante.- Vi prego, non uccidetemi…

- Dammi un buon motivo per non farlo!

- Vi prego…ho una famiglia…

- Sai quanto me ne importa!

- Vi prego!

- Ladro! La pagherai per questo…

- No, no, vi supplico!

- Ernest!- ruggì l’uomo, facendo accorrere immediatamente il vecchio servitore.- Va’ a prendere le catene.

- Ma…ma padrone…

- Subito, se non vuoi fare la sua stessa fine!

Il vecchio si allontanò con una celerità notevole, dati i suoi anni. Constance strinse a sé un impaurito Peter.

- La pagherai, ladro…- sibilò la figura.

- No, no, vi prego…

Il mercante, nel tentativo di supplicare il suo aguzzino e insieme di liberarsi, afferrò il cappuccio dell’uomo, abbassandolo accidentalmente.

Sbarrò gli occhi, scioccato. L’essere ringhiò, guardandolo come se volesse ucciderlo.

Il mercante lanciò un urlo di orrore.

 

Angolo Autrice: Ciao a tutti! Ecco qui il terzo capitolo di questa storia. Lo ammetto, non ne sono per niente soddisfatta, ma ho fatto del mio meglio…Dunque, il mercante s’è cacciato nei guai, e ora qualcuno dovrà ingegnarsi per tirarcelo fuori…sempre che non sia troppo tardi…

Dunque, qui c’è il motivo, ben conosciuto, della rosa, ma è da intendere quasi scherzosamente, anche perché Catherine, come forse avrete intuito, non è un tipo così frivolo da chiedere in dono una rosa (idea che mi è sempre parsa abbastanza ridicola, come peraltro quella della Bestia di prendersela così tanto), e qui il padrone di casa (chi sarà mai costui? J) se la prende essenzialmente perché il mercante si è intrufolato in casa sua senza permesso…

Avevo promesso che avrei aggiunto altre immagini somiglianti a quelle dei personaggi, ed eccone qui una che vorrebbe rimandare a Lady Julia:

 

 

Ho scovato questa foto di Charlize Theron tratta dal film Biancaneve e il cacciatore, e ho pensato subito a Lady Julia. Chiaramente, come nel caso di Catherine, anche la sua matrigna non è la fotocopia esatta della Regina cattiva, questo è solo per dare un’idea, e molto è lasciato all’immaginazione del lettore…

Nel prossimo capitolo troverete le immagini di Lord William e di Henry…e vedremo com’è la situazione in casa di Catherine che, lo anticipo, non se la passa molto bene, anche se il suo spirito combattivo l’aiuterà parecchio…e, soprattutto, come reagirà la nostra protagonista quando non vedrà tornare suo padre?

Vi lascio con questo interrogativo (non ci dormiremo la notte! Nd Voi, con una punta di sarcasmo), e ringrazio le 30 persone che hanno letto, in particolare LadySerpeNera per aver aggiunto questa storia alle seguite e Alex_J ed Ellyra per aver recensito.

Ciao a tutti, al prossimo capitolo!

Dora93

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Capitolo 4
*** Mille modi per utilizzare una padella ***


- Va bene, Lydia, pronta?

- Pronta.

- Al mio tre. Uno…due…tre!

Catherine e Lydia cominciarono a tirare con tutte le loro forze, ma quella maledetta erbaccia non voleva proprio saperne di venire sradicata.

- Santo cielo, l’ho sempre detto io che l’erba cattiva è la più dura a venire via!- sbuffò Lydia, con il volto arrossato, tirando come una dannata.

- Forza, Lydia! Ci siamo quasi!- la incitò Catherine, con il viso contratto dallo sforzo.

L’erbaccia si staccò dal suolo all’improvviso; Catherine perse l’equilibrio, cadendo all’indietro sull’erba, mentre la vecchia governante ruzzolava alle sue spalle, con un gridolino a segnalare tutto il suo disappunto.

- Uff!- sbuffò Catherine, alzandosi a sedere, con l’erbaccia ancora fra le mani. - Beh, se non altro, è venuta via…

- Già - ansimò Lydia, arrancando sull’erba nel tentativo disperato di rimettersi in piedi.

Catherine si rialzò, ripulendo con le mani il vecchio vestito logoro e rattoppato. Prese Lydia per un braccio, aiutandola a ritornare in posizione eretta.

- Non dovresti fare queste cose, Lydia…- mormorò la ragazza, osservando la vecchia balia massaggiarsi il fondoschiena.

- Neanche voi - borbottò quella di rimando.

Catherine non rispose, limitandosi a pulire le mani sporche di terra con un lembo del grembiule.

- Che ne dici, rientriamo?

Prima che Lydia potesse rispondere, in lontananza si udì il rintocco di una campana. Era un rintocco lento e lugubre, lo stesso che annunciava un funerale.

- Ne hanno trovato un altro…- disse Lydia, vedendo che Catherine stava ascoltando.- Un altro morto…proprio come quel conte, avete saputo?

- Un altro?- ripeté Catherine, un po’ sorpresa.

Lydia annuì in maniera grave.

- Anche lui nobile?- domandò la ragazza.

- No, ma parecchio ricco, a quel che ho sentito dire…Anche lui mancava da casa da un po’ di tempo, era uscito per una battuta di caccia e non è più tornato.

- L’hanno trovato nella foresta?

- Sì, anche lui ammazzato. Sbranato vivo, a quanto pare…Che il Signore abbia pietà della sua anima…- mormorò Lydia, facendosi il segno della croce.

Le due donne si diressero all’interno dell’abitazione. Catherine vi gettò un’occhiata d’insieme; sì, alcuni mobili erano ancora coperti da teli bianchi e c’era ancora qualche ragnatela qua e là, ma si poteva dire che nel complesso fosse decisamente migliorata, da che erano arrivati.

- Dov’è la vostra matrigna?- domandò Lydia, entrando in cucina.

- Di sopra, a rimirarsi nello specchio, credo. Oppure ad escogitare qualche altro modo per rendermi la vita ancora più difficile…- commentò Catherine, sollevando il coperchio di una grossa pentola e avvicinandovi il viso per odorare il profumo del suo contenuto.

Da che suo padre era partito, Lady Julia si era scatenata, non perdendo occasione per dimostrare alla figliastra tutta la sua antipatia. Tanto per cominciare, aveva fatto sfoggio di quanto fosse ottimale la sua memoria, dal momento che non aveva per niente dimenticato la “promessa” di Catherine di occuparsi della casa, anzi. Negli ultimi giorni, la ragazza si era praticamente spaccata la schiena a furia di lucidare pavimenti e spaccare legna, e le sue dita avevano perso completamente sensibilità a causa del continuo lucidare argenterie e passare lo strofinaccio sulle cornici dei quadri.

- Non ha il diritto di trattarvi così…- bofonchiò Lydia, estraendo da uno scaffale una tovaglia mezza bucherellata.

Catherine fece spallucce.

- Penso che non gliene freghi niente, Lydia.

- Ma insomma! Quella…quella donna…voi sgobbate tutto il giorno e lei non fa niente!

- Appunto. Ce la vedi tu, Lady Julia, a pulire le scale? Qualcuno deve pur occuparsi della casa, se la lasciassi in mano sua probabilmente il soffitto crollerebbe nel giro di dieci secondi. E poi, non essere così ingiusta, Lydia. Non è vero che non fa niente tutto il giorno…- ammiccò, sfoderando un sorrisetto ironico.

Dopo l’attenta e minuziosa cura del proprio aspetto fisico, ecco che veniva la seconda occupazione preferita di Lady Julia: scandagliare accuratamente tutto l’elenco di uomini – possibilmente con un bel sette e quaranta in tasca – scapoli del paese nel tentativo – ormai disperato – di affibbiare ad uno di loro la sua tanto bella quanto detestata e squattrinata figliastra.

L’aggettivo squattrinata, comunque, Catherine sospettava venisse puntualmente omesso. Altrimenti non si sarebbe spiegato come mai nel giro di sette giorni scarsi Lady Julia fosse riuscita a portarle in casa ben cinque uomini.

Il primo era arrivato la mattina seguente la partenza di suo padre. Un giovanotto biondo e distinto, neanche poi tanto male, Catherine aveva dovuto convenire…fino a che non aveva aperto la bocca!

Catherine non avrebbe mai creduto che una persona, per quanto poco istruita, potesse combinare un tale pasticcio grammaticale e lessicale come quello! Per non parlare poi della cultura generale…per quell’illetterato Socrate avrebbe anche potuto essere un venditore ambulante!

Quando si era giunti alla fatidica domanda – Catherine Kingston, volete diventare mia moglie? – lei aveva risposto:

- Molto gentile, signore, ma vorrei avere un marito che sia in grado di leggere.

Inutile dire che non si era più fatto vedere.

Gli altri due non erano stati molto meglio. Uno di loro era un soldato zotico e rozzo, che, invitato a pranzo, non aveva trovato niente d’altro da fare che pulirsi i denti col coltello; l’altro, un bellimbusto tutto tirato a lucido che per ore non aveva fatto altro che blaterare su quanto egli fosse bello, giovane, ricco, abile nella caccia, capace di camminare sull’acqua tutti i giovedì…

Scartati anche loro due, ovviamente.

Il quarto era stato anche peggio, se possibile. Un damerino fatto e finito, un dandy dei poveri che per ore non aveva fatto altro che attentare al già provato sistema nervoso della ragazza, continuando a parlare della casa di papà, della carrozza di papà, dei cavalli di papà…

Altro giro altro regalo. Altro candidato, altra uscita di scena da respinto imbestialito.

Infine, Lady Julia, forse come ultimo tentativo prima della resa totale, il giorno prima aveva annunciato che ci sarebbe stato un ospite a pranzo. Col senno di poi, Catherine avrebbe dovuto insospettirsi del fatto che anche lei fosse invitata a tavola con sua sorella, Henry e la sua matrigna con tanto di abito elegante – dato che Lady Julia l’aveva specificatamente relegata a mangiare in cucina con la sola compagnia di Lydia, che ormai le prestava anche i vestiti da lavoro –, ma stranamente non ci aveva pensato.

L’ospite in questione era un ricco barone locale, sui sessant’anni e, come Catherine apprese nel corso della conversazione, vedovo con cinque figli.

Lì per lì, la ragazza aveva creduto che si trattasse di un vecchio amico o di un collega di suo padre, fino a che, inaspettatamente, lui le aveva chiesto la sua mano.

Credendo che si trattasse di uno scherzo, Catherine era scoppiata in una sonora risata, coinvolgendo anche Rosalie e Lydia. Henry, che in quel momento si stava infilando una fetta di arrosto in bocca, era rimasto con la mascella spalancata a guardarla come se fosse stata un oggetto misterioso, mentre Lady Julia le aveva scoccato un’occhiata di puro odio.

Il vecchio barone, naturalmente, s’era offeso a morte, e se n’era andato più veloce del vento.

Tutti questi categorici rifiuti non avevano fatto altro che aumentare i motivi di tensione fra matrigna e figliastra, anche se Catherine dubitava fortemente che Lady Julia avrebbe gettato la spugna così facilmente. Infatti, si aspettava da un momento all’altro l’arrivo di un sesto pretendente.

Intanto, Lydia aveva ripreso ad inveire contro la padrona di casa e tutti i lavori ingrati a cui obbligava Catherine.

- Almeno i lavori pesanti, come quelli in giardino, potrebbe farli svolgere a qualcun altro…

- Non voglio che mia sorella lavori al posto mio, Lydia - dichiarò fermamente Catherine.

- Ma non intendevo certo la signorina Rosalie, che diamine! Abbiamo abbastanza denaro per assumere temporaneamente un inserviente? Oppure, per una volta, potrebbe farlo il signorino Henry…- Lydia non si curò di trattenere una smorfia di disgusto nel nominare il figlio del mercante.

- Temo che mio fratello sia sparito di nuovo…- mormorò la ragazza.

E spero solo che non sia dove penso…

- Che c’è di buono per cena, Lydia?- domandò Catherine, ostentando allegria, ben decisa a levare Henry dal centro della conversazione.

La vecchia domestica si avvicinò al focolare, togliendo attentamente una padella dalla brace.

- Salmone e carote, signorina!- esclamò.- Per una volta possiamo permetterci qualcosa di chic…

Catherine si sentì avvampare, al pensiero di quello che sarebbe stata costretta a dire di lì a poco.

- Ehm…io ti ringrazio molto Lydia, sei stata davvero gentile, sul serio…ma…- mormorò.- Ma…credo che dovrò fare a meno del salmone…

L’anziana governante avvampò a sua volta, rivolgendo uno sguardo colpevole al pesce.

- Oh, mi dispiace tanto, signorina!- esclamò, affrettandosi a gettare il salmone nella pattumiera, nonostante le proteste della ragazza.- Dimentico sempre che siete allergica…

Lydia posò la padella vuota sul ripiano del tavolo; nel mentre, si udì aprirsi la porta d’ingresso.

- Sono a casa!- biascicò una voce impastata, accompagnando l’annuncio con una risata strascicata.

Catherine sospirò, con una punta di disperazione, correndo fuori dalla cucina e precipitandosi incontro a suo fratello, che continuava a ridere come un ebete, ubriaco fradicio, barcollando e sbattendo rumorosamente contro i mobili senza riuscire a rimanere in equilibrio.

- Henry!- Catherine lo afferrò per un braccio, riuscendo a malapena a sostenerlo quando lui le crollò letteralmente addosso. La ragazza sbuffò, cercando di far riprendere al fratello una posizione eretta, o quantomeno che non gravasse su di lei.

- Henry, ma che combini?!- esclamò, mentre il giovane continuava a sghignazzare.- Puzzi d’alcool, mamma mia, ma proprio non ce la fai a stare lontano dai guai?

- Ma che guai!- esclamò Henry ad alta voce. - Io non mi caccio nei guai…io…volevo solo divertirmi un po’, tutto qui…Ho vent’anni, che c’è di male?

- C’è di male che sei ubriaco fradicio! Ma quante volte te lo devo ripetere che…

- E fa’ la brava, Cathy! Ho anche portato un ospite...

- Un ospite?- fece eco Catherine, sbirciando da sopra la spalla del fratello.

Sulla soglia della porta, in piedi, con addosso un elegante mantello di velluto nero e un sorriso molto simile ad un ghigno, c’era un giovane sui venticinque anni, con un viso affascinante incorniciato da folti capelli castani.

- Lord William!- esclamò Catherine, sbigottita.- Io…non…non mi aspettavo…

- Mi sono sentito in dovere di riaccompagnare a casa vostro fratello, signorina Kingston - spiegò Lord William, accennando al barcollante Henry.- Temevo che da solo non ce l’avrebbe fatta…

- Io…vi ringrazio davvero molto, Lord William. Lydia!- chiamò, al che la domestica accorse subito.- Lydia, per favore, accompagna mio fratello in camera sua…

- Certo, signorina Catherine.

Lydia prese il braccio di Henry, standogli il più lontano possibile, e prese a condurlo con fatica su per le scale.

Catherine si sistemò brevemente il vestito stropicciato.

- Grazie, Lord William, siete stato molto gentile…- disse, costringendosi ad essere cortese con quell’uomo che, nonostante mantenesse quell’atteggiamento ambiguo che la rendeva diffidente, aveva pur sempre evitato che suo fratello si cacciasse in ulteriori guai.

- E’ stato un piacere, signorina. Anche se, devo ammetterlo, il mio non è stato un gesto del tutto disinteressato…

- Come, prego?

- Quando ho incontrato vostro fratello, mi stavo giusto dirigendo qui. Avevo desiderio di parlarvi.

Catherine rimase un attimo interdetta. Poi, riuscendo a recuperare un minimo di autocontrollo, disse:

- Bene. Accomodatevi, allora.

Lord William la seguì in cucina; si sedettero l’uno di fronte all’altra, accanto al tavolo.

- Dunque, che avete da dirmi?- fece Catherine, andando subito al sodo.

- Io…ero venuto a dirvi che vi amo.

Se Catherine rimase stupita da questa dichiarazione, certo seppe mascherarlo molto bene. La sua impassibilità, però, dovette innervosire parecchio Lord William.

- Beh?- fece il giovane, con una smorfia di fastidio.

- “Beh”, che cosa?- chiese Catherine di rimando.

- Non dite niente?

- No.

- No?!

- Non ho niente da dire.

- Ma…non mi dite che anche voi ricambiate il mio amore?- insistette Lord William, già vagamente innervosito. Non si sarebbe mai aspettato quella reazione, nessuna donna lo aveva mai rifiutato.

- No. L’unica cosa che mi viene da dire è che reputo impossibile che vi siate innamorato di me dopo avermi vista una sola volta.

- Non credete al colpo di fulmine?

- Certo. Le disgrazie purtroppo capitano - rispose Catherine, sardonicamente.

Questo era troppo!

Lord William la strattonò violentemente per un braccio, digrignando i denti.

- Voi diventerete mia moglie, Catherine!- urlò. - Avete capito?! Diventerete mia moglie!

- Ma come osate…

Lord William non le diede il tempo di finire la frase; l’attirò a sé, baciandola con foga sulla bocca. Catherine cercò di divincolarsi, riuscì a staccare le labbra dalle sue per un secondo, ma lui riprese subito a baciarla, e agli spintoni della ragazza rispose afferrandola per i capelli e attirandola ancora di più a sé.

A Catherine sembrò di morire di rabbia, finché non notò la padella vuota che Lydia aveva lasciato sul tavolo. Scattò con un braccio nella sua direzione, l’afferrò per il manico e la sollevò, colpendo violentemente Lord William sul capo.

Il giovane finalmente si staccò, uggiolando di dolore. Catherine non gli diede il tempo di accusare il colpo, e gliene sferrò un altro, colpendolo in pieno volto. Lord William si accasciò ai piedi della ragazza, portandosi le mani al viso. Catherine non perse l’occasione, e lo colpì con un’altra padellata su una spalla.

Lord William si alzò, tutto dolorante, guardando la ragazza con rancore; si voltò di scatto, dirigendosi a grandi passi verso l’uscita.

Catherine lo guardò andarsene trionfante.

Sporgendosi oltre il corrimano delle scale, accorse al rumore, osservavano la scena Lydia, Rosalie e Lady Julia, quest’ultima con addosso solo la vestaglia da notte, i capelli raccolti con dei bigodini e uno strano impasto verde usato a mo’ di crema di bellezza spalmato sulla faccia.

- Diventerai mia moglie, Catherine Kingston!- urlò Lord William, prima di andarsene sbattendo la porta.

- Soltanto una cagna vi vorrebbe per marito, Lord William, e meglio per voi se sdentata!*- gridò Catherine di rimando.

Quando il giovane se ne fu andato, il turno di strillare toccò a Lady Julia.

- Che hai fatto?- domandò, quasi sotto shock, scendendo le scale.

- Esattamente ciò a cui avete appena assistito, signora madre.

- Pazza! Tu sei pazza!- strillò la donna, fuori di sé. - Quello…quello è l’uomo più ricco del paese…ti ha chiesto di sposarlo…e tu…tu…che cosa hai fatto…

- Forse sono pazza, Lady Julia, ma preferisco avere tutte le rotelle fuori posto, piuttosto che essere la moglie di quel porco!- la rimbeccò Catherine.

- Piccola vipera!- sibilò Lady Julia.- Dannata serpe! Me la pagherai, questa me la pagherai…

- Quando tornerà mio padre…

- Tuo padre, ragazzina, non vede l’ora che tu te ne vada, e possibilmente con un uomo che ci tiri fuori dalla melma in cui siamo finiti, grazie al tuo caro papà!

- Come vi permettete?!- scattò la ragazza, indignata.- Come vi permettete di parlare di mio padre in questo modo? E’ anche vostro marito…E se vi sento ancora dire qualcosa contro di lui, parola mia che quella lingua biforcuta ve la taglio in due!- ringhiò.

Lady Julia non rispose, limitandosi a squadrarla da capo a piedi con quel suo sorrisetto freddo e sprezzante. Si voltò, facendo frusciare la vestaglia, salendo le scale con quell’aria da primadonna che non perdeva mai neanche nei momenti più critici.

- Come vuoi, ragazzina…- disse.- Come vuoi. Evidentemente non ti dispiace di dare un ulteriore peso a tuo padre, con la tua presenza. Ma se ti piace essere un fardello, per lui, fai pure. L’importante è che tu ne sia felice.

Lady Julia entrò in camera sua sbattendo la porta. Lydia e Rosalie rivolsero uno sguardo interrogativo a Catherine, la quale strinse i pugni dalla rabbia.

La ragazza salì a sua volta le scale, in silenzio, chiudendosi in camera sua. Si sedette sulla sedia a dondolo, appoggiò il braccio disteso sul davanzale della finestra e vi pose sopra il mento,fissando le torri nere all’orizzonte.

Non si voltò quando sentì la porta aprirsi scricchiolando alle sue spalle. Rosalie entrò in punta di piedi, seguita da Lydia.

- Dai, Cathy, non te la prendere…- fece Rosalie, accovacciandosi a gambe incrociate sul pavimento di fronte alla sorella.

Catherine sospirò.

- Io non me la sono presa, Rose, è solo che…

- Che?

- Che ogni tanto anch’io ho bisogno di prendermi una pausa da Lady Julia - concluse la ragazza, con un sorriso tirato.

- Sono sicura che non intendeva dire…

- Oh, lo intendeva eccome, Rose!- esclamò Catherine, abbandonandosi contro lo schienale della seggiola.- Io non lo faccio apposta, credetemi - disse poi, guardando prima la sorella poi Lydia.- Ma tutti quanti mi vogliono sposare solo perché…sì, insomma, mi considerano bella…o sperano in una dote che non esiste…E poi, quel porco mi ha messo le mani addosso!

- E Lady Julia questo non l’ha visto?- cinguettò Rosalie.

- Io penso di sì. Ma penso anche che non gliene importi niente - dichiarò Catherine.

- A volte mi chiedo come ha fatto papà a sposarla…

- A volte? Io me lo chiedo in continuazione.

- Credo che volesse solo trovare una madre per voi, al posto della povera Lady Elizabeth…- mormorò Lydia, posando delicatamente le mani grassocce sulle spalle di Catherine.

- Beh, se era una sostituta della mamma che cercava, Lady Julia è perfetta…tranne che con noi, ovviamente - rispose la ragazza, acida.

Catherine sapeva che Lady Julia, malgrado ostentasse affetto e gentilezza in presenza degli estranei e del mercante, non aveva mai potuto soffrire i tre figliastri che le erano piombati fra capo e collo quando aveva sposato il loro padre. Beh, con Henry e Rosalie non si poteva dire che fosse tanto male. Il primo le era indifferente, d’altronde il maggiore dei tre Kingston passava gran parte della giornata fuori casa, e lui e la matrigna si parlavano a malapena; Rosalie, invece, aveva sempre avuto un carattere talmente dolce e ingenuo, e uno spirito così docile, da non essere un gran fastidio per Lady Julia, che si limitava a trattarla come un animaletto da compagnia, un cagnolino da coccolare quando faceva il bravo, ma da tenere ben lontano quando ci si stancava di lui.

Era Catherine che non poteva veramente soffrire, e il sentimento d’odio era pienamente reciproco. La ragazza aveva capito quasi subito che quelle di Lady Julia erano soltanto della false moine e niente di più, e non aveva mai perso occasione per rispondere a tutte le sue frecciatine.

D’altra parte, Catherine aveva sopportato faticosamente che Lady Julia prendesse letteralmente il posto di sua madre. Era una tortura continua vederla andare in giro con addosso gli abiti e i gioielli che erano stati della prima signora Kingston, presentarsi come lei alle feste e addirittura proibire che venisse nominata in sua presenza.

- Sono io la signora Kingston - ripeteva sempre.

Lady Julia avrebbe anche voluto sbarazzarsi dei dipinti e delle miniature che ritraevano la bionda e sorridente Lady Elizabeth, ma Catherine vi si era opposta con tanta ferocia che alla fine la matrigna aveva dovuto cedere.

- Non ha il diritto di trattarti così!- esclamò Rosalie, indignata.

- Sai quante volte me l’hanno già ripetuto oggi?

- Non preoccupatevi, signorina Catherine - disse Lydia.- Vedrete che quando vostro padre tornerà…

Il resto delle parole di Lydia si disperse nel vuoto. Catherine ebbe come una folgorazione, e si rizzò a sedere sulla seggiola. Quando vostro padre tornerà…

Santo cielo, da quanto tempo suo padre era partito?

- Cathy, tutto bene?- fece Rosalie, vedendola impallidire di colpo.

- Signorina Catherine, vi sentite male?

Catherine non si degnò di rispondere a nessuna delle due. Fece velocemente un calcolo mentale cercando di ricordare da quanto esattamente suo padre mancasse da casa. Quattro…cinque…ben nove giorni!

Dieci giorni, si disse, vedendo il sole tramontare.

Scattò in piedi, slacciandosi velocemente il grembiule.

- Lydia, aiutami a vestirmi, per favore!- disse, estraendo dal guardaroba un vestito verde smeraldo bordato d’oro, semplice ma molto pratico.

- Ma…signorina, che vi succede?- fece la vecchia balia, non sapendo più dove guardare.

- Papà…- rispose semplicemente Catherine, iniziando a spogliarsi e ad indossare da sé l’abito da viaggio.

- Papà? Che c’entra papà?- domandò Rosalie, alzandosi in piedi, senza smettere di fissare attonita la sorella.

- E’ in ritardo, Rose - annaspò la ragazza.- Aveva detto che sarebbe tornato fra una settimana, e sono già passati da dieci giorni.

La ragazza corse in corridoio, precipitandosi in direzione della camera di Henry e bussando con violenza alla sua porta. Suo fratello ci mise diversi minuti prima di aprire, e quando lo fece Catherine vide che aveva le occhiaie e la camicia mezza slacciata sul petto.

- Che c’è?- fece, mangiandosi le parole. Probabilmente la sbronza non gli era ancora passata.

- Henry, papà non è ancora tornato!- fece Catherine, sperando che il fratello conservasse ancora un minimo di lucidità per riuscire a capirla.

- Beh? E’ in viaggio, no?

- Sì, ma aveva detto che sarebbe tornato tre giorni fa!

- Potrebbe aver avuto un imprevisto, no?- cinguettò una voce melliflua alle sue spalle. Lady Julia era apparsa dal fondo del corridoio, ora con addosso un abito di seta rossa.

Catherine scosse il capo.

- No, non è da lui. E’ sempre stato puntuale, sempre, anche quando viaggiava per mare. Se era in ritardo trovava ogni volta il modo per avvertirci, perché non stessimo in pensiero…Dev’essere successo qualcosa…

- Beh, e se anche fosse?- commentò Lady Julia con un’alzata di spalle.- E’ un uomo adulto, sa badare a se stesso e…

Catherine non stette a sentire la risposta. Afferrò velocemente il suo mantello nero e se lo mise sulle spalle, avviandosi di corsa verso le scale.

- Devo andare a cercarlo, subito.

Lady Julia la bloccò per un braccio.

- Dove credi di andare?- sibilò fra i denti.

- A cercare mio padre!- Catherine si liberò dalla stretta della matrigna.

- Per carità, signorina…- mormorò Lydia, congiungendo le mani al petto e iniziando a pregare tutti i Santi del Paradiso.

- Sta’ attenta, Cathy - fece Rosalie, osservando la sorella scendere in fretta le scale.

- Ehi, ma…e chi mi stirerà la camicia?- saltò su Henry.

- Oh, Henry, sta’ zitto, altrimenti prendo a padellate pure te!- Catherine aprì la porta d’ingresso.

- E i tuoi doveri, signorina?- abbaiò Lady Julia, sporgendosi dalla scala.

- I miei doveri? Provate a lavare un po’ voi, i pavimenti, è un’ottima manicure!

La ragazza uscì sbattendo la porta. Doveva trovare suo padre, e in fretta. E il pensiero che già quattro uomini fossero stati trovati uccisi nella foresta…no, non voleva neanche pensarci…!

Si diresse verso le scuderie, sellò un cavallo marrone scuro, l’unico, insieme a quello grigio del padre, che fossero riusciti a non vendere. Saltò in sella e lo spronò al galoppo.

Si coprì i capelli corvini con l’ampio cappuccio del mantello, e si addentrò nella foresta, mentre, in lontananza, l’oscurità della notte aveva cominciato ad avanzare.

 

*citazione dal primo episodio de I pilastri della terra, Aliena a William Hamleigh.

 

Angolo Autrice: Rieccomi qui di nuovo a rompere le scatole con le mie follie! D’accordo, questo è un capitolo, diciamo, “di passaggio”, forse molti di voi si aspettavano che ripartissi dalla scena dell’ultimo – vedi mercante terrorizzato da un misterioso essere incappucciato parecchio incavolato J –, ma questo capitolo andava fatto, perché anche la vita normale continua, spesso con parecchi guai, come s’è visto…A questo proposito, so che questo capitolo potrebbe risultare un po’ noioso, ma c’è un motivo per cui continuo ad insistere sulla famiglia di Catherine, e anche sui suoi corteggiatori…ora, molti di voi penseranno che l’idea che Lord William si sia innamorato della nostra protagonista dopo averla vista una sola volta sia a dir poco assurda, ma siamo comunque in una favola, dove questo genere di cose sono all’ordine del giorno…Spero che la figura di Cathy non sia stata ridimensionata negativamente, in questo capitolo, non era nelle mie intenzioni, se ha avuto un calo di stile, chiedo scusa e prometto che nel prossimo migliorerà!

Dunque, avevo promesso delle immagini – sempre molto vaghe, comunque, si avvicinano solo a come potrebbero essere i personaggi – di Lord William e di Henry, ed eccole qua:

 

 

Questo è Lord William, alias Ben Barnes nel film Dorian Gray. Ora, sicuramente la maggior parte di voi considererà questo film come niente più che un porno in piena regola – e, per certi versi, sono anch’io di questo parere – ma il protagonista m’intrigava, in quanto è un bel ragazzo ma con un’anima nera…come, vedremo, lo è anche Lord William.

Ed ecco qui invece un’immagine di un ipotetico Henry:

 
 

Ok…fatemi dire due paroline: nel primo capitolo si dice che Henry ha i capelli biondi, ed è presumibilmente un bel ragazzo, ma, come avrete capito, è un po’…come dire…idiota, per certi versi…Bene, questa immagine è tratta dal film/musical Il Fantasma dell’Opéra, e benché io non abbia niente contro Patrick Wilson, il personaggio da lui interpretato, Raoul de Chagny, mi è sempre stato altamente sulle scatole – non so perché, forse per il mio smisurato e incondizionato amore per il Fantasma… – e l’ho sempre considerato un emerito cretino, perciò mi è parso perfetto per Henry.

Bene, finiti gli sproloqui…che succederà? Catherine è andata a cercare suo padre, ma riuscirà a far fronte alla furia del misterioso individuo che lo tiene prigioniero? Quale sarà il prezzo da pagare?

Per scoprirlo, non vi resta che sopportarmi ancora un po’ e attendere il quinto capitolo!

Nel frattempo, ringrazio tutti coloro che hanno letto, Niglia per aver aggiunto la mia ff alle seguite, Alex_J per la sua recensione ed Ellyra per averla aggiunta alle preferite e per aver recensito.

Grazie a tutti, e appuntamento al prossimo capitolo!

Ciao!

Dora93

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Capitolo 5
*** Un padre e una figlia ***


 

Si udì il canto di una civetta. Pochi secondi dopo, il rapace, una macchia bianca in mezzo a tutta quell’oscurità, lasciò il ramo su cui era appollaiata, levandosi in volo nella notte.

Catherine la osservò volare via, sistemandosi il cappuccio sul capo. Le venne immediatamente in mente che Lydia avrebbe di sicuro iniziato a fare una serie di riti contro il malocchio, alla vista di quell’uccello del malaugurio, ma la ragazza non era un tipo superstizioso; mai, neanche da bambina, aveva creduto alle storie di fantasmi o a tutte le frottole sull’Uomo Nero o il mostro sotto al letto che Henry cercava sempre di propinarle. Rosalie usciva da una favola dell’orrore letteralmente terrorizzata, ma lei si era sempre rifiutata di credere che cose come la magia o gli spiriti potessero esistere sul serio. Quindi, si impose di non farsi prendere dalla paura e di continuare dritta per la propria strada, sebbene la foresta, complice l’avvento del buio, si stava rivelando un luogo a dir poco spettrale.

C’era la luna nuova, e il bosco era completamente immerso nell’oscurità. Catherine non aveva idea né di dove si trovasse né di dove fosse diretta. Si diede mentalmente della stupida; era talmente preoccupata per suo padre che era uscita a cercarlo di volata, senza neanche pensare a quello che stava facendo. Tanto per cominciare, se n’era andata senza prendere nulla, né del denaro, né del cibo e nemmeno una lanterna per farsi un po’ di luce, solo con addosso quell’abito troppo leggero per la stagione fredda che si stava avvicinando e quel mantello mezzo consunto.

Il cavallo nitrì; arrestò la marcia, cominciando a muoversi nervosamente sul posto, facendo picchiare gli zoccoli sul terreno fangoso.

- Buono…- mormorò Catherine, accarezzandogli il collo e la criniera, tentando di spronarlo a riprendere la marcia.

La ragazza poteva vantarsi di essere una cavallerizza, se non bravissima, almeno minimamente capace di montare in sella e, sebbene Lady Julia trovasse inconcepibile che una fanciulla della sua età e di buona famiglia come lei non fosse in grado di cavalcare all’amazzone, Catherine riusciva ad entrare in sintonia con il proprio cavallo. Sin da quando era partita, si era resa conto che il cavallo era inquieto, nervoso, sentiva che aveva i nervi a fior di pelle. Scosse le briglie un paio di volte perché l’animale riprendesse a camminare.

Cominciò a soffiare un venticello pungente; la ragazza si strinse di più nel mantello.

Doveva trovare suo padre; gli era successo qualcosa, lo sentiva. Non era da lui ritardare così, senza neanche avvertire, sapeva quanto sarebbero stati in ansia. Avrebbe attraversato tutta la foresta, fino a che non fosse giunta al primo villaggio; lì, avrebbe chiesto informazioni su suo padre, anche se non sapeva dove, ma doveva pur essersi fermato da qualche parte, a mangiare qualcosa in un’osteria, o a riposarsi in una locanda, giusto? Se non l’avesse trovato, allora avrebbe proseguito fino alla casa di Von Rubens, ma di sicuro non sarebbe tornata indietro senza suo padre.

Il cavallo si arrestò di nuovo, stavolta con più decisione, nitrendo più forte e dimostrando tutto il suo nervosismo picchiando sonoramente gli zoccoli.

- Che c’è?- fece Catherine.- Avanti, non è questo il momento di fare le bizze…!

Cercò di spronarlo a proseguire, ma l’animale non ne voleva sapere.

- Andiamo, piccolo, dobbiamo trovare papà!

Niente, più che ad un cavallo sembrava di parlare ad un asino!

Catherine sospirò, smontando dalla groppa dell’animale; afferrò le briglie con decisione, tirandole fino a vincere le resistenze del cavallo.

- Vediamo se così ti decidi ad andare avanti…!

L’animale la seguì, lasciandosi guidare docilmente, ma senza perdere quel nervosismo che lo accompagnava sin dalla partenza; spesso si bloccava, e allora Catherine era costretta a tirarlo con tutte le sue forze.

- Non pretenderai mica che ti porti in groppa, bestiaccia!

Procedettero così, per un paio di chilometri; la ragazza cercava di concentrarsi sul pensiero di suo padre, ignorando i nitriti di protesta del cavallo, le ombre sinistre proiettate dagli alberi e gli strani rumori che sembravano provenire da ogni dove.

D’un tratto, senza smettere di camminare, Catherine incominciò ad avvertire uno strano odore, che si faceva sempre più acuto e penetrante man mano che avanzava. Era puzza di marcio, di carne e terra, un odore di putrefazione…odore di morte.

Il sospetto della ragazza che qualcosa di morto da un bel pezzo si nascondesse in qualche angolo di quel labirinto verde venne avvalorata quando, proprio di fronte a lei, a pochi metri di distanza, vide uno strano agglomerato di carne, ricoperto da terra e foglie.

La ragazza si avvicinò, col cuore in gola, per scoprire che quell’ammasso di carne era effettivamente la carcassa di un animale. Era lurida e mezza putrefatta, e le carni erano state lacerate e divorate da morsi così profondi che a stento si poteva ancora distinguere la forma di quel povero animale. Ma la ragazza lo riconobbe immediatamente: era il cavallo di suo padre!

- No…- fece in tempo a mormorare, prima che il cavallo marrone s’impennasse all’improvviso con un nitrito di terrore. Catherine prese le briglie con entrambe le mani, lottando per calmare quell’equino idiota.

- Fermo! Sta’ calmo, sta’ calmo!- ordinò, riuscendo infine a tranquillizzarlo con alcune carezze sul muso, senza distogliere lo sguardo dalla carcassa ai suoi piedi.

Sperando che il suo destriero non le facesse altri scherzi, Catherine montò di nuovo in sella, spronandolo al galoppo.

- Forza, andiamo!

Il cavallo prese a correre, proseguendo dritto di fronte a sé.

Ti prego, ti prego, fa’ che stia bene…, supplicava mentalmente la ragazza.

D’un tratto, proprio di fronte a lei, scorse un’imponente costruzione; tirò le briglie, in modo che il cavallo rallentasse la propria corsa.

La ragazza rimase a bocca aperta, contemplando ciò che aveva di fronte. Un altissimo cancello in ferro battuto dava accesso ad un maestoso e cupo maniero. La costruzione era scura e dall’aspetto vagamente inquietante, con torri così alte che svettavano quasi stessero per toccare il cielo, e sulle balconate e le tettoie c’erano spaventose statue di pietra, draghi, idra, grifoni, gargoyle dalle espressioni demoniache e le fauci spalancate che pareva stessero per saltarti addosso, mettendo in mostra le loro immense ali di pietra.

Catherine era talmente presa ad ammirare quello spettacolo che non si accorse che una vipera aveva preso a strisciare di fronte a lei; il cavallo, non appena la vide, s’impennò nuovamente sugli zoccoli posteriori, lanciando un sonoro nitrito; prese a dimenarsi, ma Catherine non fu abbastanza pronta per aggrapparsi alle briglie.

L’animale la disarcionò, scaraventandola a terra con un grido, per poi voltarsi e intraprendere una folle corsa nella direzione opposta.

Catherine cercò di rialzarsi, emettendo un mugolio di dolore e portandosi una mano al fianco; il cappuccio le era calato, e le ciocche corvine le si erano sparpagliate disordinatamente di fronte al viso.

- Stupida bestia…- borbottò, rialzandosi a fatica e scostandosi una ciocca ribelle dagli occhi.

Non appena si fu assicurata di essere ancora tutta intera, e aver lanciato al cavallo innumerevoli maledizioni, tornò a rivolgere la propria attenzione a quello strano castello.

La visione del cavallo di suo padre morto e sbranato l’aveva resa ancora più preoccupata. Si chiese se mai suo padre potesse aver trovato rifugio in quel maniero da qualunque cosa l’avesse attaccato – non aveva dimenticato la serie di omicidi avvenuti nella foresta – o se almeno lì dentro sapessero qualcosa di lui.

Si fece coraggio e aprì il cancello, il quale emise uno scricchiolio metallico, rivelandosi quasi completamente arrugginito. Catherine entrò, dirigendosi verso il portone d’ingresso.  Picchiò due o tre volte il batacchio d’oro massiccio, il quale emise un rumore sordo contro il legno di quercia del portone, ma nessuno venne ad aprire. La ragazza ritentò, ma in quel posto non sembrava esserci anima viva.

Sbuffò, pestando i piedi dalla rabbia; d’un tratto, si accorse che, poco più in là, c’era una botola di legno, mezza nascosta dalle foglie, scavata nel terreno. Catherine vi si avvicinò, sciogliendo senza problemi la catena arrugginita arrotolata intorno alla maniglia. L’aprì.

Se non poteva entrare dalla porta principale, beh, poco male, sarebbe passata per l’entrata di servizio.

Gettò un’occhiata all’interno. Buio, niente di più. Si sedette sulla soglia, infilando le gambe per prime all’interno dell’apertura; quando toccò terra con i piedi, si lasciò andare completamente.

Pian piano, i suoi occhi si abituarono all’oscurità. Catherine vide che si trovava in una lunga e stretta galleria, con il pavimento di terriccio e dei muri umidi che gocciolavano acqua dai mattoni di pietra, trasudanti di muffa.

C’era una puzza asfissiante, la ragazza dovette tapparsi il naso con le dita per non svenire.

Cominciò ad avanzare, lentamente, costeggiando il muro con una mano e rialzando il cappuccio sul capo per proteggersi dalle fastidiose gocce d’acqua.

- C’è nessuno?- chiamò dopo un po’, ma l’unica cosa che udì fu l’eco della propria voce che rimbombava sulle pareti.

Continuò a camminare, seguendo la direzione della galleria; si accorse che, qua e là, alcune manette con delle catene erano infisse al muro. Probabilmente doveva trattarsi di una vecchia prigione, si disse.

Sentì un fruscio, quindi dei rumori di passetti sul terriccio. Catherine si bloccò, trattenendo il fiato. All’improvviso, qualcosa le passò accanto correndo alla velocità della luce, sfiorandole per un secondo un lembo della gonna e dileguandosi subito dopo alle sue spalle; Catherine lanciò un breve gridolino, dandosi immediatamente della stupida non appena si accorse che si trattava soltanto di un topo.

Si riscosse, riprendendo a camminare; dopo qualche istante, alla fine della galleria, la ragazza scorse una flebile luce.

- C’è qualcuno qui?- chiamò.- Papà?

Nessuna risposta.

Procedette più velocemente, avvicinandosi sempre di più alla luce.

- Papà?

Udì un mugolio sommesso, quindi un rumore di catene. Catherine corse in direzione di quel suono, ritrovandosi ben presto in una stanzetta squadrata, piccola e umida, illuminata solo da una torcia appesa in un angolo. E, all’angolo opposto, seminascosto dal buio, Catherine vide il mercante che giaceva abbandonato sul pavimento di pietra, con le gambe allungate di fronte a sé, il mantello sbrindellato e gli abiti sudici; infilata in un taschino della camicia, c’era una rosa rossa, molto bella, ma che stava appassendo. Le braccia erano sollevate sulla sua testa, i polsi imprigionati in due grosse manette di metallo affisse al muro. Sembrava invecchiato di mille anni, era dimagrito paurosamente, e, sul volto pallido e stanco, Catherine scorse un livido scuro all’altezza dello zigomo.

- Papà!- esclamò, sollevata di trovarlo ancora vivo ma anche sconvolta da quella scena.

Il mercante, che per tutto quel tempo aveva tenuto lo sguardo fisso sulla parete alla sua destra, quasi fosse stato lobotomizzato, parve riscuotersi all’improvviso.

- Catherine…- boccheggiò, con la voce roca, scorgendo la figura della figlia nella penombra.

La ragazza gli corse incontro, inginocchiandosi accanto a lui. Gli prese il viso fra le mani, schioccandogli un sonoro bacio su una guancia.

- Catherine…- ripeté il mercante, con un’espressione strana, a metà fra il felice e il terrorizzato.- Catherine, ma…ma come hai fatto a…ad arrivare qui?

- Credimi papà, non lo so neanch’io…ora quello che importa è andarcene…

- No!- fece il mercante, quasi urlando.- No, Catherine, ascoltami…

- Ma che ti è successo?- domandò la ragazza, cercando di forzare le manette.- Papà, che cosa è successo? Chi ti ha fatto questo?

- Catherine, ti prego, ascolta, è molto importante…

La ragazza non diede segno di averlo udito, continuando a tentare di forzare la serratura.

- Maledizione! Questi affari sono più duri di quanto pensassi!

- No, Catherine, ascoltami…

- Aspetta, dovrei avere una forcina da qualche parte, speriamo che funzioni…

- Catherine, devi andartene via da qui subito!- sbottò il mercante.

- Perché? Che cosa…?

La ragazza si sentì afferrare per il mantello; lanciò un grido di sorpresa, mentre lo sconosciuto la strattonava con violenza, per poi scaraventarla contro la parete opposta.

Catherine finì seduta sul pavimento, frastornata, guardandosi intorno con gli occhi verdi spalancati dallo spavento.

- Ti sei portato un’amica?- sibilò l’uomo di fronte a lei. Catherine, lo osservò, ansimando per riprendere fiato. Era un uomo molto alto, doveva essere all’incirca un metro e novanta, slanciato ma con delle spalle robuste. Indossava dei pantaloni neri e degli stivali in pelle dello stesso colore, così come lo era la camicia. Le mani erano coperte accuratamente con dei guanti scuri. Un lungo mantello nero ne nascondeva quasi del tutto il resto del corpo, mentre il cappuccio calato ne celava completamente il viso.

- Cosa credevi, che questa specie di sgualdrinella avrebbe potuto liberarti? Davvero sei stato così stupido?- continuò l’uomo, con una voce calda e profonda, ma anche stranamente inquietante, rivolgendosi a suo padre.

- Non farle del male!- implorò il mercante, quasi sul punto di mettersi a piangere.

- Non sta a te decidere cosa ne farò di lei.

Detto questo, l’uomo afferrò un’ancora frastornata Catherine per la gola, sollevandola dal pavimento. La ragazza tossì, cercando di divincolarsi.

- Chi sei? Come hai fatto ad entrare qui?- tuonò.

Catherine non riuscì a rispondere, sentendo che il respiro le si era mozzato in gola.

- Allora? Forse se stringo più forte ti tornerà la memoria, che ne dici?- e aumentò ancora di più la stretta.

- Lasciala!- urlò il mercante, dimenandosi nel tentativo di liberarsi.- Non toccare mia figlia, mostro!

- Tua figlia?- fece eco l’uomo, lasciando immediatamente Catherine, la quale finì inginocchiata al suolo, cominciando a tossire. L’uomo ridacchiò brevemente, volgendosi a guardare il mercante.- Già, è vero, durante i tuoi piagnistei mi avevi detto di avere una famiglia…

Catherine trovò la forza di alzarsi in piedi. Abbassò lentamente il cappuccio, fissando quell’uomo che, invece, sembrava non avere nessuna intenzione di fare altrettanto.

- Sì, sono sua figlia - disse, cercando di mantenere la calma.- E non intendo andarmene da qui senza mio padre.

- Ma che commovente!- la sbeffeggiò l’uomo. - Non te ne vuoi andare senza il tuo caro papà? Che dolce…

- Liberatelo!- ringhiò Catherine.- Liberatelo immediatamente!

- Cosa?! Come osi, tu, darmi degli ordini?- ululò l’uomo, avanzando verso di lei con aria minacciosa.- Sono io il padrone qui, decido io se liberarlo o no! E poi, perché sei tanto sicura che lascerò andare te?- l’afferrò per un braccio, stringendoglielo fino a farle male.

- Io non me ne vado di qui senza mio padre!- ripeté Catherine, ostinata.

- Tu non te ne andrai da qui comunque!

- No!- uggiolò il mercante.

- Taci tu!- tuonò l’uomo.

- No, ti prego…mia figlia no…ha diciotto anni…- implorò il mercante.

- Credi davvero che mi lascerò commuovere da tutte le tue moine?

- Ti prego…- supplicò il mercante, quasi piangendo.- Ti prego…lei non ti ha fatto niente…è venuta qui solo per cercare me…

L’uomo non rispose, continuando a guardarlo. Anche Catherine smise di cercare di divincolarsi, tenendo lo sguardo fisso su suo padre.

- E’ venuta per me…- singhiozzò il mercante.- Non sapeva…non voleva fare niente di male…sono io che ho sbagliato, va bene? Io ho sbagliato, e pagherò il mio errore…ma lascia andare mia figlia…

L’uomo rimase qualche istante immobile, quasi pensando al da fare. Alla fine, lasciò andare la presa, liberando il braccio di Catherine.

- E va bene…- sospirò, con un ringhio sommesso.- Vattene!

- No!- rispose la ragazza, massaggiandosi il braccio.

- Finiscila di fare l’eroina dei poveri!- ululò l’uomo. - Non credi che tuo padre si sia già umiliato abbastanza, per te? Ho detto di andartene!

- No, non senza mio padre.

- Vattene, sparisci dalla mia vista, prima che cambi idea!

- Ma che cosa vi ha fatto?- sbottò Catherine.- Che cosa vi ha fatto, per meritare tutto questo?

- Cosa ha fatto?- ripeté l’uomo, con una lieve nota di beffa nella voce. - Vuoi sapere che cos’ha fatto il tuo caro dolce papà? E’ entrato in casa mia, si è ingozzato con il mio cibo e infine mi ha anche derubato!

- Derubato?- fece eco Catherine, incredula.

Vide al di sopra della spalla dell’uomo suo padre che abbassava il capo sconsolato, gettando un’occhiata alla rosa rossa appassita al suo petto. La ragazza si avvicinò lentamente al mercante, inginocchiandosi di fronte a lui.

- Mi dispiace, Catherine…- soffiò il mercante, cercando di ricacciare indietro una lacrima che gli stava solcando una guancia.

- Finché avrà con sé quella rosa, dovrà pagare per quello che ha fatto…- ringhiò l’uomo incappucciato.

Catherine guardò brevemente suo padre, per poi concentrarsi sul fiore; ne sfiorò lievemente i petali, maledicendolo con tutta se stessa. No, non avrebbe permesso che suo padre marcisse in prigione per una tale sciocchezza.

Finché avrà con sé quella rosa, dovrà pagare per quello che ha fatto…

Catherine prese un bel respiro; sapeva quello che stava per fare, oh, eccome se lo sapeva. Santo cielo, voleva dire rinunciare completamente alla sua vita, voleva dire…Ma suo padre era tutto ciò che le rimaneva…

- Allora, sei ancora qui?- ringhiò l’uomo.

Catherine inspirò di nuovo, quindi si tuffò. Sotto gli occhi increduli e inorriditi del mercante, la ragazza gli sfilò la rosa dal petto; gli sfiorò lievemente una guancia con una carezza, rivolgendogli un ultimo sorriso, prima di infilare la rosa nella tasca del proprio mantello.

- No…- soffiò il mercante, mentre la ragazza si rialzava, voltandosi a guardare l’individuo incappucciato.

Questi, non appena la vide, scoppiò in una sonora risata.

- Non fare la stupida, non ho tempo per certe scene da melodramma…

- Sono serissima…- sottolineò Catherine, senza smettere di guardarlo.

- Senti, finiscila con questa scena, vattene e non farti mai più vedere.

- No.

- Cosa?

- Avete detto che mio padre avrebbe pagato il suo errore finché avesse avuto con sé la rosa. Beh, ora ce l’ho io.

L’uomo ammutolì, distogliendo lo sguardo dalla ragazza e ignorando le suppliche sommesse di suo padre.

- Mi stai dicendo…mi stai dicendo che prenderesti il suo posto?- chiese infine; sembrava quasi imbarazzato, in difficoltà, ma Catherine non ci badò.

- Sì - rispose la ragazza.

- Ernest!- chiamò l’uomo.

Da una porticina in un angolo fece capolino, tutto tremante, un vecchio con una barba bianca vestito di stracci.

- Sì, padrone?- gracchiò.

- Liberalo!- l’uomo indicò il mercante con un cenno del capo.

Ernest sfoderò un mazzo di chiavi, lanciò una breve occhiata di compassione a Catherine e prese ad aprire le serrature delle manette.

- No!- implorò il mercante.- No, ti prego, no…

- Portalo via! E - si rivolse al mercante.- Se ti azzardi a mettere piede qui un’altra volta, ammazzo sia te che tua figlia, ricordatelo bene!

- No…- il mercante, ormai libero, strisciò fino a Catherine, afferrandole i polsi e costringendola ad abbassarsi al suo livello. La ragazza lo guardò, sforzandosi di non piangere.

- No…Catherine…perché l’hai fatto? Perché l’hai fatto?

- Andrà tutto bene, papà, stai tranquillo…

- No…Catherine, tu non ti rendi conto… lui non è quello che sembra…

- Papà, non…

- Catherine - il mercante l’afferrò per le spalle.- Catherine, non capisci, non sai quello che stai facendo…lui non è un uomo…non è un uomo…

- Basta, portalo via, subito!- tuonò l’essere incappucciato.

Ernest prese il mercante per un braccio, trascinandolo via dalla cella; l’uomo cercò di opporsi, ma il vecchio pareva avere una forza straordinaria.

- No…Catherine…non è un uomo, Catherine…lui è un mostro…è un mostro…Catherine…

Catherine si accasciò sul pavimento di pietra, abbassando lo sguardo sulle proprie mani e cercando di non ascoltare le suppliche disperate di suo padre, che le giungevano sempre più lontane.

- Catherine…no…

La ragazza strinse i denti, mentre sentiva che le lacrime avevano cominciato a scorrere.

- Catherine!

Il rumore sordo di una porta che sbatteva. Poi, silenzio.

Trascorsero diversi minuti, un tempo che alla ragazza parve durare un secolo. L’uomo incappucciato accanto a lei non aveva detto una parola. D’un tratto, la ragazza udì un profondo sospiro, poi, l’uomo l’afferrò per un braccio e la tirò in piedi, ma senza forza, quasi fosse stato un gesto meccanico.

Catherine lo guardò; avrebbe voluto almeno poter vedere in faccia quell’essere spregevole, ma il cappuccio ne nascondeva completamente il viso.

- Che hai da guardare, ragazza?- ringhiò l’uomo.

- Non mi è più concesso nemmeno di guardare?- replicò lei, con sfida, ma la voce le uscì stranamente incolore.

L’uomo ringhiò di nuovo, aumentando la stretta. Con grande sorpresa di Catherine, la spintonò malamente fuori da quella specie di cella, passando attraverso la porticina da cui poco prima era uscito il vecchio. La strattonò lungo una ripida scala a chiocciola, e poi più su, per altre scale. La ragazza si rese conto solo vagamente che stavano attraversando una serie di lunghi e cupi corridoi, polverosi, costellati da statue e figure simili a quelle che aveva visto all’esterno. Era troppo stanca e troppo scossa per poter prestare attenzione e, quando l’uomo aprì una porticina all’ultimo piano del palazzo, quasi non si accorse che ce la stava spingendo dentro.

- Tu stanotte dormi qui dentro - sentenziò.

Solo in quel momento Catherine si accorse che si trovavano in una stanzetta piccola e buia, molto stretta, ad uno dei cui angoli era ammassato un pagliericcio umido con una coperta mezza bucherellata. L’unica fonte di luce era quella che filtrava da una finestrella sulla parete opposta.

- Credevo che sarei rimasta nella cella…- mormorò Catherine, sempre con voce incolore.

- Si può sempre tornare lì, se vuoi…- ghignò l’uomo.

Dopo qualche altro istante di silenzio, lui disse:

- Mi servi, chiaro? Ti ho risparmiato le catene solo per questo.

- Che onore!- commentò sarcastica la ragazza.

Questo lo fece imbestialire ancora di più. L’uomo l’afferrò per la gola, ma la lasciò andare subito, scaraventandola sul giaciglio di paglia.

- Non fare la spiritosa con me, non ti conviene!- la minacciò.

Catherine, per tutta risposta, si sedette rannicchiandosi su se stessa, abbracciando le proprie ginocchia.

- Cosa c’è, credevi di venire qui a fare la signora? Sei stupida e presuntuosa come tuo padre! Meglio che ti riposi stanotte, perché domani mattina comincerà il vero lavoro. E guai a te se provi a farmi qualche scherzo, hai capito? Io sono il padrone, qui, e pretendo rispetto.

- Come pretendete che porti rispetto ad un uomo che non ha nemmeno il coraggio di mostrare il proprio volto?- replicò Catherine, lanciandogli un’occhiata carica d’odio e disprezzo.

Lui non rispose; si limitò a ringhiare nuovamente in maniera sommessa, prima di andarsene sbattendo la porta.

Catherine rimase da sola, al buio.

Era prigioniera, si disse. Aveva detto addio alla sua vita, per suo padre. Sperava solo che ora lui fosse sano e salvo.

La ragazza prese la rosa dalla tasca del mantello, cominciando a rigirarsela fra le mani.

Era tutta colpa sua, se ora la sua vita era rovinata per sempre, solo colpa sua.

Tutta colpa di uno stupido fiore.

Catherine incominciò a piangere, silenziosamente, lasciando che le lacrime scorressero da sole, rigandole le guance. Da quanto tempo non piangeva?

L’ultima volta che ricordava di averlo fatto era stato quando sua madre era scomparsa; in seguito, si era sempre raccomandata di essere forte, di non lasciarsi andare in inutili piagnistei. Dopo la morte di sua madre, suo padre si era completamente affidato a lei; lei si era trovata a pensare a tutto e a tutti, a suo padre che era rimasto solo, a Rosalie che aveva un carattere più debole…Si era dovuta occupare della casa, e costretta a star dietro a mille cose, ai suoi studi, alle commissioni, a correre appresso a Henry perché si tenesse lontano dai guai. Poi era arrivata Lady Julia, e tutto si era complicato ancora di più.

Non c’era mai stato tempo per le lacrime.

Ma ora tutto era diverso. Quella vita non c’era più, e non ci sarebbe mai più stata. Non avrebbe mai più rivisto suo padre, Rosalie, Lydia, e anche Henry a cui, in fondo, voleva bene.

Ora era prigioniera; prigioniera e vittima di un essere che le avrebbe reso l’esistenza un inferno, magari utilizzandola per i più spregevoli e abbietti fini.

Presa dalla rabbia, Catherine distrusse la rosa, frantumandola con le dita.

Continuò a piangere disperatamente, mentre i petali rossi e appassiti del fiore si sparpagliavano lentamente sul pavimento di pietra.

 

Angolo Autrice: Ok, so che molti di voi vorranno linciarmi per non aver svelato il volto del misterioso essere incappucciato, ma tranquilli, ogni cosa a suo tempo, e non dovrete aspettare ancora molto. Questo capitolo non mi è piaciuto molto, ancora una volta non sono per niente soddisfatta, ma abbiate pazienza, cercherò di migliorare…

Dunque, cos’avrà in mente il padrone di casa per la povera Catherine?

In attesa di scoprirlo, ringrazio tutti coloro che leggono, in particolare Lisa95 per aver aggiunto questa ff alle seguite, cola23 per averla aggiunta alle preferite ed Ellyra per aver recensito.

Ciao a tutti, al prossimo capitolo!

Dora93

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Capitolo 6
*** Schiava ***


 

Lord William Montrose allontanò da sé con aria annoiata il terzo bicchiere di vino della serata. Adorava il sapore dell’alcool, era capace di berne in quantità senza sentirsi nemmeno un po’ alticcio; gli piaceva la sensazione del vino nel suo corpo, lo sentiva scorrere nelle vene, mischiarsi col sangue…era una sensazione fantastica, la stessa che aveva provato quando aveva baciato Catherine.

A quel pensiero, si rabbuiò ancora di più. Era già di malumore per quel che era successo solo il giorno prima, ma il ricordo sembrava farsi sempre più vivo, e con esso la vergogna cocente e la rabbia per essere stato rifiutato.

- Andiamo, Lord William, quella Catherine Kingston non è altro che una sgualdrina come tutte le altre!- tentò di consolarlo il suo compare, Glouster, un omaccione grande e grosso con i capelli neri e una leggera barba scura, tracannando il vino direttamente dalla bottiglia.

- Tu non puoi capire, Glouster…- rispose Lord William, cupo, fissando dall’angolo buio in cui si era seduto tutta la clientela de Il leone d’oro.

- Glouster ha ragione, Lord William…- provò ad insistere Ralph, un ometto basso e tarchiato, altro suo grande compagno di sbornia.- Non capisco perché ve la prendiate tanto…è solo una ragazza, d’altronde…

- Voi non potete capire…- ripeté Lord William, senza distogliere lo sguardo dalla scena di fronte a sé. Nessuno poteva capire…

Quella Catherine non avrebbe dovuto rappresentare niente, per lui; che cos’era, in fondo? Solo una delle tante ragazzine stupide e un po’ graziose che aveva incontrato nella sua vita, una potenziale avventura, forse, ma niente di più…E allora, perché ogni volta che la vedeva si sentiva come bruciare?

Fuoco, ecco che cos’era. Era il fuoco che aveva sentito sulla propria pelle, la prima volta che l’aveva incontrata. Catherine gli era subito sembrata una creatura ultraterrena, qualcosa di lontano e vicino al tempo stesso…Non sapeva cos’era stato, forse la sua bellezza, forse il fatto che non fosse subito caduta ai suoi piedi come tutte le altre oche che aveva conosciuto, non ne aveva idea…sapeva solo che, dal primo momento che l’aveva vista, il suo cuore non aveva più smesso di bruciare.

Catherine Kingston era diventata a poco a poco un’ossessione, per lui; si ritrovava a pensare a lei in ogni momento della giornata, prima di addormentarsi, addirittura non era passata notte che non l’avesse sognata. Immaginava in continuazione come sarebbe stato affondare il volto nei suoi capelli neri come la notte, toccarla con le proprie mani, fantasticare di tenerla fra le braccia, senza nulla addosso…

Dopo il suo rifiuto, l’ossessione era diventata, se possibile, ancora più forte.

Lei è mia…Lei deve essere mia…!

Sul volto di Lord William, serio e corrucciato, si disegnò lentamente un sorriso simile ad un ghigno, quando, dalla folla di ubriaconi e perdigiorno accalcati intorno ad un tavolo, vide alzarsi stancamente Henry Kingston. Il giovane si avviò in direzione del bancone, con un’aria depressa e preoccupata al tempo stesso, gettandovi sopra alcune monete, che l’oste si affrettò a raccogliere.

- Povero diavolo!- esclamò Ralph, vedendolo.- Continua a perdere…una sconfitta dietro l’altra, da che è arrivato…se continua così, finirà per perdere a carte l’intero patrimonio…

- A meno che non l’abbia già perso…- mormorò Lord William, senza smettere di sorridere, con lo sguardo puntato su Henry.

- Sembrate soddisfatto, Lord William - constatò Glouster, sorridendo sornione.

- E’ così, in effetti…- confermò Lord William.

Aveva osservato attentamente il fratello di Catherine, nei giorni precedenti; un imbecille, un figlio di papà che si vantava in continuazione della sua grande abilità nel giocare a poker e a faraone, ma che usciva da ogni partita sempre sconfitto, e con sempre meno denaro in tasca. Lord William aveva il sospetto che Henry Kingston non possedesse neanche i soldi che si giocava e, se realmente era così, allora avrebbe già dovuto essere pieno di debiti fino al collo.

E, con un po’ di abilità e di fortuna, questo sarebbe potuto tornare a proprio vantaggio…

Lord William si alzò, dirigendosi con passo deciso in direzione di Henry.

- Come state, signor Kingston?- domandò, battendogli una mano sulla spalla con fare amichevole.

Henry trangugiò un sorso di whiskey, per poi sorridergli con aria ebete. Lord William non ci mise molto ad accorgersi che era ubriaco fradicio.

- Vi prego, chiamatemi Henry.

Lord William sorrise.

- Brutta giornata con le vincite, ho saputo…

Henry fece spallucce, come se si trattasse di una cosa senza importanza.

- Capita anche ai migliori, dico bene?

Lord William fece una breve risatina, prima di andare al sodo.

- Sapete, speravo proprio che io e voi potessimo fare una partita, uno di questi giorni…

- Davvero?

Lord William dovette trattenere una smorfia di disgusto alla vista dell’entusiasmo di quel damerino; cielo, quell’idiota si era giocato anche i pantaloni, eppure non ne aveva ancora abbastanza!

- E quando?

- Quando vorrete voi, Henry…sapete dove trovarmi, non mancherò…

- Potremmo fare anche subito, se per voi…

- Mi dispiace, ma ora proprio non è possibile!- lo bloccò Lord William, tranquillamente, senza smettere di ghignare.- Sono spiacente, ma ora ho un impegno improrogabile. Vedremo per la prossima volta, che ne dite?

- Oh, io…sì, certo, certo, naturalmente…arrivederci, Lord William.

- Arrivederci.

Lord William se ne tornò al proprio tavolo, sotto lo sguardo deluso e inebetito di Henry.

- Avreste dovuto accettare subito, Lord William - disse Glouster.- Era così ubriaco che gli avreste vinto tutto nel giro di pochi minuti!

- Pazienza, pazienza, mio caro Glouster…- fece Lord William, gettando un’occhiata furba ad Henry, che in quel momento si stava sedendo ad un altro tavolo, pronto forse ad una nuova, disastrosa partita.- Non m’interessa strappargli pochi soldi…bisogna che accumuli, che s’indebiti sempre di più…quando giocherà con me, sarà così disperato da essere disposto a tutto, pur di essere tirato fuori dalla melma in cui è finito…

Lord William sorrise, soddisfatto del suo piano.

Se Catherine non fosse stata sua con le buone, allora se la sarebbe presa con la forza.

 

***

 

Andrà tutto bene…

Catherine fece appena in tempo ad udire quella voce femminile, dolce e gentile, prima che il suo sogno venisse interrotto e lei fosse svegliata con un violento scossone.

- Forza, alzati! Su, in piedi!- la incitò un’altra voce, femminile anche questa, ma più dura, secca e perentoria.

Catherine mugolò, stropicciandosi gli occhi con il dorso della mano; si sentiva il capo pesante e le ossa tutte indolenzite.

- Allora, ti vuoi svegliare? O preferisci che venga il padrone a darti il buongiorno?- disse la voce, stavolta con una marcata nota beffarda.

All’improvviso, Catherine ricordò tutto: il castello, suo padre, quell’uomo incappucciato…e il senso di dolore e tristezza della sera prima la colse di nuovo. Guardò chi l’aveva svegliata: era una donna sulla quarantina, robusta, con capelli castani striati qua e là di grigio; indossava un vecchio abito consunto e rattoppato, un grembiule sporco e unticcio e una bandana logora.

- Oh, buongiorno, mia bella addormentata!- fece la donna.- Ce ne hai messo di tempo per svegliarti!

- Che…che ore sono?- domandò Catherine, e la voce le uscì stranamente roca.

- Circa le sei del mattino. E siamo già in ritardo.

- In ritardo? Per cosa?

- Santa Vergine, aiutami tu!- esclamò la donna, gettando un’occhiata al cielo.- Ma il padrone non ti ha detto niente, ieri sera?

- No. Era troppo impegnato a cercare di strangolarmi - ricordò Catherine.

- Ho capito. Dovrò pensarci io. Beh, che fai ancora lì? Alzati, su! Non abbiamo mica tutto il giorno.

Catherine si alzò, tutta indolenzita.

- Scomodo, vero? Ma, tranquilla, non dormirai più qui, d’ora in avanti. Forza, seguimi.

La donna si avviò fuori dalla porta; Catherine la seguì, un po’ titubante.

Entrarono in una stanza poco più distante; non appena vi fu dentro, Catherine notò che si trattava di una camera abbastanza ampia – più lunga che larga, in effetti –, alla cui sinistra erano posti quattro letti, mentre sulla destra vi si trovava un grande camino. Un catino con dell’acqua era posto in un angolo.

La ragazza non poté fare a meno di notare che, benché le lenzuola dei letti apparentemente sembrassero abbastanza pulite, il pavimento era completamente ricoperto di polvere, le pareti trasudavano umidità e muffa, dovunque si girasse vedeva una quantità infinita di ragnatele, e il camino era incrostato e annerito. C’era il fuoco acceso, ma le fiamme erano deboli, e lì dentro faceva molto freddo.

- Tu d’ora in avanti dormirai qui con noi, nella stanza della servitù…- disse la donna.

- La stanza della servitù?

- Cosa credevi?- ridacchiò la donna.- Che il padrone ti accogliesse qui come una gran dama? Ma per favore, non prendiamoci in giro…Se vuoi stare qui, devi lavorare, mia cara.

- Quindi…io sarei una specie di…di sguattera?- sbottò Catherine, indignata.- Lui mi tiene prigioniera qui per farmi lavare i pavimenti?!

- Temo proprio di sì - rispose la donna, senza scomporsi.- In effetti, devo ammettere che sono stupita che non ti abbia lasciata marcire nelle segrete…Fossi in te, mi riterrei fortunata…

- Fortunata?!- strillò Catherine, chiedendosi se la stessero prendendo in giro o altro.- Dovrei ritenermi fortunata? Sono prigioniera, qui, in questo posto, e per di più mi tocca anche sgobbare come una serva e…

- Ehi, abbassa le ali, signorina!- l’ammonì la donna.- Te la sei cercata. Ernest mi ha raccontato tutto, lo sai? Sei tu che non hai voluto andartene quando ne hai avuta l’occasione, e il padrone non è un tipo molto magnanimo. Ma tu hai voluto restare, quindi, ora, peggio per te.

- L’ho fatto per salvare mio padre!

- Lo so, ma, come avrai capito, al padrone non interessa perché l’hai fatto. Ora sei qui e, se ci tieni alla tua salute, devi lavorare, poche storie. E ora - indicò il catino.- Lavati, che tra poco dobbiamo metterci al lavoro.

Catherine si avvicinò al catino, affondando le mani nell’acqua; era gelida. La ragazza si sciacquò velocemente il viso, mentre le dita diventavano violacee a causa del gelo.

- Purtroppo, per oggi dovrai fare a meno della colazione - continuava intanto la donna.- Sono venuta a chiamarti, un’ora fa, ma tu non ne volevi sapere di alzarti. D’ora in poi, se vuoi mangiare, la sveglia è alle cinque e mezza. Altrimenti, ti toccherà aspettare l’ora di pranzo.

Catherine non rispose; sentiva lo stomaco chiuso, non sarebbe stato un problema saltare la colazione. Ma l’infastidiva parecchio tutto ciò, l’essere stata fatta prigioniera e ridotta a fare la schiava era già abbastanza, se poi ci si mettevano anche queste assurdità, beh, allora tanto valeva rovesciarsi in testa l’intero catino d’acqua e morire assiderata. Sentiva che quel posto aveva già cominciato a odiarlo, e ogni piccola cosa non avrebbe fatto altro che aumentare tutto il suo astio.

- Perché il padrone mi tiene qui?- domandò Catherine.

- Beh, l’hai detto tu stessa. Hai voluto salvare tuo padre, c’è un prezzo per tutto, anche per quello che tu ritieni un gesto d’affetto.

- Ma perché? Insomma, perché farmi fare la serva? Avrebbe potuto lasciarmi morire in quella cella, sarei stata una bocca in meno da sfamare, no?- insistette Catherine, con sfida.

La donna scosse il capo.

- Non chiedere mai al padrone il perché di qualcosa, questa è una delle regole che devi ricordare.

- Regole? Chiedere il perché è vietato? Ma chi si crede di essere il tuo caro padrone? Perché io dovrei ubbidirgli?

- Non sfidare mai il padrone, ragazza. Sarebbe il più grande errore che tu possa commettere. Con lui devi solo tenere la testa bassa e ubbidire a tutto quello che ti dice. Non tentare mai di contraddirlo, o peggio ancora, di scappare. Non te la farebbe passare liscia, stanne certa.

La donna aveva parlato in tono dimesso, pacato, quasi stesse facendo un commento su un tempo piovoso. Tutta quella rassegnazione, quell’accettazione passiva, diede sui nervi a Catherine, che però non ebbe il tempo di ribattere, perché la donna l’aveva attirata a sé, l’aveva fatta voltare e aveva iniziato a sbottonarle i bottoni sulla schiena dell’abito.

- Che state facendo?- fece la ragazza, un po’ sorpresa.

- Devi cambiarti d’abito, ordini del padrone. D’altra parte, non credo che questo sia molto indicato per lavorare…

Il vestito verde smeraldo scivolò a terra, afflosciandosi ai piedi di Catherine, la quale, rimasta solo in sottana e corpetto, rabbrividì di freddo.

- Scavalca il tuo bell’abitino.

La ragazza ubbidì, un po’ titubante.

- E dammi del tu, d’ora in avanti. Siamo alla pari. Io mi chiamo Constance.

- Io sono Catherine.

Constance raccolse l’abito da terra, esaminandolo con cura.

- Che peccato. Un vero spreco - commentò, prima di gettare il vestito nel fuoco.

Le fiamme ebbero un guizzo, cominciando a consumare e a bruciare la stoffa.

- Ehi, ma…- provò a protestare Catherine, osservando impotente l’intero tessuto mentre andava in cenere.

- Ordini del padrone - ripeté Constance, calma. Catherine pensò che doveva trattarsi della sua frase preferita.- Non ti agitare, tanto non ti servirà più, d’ora in poi…

Catherine si voltò, e vide che Constance le stava indicando degli altri abiti piegati ordinatamente su uno dei letti. La ragazza li indossò con foga, in modo che quella donna vedesse – e riferisse! – quanto era arrabbiata.

Si trattava di un abito da lavoro, liso e scucito, così pieno di buchi e di toppe come Catherine non ne aveva mai visti. Dalla vita in su era bianco, con i bordi cascanti, e lasciava le spalle scoperte; la gonna era marrone chiaro, anche se delle toppe rosse e blu molto stinte ormai rendevano quasi impossibile distinguere il tessuto originario da quello aggiunto, e sul lato sinistro da metà coscia era presente un largo spacco, di certo non per questioni di moda, ma solo per trasandatezza. Un grembiule sudicio e bucherellato completava il quadro.

- Ne avrai anche un altro per cambio, il padrone esige che tu lo tenga in perfetto ordine. Io ti presterò una delle mie camicie da notte per dormire - continuò Constance, sempre con voce piatta, apparentemente noncurante dello sguardo disperato e furioso della ragazza.

La porta si aprì di colpo, e un ragazzino sui tredici anni, vestito di cenci sbrindellati, entrò nella stanza di corsa.

- Ehi, mamma, hai visto il mio…

- Peter!- sbottò Constance.- Quante volte te lo devo dire che non bisogna entrare senza prima aver bussato?

- Ciao!- salutò allegramente il ragazzino, senza prestare ascolto ai rimproveri della madre.- Tu sei quella nuova, giusto?

- Immagino di sì…- rispose Catherine, con un sorrisetto amaro.- E tu, chi saresti?

- Mi chiamo Peter, e tu?

- Catherine, piacere di conoscerti.

- Peter è mio figlio - disse Constance, prima che la porta si aprisse nuovamente.

- Ah, siete qui…- fece un vecchio alto con barba e capelli bianchi.

- Ma sì, certo, entrate pure, qui l’educazione non esiste più…- sospirò Constance, lanciando un’occhiataccia al vecchio.- Ernest, per favore, passi per Peter, ma tu almeno dovresti sapere che non è il caso di entrare in una stanza dove due donne…

- E piantala di scocciare, Constance!

- E’ tuo marito?- domandò Catherine a Constance, la quale, a sentirla, si aprì in una risata sgangherata.

- Mio marito?! Questo vecchio rimbambito? Ma per favore…ho già avuto un marito, e mi è bastato per tutta la vita…non voglio più saperne di uomini, con tutto quel che mi ha fatto passare quel gran figlio di…

- Mamma, non cominciare…- gemette Peter.

- Non abbiamo del lavoro da fare?- buttò lì Ernest.

Constance sembrò risvegliarsi da un sonno profondo.

- Oh, è vero. Dobbiamo sbrigarci…il padrone lo saprà subito se non ci diamo da fare…

- Il padrone lo saprà subito?- fece eco Catherine, seguendo la donna fuori dal dormitorio, con Ernest e Peter alle calcagna.

- Va bene, Catherine, quello che devi fare è molto semplice - cominciò a spiegare Constance, mentre scendevano velocemente al piano terra, percorrendo il grande scalone sudicio.- Tu devi solo svolgere i compiti che ti sono assegnati, come tutti noi. La sveglia è alle cinque e mezza, la colazione alle sei, se arrivi in ritardo, allora dovrai aspettare l’ora di pranzo per mangiare. Ordini del padrone - Constance aprì uno sgabuzzino e ne estrasse vari oggetti: scope, stracci, secchi, due o tra grembiuli…E li distribuì a ciascuno. Catherine si ritrovò con un secchio e un vecchio strofinaccio.- Il padrone comunica a me la sera quali sono i compiti per l’indomani - proseguì Constance, parlando velocemente, quasi agitata o in ansia.- Tu, Catherine, oggi dovrai lavare le finestre del primo piano, lucidare l’argenteria, pulire l’intero scalone e aiutarmi a preparare la cena. Tutto entro stasera, s’intende.

- Cosa?- boccheggiò Catherine.- Non ce la farò mai a finire tutto entro stasera!

- Meglio per te che tu ci riesca…- le sussurrò Peter, a metà fra il preoccupato e il complice.

- Il padrone non accetta scuse - aggiunse Ernest.- E sa sempre se fai bene il tuo lavoro o meno…

- Dov’è ora il padrone?- chiese Catherine, sentendo il cuore farle un salto nel petto al pensiero di quell’uomo incappucciato.

- Nelle sue stanze. Lui non esce mai da lì per tutto il giorno - spiegò Peter.- Colazione e pranzo gli vengono serviti lì. Solo per la cena scende in sala da pranzo…

- E come fa a sapere quello che facciamo, se se ne sta sempre chiuso nella sua camera?

Nessuno rispose; Peter ed Ernest abbassarono lo sguardo, mentre Constance riprese immediatamente a chiacchierare:- Noi pranziamo verso le tre del pomeriggio, dopo il padrone. Ma non dura molto, perché lui non vuole che perdiamo tempo. Si lavora fino all’ora di cena, poi – sempre dopo il padrone, chiaramente – abbiamo il diritto di mangiare anche noi. Quindi, possiamo andare a letto.

Catherine non rispose; sapeva che, in qualità di sguattera, avrebbe dovuto cambiare radicalmente il suo regime di vita, ma non si era aspettata regole e orari così ferrei e intransigenti. Ricordò che – almeno in casa sua – Lydia non aveva mai dovuto rispettare certi regimi militareschi, e nemmeno il resto della servitù, quando c’era stata, si era mai trovata in quella situazione. Anzi, suo padre era sempre stato molto comprensivo nei suoi confronti; ma, a quel che aveva capito, il padrone di quel castello non doveva essere molto magnanimo.

Constance, Peter ed Ernest si allontanarono, diretti verso le loro mansioni. Catherine sospirò, guardandosi intorno indecisa da dove cominciare; non aveva la minima idea di dove mettere le mani. Alla fine, si risolse dal cominciare a pulire lo scalone, che le era parso il compito più gravoso.

Iniziò dal basso, salendo verso l’alto; Constance non le aveva dato altro che uno straccio e un secchio d’acqua, quindi dovette inginocchiarsi per pulire.

Cacciò con furia lo straccio nell’acqua, per poi iniziare a strofinare con foga; non era perché sapeva che il padrone di casa la stava osservando – anche se il cielo solo sapeva come! – ma era un modo per dare sfogo a tutta la sua rabbia e la sua frustrazione. Inoltre, concentrarsi tanto sul lavoro l’aiutava a non pensare alla propria situazione, al fatto che fosse schiava e prigioniera, che non avrebbe mai più rivisto suo padre e Rosalie…

Quel pensiero le fece salire le lacrime agli occhi, e iniziò a strofinare con più foga; man mano che lavava, il pavimento diveniva sempre più pulito, ma le nocche le facevano ogni minuto più male, le ginocchia imploravano pietà e la sua schiena usciva sempre più provata ad ogni gradino.

Arrivò alla fine della prima rampa con le braccia e le spalle doloranti, e i palmi delle mani bordeaux per il troppo strofinare. Aveva il fiato corto; si passò una mano sulla fronte, scoprendola impregnata di sudore.

Si alzò in piedi, in modo da far trovare un po’ di sollievo alle ossa. Era al primo piano; ricordò che avrebbe dovuto lavare anche le finestre di quel piano. Beh, se non altro, si disse, potrò riposare un po’ la schiena.

Raccolse lo straccio e il secchio, e si avvicinò ad una finestra. Era una finestra in stile gotico, stretta e incredibilmente alta; per la parte inferiore, d’accordo, ma come diavolo avrebbe fatto poi ad arrivare in cima?

Catherine cominciò a pulire le vetrate più in basso, ma ben presto si accorse che l’acqua mista a sapone nel secchiello cominciava a scarseggiare. E adesso?

Sentì dei passi alla sua sinistra; Ernest si stava avvicinando, con in mano un secchiello e uno spazzolone.

- Tutto bene?- domandò, con un sorriso bonario.

- Ehm…c’è la domanda di riserva?

Ernest ridacchiò, ma amaramente. Gettò un’occhiata al secchiello vuoto di Catherine.

- Hai finito l’acqua?

- Già. Sai dove posso trovarne dell’altra? Mi occorrerebbe anche una scala…- mormorò la ragazza, gettando un’occhiata sconsolata alla finestra. Ernest fece il suo solito sorriso bonario.

- C’è un pozzo in giardino, l’acqua la prendiamo sempre da lì. Per quanto riguarda il sapone, lo trovi in cucina. Aspetta…- le prese il secchio vuoto dalle mani. - Tanto devo comunque scendere, te la procuro io…Per la scala, puoi provare a guardare là dentro…- e indicò uno sgabuzzino poco distante.

- Grazie.

Mentre Ernest scendeva, Catherine si avvicinò allo sgabuzzino; lo aprì, tirando con forza la porta tarlata, e stupendosi di quanto fosse polveroso e sudicio. C’era una scala a pioli appoggiata al muro; la ragazza si sporse per prenderla, ritrovandosi nel giro di pochi secondi con cumuli di ragnatele avvinghiate ai capelli. Cercò di scostarsele dagli occhi, ma questo le fece perdere l’equilibrio, e cadde a terra trascinandosi dietro la scala.

In men che non si dica, parte del pavimento e alcuni gradini già puliti si ritrovarono nuovamente coperti di polvere. Catherine gemette di disperazione, guardando quello scempio che aveva combinato, finché Ernest, ritornato, non tentò di sollevarla da terra per un braccio.

- Ehi, tutto a posto?

- No - rispose lei, afferrando con furia lo straccio e rimettendosi a strofinare.- Guarda che disastro! Dannazione, avevo appena pulito, e quella stupida scala…- si fermò di colpo, sentendo le lacrime salirle agli occhi.- Ma che ci faccio io qui?!- sbottò.- Se il tuo padrone voleva una serva, allora poteva benissimo assumerne una! Io non ho fatto niente! Non merito di stare qui, non merito di essere schiavizzata in questo modo, solo perché ho cercato di…- non terminò la frase, cominciando a singhiozzare.

Ernest sospirò, posandole dolcemente una mano sulla spalla.

- Non fare così…vedrai che con il tempo tutto si sistemerà…Tu non hai niente di cui colpevolizzarti, hai solo cercato di salvare tuo padre…sei stata molto coraggiosa, Natalie…

- Natalie?- fece Catherine, asciugandosi gli occhi, sorpresa che Ernest l’avesse chiamata con quel nome.

Il vecchio arrossì fin nella punta della barba.

- Io…scusami, è che…non volevo, mi dispiace…io non…qui c’è l’acqua…- disse, posandole accanto al secchio.- Io…sarà meglio che torni al lavoro…ci vediamo più tardi, d’accordo?

E si allontanò.

Catherine si asciugò ancora gli occhi, quindi si alzò, imponendosi di non comportarsi come una bambina. Riprese in mano lo straccio.

- Ehi, Ernest!- gridò, mentre il vecchio era già a metà scala.- Quante finestre ci sono su questo piano?

- Centoventi.

Per poco non svenne. Ma s’impose di essere forte. Il padrone di casa la voleva come schiava? Ebbene, non gli avrebbe dato la soddisfazione di mostrarsi una sguattera scadente. Raccolse malamente i capelli in uno chignon, si passò nuovamente la mano sulla fronte imperlata di sudore e riprese a strofinare con decisione.

 

***

 

Il pranzo lo consumarono sui gradini dello scalone, loro quattro insieme. Pane e cipolla, con un pezzetto di formaggio.

- Abituatici - disse Peter, azzannando la propria porzione.- Sarà così tutti i giorni.

- Evviva - commentò sarcastica Catherine, cedendo volentieri la cipolla al ragazzo.

- Mangiate in fretta, al padrone non piace che perdiamo tempo - li incitò Constance.

- Il padrone forse pretende un po’ troppo - borbottò Catherine.

Constance le aveva detto che la cena sarebbe stata servita per le nove in punto, e lei era indietro con il lavoro in maniera paurosa. Non aveva ancora finito di pulire tutte e centoventi le finestre del primo piano ed era solo alla prima rampa di scale, per non parlare poi di tutta l’argenteria ancora da lucidare…

Quella sera, avrebbe incontrato di nuovo il padrone di casa, l’uomo che le aveva rubato la vita ma che non aveva mai visto in faccia.

- Perché il padrone non si toglie mai quel cappuccio?- chiese all’improvviso.

Non ricevette risposta; tutti e tre parvero improvvisamente interessati chi al pavimento, chi al proprio pranzo, chi al soffitto.

Catherine provò ad insistere, ma ogni tentativo fu vano.

 

***

 

- CATHERINE!

La ragazza sollevò lo sguardo dal pavimento. Constance la raggiunse di corsa.

- Catherine, forza, sono già le otto, dobbiamo…ma…non hai ancora finito?- fece incredula la donna.

La ragazza abbassò lo sguardo, colpevole. Quello scalone era infinito, e lei probabilmente non era nemmeno arrivata a metà.

- E le finestre?- incalzò Constance.

- Quelle le ho terminate.

- Grazie al cielo…non hai lucidato l’argenteria, vero?

- Non ce l’ho fatta, Constance, mi dispiace…

- Oh, mamma mia…beh, speriamo che non se ne accorga…Vieni, ora, devi aiutarmi…

La fece alzare dal pavimento, trascinandola in cucina quasi di corsa.

- Ecco…- disse, indicando il pentolone e la tavola, mentre sollevava fra le braccia una tovaglia, tovaglioli, piatti e forchette, barcollando pericolosamente in direzione della porta.- Dobbiamo sbrigarci…E’ già tutto pronto, solo la minestra sta cuocendo…mi raccomando, controlla che abbia un buon sapore…

Constance uscì, e Catherine rimase in piedi di fronte al pentolone. Vi si avvicinò, sollevando il coperchio e immergendovi un mestolo. Soffiò brevemente sulla minestra, prima di assaggiarla.

- Beh, com’è?- chiese Peter, facendo capolino sulla porta, trafelato.

- Insipida. Non ha sapore - rispose la ragazza con una smorfia.

- Aggiungiamoci del sale - propose il ragazzino e, senza aspettare replica, afferrò l’intero vasetto e ne versò dentro la metà.

- No, Peter…- mormorò Catherine, ma ormai era troppo tardi.

- Ecco qui!- Constance era tornata.- Peter, va’ a cercare Ernest! Catherine, vieni, è ora di servire la cena…

 

***

 

Catherine era in piedi contro una parete della sala da pranzo, accanto a Constance, reggendo in mano il vassoio con il piatto di minestra. Tutti e quattro attendevano l’arrivo del padrone nella grande sala, occupata quasi interamente da un lungo tavolo di legno con una tovaglia bianca. Dalla parte opposta alla loro c’era un camino con un bel fuoco acceso, accanto ad una finestra dai tendaggi rosso sangue.

Catherine fissava preoccupata il piatto di minestra, senza riuscire a togliersi dalla testa l’immagine di tutto il sale che Peter ci aveva fatto cadere dentro.

La porta si spalancò, e tutti trattennero istintivamente il fiato. Il padrone entrò con passo svelto, senza degnarsi di guardarli, sedendosi a capotavola. Catherine notò che aveva addosso sempre gli stessi abiti scuri, con quel mantello nero il cui cappuccio nascondeva completamente il volto dell’uomo.

- Ho visto il lavoro che hai fatto, ragazza…- tuonò, rivolto a Catherine, la quale si sentì rimpicciolire.- Anche se chiamarlo lavoro è essere gentili. Quando ho detto di pulire lo scalone intendevo tutto, non solo metà. Il resto ti faceva schifo, per caso?

Catherine aprì la bocca per ribattere, ma Constance le diede una gomitata e le ordinò con lo sguardo insieme di tacere e di portare la cena al padrone. La ragazza gli pose di fronte il piatto di minestra, senza osare alzare lo sguardo.

- Mi passa quasi la fame, a vedere questa porcheria…- commentò il padrone, osservando il cucchiaio d’argento non lucidato, ma infine si risolse a mangiare.

Catherine tremò quando vide il cucchiaio colmo di minestra avanzare verso il cappuccio, e quindi verso la bocca del padrone.

Questi, infatti, scattò immediatamente in piedi, con un ringhio di disgusto, fissando i quattro domestici con ferocia.

- Questo che cos’è?!- urlò. - Come osate presentarmi una cosa simile? Chi ha cucinato questo schifo?

Peter si fece rosso in volto, e cominciò ad alzare lentamente la mano.

- Io!- scattò all’improvviso Catherine, impietosita.

Peter rimase a bocca aperta. Constance ed Ernest la fissarono con il fiato sospeso.

Il padrone di casa la guardò per qualche istante, quindi afferrò il piatto di minestra e glielo scaraventò addosso. Il brodo la colpì in pieno viso, mentre il piatto si fracassò sul pavimento sparpagliando i cocci dovunque. Catherine tossì, cercando di asciugarsi la faccia con il grembiule, ma il padrone la raggiunse e la costrinse ad inginocchiarsi a terra con uno spintone.

- Pulisci, razza di scansafatiche!- tuonò.

Catherine, mortificata e furiosa al tempo stesso, cominciò a raccattare i cocci di porcellana.

- Stupida, insulsa ragazza!- l’insultò il padrone.- Dannata buona a nulla, sapevo che avrei dovuto lasciarti crepare nelle segrete, non sei neanche in grado di…

- Se non vi sta bene come pulisco o come cucino, perché non lo fate voi?- Catherine scattò in piedi, calpestando i cocci del piatto e guardando il padrone negli occhi, come a volerlo sfidare.

Constance gemette, Peter si strinse a lei. Ernest abbassò lo sguardo con rassegnazione.

Il padrone ringhiò, la scrollò violentemente per un braccio, strappandole un grido di dolore; la trascinò fuori dalla sala da pranzo quasi di peso, mentre lei urlava e cercava di divincolarsi.

La condusse sino alla stanza in cui aveva dormito la notte prima, spingendocela dentro con tanta forza da farla finire distesa sul pavimento di pietra.

- Finché non imparerai a comportarti, finché non porterai un po’ di rispetto, allora puoi anche scordarti un letto e del cibo!

Catherine si rialzò a fatica.

- Siete un mostro!- strillò.- Siete l’essere più spregevole che abbia mai incontrato in vita mia! Siete una bestia, un mostro!

Il padrone non sembrò scomporsi.

- D’ora in avanti ti terrò d’occhio. E non te la farò passare liscia finché non ti comporterai come si deve!

Se ne andò, chiudendo la porta a chiave; Catherine vi sferrò un calcio, prima di lasciarsi cadere sul pagliericcio e incominciare a piangere a dirotto. Pianse talmente tanto che, quando riuscì a smettere, era così sfinita che si addormentò in capo a due minuti.

Quella notte fece un bel sogno.

Non sapeva bene dove si trovasse, ma si sentiva felice, tutti intorno a lei erano allegri e gioviali. E, in mezzo a tanta confusione, distingueva solo una persona, un giovane alto, bello, con dei meravigliosi occhi azzurri, che le tendeva una mano con un sorriso dolce dipinto sulle labbra.

 

Angolo Autrice: Ciao a tutti! Stranamente non ho niente da sproloquiare in merito a questo capitolo…J. So che la “bestia” qui è parecchio cattivo, ma presto migliorerà…

Dunque, nel prossimo capitolo scopriremo cosa si cela sotto il cappuccio del misterioso padrone di casa…Finalmente!, direte voi J. Come sarà il suo volto, e perché lo nasconde? Cosa c’è di così terribile? E come reagirà la nostra Cathy nel vederlo? E ancora, cos’ha in mente il perfido Lord William? Nell’attesa di scoprirlo, ringrazio chi legge, La ragazza in BlueJeans per aver aggiunto questa storia fra le seguite, desyyy per averla aggiunta alle seguite e alle preferite ed Ellyra per aver recensito.

Ciao a tutti, al prossimo capitolo!

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Capitolo 7
*** Il mostro ***


 

Henry entrò al Leone d’oro a passo svelto, spalancando la porta con furia. Era accaldato, con la camicia impregnata di sudore e le punte dei capelli biondi attaccati al cranio. Ansimava, respirava a fatica, ma era sobrio.

Oh, se era sobrio…Abbastanza sobrio per capire che quella volta non avrebbe avuto via di scampo, aveva fatto il passo più lungo della gamba, e se non avesse trovato una soluzione alla svelta sarebbe stato rovinato.

Aveva bisogno di bere, si disse, appoggiandosi di peso al bancone.

- Portami qualcosa…- biascicò, rivolto all’oste, infischiandosene altamente di tutti quegli altri ubriaconi dei clienti che si erano voltati a fissarlo come se fosse stato un pazzo.

- Che cosa?- domandò l’oste, un omone basso e grasso, guardandolo di sottecchi.

- Non importa, idiota! Qualcosa, qualsiasi cosa!- urlò Henry, guardandosi intorno come alla ricerca di qualcuno.

L’oste si allontanò un attimo, per poi ritornare ponendogli malamente di fronte una pinta di birra.

- Ce li hai i soldi per pagare?

- Mettilo sul conto…- borbottò Henry, sorseggiando dal boccale.

- Bada bene che se non paghi il conto questa è l’ultima volta che…

- Dov’è Lord William?- chiese Henry, interrompendo la minaccia dell’oste.

- E’ laggiù - l’omaccione indicò un angolo buio, dove, isolato da tutti gli altri, era seduto Lord William.

Henry abbandonò la sua birra al bancone, dirigendosi sveltamente dove l’oste aveva indicato. Si piazzò di fronte a Lord William, appoggiandosi di con le mani al tavolo.

- Buongiorno, Henry, come vi sentite stamattina?- domandò educatamente Lord William, con il suo solito sorriso simile a un ghigno.

- Bene…molto bene, grazie…

Starei meglio se non fossi pieno di debiti senza i soldi per pagarli…

- Qualche giorno fa avevate detto di voler fare una partita con me, non è vero?- incalzò Henry, tergendosi il sudore con un fazzoletto.

- Sì, è così - confermò Lord William, apparentemente noncurante, sorseggiando tranquillamente la sua bevanda.

- Ebbene, eccomi qui. Che ne dite, vogliamo cominciare?- ansimò frettolosamente Henry.

Lord William si finse stupefatto.

- Ora?- fece, posando il bicchiere.- Volete giocare ora?

- E perché no?- Henry si sforzò di sorridere e di assumere un’aria rilassata, ma Lord William vide benissimo che era agitato, e quasi non riusciva a stare fermo.

- Sono le otto del mattino, Henry…- obiettò Lord William, per il puro gusto di tormentarlo ancora di più.

- E allora? Vorrà dire che avrò la mente lucida - ribatté Henry, con un altro sorriso tirato.

Lord William fece per rispondergli, quando la sua attenzione venne attirata da un uomo alle spalle di Henry, un ometto sulla cinquantina con abiti di pelle e un fucile sottobraccio, che gli stava facendo cenno con la mano con aria impaziente. Lord William ghignò.

- Arrivo subito, Marchese Van Tassel!- disse, alzandosi in piedi.

Gettò due o tre monete sul tavolo, quindi guardò Henry.

- Mi rincresce molto, Henry, ma ora proprio non ho tempo…Un impegno improrogabile…- disse, con aria di scuse.

- Ma…

- Non temete - lo bloccò Lord William, alzando una mano. - Non preoccupatevi, ho tutta l’intenzione di tener fede alla mia promessa. Ma non ora. Vi manderò a chiamare presto, e allora giocheremo la nostra partita, intesi?

- Io…certo, certo, come volete…- acconsentì Henry, cercando di mascherare la delusione.- Ma sarà presto, vero? Insomma, cercate di capire, anch’io devo tener fede a degli impegni che…

- Presto, Henry. Molto presto.

Lord William gli passò accanto, dirigendosi con aria compiaciuta verso il Marchese Van Tassel, anche lui con un sorriso forzato sulle labbra, lasciando Henry deluso e stralunato alle sue spalle.

Lord William ghignò; avrebbe davvero voluto togliersi la soddisfazione di battere quell’imbecille subito, per mettere fine alla faccenda, ma aveva davvero un impegno improrogabile.

Aveva un appuntamento a caccia…

 

***

 

Era passato un mese. Per Catherine, trenta giorni che erano stati come trent’anni.

Nonostante Constance continuasse a ripeterle che presto si sarebbe abituata a quella vita, la ragazza si sentiva ogni giorno sul punto di crollare.

All’apparenza, poteva sembrare che la sua vita non fosse molto cambiata, da quella che faceva a casa. Era sempre molto mattiniera, non perdeva mai tempo e con Lady Julia era comunque costretta a lavorare tutto il giorno. Ma in realtà le cose erano molto cambiate.

Tanto per cominciare, il lavoro che il padrone di casa le assegnava si faceva di volta in volta più faticoso e difficile; certo, poteva dire che il castello fosse migliorato, da che era arrivata, e poi Constance sembrava abbastanza felice di avere qualcuno che l’aiutasse – Ernest aveva settantacinque anni, e faceva quello che poteva, così come Peter, con la scusa che era solo un ragazzino.

Ma era una ben magra consolazione.

A casa, c’era Lydia ad aiutarla; lì al castello, invece, il lavoro era talmente tanto che ognuno pensava per sé, e Catherine si ritrovava sempre più sfinita, con la schiena dolorante a fine giornata e senza neanche un minimo di ringraziamento. Beh, a dire il vero, neanche Lady Julia la ringraziava mai, ma se facevi il lavoro come si deve, allora si limitava a tacere e a non starnazzare come una papera alla vista di una macchiolina.

Catherine pensava che il suo ringraziamento fossero suo padre, sua sorella, un letto caldo e una bella cena a fine giornata. Invece, al maniero, non aveva nemmeno quello.

Quello che la ragazza pativa di più era il freddo. Dormiva nel grande stanzone assieme agli altri domestici, ma la camera era piena di spifferi, il camino sempre spento e le coperte così leggere e bucherellate che la notte erano costretti a rintanarsi sotto anche con la testa, per trovare un po’ di calore.

Catherine ormai stava quasi aspettando il momento in cui si sarebbe presa una bella polmonite, e tanti saluti. A dire il vero, quando la vedeva rabbrividire dal freddo, Peter le offriva sempre una delle sue coperte, ma lei non se l’era mai sentita di sottrarre una delle poche fonti di calore in quel posto ad un ragazzino di tredici anni, e spesso si andava a stendere accanto al camino per trovare un po’ di sonno vicino alle braci ancora calde.

La giornata cominciava alle sei, cinque e mezza, se si voleva godere di un briciolo di colazione. Tutti si lavavano nel catino messo a loro disposizione; si lavavano solo a pezzi, chiaro, insaponandosi in piedi con il sapone e sciacquandosi con l’acqua. Catherine si trovava ogni volta ad avere la nostalgia di un bel bagno caldo, anche perché, con il freddo che faceva lì dentro, spesso l’acqua era gelata, e Constance aveva dovuto più di una volta rompere il ghiaccio con uno spillone.

Dopodiché, tutti dovevano svolgere le loro mansioni, sempre più faticose e ignobili; in quel castello sarebbero serviti almeno dieci domestici per svolgere tutti quei compiti, ma…

- Per carità, non dirlo mai al padrone!- aveva esclamato Constance, terrorizzata.

Un’altra cosa che a Catherine non andava giù era il fatto che, in un mese, non fosse mai riuscita a mettere piede fuori da quel posto, mai, nemmeno per uscire in giardino. Se ne restava sempre chiusa in casa, a lavorare insieme a Constance, che neppure lei metteva mai il naso fuori da lì.

Gli unici che uscivano erano Peter ed Ernest; Peter andava spesso nel bosco a raccogliere frutta, mentre Ernest si avventurava addirittura fino in paese. Con il tempo, Catherine aveva capito come funzionassero le cose, in quel posto. Constance aveva un orto, in giardino, dove coltivava la verdura, mentre Peter le riportava qualche frutto dalla foresta. Ernest si recava in paese una volta a settimana per comprare le altre cose, carne e pesce perlopiù, anche se Catherine non aveva mai avuto la soddisfazione di vederseli servire a tavola.

Già, perché, insieme al freddo, un’altra cosa che si pativa al maniero era la fame. La carne e il pesce erano esclusivamente per il padrone, le aveva spiegato Peter, a loro non era concesso mangiarla; e per Catherine era una vera tortura dover cucinare pezzi di manzo e di tacchino, avendoli lì sotto gli occhi e senza poterli neanche assaggiare.

Era dimagrita di cinque chili in un mese, e ogni volta che incrociava lo specchio rabbrividiva nel vedersi così pallida e provata. Da che era stata fatta prigioniera – perché era una prigioniera, tanto valeva guardare in faccia alla realtà – non aveva mangiato altro se non delle minestre di verdura a cena, così lunghe e acquose da dare il voltastomaco, spesso si trattava semplicemente di una brodaglia in cui galleggiavano carote e piselli e, se andava bene, qualche pezzo di pane o di patate.

Mangiava poco, dormiva ancor meno, e la sera era così stanca per il lavoro che più di una volta fu sul punto di addormentarsi sul piatto.

Insomma, una tortura.

Tuttavia, non poteva lamentarsi di trovarsi in cattiva compagnia; andava abbastanza d’accordo con i domestici, il più delle volte. Con Ernest andava d’accordo, Peter era un ragazzino davvero fantastico, molto vivace e solare, e perfino sua madre, quando non si faceva prendere dall’ansia del lavoro, risultava simpatica.

Ma il momento migliore della giornata per lei era la notte; Catherine, intenta al lavoro, si ritrovava spesso a sorridere fra sé e sé al pensiero del bel sogno che, da un mese a quella parte, faceva ogni notte. Era sempre lo stesso: un giovane bello e gentile, con cui parlava, rideva, ballava, e una voce femminile, lontana eppure molto vicina, che le sussurrava sempre le stesse parole…

Andrà tutto bene…

Ma poi il mattino arrivava sempre troppo presto, e lei si risvegliava in un incubo. Le mancava la sua famiglia, soprattutto suo padre, anche se ormai si stava abituando all’idea che non l’avrebbe rivisto mai più, e il lavoro duro la sfiniva, ma lo affrontava sempre con tenacia.

Quello che la spaventava davvero era il padrone.

Già, il padrone…I domestici tendevano a parlare di lui il meno possibile, e si vedeva lontano un miglio che ne avevano un timore reverenziale, quasi un vero e proprio terrore che, col tempo, avevano involontariamente trasmesso a lei. Ogni volta che si ritrovava a pensare a lui l’assaliva un senso di ansia, e quando se lo ritrovava davanti i battiti del cuore aumentavano furiosamente.

Ernest aveva detto che lui li controllava sempre; Catherine non aveva ancora capito come facesse, dato che se ne stava sempre chiuso nelle sue stanze, ma col tempo si era convinta che fosse vero.

Ogni volta che si rilassava, che osava prendersi una pausa dal lavoro per anche solo un minuto, lui usciva immediatamente da dove era nascosto, e la trattava in una maniera così prepotente e ignobile da farle rimpiangere di essersi riposata.

Ce l’aveva soprattutto con lei, era evidente che la controllava.

Era cattivo; cattivo, questa era l’unico aggettivo che Catherine riusciva a trovare per lui. Sembrava godere non solo a schiavizzarla, ma anche a trattarla male. Se c’era qualcosa di malfatto, allora la umiliava per delle ore, facendole pesare ogni cosa. Quando non riusciva a terminare un lavoro, allora poteva anche scordarsi la cena…a meno cha non se la beccasse in faccia, la cena, quando non era di gradimento al padrone. Poco importava chi avesse cucinato; era sempre a lei che dava la colpa di tutto.

Ma il peggio era quando decideva di chiuderla nella stanzetta dove aveva dormito la prima notte, la più buia e fredda del castello, cosa che succedeva regolarmente quando lei cercava di ribellarsi a tutte quelle vessazioni, cioè quasi sempre.

Era cattivo…e il fatto che la controllasse rimaneva un mistero.

Così come anche il suo aspetto…

Catherine aveva cominciato ad incuriosirsi, e la sua curiosità aumentava ogni giorno di più. Tutte le volte in cui aveva provato a chiedere a Constance, Peter ed Ernest quale fosse l’aspetto del padrone, aveva avuto in risposta solo un religioso e imbarazzato silenzio.

Quanto a lui, indossava sempre quegli abiti neri, con le mani rigorosamente inguantate e quel dannato mantello il cui cappuccio nascondeva completamente il viso.

Catherine avrebbe dato qualsiasi cosa pur di scoprire come fosse chi si celava lì sotto, pur di avere una risposta.

E una risposta la ebbe molto presto.

Quella mattina era stata peggio delle altre; aveva saltato la colazione, l’acqua nel catino era ghiacciata e le era toccato pulire la latrina, compito a cui avrebbe volentieri preferito il suicidio. E, dulcis in fundo, ora doveva anche pulire l’intero salone d’ingresso, che era all’incirca il doppio di casa sua.

Catherine era inginocchiata sul pavimento, con i suoi soliti abiti stracciati e i capelli corvini che le ricadevano in continuazione sugli occhi. Stava sfregando con furia lo straccio sulle piastrelle, aveva pulito male, in più di un angolo c’erano cumuli di polvere e qua e là spuntavano delle macchie di sporco. La ragazza sapeva di non stare facendo un granché, eppure sentì il cuore fare una capriola nel petto, quando udì dei passi scendere velocemente le scale.

Catherine emise un gemito soffocato, ma s’impose di far finta di niente e di continuare a strofinare; poteva anche darsi che avrebbe tirato dritto.

Macché, si disse poi mentalmente, non appena sentì che i passi si erano fermati di fronte a lei e scorse due stivali neri con la coda dell’occhio.

- Ti sembra questo il modo di lavorare?- tuonò il padrone.

Catherine pensò che fosse meglio non rispondere, e continuò a passare lo straccio per terra, senza alzare lo sguardo.

- Allora, sei diventata sorda? Hai sentito quello che ti ho detto?

- Mi dispiace…- mormorò alla fine, smettendo di pulire ma senza alzare lo sguardo.

- Sai che me ne faccio del tuo dispiacere! E guardami in faccia quando ti parlo!- urlò.

Catherine sollevò lentamente lo sguardo. Il padrone indossava ancora il cappuccio, e probabilmente la stava fissando attraverso di esso.

- Che cos’è questo?- e indicò l’intero salone.- Tu questo me lo chiami pulito?

- Faccio quello che posso!- ribatté Catherine.

Il padrone lanciò un urlo di rabbia molto simile ad un ringhio, e sferrò un calcio al secchio d’acqua. Catherine si precipitò a raccoglierlo, perché l’acqua non bagnasse dappertutto, strisciando in mezzo al sapone e inzuppandosi la gonna.

- Non ti azzardare mai più a rispondermi, sguattera!- gridò il padrone.- E voglio che sistemi questo sfacelo e pulisci di nuovo tutto, sono stato chiaro?

Catherine chiuse gli occhi, e non rispose. Era stanca, sudata, aveva le mani rosse dal troppo sfregare, le unghie spezzate e non era più sicura da che parte fosse la sua schiena.

Quello era veramente troppo.

- Chiaro?- ripeté il padrone.

Catherine non smise di guardarlo, mentre si alzava in piedi. Era a pochi centimetri da lui.

- No - rispose, cercando di mantenere la calma.- No, non è chiaro per niente.

- Come ti permetti, insulsa ragazzina che non sei altro?!- ululò il padrone.- Giù, in ginocchio. Non permetterti mai più di rivolgerti a me con quel tono, altrimenti ti ammazzo come la cagna che sei!

- Io non sono una cagna!- strillò Catherine.- Non sono né una cagna né la vostra schiava. E voi siete un essere spregevole, un uomo che non merita il minimo rispetto. Non vi siete fatto alcuno scrupolo ad approfittare di una ragazza che ha dato se stessa per salvare suo padre, e…

Il padrone non la lasciò terminare, scoppiando in una risata sgangherata.

- Chi ti credi di essere, stupida?- la beffeggiò.- Se sei qui, non è per causa mia, la colpa è solo tua. Tu hai voluto prendere il posto di tuo padre, tu hai scelto di sostituirti a lui…e per che cosa? Il tuo amato padre non ha nemmeno avuto il coraggio di venire a cercarti, non ha neanche tentato di riprenderti, di liberarti…

- L’avete minacciato!

- E allora? Credi davvero che basti una semplice minaccia, per un padre? Bel gesto che hai fatto, davvero…essere schiava e prigioniera per tutta la vita a causa di uno che se ne frega di te!

Catherine si sentì salire il sangue alla testa. Senza pensarci, si lanciò contro di lui.

- Come vi permettete…?- gli strattonò il mantello con rabbia.

Il cappuccio scivolò indietro.

Catherine si dimenticò per un attimo di respirare. Le parole di suo padre le rimbombarono nella mente.

Lui è un mostro, Catherine…è un mostro…

Non era un uomo. La faccia era umana, e ricoperta di pelle umana. Ma sugli zigomi, sulla mascella e la mandibola spuntava del folto pelo scuro, che si confondeva con i capelli castani. Le orecchie erano appuntite, pelose e animalesche, come quelle di un lupo. Il collo era per metà umano, ma sul lato sinistro era ricoperto da squame verdastre, che si estendevano anche su parte della mandibola. Gli occhi erano di un azzurro chiaro e gelido, quasi volessero penetrarti l’anima, e la pelle dello zigomo sinistro era cascante, ripiegata su se stessa e lasciava intravedere la carne.

Catherine soffocò un grido, mentre il mostro di fronte a lei la guardava come se volesse ucciderla, emettendo un ringhio animalesco sfoderando una fila di denti bianchissimi e aguzzi.

L’afferrò per la gola. La ragazza vide che anche le braccia erano ricoperte da pelle umana, ma dalle nocche si estendeva sull’intero avambraccio del pelo scuro, che si alternava con la carne, mentre al posto delle unghie c’erano dei lunghi e affilati artigli.

Il mostro urlò, scaraventando con un colpo Catherine sul pavimento. La ragazza annaspò, scivolando sull’acqua e il sapone, cercando di indietreggiare.

- Non avresti dovuto farlo…- sibilò il padrone, avanzando minacciosamente verso di lei, mentre Catherine continuava a scivolare indietro sul pavimento, incapace di staccare gli occhi da quel volto mostruoso.

Peter, Ernest e Constance erano accorsi al rumore, ed ora se ne stavano immobili e atterriti sulla soglia del salone, osservando la scena.

Il mostro la raggiunse; l’afferrò per la veste, mentre Catherine lanciava un breve grido di spavento. La sbatté violentemente contro la parete, tenendovela immobilizzata contro.

- Non avresti dovuto farlo!- ripeté, avvicinando il volto orribile a quello atterrito della ragazza.- La pagherai per questo…

- Padrone, no…- provò ad intervenire Constance.

- Vi prego, padrone…- implorò Ernest.

- Silenzio!- ruggì il mostro.

Tutti si zittirono, ritraendosi.

- Quanto a te…- sibilò il padrone, rivolgendosi di nuovo a Catherine.- Te la farò pagare…

La ragazza lanciò un altro grido, cadendo a terra mentre lui la trascinava di nuovo nella torre, in quella che era diventata la stanza delle punizioni.

Ce la scaraventò dentro, lasciandola cadere sul pavimento di marmo.

- Vedrai…- minacciò, prima di uscire e chiudere la porta.

Catherine sentì lo scatto della serratura che veniva chiusa a chiave.

 

***

 

C’era silenzio nella foresta. L’unica eccezione era rappresentata da qualche sporadico canto di uccello e dal rumore degli zoccoli che i due cavalli picchiavano sul terreno.

I due cavalieri non parlavano, guardandosi intorno come in attesa di qualcosa.

Fu il primo a parlare, rivolgendosi al suo compagno, in sella ad un maestoso cavallo bianco.

- Lord William, non pensate che dovremmo…

- Shhht…- fece Lord William, calmo, avvicinando l’indice alle labbra.- Pazienza, Marchese…

Il Marchese Van Tassel tacque, ascoltando un lieve fruscio che si fece via via più forte. Infine, dalla macchia spuntò un branco di cani, bulldog, pitbull, ma soprattutto un grosso doberman nero, che reggeva in bocca la carcassa sanguinante di un coniglio.

- Bravo, Rolf - si complimentò Lord William, prendendo il coniglio dalla bocca del cane e infilandolo in un sacco di juta.

Il Marchese era visibilmente impressionato.

- Avete dei cani molto ben addestrati, Lord William.

- Non sapete quanto…- ghignò Lord William, osservando il Marchese allungare la mano nel tentativo di accarezzare Rolf, ma ritraendola immediatamente quando il doberman tentò di morderla.- Rispondono solo a me. E non hanno troppa simpatia per gli estranei…

- Capisco - fece il Marchese, osservando con aria diffidente il branco di cani che lo osservavano ringhiando e schiumando bava dalla bocca.- Comunque…sono molto bravi…nella caccia, intendo…Avete detto che una volta hanno catturato addirittura un cinghiale, vero?

Lord William sospirò, scuotendo il capo con aria rassegnata.

- Vi prego, Marchese…Non perdiamo tempo in chiacchiere inutili. Sappiamo entrambi perché siamo qui.

Il Marchese distolse lo sguardo, tentando di reprimere la vergogna.

- Io voglio i miei soldi, Marchese - sibilò Lord William, guardandolo minacciosamente.

- Non ce li ho, quante volte ve lo devo dire?- sbottò il Marchese Van Tassel.- Mi avete succhiato via tutto il sangue, non mi avete lasciato più niente…Niente, il mio intero patrimonio è andato in fumo!

- Avreste dovuto pensarci, prima di giocarvelo tutto a poker…

- Io non ho il denaro che vi devo, Lord William.

- Non vi credo!- disse Lord William.- Forse non avrete denaro, ma avete di sicuro altri possedimenti…terre, castelli…quelli basterebbero a pagare i vostri debiti…- ghignò.

- Non vi darò mai i miei possedimenti!

- L’alternativa è la prigione, Marchese.

- Preferisco marcire in prigione che lasciare nelle vostre mani tutti i miei averi, razza di avvoltoio!- ringhiò il Marchese.

Lord William non rispose, limitandosi a guardarlo con quel suo solito ghigno, così il Marchese proseguì:

- Siete una sanguisuga, uno schifoso verme. Vi siete impossessato del patrimonio del Conte DeBourgh e di tutti gli altri solo perché sono morti!

- Già, è vero…- Lord William si finse pensoso.- Quegli uomini mi dovevano dei soldi e sono morti…

- Avete ereditato il loro patrimonio solo perché loro…

- Ho ereditato il loro patrimonio, perché loro se l’erano giocato a carte e l’avevano perso. Più o meno la stessa cosa che accadrebbe se anche voi moriste…

Il Marchese tacque di colpo; i cani continuavano a fissarlo ringhiando minacciosamente. Lord William assunse di nuovo quell’aria rassegnata.

- Siete tutti uguali. Così testardi…anche loro, sapete?- spiegò, tranquillamente.- Anche il Conte DeBourgh e tutti gli altri avrebbero preferito finire in galera piuttosto che pagare i loro debiti…Ma io volevo i loro soldi…non me ne faccio nulla di un uomo vivo dietro le sbarre.

Lord William fece un breve cenno ai cani, i quali iniziarono ad avanzare in direzione del Marchese; l’uomo spronò il cavallo ad indietreggiare.

- Certa gente ha un valore solo da morta…- sibilò Lord William.

- No…- mormorò il Marchese, cominciando a capire.- No, voi…non potete farlo…

- E invece temo proprio che lo farò, Marchese…- Lord William si finse dispiaciuto.- Ne farei a meno, capite, ma è l’unico modo per avere il vostro denaro…

- No…

- Peccato. Eravate un bravo compagno di caccia.

Lord William fece un cenno ai cani, i quali si avventarono contro il Marchese; il cavallo nitrì, disarcionandolo e dandosi alla fuga. I cani azzannarono il Marchese, puntando alla gola, ma lui si difese. Si rialzò, iniziando a correre, scomparendo nel folto della foresta, con i cani alle calcagna.

- Addio, Marchese…- ghignò Lord William, mentre le urla di dolore e disperazione dell’uomo squarciavano l’aria.

 

***

 

Catherine rimase nella cella per tutto il giorno, raggomitolata su se stessa, sconvolta.

Ma dov’era finita? Era prigioniera di quel…quel…quell’essere…quel mostro.

Era riuscita a chiudere occhio per un’ora; non aveva sognato il bel giovane, ma aveva di nuovo sentito quella voce che diceva che tutto sarebbe andato bene. Ma non ci credeva.

Aveva paura; ora era davvero spaventata. La vista di quel volto, quel viso mostruoso l’aveva sconvolta. E quell’essere, quella bestia, aveva giurato che gliel’avrebbe fatta pagare…

Scattò in piedi, osservando fuori dalla finestra. Era scesa la notte.

Non sarebbe rimasta lì in attesa della punizione, si disse. Non sarebbe rimasta in quel luogo, con quel mostro, un attimo di più.

Si sfilò una forcina dai capelli, avvicinandosi alla porta. Fece passare il fermaglio nella serratura, armeggiando con cura finché non sentì il sonoro clack della porta che si apriva.

Sorrise di soddisfazione a quel suono.

Era notte, era buio, ma non importava. Lì fuori c’era la foresta, con chissà quali animali pronti a farle la pelle, ma non aveva nessuna importanza. Avrebbe camminato al buio nel bosco, a piedi e da solo, ma sarebbe tornata a casa, da suo padre, dalla sua famiglia.

Sarebbe scappata.

Non sarebbe rimasta in quel castello, con quel mostro.

 

Angolo Autrice: Alzino la mano tutti coloro che si sono sentiti profondamente delusi da questo capitolo! **l’intero popolo di EFP alza la mano**. Ehm…ok, lo so che a molti di voi la “bestia” sembrerà deludente, ma io me lo sono immaginato così, una specie di ibrido, insomma, metà uomo e metà…qualcos’altro…:P

Scusate, se ci siete rimasti male, prometto che non succederà più…consigli e critiche sono ben accetti, anche con qualche lancio di pomodori, se necessario…

Dunque, ora si capisce chi è il fautore di tutti quegli omicidi…Ma cosa c’entrano con Catherine e la sua avventura? E riuscirà la nostra Cathy a fuggire dal castello del mostro, o incontrerà qualche difficoltà? E ancora, il padrone di casa è veramente un mostro?

Nel prossimo capitolo lo scopriremo, e daremo anche una sbirciata a quello che succede in casa di Catherine…Come si sente il mercante, dopo aver perso la sua figlia maggiore? E, soprattutto, che combina Lady Julia, ora che Cathy non è più lì a tenerla d’occhio?

Ve lo anticipo, niente di buono…J

Dunque, ringrazio tutti coloro che leggono, in particolare Ishimaru e Renesmee94 per aver aggiunto questa storia alle seguite, ed Ellyra per aver recensito.

Ciao a tutti, al prossimo capitolo!

Dora93

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Capitolo 8
*** Nella foresta ***


 

Angolo autrice: Ciao a tutti! J. Dunque, solo un paio di avvisi prima che leggiate.

Numero 1: questo capitolo è bello lungo, quindi caffè alla mano!

Numero 2: nella prima parte di questo capitolo il rating si alza leggermente, in quanto ci si allontana parecchio dall’ambiente fiabesco perché c’è la presenza di un linguaggio a volte scurrile (minorenni, siete avvisati! XD) e di scene di violenza piuttosto forti…almeno, a mio parere sono forti, poi magari alla fine del capitolo mi direte che perfino i Teletubbies sono più violenti di questo, ma spero comunque di non turbare la sensibilità di nessuno e che questo capitolo piaccia, nonostante tutto…

Grazie, e buona lettura!

 

Catherine afferrò svelta il suo mantello, che era rimasto in quella cella dalla prima notte e in cui spesso si era avvolta per combattere il freddo durante le ore della punizione. Se lo gettò sulle spalle, sollevando il cappuccio sul capo; prese un bel respiro e afferrò la maniglia della porta.

Forza, Cathy. Ora o mai più.

Aprì la porta, sbirciando fuori nel corridoio buio. Nessuno. Scivolò lentamente fuori, chiudendo la porta, attenta a non far rumore. Prese a scendere velocemente gli interminabili gradini del castello. Passò di fronte alla camera dove dormivano i domestici. Sentì un rumore soffocato, e si bloccò di colpo, trattenendo il fiato, mentre il cuore faceva una capriola nel petto.

Rimase immobile per qualche secondo, prima di rendersi conto che era solo Peter che mugolava nel sonno. Tirò un sospiro di sollievo, e riprese a scendere le scale.

Arrivò nell’atrio, che attraversò in fretta, aggrappandosi al batacchio del portone d’ingresso; tirò con tutte le sue forze, esultando silenziosamente quando i battenti si aprirono.

Uscì dal castello, inspirando per un momento l’aria fresca della notte; ma fu solo un attimo. Sapeva che non poteva permettersi di perdere tempo, quell’essere che la teneva prigioniera avrebbe potuto svegliarsi da un momento all’altro e cercare di riportarla indietro, doveva sbrigarsi.

Catherine attraversò di corsa il cortile, spalancando il cancello. Era notte fonda, non si vedeva un palmo dal naso, e lei non aveva nemmeno idea di dove si trovasse. Non aveva denaro con sé, niente, fatta eccezione per quei vestiti stracciati e quel mantello che non bastava neanche lontanamente a ripararla dal forte vento che aveva cominciato a soffiare proprio in quel momento.

La ragazza si guardò intorno; solo alberi, nient’altro, alberi e arbusti che le arrivavano alle ginocchia che impedivano totalmente non solo la vista del sentiero, ma ostacolavano anche il passaggio. Non sapeva dove si trovava, era notte fonda, lei non aveva nemmeno un cavallo, né la più pallida idea di come fare per tornare a casa.

Ma non gliene importava niente.

Si fece forza, cacciando via tutti quei dubbi. Doveva tornare a casa, si disse, e ci sarebbe tornata, anche a costo di vagare nella foresta tutta notte, ma presto avrebbe riabbracciato suo padre, Rosalie e Lydia, costasse quel che costasse.

Si strinse il mantello intorno alla gola, e si addentrò nel folto del bosco.

 

***

 

- Ehi, e guarda un po’ dove vai, Ralph!- biascicò Glouster ridendo al suo compare, che lo aveva accidentalmente urtato barcollandogli a fianco.

- Scusa…è che sono parecchio stanco…- ghignò Ralph, con un’aria così brilla che tutto avrebbe potuto lasciar pensare, tranne che alla stanchezza.

- Sì, stanco…- fece infatti Glouster di rimando, tracannano un sorso di birra dalla bottiglia già mezza vuota che teneva in mano.

Ralph, per tutta risposta, si abbandonò ad una risata sgangherata, battendogli una mano sulla spalla.

I due continuarono ad avanzare nella foresta, facendosi largo fra le sterpaglie, ridendo e barcollando come due ubriachi, raccontandosi barzellette sconce e passandosi di volta in volta la bottiglia di mano, che diveniva via via sempre più vuota.

- Scherzi a parte…- disse ad un certo punto Ralph, con voce strascicata.- Davvero sono stanco, non mi reggo quasi in piedi…

- Eh, si vede!

- No, sul serio, ma perché il capo ci manda a fare questi lavoracci proprio a quest’ora di notte?- chiese Ralph, visibilmente contrariato.

- Beh, vuole che ci assicuriamo che quello là sia morto…- rispose Glouster, noncurante, e giù un altro sorso di birra.

- Sì, ma perché a quest’ora? Insomma, quando uno è morto non può più andare da nessuna parte, dico bene?

- Che vuoi che ti dica? Lord William è fatto così…ma, d’altronde, con quello che ci paga, di che ti lamenti? Se si vuole campare, bisogna pur fare qualche sacrificio, no?

- Sì, forse hai ragione…- ridacchiò Ralph.

Glouster gli diede una pacca sulle spalle.

- Ora muoviamoci, però. Troviamo quel cadavere alla svelta e torniamocene a casa, sennò facciamo l’alba…

 

***

 

Catherine incespicò, ma riuscì a mantenersi in equilibrio. Sospirò; stava cercando di destreggiarsi in mezzo ad un ammasso di cespugli ed erbacce, ma senza troppo successo. Provò a continuare, ma si accorse che un lembo della sua gonna si era impigliato in un rovo. Tirò la veste, lasciandone un lembo alla pianta. Beh, poco male, si disse, tanto peggio di così…

Fece per proseguire, ma sembrava esserci una forza maligna che faceva di tutto per metterle i bastoni fra le ruote. Infatti, inciampò in una radice, finendo lunga distesa per terra.

Mugolò, cercando di rimettersi in piedi; d’un tratto, però, si accorse di aver toccato qualcosa con una mano. Sollevò lo sguardo; di fronte a lei c’era un ammasso informe ricoperto da terra, foglie e rami. Catherine rimase un attimo immobile nel tentativo di capire cosa fosse, quando si rese conto che, in mezzo a tutto quel pasticcio di terriccio e fogliame, si distinguevano chiaramente degli abiti di pelle tutti sbrindellati. La ragazza ansimò, spostando lo sguardo più in alto; i suoi occhi incrociarono una pupilla morta. Un occhi grigio fisso su di lei, privo di vita, incavato in una metà di volto insanguinata; l’altra metà era stata tranciata via con un grosso morso.

Catherine lanciò istintivamente un grido, scattando in piedi; indietreggiò nervosamente, tremando, incapace di staccare lo sguardo da quello che si era rivelato essere un cadavere. Inciampò nuovamente nelle sterpaglie, scivolando all’indietro.

Cadde a terra, ma prima di toccare il suolo urtò la schiena contro qualcosa che si ritrasse immediatamente al tocco.

- Ehi, ma guarda dove metti i piedi!- le intimò una voce maschile.

Catherine, distesa sull’erba, si sollevò in ginocchio.

A parlare erano stati due uomini, uno grande e grosso con capelli e barba scuri, l’altro piccolo e tarchiato.

- Ma non vedi dove vai?- ripeté il primo.

Catherine si rialzò di scatto, cercando di liberarsi del mantello che la impacciava.

- C’è un cadavere laggiù!- disse, quasi gridando, indicando la pianta dietro alla quale aveva visto il corpo.

I due uomini non parvero molto sorpresi, anzi.

- Davvero?- fece l’ometto.

- Sì, proprio là dietro…è stato sbranato…- aggiunse Catherine, cercando di recuperare la calma.

- Sbranato?- fece eco il bruno.- Oh, capisco…peccato, un’altra vittima…ci dev’essere qualche belva feroce in questo bosco, non è sicuro restare qui…

- Già, concordo - fece l’altro, con uno strano sorriso.

- Ma…- incominciò Catherine, ma si zittì immediatamente.

Prese un bel respiro, cercando di recuperare il sangue freddo.

Hanno ragione, Catherine. Non sei al sicuro, qui. Quello è morto, ormai, non può più farti niente. Non devi preoccuparti dei morti…devi preoccuparti…

Guardò istintivamente i due. Erano ubriachi fradici, si vedeva lontano un miglio, e continuavano a fissarla con un’aria complice e furbesca che non le piaceva per niente.

…devi preoccuparti dei vivi.

D’un tratto, li riconobbe. Li aveva già visti prima, un paio di volte, durante le sue gite in paese. Erano Ralph e Glouster, i due scagnozzi di Lord William. Non sapeva per che cosa lui li pagasse esattamente, ma di certo non godevano di una buona reputazione.

- Sì…sì, è vero…avete ragione, è meglio andarsene…- mormorò Catherine, prima di girare i tacchi e di avviarsi in fretta nella direzione opposta alla loro.

- No, dai, aspetta un momento!- sentì gridare Glouster, mentre i due iniziavano ad andarle dietro, in fretta. Catherine non si voltò.

- Aspetta! Aspetta!- fece l’altro; in men che non si dica, se li ritrovò accanto, Glouster e Ralph, l’uno alla sua destra, l’altro a sinistra. Il primo aveva in mano una bottiglia di birra, mezza piena e mezza vuota.

- Ehi, vuoi rallentare?- non ci pensava nemmeno!

- Ti riaccompagniamo a casa?- propose Glouster.

- No, grazie.

- Sul serio, per noi è un piacere…

- Sono quasi arrivata, grazie - tagliò corto Catherine, con il cuore che pulsava all’impazzata, accelerando ulteriormente il passo.

Sperò che avessero gettato la spugna, ma quei due non avevano intenzione di mollare. Le stettero dietro senza problemi, continuando a sghignazzare.

- Ehi, ma…non ci siamo già conosciuti, noi?- tornò all’attacco Glouster.

La ragazza cominciò ad accusare stanchezza, e si fermò.

- Non credo - rispose, secca.

- Ma sì, ti ho già visto da qualche parte…ah, certo, ora ci sono…tu sei Catherine Kingston, vero? Catherine Kingston, la figlia del mercante…

La ragazza non disse nulla; sperò che il suo silenzio li convincesse a lasciarla perdere e ad andarsene via, ma non fu così.

- Ehi, vuoi rispondere?

- Sì - rispose lei, asciutta.

- Io sono Glouster; lui, invece, è Ralph - e indicò il suo compare, che non faceva altro che sghignazzare.

- Lo so chi siete.

- Sì, certo, certo, giusto per sicurezza, sai…

Catherine non rispose, sostenendo il loro sguardo e cercando di non mostrarsi impaurita, continuando a sperare con tutto il cuore che se ne andassero e la lasciassero in pace. Ma loro non demordevano.

- Ti possiamo parlare un secondo?- biascicò Glouster; Ralph non la piantava di sghignazzare.

- Ho fretta.

Era inutile, quei due non mollavano. Catherine si guardò intorno; era buio, si trovava in mezzo una foresta da sola, in compagnia solo di quei due brutti ceffi, lontana chissà quanto da ogni altro essere umano. Se credeva di aver risolto tutti i suoi guai fuggendo dal maniero di quel mostro, beh, si era sbagliata.

Anche se avesse gridato con quanto fiato aveva nei polmoni, realizzò inorridita, nessuno avrebbe potuto sentirla.

Era piombato il silenzio. Ralph e Glouster continuavano a fissarla con quei due ghigni complici e maligni. Catherine indietreggiò istintivamente, stringendosi nel mantello.

D’un tratto, con uno scatto, Glouster l’afferrò per un braccio.

- Ehi, bella…che ne dici, ti va di divertirti un po’ con noi?

Catherine trasalì; si liberò dalla stretta, e cominciò a correre nella direzione opposta.

- Forza, andiamole dietro!

- Tanto non ci scappi, sgualdrina!

Catherine maledisse di non essere più veloce. Il mantello era pesante, la gonna la impacciava, e il rami e le radici degli alberi non facevano altro che ostacolarla.

Il cuore le batteva all’impazzata, sembrava quasi stesse per scoppiare. Che cosa sarebbe successo se l’avessero presa? Se le avessero messo le loro sudice mani addosso?

- Forza, forza, non lasciamocela scappare!

Catherine cercò di richiamare alla memoria tutto quel poco che sapeva sull’autodifesa; pugni, calci negli stinchi…Ma loro erano in due, due uomini grandi e grossi, e lei era da sola. Come poteva pensare di cavarsela?

Un lembo del mantello s’impigliò in un ramo; Catherine si fermò, tirando con tutte le sue forze per liberarsi. Il mantello si strappò, e lei riprese la sua fuga. Non aveva il coraggio di voltarsi a guardare. Era terrorizzata dal pensiero di ritrovarseli lì, a pochi centimetri da lei. E infatti, sentiva i loro passi sempre più vicini, e le loro urla sempre più nitide.

Continuò a correre, ma gli abiti femminili la impacciavano, e aumentavano sempre di più la stanchezza e la fatica. Provò ad urlare:

- Aiuto! Aiutatemi, per favore!

Ma sapeva che era tutto inutile. Era in un luogo isolato, disabitato, intorno a lei c’erano solo alberi, sassi ed erba, ma nessun altro essere. Ma la disperazione era così forte che ci riprovò ugualmente.

- Aiuto!

Non ti sente nessuno…

- L’abbiamo quasi presa!

Catherine sentì le voci paurosamente vicine; si voltò per guardare, ma inciampò in un sasso. Cadde a terra. S’insudiciò i vestiti, e avvertì un bruciore acuto alle ginocchia e alla mano destra, che vide sanguinare. Ma quello fu niente, in confronto al dolore che provò alla caviglia. Forte, acutissimo, come se delle mani possenti gliela stessero stritolando nel tentativo di spezzarla.

Catherine cercò di ignorarlo e si rialzò, ma non riusciva ad appoggiare completamente la pianta del piede. Le faceva troppo male.

Ralph e Glouster.

Li sentì alle sue spalle. Erano vicini. Cercò di rimettersi a correre, ma tutto quello che riuscì a fare fu zoppicare. Aveva le gambe pesanti, la milza dolorante la costringeva a stare piegata in due, il cuore sembrava saltarle via dal petto, sentiva i polmoni sul punto di scoppiare…

Stava per cadere di nuovo; si aggrappò al tronco di un albero.

Tanto non ce la farai, non ce la farai!

- Eccoti, finalmente!- l’avevano raggiunta.

- Lasciatemi in pace!- strillò con disperazione.

Tentò di riprendere a correre, ma incespicò, e Glouster l’afferrò per la pianta dei capelli. La scosse con violenza, facendola urlare.

- Ecco, abbaia! Abbaia, cagna!

- Lasciatemi, vigliacchi!- gridò Catherine.

- Ah, sì? Hai sentito, Ralph? Questa puttanella ci minaccia, oh, ma che paura!

- Lasciatemi!- cercò di liberarsi, ma senza successo.

- Ma guarda, la gattina ha tirato fuori gli artigli!- ironizzò di nuovo Glouster. Poi, ancora con quello sguardo da maniaco, proseguì:- Ora vedi di chiudere la bocca e di stare ferma, o ti ammazzo quale cagna che sei!

Le tirò un pugno, sulla guancia. Le lasciò i capelli, e Catherine cadde a terra come un sacco vuoto.

Si rialzò subito, ma aveva rinunciato alla fuga. Sapeva che con la caviglia messa in quel modo non ce l’avrebbe mai fatta a scappare, ma non aveva comunque intenzione di arrendersi a quello che sarebbe dovuto essere il suo destino, quella notte.

Si lanciò contro Glouster, serrò le dita nella mano e gli restituì il pugno, colpendolo in pieno sul naso. Probabilmente gli ruppe il setto, perché sentì le ossa scricchiolare.

- Maledetta troia!- le urlò, mentre si portava le mani al viso, che aveva preso a grondare

sangue.

Catherine cercò nuovamente di scappare, ma aveva fatto male i conti. Glouster urlò al suo compare, sempre tenendosi le mani premute sulla faccia, mentre il sangue gli inzuppava la camicia bianca.

- Tienila ferma! Falla stare ferma, ora gliela faccio vedere io…

Ralph le afferrò i polsi, imprigionandoglieli dietro la schiena. Per un attimo Catherine credette che stesse per spezzarle le braccia. Gridò di nuovo.

- Aiuto!

- Falla tacere!- e Ralph le tappò la bocca con una mano; continuò ad urlare, ma si udì solo un mugolio soffocato.

Glouster tolse lentamente le mani dalla faccia: dal naso in giù, era tutta una maschera di sangue. Sembrava aver perso tutta la rabbia, perché le parlò con tono calmo:

- Mi hai fatto male, lo sai?

- Sono contenta, stronzo!

- Ah sì? Sei contenta?

Si chinò. La bottiglia di birra gli era caduta di mano, ma non si era rotta, né il suo contenuto era stato versato; la raccolse da terra, e me la mostrò.

- Sai, Catherine - disse, sempre calmissimo.- Prima eravamo anche disposti a fartela passare

liscia. Sai, una scopata e poi, basta, via, ti avremmo lasciata andare e non ti avremmo più dato fastidio, mi capisci? Ma no, tu hai voluto ribellarti, hai dovuto fare la difficile…mi hai fatto arrabbiare…e non conviene mai a nessuno farmi arrabbiare…quindi, sai che ti dico?

L’afferrò per il bavero del mantello, ricominciando a gridare:- Ti dico che noi la scopata ce la facciamo lo stesso, e poi ti ammazziamo! Oppure prima ti sgozziamo e poi ci facciamo il tuo cadavere, tanto a noi basta che sia caldo, hai capito, schifosa puttana?!

Sollevò in aria la bottiglia, e gliela sfasciò contro una tempia.

La ragazza finì di nuovo a terra a peso morto.

Era stordita. Puzzava di sangue e birra. Il sopracciglio sinistro le faceva male. Si portò a fatica una mano alla fronte, e la sentì umida e appiccicosa. Quando riabbassò la mano, vidi che tutto il palmo era coperto di sangue. Emise un gemito debolissimo, quasi impercettibile perfino a se stessa. Ralph le allungò un calcio in pieno stomaco; mentre Catherine si contorceva dal dolore, tossendo furiosamente, Glouster tornò alla carica, afferrandola per il collo e costringendola a mettersi in ginocchio.

Sono morta, riuscì a pensare, appena prima che Glouster le sbattesse la testa contro la corteccia di un albero.

Ora era accasciata per terra; non aveva più nemmeno la forza di reagire, faticava a respirare, vedeva tutto confuso e annebbiato, mentre una figura – non riusciva a capire chi fosse, se Glouster o Ralph – avanzava verso di lei brandendo in aria la bottiglia rotta.

Falla finita in fretta!

Riuscì a pensare questo, prima di udire, molto vicino, un sonoro nitrito. Si girò, per veder un grande purosangue nero che s’impennava agitando gli zoccoli a pochi centimetri da lei, mentre dalle narici usciva uno sbuffo di fumo.

Catherine si ritrasse di scatto, prima che l’animale tornasse sulle quattro zampe. La ragazza ormai distingueva solo le sagome, ma riuscì comunque a vedere il cavaliere che, mentre un lungo mantello nero sventolava sulle sue spalle, agitava in aria una lunga frusta.

- Ehi, ma cosa…?- iniziò Glouster, prima di venire interrotto da un sonoro e secco schiocco.

Il cavaliere lo colpì con la frusta; un attimo dopo, Glouster era accasciato a terra, guaendo di dolore mentre si nascondeva la faccia con le mani.

- Maledetto bastardo!- ruggì Ralph, scaraventandosi contro il cavaliere, che, però, lo atterrò con un altro colpo di frusta. L’uomo finì a terra accanto al suo compare.

Catherine gemette, osservando l’ombra del cavaliere che smontava svelto dal cavallo, mentre Glouster si rialzava, lanciandosi contro di lui. Il cavaliere, con un gesto fulmineo, estrasse dal mantello un grosso pugnale. La lama scintillò nel buio, prima di calare rapidamente su Glouster. L’uomo emise un grido di dolore, mentre il coltello affondava in una spalla. Il cavaliere ringhiò, affondando ancora di più la lama. La estrasse con la stessa rapidità, esultando quando la vide impregnata di sangue, mentre Glouster indietreggiava barcollando, premendosi una mano sulla ferita.

Il cavaliere non si accorse che Ralph si era rialzato, e ora lo stava aggredendo alle spalle.

- Attento…- soffiò Catherine, sperando che la sentisse.

Il cavaliere si voltò di scatto, pronto a ricevere Glouster; lo afferrò per la casacca, e con una forza fuori dal normale lo scaraventò contro il suo compare, il quale lo trascinò al suolo con sé.

Il cavaliere li guardò, pronto a ricevere il contrattacco, ma i due si rialzarono a fatica, e presero a correre nella direzione opposta.

- Via, via!- ansimò Glouster.

- Ma chi è quello?- Ralph incespicò; il suo compare lo risollevò per la casacca.

- Forza, muoviti! Via da qui!

I due continuarono a correre, sparendo ben presto nel folto della foresta.

Il cavaliere sospirò, voltandosi verso Catherine.

La ragazza non riusciva più a vedere nulla, distingueva solo una figura alta e slanciata con addosso un lungo mantello nero e il capo incappucciato. Indietreggiò istintivamente.

- Come stai?- fece il cavaliere, allungando una mano verso di lei; Catherine la respinse.

- No!- strillò, cercando di allontanarsi.

- Hai la febbre - disse il cavaliere, calmo.- Vieni, ti riporto a casa…

- No! No!- continuò a strillare la ragazza. Aveva davvero la febbre, lo shock era stato fortissimo, non ragionava più.

- Shhht…- fece l’uomo, sfiorandole per un breve attimo una ciocca di capelli corvini, imbrattata di sangue.- Tranquilla, non ti farò del male…- sussurrò.

Catherine sembrò calmarsi; gemette, mentre le palpebre cominciavano a divenire pesanti.

Sentì un fruscio, poi delle braccia forti che le cingevano le spalle; ebbe la sensazione di fluttuare, mentre il cavaliere le faceva poggiare i capo contro il suo petto.

- Bastardi…- sentì ringhiare, prima di avvertire, un attimo dopo, il corpo caldo e ansante del cavallo sotto di sé. Lo sentì muoversi, prima lentamente, poi al galoppo.

Fu l’ultima cosa che sentì, prima di scivolare nel sonno.

 

***

 

Pioveva. Il cielo era grigio metallo, e grosse gocce di pioggia s’infrangevano picchiettando sul vetro della finestra. Rosalie, i capelli biondi sciolti sulle spalle e un fiocco di seta scuro a un lato della frangia e con indosso un semplice vestito nero con un colletto bianco, le osservava distesa sul letto della sorella. Sentì una lacrima solitaria rigarle una guancia, ma non si curò di asciugarla.

Si rintanava nella stanza di Catherine sempre più spesso, ormai. Era l’unico modo per sentirla un po’ più vicina.

Sentì dei passi fuori dalla porta, per poi vedervi entrare Lydia, anche lei con addosso un abito nero.

- Signorina Rosalie…è da un pezzo che vi cerco, cosa fate qui?- chiese Lydia, pur conoscendo già la risposta.

Rosalie fece spallucce, sollevandosi a sedere. Era passato un mese, ormai. Un mese, da quando sua sorella era morta.

Catherine era morta. Rosalie se lo ripeteva di continuo, ma ancora non riusciva a farsene una ragione. Aveva sperato di non dover più provare quella sensazione di tristezza e di svuotamento, la stessa che aveva sentito quando anche sua madre era scomparsa. Ricordava benissimo tutto, della morte di Lady Elizabeth, tutto, il funerale, i fiori, la gente che piangeva…ma per Catherine non c’era stato nulla di tutto questo.

Ancora adesso, a distanza di più di trenta giorni, Rosalie non era riuscita a capire che cosa fosse realmente successo a sua sorella. L’ultima volta che l’aveva vista era stato quando era uscita di casa in fretta e furia per cercare suo padre; poi, papà era tornato, da solo. Si era accasciato sul pavimento, pallido, febbricitante, farneticando frasi sconnesse e parole incomprensibili. L’avevano messo a letto, avevano chiamato il dottore, gli avevano chiesto più e più volte cosa fosse successo e dove fosse Catherine, ma lui non aveva mai risposto.

Infine, dopo una notte di febbre e delirio, il mercante aveva sussurrato: Catherine è morta…

Rosalie si era come sentita cadere, sprofondare in un abisso. Aveva supplicato tantissime volte a suo padre, tra le lacrime, di dirle cosa fosse successo, come fosse morta sua sorella, ma lui non aveva mai voluto risponderle.

Nessuno aveva più rivisto il corpo di Catherine; non c’era stato nessun funerale, ma loro mantenevano comunque il lutto. Il mercante, da quella notte, aveva incominciato a mangiare sempre meno, e raramente usciva dalla sua stanza.

Rosalie sentì che le lacrime le stavano di nuovo salendo agli occhi; Lydia se ne accorse, e corse ad abbracciarla.

- Su, su, signorina, non fate così…- sussurrò, accarezzandole i capelli, cercando a sua volta di trattenere le lacrime.- Non fate così…vostra sorella non vorrebbe vedervi piangere…

- A dire il vero non lo vorrei neanch’io!- esclamò una voce dura e perentoria.

Lydia e Rosalie sollevarono lo sguardo, incrociando quello freddo di Lady Julia, in piedi sulla soglia della porta, anche lei vestita a lutto.

Beh, era un lutto davvero poco doloroso, pensò Lydia, scoccando un’occhiata infastidita alla padrona di casa. Lady Julia indossava un abito di seta nera, con la gonna stretta e le maniche svasate, ma così scollato da sembrare un vestito da sera, più che una veste luttuosa. Lady Julia mostrava chiaramente di non rispettare il lutto, aveva le guance ricoperte di fondotinta, le labbra cariche di rossetto e gli occhi dipinti con l’ombretto, e portava dei gioielli, di cui il più vistoso era un medaglione dalla catenina d’oro con incastonato uno scintillante rubino rosso sangue.

Lydia guardò il medaglione trattenendo una smorfia; avrebbe dovuto immaginare che Lady Julia non vi avrebbe rinunciato, neppure per la morte della sua figliastra.

La moglie del mercante non si separava mai da quel gioiello; lo indossava dovunque, in qualunque occasione, poco importava che non fosse adatto all’occasione o non stesse bene con l’abito che indossava, lei non voleva sentire ragioni. Non se lo toglieva nemmeno quando faceva il bagno, e non aveva voluto rinunciarvi nemmeno il giorno del suo matrimonio, benché quel rubino rosso stonasse incredibilmente con l’abito da sposa che era stato della povera Lady Elizabeth.

Lady Julia lo indossava sempre, e se lo toglieva solo nel momento in cui andava a letto, riponendolo in un portagioie dorato che chiudeva rigorosamente a chiave.

- Rosalie - fece Lady Julia.- Rosalie, quante volte ti ho detto che in casa mia non voglio mocci? Asciugati quelle lacrime, e alla svelta!

- Sì, signora madre - rispose la ragazzina, abbassando lo sguardo e trattenendo a stento la rabbia.

Catherine non aveva mai potuto soffrire la matrigna; e ora, anche Rosalie stava cominciando a conoscerne tutta la perfidia e la cattiveria.

Lady Julia si allontanò dalla stanza, procedendo svelta lungo i corridoio, cercando di reprimere la stizza.

Era felice che quella vipera della sua figliastra si fosse tolta dai piedi, in qualunque modo fosse successo, ma le seccava essere costretta a portare il lutto per quella mocciosa. Quando si fermò di fronte alla stanza del marito, la sua ira accrebbe ancora di più. Quell’omuncolo se ne stava chiuso lì dentro a frignare da un mese. Non aveva nemmeno concluso l’affare per cui era partito, quell’idiota, e ora erano nella stessa situazione di prima, poveri in canna, e per di più ora lei era costretta a dover sopportare due figliastri che detestava e un marito piagnucoloso.

Solo in quel momento si rendeva conto di quale grossolano errore avesse commesso, nello sposare il mercante. Quando era morta la sua prima moglie, lei aveva saputo avvicinarsi a lui con cautela ma con decisione, cercando di fargli capire che lei gli era vicino, e che non era vero che non avrebbe mai più potuto amare nessun altra, come millantava quell’imbecille. Si era mostrata immediatamente gentile e affettuosa con i suoi figli e, benché Catherine si fosse dimostrata fin da subito un osso duro, era riuscita nel suo intento, e aveva convinto il mercante a farla diventare sua moglie.

Lady Julia non era stupida, sapeva che lui l’aveva sposata solo perché facesse da madre a quei tre mocciosi, ma non le importava. Quello che le interessava erano i soldi. Aveva saputo che il mercante era un uomo molto ricco, e si era detta che doveva essere suo.

Lo aveva sopportato e aveva tollerato le sue patetiche carezze finché aveva avuto la sua fortuna, ma ora che si era impoverito, Lady Julia aveva cominciato a perdere la pazienza. Aveva sperato che quella serpe della sua figliastra le tornasse utile e facesse un buon matrimonio, in modo da risollevarli dalla miseria, ma non era stato così. Ora che Catherine era morta le sue speranze erano state infrante e, dal momento che suo marito era diventato non solo povero, ma anche piagnucoloso, Lady Julia non vedeva più il motivo per cui avrebbe dovuto ancora sopportarlo. Il mercante era ormai divenuto solo un fardello per lei, un peso inutile…un peso inutile di cui doveva sbarazzarsi.

Lady Julia ghignò, soddisfatta di se stessa, riprendendo a camminare velocemente, ora decisa sul da farsi, fino a giungere ad una piccola stanza in fondo al corridoio. Entrò; era una delle cose che era riuscita ad ottenere dal mercante. Quella stanza era a sua completa disposizione, nessuno ci poteva entrare e lei la teneva sigillata. C’era un tavolo al centro, su sui era posato, aperto, un grosso libro dalle pagine ingiallite, e intorno degli scaffali, su cui erano impilate decine di boccette con all’interno liquidi dei colori più svariati. All’apparenza, avrebbero potuto sembrare profumi e lozioni, ma Lady Julia sapeva che non era così. Si avvicinò al grande librone, cominciando a sfogliarlo velocemente, alla ricerca di quel che cercava.

Non era difficile, si disse con tranquillità, l’aveva già fatto altre volte.

Il mercante era il suo quinto marito. Il primo l’aveva sposato a sedici anni, un giovane nobile bello e ricco. Così ricco da far venire l’acquolina in bocca; se lui fosse morto, aveva sentito dire una volta da un parente, lei avrebbe ereditato tutto il suo patrimonio.

Lady Julia ghignò; era stato fin troppo facile. Era bastato far imbizzarrire il suo cavallo, che l’aveva disarcionato, e il giovane era morto sul colpo. Ricchissima, aveva potuto convolare a seconde nozze con un importante uomo politico.

La donna lo aveva sedotto e ripulito di ogni suo bene; l’uomo si era dato al vizio insieme a lei, si era ricoperto di debiti, aveva perso credibilità nel mondo della politica e, infine, si era ritrovato senza più nemmeno un soldo, avendo speso fino all’ultimo centesimo per soddisfare i capricci della moglie. A quel punto, ricordò Lady Julia, c’erano stati un po’ di problemi. Lui l’aveva accusata di essere una serpe, solo una sanguisuga che l’aveva rovinato…l’aveva aggredita, e lei, stufa, aveva afferrato la rivoltella e lo aveva colpito in piena fronte. Il delitto passò come la vendetta di un creditore.

Lady Julia, quindi, si era dovuta trovare un altro marito, e la scelta era ricaduta su un anziano medico. Sembrava il meglio che potesse avere: quello del suo terzo marito era un guadagno sicuro e costante, che la faceva vivere da signora. Ma quel dottore di campagna era forse un po’ troppo perspicace; sapeva dei suoi precedenti matrimoni e di com’erano andati a finire e, col tempo, Lady Julia aveva cominciato ad avere dei dubbi che lui sospettasse qualcosa. Beh, poco male: a lei interessavano solo i suoi soldi, non lui. Una notte, quando il marito si era alzato per aprire la finestra di un albergo dove soggiornavano durante una vacanza, lei gli era arrivata in silenzio alle spalle, e lo aveva spinto giù, facendolo cadere dal quinto piano.

Lady Julia sospirò; quello che era andato meglio, forse, era stato il suo quarto matrimonio. Aveva sposato un anziano e ricco vedovo, che non c’era nemmeno stato bisogno di uccidere, dato che era morto naturalmente dopo un anno di matrimonio…Anche se, ricordò improvvisamente, erano seguiti dei seri problemi alla sua morte.

Quella era stata l’unica volta in cui si era vista costretta ad usare la sua magia…

Si riscosse, trovando finalmente ciò che cercava. Lesse la formula sulle pagine ingiallite, quindi afferrò una boccetta contenente un liquido violaceo.

Scese di corsa in cucina, entrando di soppiatto quando vide che non c’era nessuno. Afferrò dal cesto della frutta una succosa mela rossa. La osservò per un attimo, prima di aprire la boccetta e lasciarvi cadere sopra una goccia di quel liquido.

Sorridendo malignamente, tornò al piano di sopra.

Avrebbe preferito che il mercante morisse immediatamente, come tutti gli altri, ma lì non era sola, ucciderlo così avrebbe potuto far insospettire i suoi figli. Era meglio simulare una malattia, un oscuro male che l’avrebbe lentamente portato alla morte.

Non le era mai piaciuto utilizzare la sua magia per uccidere, la trovava una volgare esibizione di potere; ma, come si dice, il fine giustifica i mezzi.

E poi, ghignò, lei era pur sempre una strega…

Arrivò di fronte alla camera del mercante; bussò, per poi entrare senza attendere risposta. Trovò il marito seduto sul letto, pallido, notevolmente dimagrito, con gli occhi cerchiati dal pianto.

- Buongiorno, caro - fece, con voce suadente.

- Buongiorno - mormorò il mercante, senza guardarla, chiuso nel suo dolore.

Cielo, com’è patetico!, pensò Lady Julia, senza smettere di sorridere, accomodandosi sul letto accanto a lui.

- Allora, come ti senti?

- Come vuoi che mi senta? Mia figlia è morta!- singhiozzò l’uomo, gettandosi le mani nei capelli.

Non era riuscito a perdonarsi di aver abbandonato così Catherine. Era certo che quel mostro l’avesse uccisa non appena lui se n’era andato e, se anche non fosse stato così, a quest’ora, nel buio e nel freddo di quella cella, la sua bambina era di sicuro morta di stenti.

Lady Julia gli diede due o tre lievi pacche su una spalla, noncurante.

- Ti ho portato qualcosa da mangiare - disse poi, porgendogli la mela.

Il mercante voltò la testa di lato.

- Grazie, ma non ho fame.

- Ma devi mangiare qualcosa - insistette Lady Julia, fingendosi preoccupata.- Sei così sciupato…Catherine non vorrebbe vederti così…

- Catherine…- mormorò il mercante, tenendo lo sguardo fisso sulle proprie mani.

- Catherine, riposi in pace, povera fanciulla…Ma la vita continua, tesoro mio. Tu devi mangiare qualcosa - tornò all’attacco Lady Julia, porgendogli di nuovo la mela.

Il mercante la guardò, titubante.

- Andiamo…solo un morso. Fallo per me…- sorrise la donna, civettuola.

Il mercante sorrise brevemente, prendendo il frutto fra le mani.

- E va bene…- acconsentì.

- Bravo. Mangia e poi riposati un po’, devi essere così stanco…

Il mercante guardò la mela. Aveva l’aria di essere molto buona…

Si chinò su di essa, e le diede un piccolo morso.

Lady Julia sorrise, trionfante.

- Perfetto…Buona, non è vero?- chiese.

Il mercante sorrise.

- Deliziosa. E hai proprio ragione: penso che mi riposerò un po’, ora. Sai, improvvisamente mi gira la testa…- disse l’uomo, stendendosi a letto.

Lady Julia gli tastò la fronte con una mano.

- Oh…ma tu hai la febbre!- esclamò, fingendosi preoccupata.

- Ne sei sicura?- domandò il mercante, che effettivamente cominciava davvero a non sentirsi troppo bene.

- Certo che sì! Manderò immediatamente a chiamare il dottore. Tu ora, però, riposati e cerca di guarire - gli rimboccò le coperte con fare affettuoso.

Il mercante sorrise, mentre lei si dirigeva velocemente verso la porta.

- Sei un tesoro - disse l’uomo, con voce roca.- Ti amo.

- Ti amo anch’io, tesoro - rispose Lady Julia, prima di uscire dalla stanza, chiudendosi la porta alle spalle.

Una volta fuori, Lady Julia rimase per diversi minuti immobile in mezzo al corridoio deserto.

Era solo questione di tempo, si disse, e lei avrebbe potuto essere libera, libera di trovare un altro marito e di arricchirsi.

Presto quell’idiota sarebbe morto, pensò, mentre un sorriso malefico le si dipingeva lentamente sulle labbra.

 

Angolo Autrice: Allora, che dite? Meglio i Teletubbies? Okay, va bene, lo ammetto, meglio i Teletubbies XD. Cavolo, mi vieteranno ai minori di 18 anni…questo orrore di capitolo lo possono leggere solo delle persone adulte, altroché!

Spero di non avervi annoiato e di non aver deluso le vostre aspettative, se sì, chiedo umilmente perdono…Dunque, non vi chiedo chi sia il salvatore di Catherine perché sarebbe una domanda idiota (lo sanno anche i Teletubbies! Okay, la pianto… J). Cosa succederà alla nostra Cathy nel prossimo capitolo? E il padrone metterà da parte la sua cattiveria, dando modo a Catherine di affezionarsi a lui?

Per quanto riguarda la mela, è un palese riferimento alla favola di Biancaneve, anche se la mela avvelenata data al mercante è un po’ dissacrante, lo so…Comunque, non potevo farlo morire subito perché il padre di Cathy mi serve vivo, e se l’avessi ucciso sarebbe stato troppo x la poverina…

Cosa succederà al mercante? Troveranno il modo per salvarlo o rimarrà vittima dei malefici di Lady Julia o, peggio ancora, qualcuno sarà costretto a sbaciucchiarselo per svegliarlo dal sonno eterno?

A questi interrogativi atroci troverete risposta solo leggendo i prossimi capitoli, che spero vi piaceranno.

Nel frattempo, ringrazio tutti coloro che leggono, in particolare ilariuccia per aver aggiunto questa ff alle seguite, missballerinafb per averla aggiunta alle preferite e per la sua recensione, e JLullaby ed Ellyra per aver recensito.

Ciao a tutti e grazie x aver letto!

Baci,

Dora93

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Capitolo 9
*** Con un abito di seta scarlatto ***


 

Quella notte, Catherine sognò di nuovo il giovane. Le sembrò più bello che mai, alto, attraente con quegli occhi azzurri così dolci e sensuali. Ballarono tutta notte.

Infine, la ragazza udì di nuovo quella voce femminile.

Catherine…

La udì sussurrare il suo nome, prima di aprire gli occhi.

Era distesa su di un fianco, coperta da delle lenzuola calde e morbidissime. Per un attimo ebbe la sensazione di trovarsi di nuovo a casa, nel suo letto, ma presto si rese conto che non era così. Era in una stanza che non aveva mai visto prima. Vedeva tutto appannato; si stropicciò gli occhi con le mani.

Alla fine, riuscì a mettere a fuoco. Si trovava in una stanza molto grande, distesa su di un morbido letto a baldacchino con le tende rosso fuoco e le lenzuola bianchissime. Era poco arredata, l’unica traccia di mobilio era costituita dal letto, un comodino, un grande tappeto persiano steso sul pavimento e un caminetto acceso in cui il fuoco scoppiettava allegramente, riscaldando l’ambiente.

Catherine si beò per un attimo del calduccio, fino a che, voltandosi, scorse una figura incappucciata seduta a pochi metri da lei.

Sobbalzò per lo spavento, tirandosi istintivamente le coperte fin sul naso.

- Ah, ti sei svegliata, finalmente…- fece il padrone con aria noncurante.

Catherine notò che indossava ancora il solito mantello nero e aveva il cappuccio sollevato, ma in modo che si potesse vedere il volto mostruoso. La ragazza abbassò lentamente le coperte, rimanendo però sulla difensiva.

- Come ti senti?- il tono era brusco, ma gentile.

Catherine non rispose, continuando a fissare diffidente il volto bestiale del padrone.

- Allora? Quei tagliagole ti hanno mozzato la lingua, per caso?- incalzò il padrone, già vagamente innervosito.

- Dove mi trovo?- trovò il coraggio di chiedere bruscamente Catherine, non avendo mai visto quella stanza prima di allora.

- Proprio nello stesso posto in cui ti trovavi prima di fare quella stupidaggine - ironizzò il mostro, con un ghigno che scoprì i denti aguzzi. Catherine distolse in fretta lo sguardo, stringendo i denti dalla rabbia.

Rimasero in silenzio per diversi minuti, finché il padrone non si alzò con un sospiro.

- Manderò Constance a cambiarti quelle bende - disse, con voce piatta.

Solo in quel momento, Catherine si rese conto di avere la mano destra fasciata. Si accorse di avere una benda anche intorno alla caviglia. Non indossava più i suoi abiti stracciati, ma una camicia da notte in seta bianca lunga fino ai piedi e con le spalline sottili che le lasciavano le braccia nude.

Il padrone si avvicinò al caminetto, gettandovi dentro due o tre ceppi di legna.

- Siete stato voi a salvarmi, ieri notte?- chiese infine Catherine.

- Sì, anche se avrei volentieri preferito lasciarti in mano a quei due - ringhiò il mostro.- Mi pareva di averti detto di non farmi scherzi, o sbaglio?- sibilò.

Sollevò improvvisamente una mano artigliata come per colpirla; Catherine alzò un braccio per difendersi, ritraendosi di scatto, ma alla fine il padrone non fece nulla. Riabbassò la mano, molto lentamente, senza smettere di fissarla.

- Prova a scappare un’altra volta e sei morta - sussurrò, minaccioso.

Catherine non rispose, ma si tirò le coperte ancora più addosso, rannicchiandosi sul materasso.

Non parlarono ancora per diverso tempo. Catherine continuava a sbirciare furtiva nella direzione del padrone. Teneva lo sguardo fisso sul pavimento, rabbioso, quasi rifiutandosi di guardarla. La ragazza ne scrutò attentamente il volto mostruoso. Cielo, ma come aveva potuto una creatura così orribile venire al mondo? Non era un uomo, ma nemmeno una bestia. Era l’uno e l’altro, un ibrido mostruoso, un orrendo scherzo della natura.

D’un tratto, quasi senza volerlo, Catherine allungò meccanicamente il braccio in direzione del padrone, scostandogli velocemente il cappuccio. Lui se lo rimise in una frazione di secondo.

- Ma è un vizio di famiglia, allora!- ruggì sommessamente.

- Scusatemi - si affrettò a dire Catherine, sicura di averlo fatto imbestialire ancora.

- Senti, ragazza, stai mettendo a dura prova la mia pazienza! Mi pareva di aver messo in chiaro che non devi toccare né me né tantomeno quello che indosso!

- Vi ho già visto in faccia, intanto, so come siete, che senso avrebbe nascondersi ancora?- ribatté Catherine, sporgendosi verso di lui.

- Ma senti! Sei proprio come tuo padre, fai i suoi stessi ragionamenti idioti! A te piace vedermi in faccia? Bene, allora io sono curioso di vedere te senza più neanche un capello in testa!- e le afferrò la chioma corvina alla radice, scuotendola con forza. Catherine gridò di dolore, ma lui la lasciò subito, tornando a sedersi.

La ragazza non disse più nulla, ma continuò ad osservare di sottecchi il volto di quel mostro, rabbiosa.

- Allora?- fece il padrone dopo qualche istante, di nuovo calmo.- Come ti senti?

- Non bene - bofonchiò Catherine, rifiutandosi di guardarlo negli occhi.

- Che cos’hai?

- Niente che v’interessi.

- E finiscila di fare la sostenuta! Dov’è che ti fa male?

- V’importa qualcosa?- sbottò Catherine.- Cosa ve ne importa? Avete paura che non possa più lavorare? Beh, in tal caso, qual è il problema, potete sempre ammazzarmi, no?

- Non usare quel tono con me, ragazza!

- Io ho un nome!- strillò Catherine, infuriata.- Mi chiamo Catherine Kingston, sono la figlia del mercante Kingston, e fareste bene a ricordarvelo!

- Zitta! Ti ordino di stare zitta!- il mostro scattò in piedi.

- L’unico modo che avrete per farmi tacere sarà chiudermi la bocca per sempre!

- Tu, ragazza…

- Catherine! Ho detto che mi chiamo Catherine!- gridò lei, fuori di sé.

Il padrone non rispose, ma sospirò innervosito, borbottando qualcosa di incomprensibile.

Alla fine, si alzò di nuovo, fece il giro del letto e afferrò le lenzuola, scaraventandole in fondo al materasso. Catherine si ritrasse di scatto, rannicchiandosi su se stessa.

- Cosa avete intenzione di fare?- chiese, quasi istericamente, stringendosi le gambe al petto.

- Niente di quello che stai pensando, mocciosa - la liquidò il padrone, con un gesto infastidito.- Alzati in piedi.

- Perché?- fece Catherine, diffidente.

- Hai preso una storta alla caviglia. Voglio vedere se riesci a camminare.

Catherine rimase un attimo immobile, indecisa sul da farsi. Alla fine, lentamente, si mise seduta sul bordo del letto. Provò a posare il piede a terra, ma la pressione sulla caviglia le fece male. Con una smorfia di dolore, si aggrappò al materasso, posando a terra il piede sinistro. Afferrò la testiera del letto, cercando di rimettersi in piedi in modo che il peso del suo corpo non gravasse troppo sulla caviglia dolorante, ma fu tutto inutile. Si rimise seduta strizzando gli occhi e serrando le mascelle per il dolore.

- Aspetta, ti aiuto - disse inaspettatamente il padrone.

Le tese una mano artigliata; Catherine la fissò per un momento, indecisa se accettare il suo aiuto o meno. Si trattava di abbassarsi a chiedere sostegno all’uomo che l’aveva imprigionata e schiavizzata, senza contare che quella mano bestiale le faceva un certo ribrezzo. Ma, dopotutto, ricordò improvvisamente, lui l’aveva salvata e, in un modo o nell’altro, doveva pur riuscire a rimettersi in piedi.

Prese titubante la mano del padrone, il quale serrò le dita intorno alla sua. Le passò l’altra mano intorno alla vita; Catherine rabbrividì un po’ a quel contatto, mentre il padrone la sollevava dal materasso, facendola mettere in piedi. Si ritrovarono l’una vicinissima all’altro e impossibilitata a staccarsi da lui, se non voleva finire lunga distesa per terra. Era parecchio più alto di lei, ma abbassò il volto mostruoso in modo da fissarla dritta negli occhi. Catherine si trovava estremamente a disagio, con il proprio viso a pochi centimetri da quello bestiale del padrone, con i suoi occhi puntati dritti in quelli glaciali e penetranti di lui.

- Appoggiati a me - le disse, anche stavolta inaspettatamente.

- Cosa?- fece Catherine, stralunata.

- Sappi che non sei una piuma, Catherine Kingston. E’ troppo chiedere un po’ di collaborazione da parte tua o sarò costretto a tenerti sollevata di peso per tutto il tempo?

Catherine esitò ancora un momento, quindi appoggiò le proprie mani sulle spalle del padrone, il quale la tenne saldamente per la vita.

- Prova a camminare, ora.

La ragazza posò cautamente la caviglia malandata sul pavimento, muovendo un piccolo passo. Ma il dolore fu ancora troppo forte, e la costrinse a piegarsi sulle ginocchia, rischiando di farle perdere l’equilibrio. Catherine si aggrappò disperatamente alle spalle del padrone, che le cinse i fianchi con le braccia e la strinse a sé per impedirle di cadere.

Catherine si ritrovò con il proprio petto premuto contro quello del mostro; emise un gemito di dolore.

- E va bene, ho capito - fece il padrone, aiutandola a rimettersi seduta sul materasso.- Tu per oggi non lavori. Riprenderai quando ti sentirai un po’ meglio.

Catherine inspirò brevemente, scostandosi una ciocca di capelli dagli occhi e guardandolo di sottecchi, sorpresa.

- Che hai da guardare? Mi sembra di aver messo in chiaro che non mi piace essere fissato! Forza, rimettiti a letto!- le intimò, bruscamente, anche se non le sembrava che fosse più tanto innervosito.

Catherine si distese sul materasso obbediente; il padrone afferrò le lenzuola e le sistemò sul corpo della ragazza, velocemente, con poca cura, quasi come avesse una gran fretta. Catherine si strinse nelle spalle, colpita da quel gesto brusco ma gentile; probabilmente intendeva rimboccarle le coperte, pensò, e, anche se non ci era riuscito molto bene, era stato cortese, da parte sua.

Il padrone si avviò velocemente in direzione della porta.

- Tra un paio d’ore verrà Constance a cambiarti le bende. Tu cerca di dormire un po’- disse, senza che la sua voce lasciasse trasparire alcuna emozione. Detto questo, uscì velocemente dalla stanza.

 

***

 

Constance entrò nella stanza spalancando la porta frettolosamente, con la sua solita aria affaccendata, seguita da Peter che le trotterellava alle spalle reggendo alcune bende in mano. Catherine si sollevò a sedere sul letto; non aveva dormito, come le aveva ordinato il padrone, ma era rimasta tutto il tempo distesa sul materasso a pancia all’aria, pensando a tutto e a niente.

- Ciao, Cathy!- salutò allegramente Peter.

- Ciao, Peter…

- Allora, come ti senti? Ma che ti è successo? Il padrone non ci ha voluto dire niente…

Constace scostò le coperte con fare sbrigativo, sollevando Catherine da sotto le ascelle in modo da farla mettere seduta.

- Peter, sta’ zitto e passami quei panni!- ordinò al figlio, esaminando accuratamente prima la mano poi la caviglia della ragazza.

- Constance - fece Catherine.- Constance, ma che…

- Ci hai fatto prendere un bello spavento, lo sai?- disse la donna, incrociando le braccia al petto e guardandola severa.- Si può sapere che diavolo ti è venuto in mente? Cosa credevi di fare?

- Volevo scappare…- ammise Catherine, un po’ vergognosa.- Beh, ci ho provato, almeno…

- Sì, come no! Scappare!- Constance la guardò con aria beffarda.- Scappare, dici? A notte fonda, nel bel mezzo di una foresta? Di’ un po’, ma lo sai che è pieno di lupi, lì dentro? Sei stata fortunata, ragazza mia. Per non parlare dei briganti…lo sai che il bosco pullula di banditi?

- Eccome se lo so…- bofonchiò Catherine, gettando un’occhiata truce alla propria caviglia.

Constance cominciò a srotolare la benda che fasciava la mano della ragazza.

- Sì, sei stata decisamente fortunata…Meno male che il padrone è intervenuto in tempo…

- Eri svenuta, lui ti teneva in braccio quando ti ha riportata qui - aggiunse Peter.- Ha ordinato di sistemarti in questa stanza…

- Come ha fatto a sapere dov’ero? Gliel’avete detto voi, per caso?- domandò Catherine.

- No - disse Constance, prendendo a fasciarle la mano con tanta forza da farle male.- Noi non c’entriamo niente, e nemmeno Ernest. Evidentemente il padrone ti stava osservando…

- Osservando?

- Quante volte te lo devo dire?! Lui sa sempre dove sei e quello che fai, nessuno sa come, ma è così.

Catherine non rispose, e attese che Constance finisse di cambiarle le bende.

- Quindi, deduco che tentare nuovamente la fuga sarebbe inutile…- bofonchiò alla fine, quasi parlando a sé stessa.

- Fossi in te, non ci riproverei - disse Peter, guardandola preoccupato.- Il padrone era così arrabbiato…per un attimo ho temuto che volesse ucciderti…

- Sì, ho avuto anch’io quest’impressione…- disse Catherine, rammentando le minacce.

Constance finì di fasciarle la caviglia, per poi sfregarsi le mani, soddisfatta.

- Ecco qui. E ora…Peter, hai portato il vestito?

- Vestito?- fece eco Catherine, mentre Constance prendeva dalle mani del ragazzino un abito di seta rosso e lo stendeva sul letto, lisciandone accuratamente le pieghe.

- Che significa?- domandò Catherine, senza smettere di fissare l’abito.

- E’ per stasera. Il padrone non te l’ha detto?

- Detto cosa?

- Vuole che ceni con lui, stasera.

Catherine strabuzzò gli occhi, incredula; per un attimo, credette che Constance la stesse prendendo in giro.

- Come…come sarebbe a dire?

- Sarebbe a dire esattamente quello che ho detto. Anche se non riesco proprio a capire il motivo di questa pretesa…

Catherine non riusciva a crederci; eppure Constance era seria. Ma non aveva alcuna logica: lei era una prigioniera, faceva la serva in quel maniero, per di più aveva appena tentato una fuga facendo infuriare il padrone di casa…non era possibile che lui ora volesse cenare con lei. Non aveva alcun senso!

- Credimi, Cathy, siamo sorpresi anche noi…- mormorò Peter.- Io vivo qui da quando sono nato, e ancora non riesco ad abituarmi alle stranezze del padrone…

- Io non cenerò con lui - dichiarò fermamente Catherine.

Che diamine, conservava pur sempre una propria dignità! Quel mostro l’aveva imprigionata e ridotta alla stregua della peggiore delle sguattere, e ora pretendeva anche che lei si piegasse a quelle che erano le sue mattane? Ma neanche per sogno!

- Non sfidarlo, Catherine - disse Constance. Santo cielo, sarà stata la milionesima volta che glielo ripeteva! Ma lei ora voleva sfidarlo, eccome.

- Perché dovrei accettare?- disse.- Dopo tutto quello che mi ha fatto, ora pretende anche che…

- In effetti, questa è una stranezza bella grossa, mamma - bisbigliò Peter.

- Lui è il padrone, e può permettersi di essere strano quanto vuole - dichiarò Constance.

- Ma non con me!- sbottò Catherine.- Non con me! Io non ho nessuna intenzione di sottostare ai suoi capricci!

- Sul serio, Catherine, non rifiutare - disse Constance, quasi implorandola.- Il padrone è stato fin troppo buono con te. Credimi. Se fosse stato chiunque altro di noi a tentare la fuga, lo avrebbe ucciso senza pensarci due volte. Ma invece, lui ha preferito salvarti la vita. Sarebbe il minimo accettare, se non per non farlo infuriare, almeno per ringraziarlo, non credi?

Catherine sbuffò, incrociando le braccia al petto.

- Ci penserò…- bofonchiò alla fine.

- Brava - mormorò Constance, abbozzando un sorriso.

Catherine non guardò, ma sentì madre e figlio uscire dalla stanza e chiudersi la porta alle spalle. Gettò un’occhiata all’abito scarlatto. Lo prese e se lo rigirò fra le mani, non sapendo proprio più che pensare.

 

***

 

Constance si ripresentò all’ora di cena, con l’intento di chiedere a Catherine se avesse deciso cosa fare o no. Ma non le pose nemmeno la domanda, non appena vide che la ragazza aveva indossato l’abito che il padrone le aveva preparato.

Alla fine, Catherine, seppur di malavoglia, si era decisa ad andare; anche se si rifiutava di ammetterlo, l’eventualità di far arrabbiare il padrone di casa la terrorizzava. Aveva indossato quell’abito scarlatto bordato d’oro che si allacciava intorno al collo, lasciandole le spalle scoperte. Aveva acconciato i capelli in uno chignon che le lasciava ricadere disordinatamente alcuni fili corvini sul collo e le orecchie e indossato le scarpette che Constance le aveva portato insieme al vestito. Si era preparata di tutto punto, ma era ben decisa a condurre le cose a modo suo. Avrebbe cenato con il padrone, ma per nessuna ragione al mondo si sarebbe mostrata gentile con lui. Il suo obiettivo era iniziare quella cena e terminarla il prima possibile senza incidenti.

Mai avrebbe stabilito un rapporto con quel mostro che le aveva rovinato la vita.

Tese una mano a Constance, perché l’aiutasse ad alzarsi. La caviglia continuava a farle un gran male, e Constance fu costretta a sostenerla per un braccio, mentre Catherine saltellava su una gamba sola, sentendosi infinitamente ridicola.

Ernest e Peter le stavano aspettando fuori dalla porta. Il ragazzino la guardò ammirato.

- Stai benissimo!- esclamò.

- Tu, a cuccia!- lo ammonì Constance.

Catherine rise; anche Ernest si aprì in un sorriso.

- Sei davvero molto elegante, Natalie - disse.

- Natalie?

Ancora quella Natalie, pensò Catherine.

- Cioè, volevo dire, Catherine…scusa…- mormorò Ernest, imbarazzato.

Constance proseguì, tirandosi dietro Catherine saltellante.

Raggiunsero la sala da pranzo; era tutto pronto, la tavola apparecchiata e il caminetto acceso, ma del padrone nessun traccia. Constance l’aiutò a sedersi, a sinistra del posto a capotavola. Catherine la guardò con aria preoccupata.

- Sta’ tranquilla. Andrà tutto bene - la rassicurò la donna.- Ora io devo andare…

Constance sgusciò via dalla stanza, lasciando Catherine sola.

La sua situazione era davvero assurda, pensò la ragazza. Se anche avesse voluto andarsene, la sua caviglia gliel’avrebbe impedito. Avrebbero potuto farle qualsiasi cosa, e lei non avrebbe potuto ribellarsi.

Sentì dei passi rimbombare in lontananza sulle piastrelle del pavimento, per poi farsi sempre più vicini. Catherine trattenne il fiato, quando la porta si spalancò lasciando entrare il padrone nella stanza. Indossava il solito mantello nero, ma il cappuccio era abbassato, lasciando vedere per intero il volto mostruoso il cui pelo e orecchie lupesche si confondevano con la pelle e i capelli umani.

Anche le mani erano priva di guanti, e gli artigli parvero a Catherine più lunghi e affilati che mai.

Il padrone non si degnò di salutarla, prendendo posto a capotavola, quasi come se lei non ci fosse. Catherine abbassò lo sguardo sul piatto vuoto, impaurita e imbarazzata insieme. Alla fine, lui si decise a parlare:

- Vedo che il vestito ti sta a pennello.

- Già. Grazie.

E silenzio.

La porta si aprì nuovamente, e Constance, Peter ed Ernest entrarono, ponendo frettolosamente le pietanze sul tavolo; Catherine provò a cercare lo sguardo di Peter che le stava versando dell’acqua nel bicchiere, ma il ragazzino teneva gli occhi bassi.

Uscirono, lasciando il padrone e Catherine di nuovo soli. La ragazza fissò quello che aveva nel piatto: pollo arrosto con contorno di patate e insalata.

- Mangia - ordinò il padrone, con uno sguardo che non ammetteva repliche.

- E voi?- fece Catherine, spaurita, e la voce le uscì stranamente flebile.

- Ti ho detto di mangiare. Non discutere.

Catherine prese titubante forchetta e coltello, e tagliò un piccolo pezzo di pollo. Solo quando se lo fu portato alla bocca ed ebbe iniziato a masticarlo, il padrone afferrò una coscia del proprio pollo arrosto con le mani artigliate, iniziando a divorarla con i denti aguzzi.

Catherine cercò di non farci caso, e ingoiò quello che aveva in bocca. Il padrone non s’ingozzava come un animale; pareva piuttosto uno di quei poveracci che si vedevano nelle bettole, quegli uomini che azzannano il cibo con le mani perché non si ricordavano più come si stava a tavola civilmente…perché erano stati soli troppo a lungo.

- La caviglia ti fa ancora male?- domandò il padrone all’improvviso, posando la coscia di pollo, facendola sobbalzare.

- Sì.

- E chi ti ha portata qui?

- Constance.

Il padrone afferrò la bottiglia di vino; fece per berne un sorso a canna, ma si bloccò, scoccando un’occhiata accigliata a Catherine. Le versò del vino nel bicchiere.

- Grazie.

Il padrone non rispose, versandosene a sua volta.

Catherine riprese a mangiare, lanciando di tanto in tanto delle occhiate di sottecchi al padrone. Il suo volto bestiale ne nascondeva parecchio l’età, ma Catherine si accorse che non era poi tanto vecchio, avrà avuto poco meno di trent’anni.

Il padrone continuò a mangiare in silenzio ancora per un po’, quindi si decise a parlare di nuovo:

- Hai detto di chiamarti Catherine Kingston, vero?

- Sì.

- E quanti anni hai?

- Diciotto.

- Ah, già, tuo padre l’aveva detto…

Catherine non rispose, continuando a mangiare, ma ogni boccone che mandava giù le pareva di volta in volta sempre più duro da inghiottire.

- Come ti trovi in quella stanza?- domandò il padrone.

- E’ molto comoda - rispose Catherine, cauta.

- Hai dormito bene?

- Abbastanza.

- D’ora in avanti quella sarà la tua camera.

Alla ragazza per poco non andò di traverso; riuscì a trangugiare un sorso d’acqua prima di mettersi convulsivamente a tossire.

- Che avete detto?- boccheggiò.

- Hai sentito benissimo, e a me non piace ripetermi - ringhiò il padrone, visibilmente innervosito.

- Ma perché?

- Perché l’ho detto io - il padrone la guardò negli occhi, scoprendo appena i denti aguzzi.

L’idea di avere una stanza per sé, comoda e calda, l’allettava non poco, ma Catherine si era ripromessa di non soccombere passivamente alle prepotenze del padrone. Era evidente che si trattava di un uomo – o piuttosto un essere… – abituato a spadroneggiare senza che nessuno lo contrastasse. Si fece coraggio e gli pose la domanda a cui aveva cercato invano di trovare una risposta.

- Perché avete voluto che cenassi con voi?

Lui la guardò infastidito.

- Ho bisogno di un motivo, forse?- sibilò.

- Pensavo che voleste qualcosa da me.

- Tu devi solo ubbidire a quello che ti dico, niente di più.

- Potevate anche chiedermi se ero d’accordo!- sbottò Catherine.

Il padrone la fissò per un istante, quindi scattò improvvisamente in piedi. La fissò come se volesse ucciderla; Catherine si ritrasse, appiattendosi contro lo schienale della sedia, ma non distolse lo sguardo. Il padrone ghignò.

- Abituatici, perché sarà così tutte le sere.

Si rimise a sedere, sotto lo sguardo stralunato di Catherine. Il padrone notò la sua espressione contrariata, e ghignò nuovamente.

- Che c’è, desideri forse tornare a patire la fame con gli altri domestici?

Catherine sentì montare dentro di sé la rabbia.

- Desidererei solo un po’ di rispetto!- strillò, dimenticando per un momento il suo terrore.

Il padrone non smise di guardarla, stranamente calmo.

- Rispetto?- disse.- Tu pretendi rispetto?

- Pretendo rispetto come lo pretende qualsiasi essere umano!

- Davvero?- disse il padrone.- E cosa vuoi? Non vuoi più lavorare? Non vuoi più stare qui?

- Se anche fosse così, voi siete talmente infame che non me lo concedereste mai!- gridò la ragazza, fuori di sé. - Non avete idea di cosa sia il rispetto, non sapete cosa significa essere al mio posto! Siete solo un mostro!

Il padrone le afferrò un braccio, stringendoglielo fino a farle male.

- Come osi?- sibilò, digrignando i denti.

Catherine si dimenò, cercando di divincolarsi.

- Lasciatemi!- urlò.

- Rimangiati subito quello che hai detto, o ti strappo la lingua!

- No!

- Bada che ti sbatto in cella!

- Non voglio più essere punita!- strillò Catherine.

Il padrone la guardò ancora per un attimo, quindi la lasciò.

- Allora è questo che vuoi…- disse, piano, mentre la ragazza si massaggiava il braccio, con una smorfia di dolore sulle labbra.- Non vuoi più tornare là dentro?

- No.

- E’ per questo che sei scappata, ieri notte?

- Sì, anche per questo…- mormorò Catherine, cercando di ricacciare indietro le lacrime.

- Avevi paura?

- Paura, no. Ma è orrendo lo stesso - mormorò la ragazza, ricordando il freddo della cella, il pagliericcio umido, le scorribande notturne dei topi.

Il padrone ammutolì.

- E va bene, allora - disse infine.- Non ti rinchiuderò più in quel posto.

La ragazza lo guardò, stupita.

- Se davvero è un supplizio così grande, per te, allora non lo farò più - ripeté il padrone.

Riprese a mangiare, in silenzio. Catherine rimase immobile per diversi minuti, fissando le proprie mani. Era sempre più assurdo; anche la mattina, nella stanza, prima le aveva strattonato i capelli, poi si era mostrato gentile. Che poteva pensare? No, non aveva davvero alcun senso.

- Che ti succede, ora?- le chiese il padrone, di nuovo infastidito.

- Niente…- mormorò la ragazza.

- Non ti ho portata qui perché tu faccia la statua di bronzo. Continua a mangiare.

- Non ho più fame.

- Come preferisci - fece spallucce.

Rimasero in silenzio ancora per qualche istante, finché il padrone non parlò di nuovo.

- Quel vestito ti sta molto bene.

- Grazie.

- Ti piace.

- Sì. E’ molto bello.

- Piaceva anche alla ragazza che ho sgozzato prima di te.

Catherine impallidì di colpo, puntando lo sguardo terrorizzato sul padrone. Il mostro ricambiò lo sguardo per qualche istante, quindi scoppiò in una sonora e beffarda risata.

- Che stupida…!- ghignò, scoprendo i denti aguzzi.

La ragazza si sentì avvampare.

Questo era veramente troppo!

Non sarebbe rimasta lì a farsi umiliare. Si alzò di scatto dalla sedia, ben intenzionata ad andarsene, ma la caviglia la tradì nuovamente. Il dolore era sempre acuto, e la ragazza si accasciò con un gemito, finendo inginocchiata sul pavimento.

- Maledizione!- imprecò a mezza voce, mentre lacrime di rabbia cominciavano a salirle agli occhi.

Sentì i passi del padrone che la raggiungevano.

- Ti sei fatta male?- chiese, osservandola dall’alto. Catherine non rispose, cercando di allontanare il dolore alla caviglia.

Il padrone s’inginocchiò accanto a lei.

Le prese una mano.

- Forza, ti aiuto ad alzarti.

- Non ho chiesto il vostro aiuto!- ringhiò Catherine.

- Ma ne hai bisogno.

Era vero, aveva ragione. Catherine rimase immobile, mentre il padrone le passava una mano artigliata intorno alla vita. La sollevò in braccio, portandola fuori dalla sala da pranzo. Catherine si lasciò trasportare, senza muoversi e senza guardarlo in faccia.

Entrò nella stanza in cui aveva dormito la notte precedente, e la depose delicatamente sul letto.

Catherine si abbracciò le ginocchia, raggomitolandosi su se stessa. Gettò un’occhiata al caminetto acceso; il fuoco scoppiettava caldo e allegro, e dei ceppi di legna erano posti accanto al muro.

- Che cosa guardi?- domandò il padrone.

Catherine spostò lo sguardo sul suo volto bestiale.

- Potreste dare quella legna agli altri domestici?- chiese, indicando i ceppi.- Fa freddo, nel dormitorio…

- Quella legna è tua - sospirò il padrone.- Ma sarai accontentata. Domattina ne darò un po’ anche a loro.

- Grazie.

Catherine tornò a fissare il caminetto; il padrone fece per uscire, ma si bloccò.

- Ascolta…mi dispiace, per prima - mormorò.- Era uno scherzo di cattivo gusto, me ne rendo conto. E’ solo che…credo di essermi dimenticato come si sta con le altre persone…

La ragazza non rispose, continuando a fissare il fuoco.

- Io non voglio esserti nemico, Catherine. E vorrei che fosse lo stesso anche per te.

Catherine non disse nulla; sentì il padrone uscire dalla sua stanza e chiudere la porta, quindi i suoi passi allontanarsi velocemente lungo il corridoio, fino a scomparire.

 

Angolo Autrice: Va bene, lo so, questo capitolo è di una noia mortale, ma non sono molto brava a descrivere innamoramenti e cose del genere…cercherò comunque di migliorare.

Nel prossimo capitolo continueremo a vedere come si evolverà il rapporto fra Catherine e il padrone di casa. Per Lord William e i suoi piani, dovrete aspettare ancora un pochino, ma non tarderà ad arrivare anche il suo turno. E nel frattempo…che altro combina Lady Julia?

Lo scopriremo nel prossimo capitolo!

Ringrazio tutti coloro che leggono, in particolare missballerinafb ed Ellyra per aver recensito.

Grazie a tutti, al prossimo capitolo. Ciao!

Bacio,

Dora93

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Capitolo 10
*** L'ombra di un sorriso ***


- CHE COS’HAI DETTO?!- tuonò Lord William, schioccando un colpo di frusta contro la spalla di Ralph.

Lo scagnozzo si ritrasse, portandosi una mano allo squarcio della casacca che lasciava intravedere la pelle che si stava arrossando.

- Ve lo giuro, Lord William…- disse, con voce roca.

- Idioti! Siete due emeriti idioti!- ringhiò Lord William, fingendo di non notare Glouster che teneva premuto uno straccio sulla ferita sanguinante alla spalla.

- Non è stata colpa nostra, signore…- disse Glouster, tentando di fermare il sangue.- Noi abbiamo cercato di difenderci, sul serio…

- Non mi riferisco al fatto che vi siete fatti mettere al tappeto come due patetiche donnicciole!- disse Lord William, furente.- Come avete osato anche solo pensare di mettere le mani addosso a Catherine Kingston?!

- Ma…signore…- provò a giustificarsi Ralph, tenendosi a debita distanza da lui.- Non pensavamo che v’interessasse ancora…

- Non è compito vostro pensare!- ruggì Lord William.- Se vi azzardate a toccare ancora quella ragazza vi giuro che vi consegno alle autorità e vi faccio impiccare nella piazza del paese, parola mia!- e detto questo sferrò un pugno in faccia a Ralph, che cadde riverso vicino a Glouster.

Lord William voltò loro le spalle, passandosi nervosamente una mano fra i capelli castani. Era madido di sudore, fremeva di rabbia e le mani gli tremavano.

Ralph strisciò a fatica verso Glouster.

- Era lì da sola, di notte, nel bel mezzo della foresta…- bisbigliò quest’ultimo al suo compare.- Non avrei mai pensato che ci fosse qualcuno con lei…- aggiunse, scoccando un’occhiata al panno che, da bianco, era diventato quasi interamente rosso.

A queste parole, Lord William si girò di scatto, fissandoli improvvisamente attento.

- E chi avete detto che era, questo cavaliere che è riuscito a stendervi tutti e due in un solo colpo?- domandò.

- Non lo sappiamo, Lord William…- rispose Ralph.

- Aveva il volto nascosto…indossava un mantello scuro…- aggiunse Glouster.- Aveva una forza sovrumana…sembrava quasi di avere a che fare con un demonio…

- Incompetenti!- sibilò Lord William, dirigendosi verso una delle finestre della sua lussuosa villa.

Si appoggiò ad essa con un braccio, fissando l’orizzonte dove stava spuntando timidamente l’alba.

Catherine…La sua Catherine…insieme ad un altro!

Non riusciva a sopportare quello che gli avevano riferito Ralph e Glouster. Tutto il suo animo, il suo cuore, la sua mente, tutto in lui si rivoltava al pensiero che Catherine Kingston, la sua donna, in quel momento si trovasse con un altro. Perché quel cavaliere misterioso, quell’essere fantomatico che aveva messo al tappeto i suoi uomini, era lì per lei, ne era certo. Gli attraversò la mente un fugace lampo, una rapida visione di Catherine che giaceva nuda fra le braccia di un uomo che non era lui.

Puttana!, pensò, digrignando i denti.

Di nuovo avvertì quella sensazione, quel fuoco che lo ardeva all’interno, quelle fiamme che avvolgevano il suo cuore e la sua anima, distruggendolo lentamente.

No! No, non sarebbe finita così!

Non si sarebbe arreso così facilmente. Catherine Kingston doveva essere sua, sua, e di nessun altro. E lui se la sarebbe presa, con le buone o con le cattive. Se non avesse acconsentito a diventare sua moglie, poco male, ne avrebbe fatto la sua puttana. Avrebbe fatto qualsiasi cosa per averla; qualsiasi cosa, anche se si fosse trattato di ammazzare con le proprie mani quel bastardo che molto probabilmente in quel momento se la stava scopando, anche se per farla cedere avesse dovuto violentarla fino a farla morire sotto di sé. Non importava cosa sarebbe stato necessario fare. Lui l’avrebbe fatto.

Puntò lo sguardo sulle casupole del paese che stava incominciando a svegliarsi, intravedendo i contadini che si recavano nei campi e i primi artigiani che aprivano bottega. Chiuse gli occhi, sperando che Il leone d’oro aprisse presto. Era ora di fare due chiacchiere con Henry Kingston.

Era giunto il momento di mettere in atto il suo piano, pensò, mentre il fuoco, quel fuoco infernale, continuava a divorarlo, ardendo senza pietà la sua anima.

 

***

 

Catherine trascorse due giorni a letto, in convalescenza. Il padrone aveva mantenuto la sua promessa: non avrebbe lavorato finché non si fosse sentita meglio. La ragazza un po’ ne era contenta, un po’ si sentiva in colpa.

Non riusciva a non pensare che, mentre lei se ne stava in una stanza comoda e calda, senza fare il minimo sforzo, Constance, Peter ed Ernest erano costretti a faticare tutto il giorno. Aveva temuto che fossero arrabbiati con lei, per questo, ma il loro atteggiamento faceva intendere tutto il contrario.

Il padrone aveva ordinato loro che i pasti le fossero serviti in camera; all’ora stabilita, uno dei tre domestici si presentava reggendo in mano un vassoio carico di ogni ben di Dio, ma, come notò la ragazza con gran sollievo, nessuno di loro pareva invidioso della fortuna che le era toccata.

Constance esibiva sempre un gran sorriso, le rimboccava le coperte e le chiedeva in continuazione come si sentisse; Ernest si presentava un po’ meno spesso, ma quando lo faceva non si toglieva mai dalle labbra quel sorriso bonario e, aveva notato Catherine, anche un po’ malinconico. Peter ogni volta si intratteneva per diverso tempo con lei, chiacchierando del più e del meno, fino a che sua madre non veniva a prenderlo per un orecchio e lo riportava al lavoro.

Catherine fu parecchio sollevata da questo atteggiamento; lo stesso fu quando si accorse che il padrone aveva mantenuto un’altra promessa, ovvero che non l’avrebbe più punita rinchiudendola in quella celletta buia e umida.

Già, il padrone…Catherine, in quei giorni, lo vide solo un paio di volte; sentiva bussare alla porta della sua stanza, quindi lui entrava, tenendo quel suo viso mostruoso rivolto verso il basso. Si limitava a chiederle come si sentisse e se la caviglia le facesse ancora male, quindi se ne andava, veloce come era arrivato.

Durante la convalescenza, Catherine ebbe modo di riflettere a lungo su quanto fosse assurda la sua situazione. In un certo senso, si era quasi rassegnata all’idea che, probabilmente, non avrebbe mai più rivisto la sua famiglia; quello che più la sconcertava, in realtà, era l’essere finita prigioniera nel maniero di un mostro.

Già, per quanto fosse spiacevole da ammettere, il padrone di casa era veramente un mostro. Catherine pensava sempre che, se Lydia l’avesse incontrato, subito avrebbe iniziato ad urlare che si trattava di una creatura di Satana; la ragazza non era mai stata bigotta o superstiziosa, ma proprio non riusciva a capacitarsi che la natura avesse potuto dare vita ad una creatura così mostruosa.

Creatura mostruosa che da un mese a quella parte non aveva mai smesso di spiazzarla con il suo strano e ambiguo comportamento. L’aveva maltrattata e malmenata fino a pochi giorni prima, quando le aveva inaspettatamente salvato la vita da quei due tagliagole. Quindi, aveva alternato momenti di ira e sgarbatezza ad altri di infinita gentilezza, fino ad invitarla a cenare con lui.

Ecco, una delle promesse che non aveva mantenuto era stato in merito alla cena; le aveva detto chiaro e tondo che da quel momento in poi avrebbe sempre cenato con lui, che le piacesse o meno, ma infine aveva ordinato che anche la cena le fosse servita in camera.

Forse l’aveva trovata noiosa o poco interessante, forse aveva pensato fosse superfluo intrattenersi con una misera serva, o forse quella era un’altra delle sue numerose stranezze.

Ma Catherine non lo voleva sapere; non le importava perché avesse preso quella decisione, anzi, era meglio così; lei non desiderava la compagnia di quel mostro, voleva solo che la lasciasse in pace. Benché lui l’avesse salvata, Catherine era ancora restia a fidarsi del padrone di casa; e poi, aveva bisogno di stare lontana dal suo umore altalenante, sentiva la necessità di un po’ di logica e di tranquillità.

Tranquillità che aveva ogni notte, in sogno. Da che era arrivata al maniero, non passava notte che non sognasse quel bel giovane dai capelli scuri e gli occhi azzurri, e non sentisse, appena prima di risvegliarsi, una voce femminile calda e dolce che la rassicurava.

 

***

 

Al terzo giorno, verso l’ora di pranzo, Catherine decise che era venuto il momento di rimettersi in piedi. Provò ad alzarsi reggendosi al bordo del letto; la caviglia le faceva ancora un po’ male, non riusciva a poggiare interamente il piede a terra, ma in compenso finalmente si reggeva in piedi e poteva camminare.

Zoppicò fino al piano terra, reggendosi al corrimano dello scalone per non inciampare, fino ad aprire cautamente la porta della cucina.

- Ehi, Cathy!- la salutò allegramente Peter, visibilmente contento di vederla.

- Catherine!- esclamò Constance.- Stavo per portarti il pranzo. Che ci fai qui?

- Riuscivo a camminare e sono scesa - rispose semplicemente la ragazza.

Ernest l’aiutò ad arrivare sino al tavolo, scostandole una sedia perché potesse più agevolmente sedersi. Rimase parecchio sorpresa quando Constance mise in tavola, per tutti e quattro, un bel piatto di bistecca e purée di patate.

- E’ merito tuo!- disse Peter a bocca piena, notando lo sguardo interrogativo di Catherine.

- Mio?

- E’ grazie a te se ora abbiamo legna e del cibo decente, invece di quella brodaglia - spiegò Constance.- Sei stata tu a dire al padrone di darcene un po’, no?

- Sì, ma…sinceramente, non credevo che mi avrebbe dato retta…- disse Catherine, ancora più stupefatta.

- Se gliel’avessi chiesto io, di sicuro non l’avrebbe fatto - disse Constance.- Ma di te, a quanto pare, ha un’altra considerazione…

- Ce l’avete con me?- domandò timorosa Catherine.

- E come potremmo?- fece Ernest, addentando un pezzo di bistecca.- E’ per merito tuo se abbiamo del cibo e della legna per il fuoco. Come potremmo avercela con te? Noi dobbiamo solo ringraziarti, Natalie…

Natalie, pensò Catherine. Era da quando era arrivata, che Ernest la chiamava così. La cosa non avrebbe dovuto stupirla più di tanto; anche Lady Julia ci aveva messo una vita ad imparare il suo nome, storpiandolo in Christine, Caroline, e altri ancora. Ma Ernest la chiamava sempre con quello stesso nome, Natalie, e Catherine si era più volte accorta che il vecchio domestico la guardava in modo strano, bonario, quasi paterno, e che spesso era sul punto di posarle una carezza sui capelli, ma si tratteneva sempre in tempo.

- Ernest - disse Catherine, facendosi coraggio.- Chi è Natalie?

Ernest non rispose subito; sospirò tristemente, mescolando il purée con la forchetta; quindi, senza smettere di fissare il piatto:

- Mia figlia - rispose, con un sospiro.

- Non sapevo che avessi una figlia, Ernest…- mormorò Catherine.

- Non dargli corda, altrimenti non la finisce più con i suoi melodrammi!- la rimbeccò Constance.

- Vuoi stare un po’ zitta, vecchia scopa spelacchiata?- borbottò Ernest.

- Rimbambito!

- Strega!

- Ehi, fatela finita!- intervenne Peter.

Ernest sospirò di nuovo, impiegando qualche minuto prima di proseguire.

- Sai, lei ti somiglia molto…- disse, rivolto a Catherine.- Cioè, voglio dire, ti somigliava quando aveva la tua età…ora, chissà quanto sarà cambiata…

- Da quanto tempo non la vedi, Ernest?- chiese Catherine.

- Da quando sono arrivato qui. Dieci anni fa.

- Il padrone tiene prigioniero anche te?- saltò su Catherine, indignata, sentendo montare ancora di più l’astio nei confronti del mostro.

- No…no, non sono un prigioniero…

- Ma allora…?

- Nessuno di noi, qui, lo è - intervenne Constance.- Io e Peter siamo stati accolti da lui. Sai, non è poi tanto male, se lo si conosce…

- Come no!- ironizzò Catherine.- Un essere mostruoso che ci tiene tutti rinchiusi qui dentro in condizioni disumane e…

- Per quel che mi riguarda, non poteva andarmi meglio - la interruppe la donna.- Vedi, Catherine…- proseguì, notando lo sguardo esterrefatto della ragazza.- Quando mio marito…il padre di Peter…beh, quando lui mi lasciò, io ero giovane, senza un soldo e con un bambino piccolo sulle spalle…nessuno avrebbe voluto assumermi. Invece, il padrone e suo padre mi accolsero qui, mi diedero una casa e un mestiere, e non tentarono mai di abusare di me, come molti altri invece avrebbero fatto. Tu pensi che sia un mostro, Catherine?

- Io…cioè, voglio dire…- s’impappinò la ragazza. Tentò di cambiare argomento:- Ma tiene prigioniero Ernest!

- No - disse il vecchio, pacatamente.- Io non sono un prigioniero. All’inizio lo ero, ma ora non più…

- Che vuoi dire?

- Io vivevo in un villaggio poco distante da qui. Facevo il venditore ambulante - raccontò Ernest.- Ero felice, ero sposato e avevo una figlia, Natalie. Una sera mi persi nel bosco, e capitai qui…- fece una breve pausa, poi riprese:- M’intrufolai in casa del padrone, e lui mi scoprì, imprigionandomi.

- Infame…- borbottò Catherine.- E poi, cosa accadde?

- Beh, non lo so esattamente…rimasi in cella per diversi giorni, finché…non lo so, penso che fosse venuta a cercarmi, come tu hai fatto con tuo padre…Insomma, una sera mia figlia bussò alla porta del castello, e chiese al padrone se aveva mie notizie…

- E lei ti trovò imprigionato.

- Sì. Il padrone le propose un patto, la sua libertà per la mia.

Catherine distolse lo sguardo, imbarazzata; aveva la strana sensazione di sapere come sarebbe andata a finire quella storia.

- Rifiutò, vero?- disse, con un filo di voce.

- Sì - sospirò Ernest.- Sì, lei…Natalie…si rifiutò…

- L’aveva visto in volto?

- No. Ma temeva di rimanere imprigionata per sempre. Mi disse che lei era giovane, e che non voleva buttare all’aria la sua vita per salvare quella di un vecchio come me, e se ne andò.

- Non l’hai più rivista?

- No. Anche se dopo poco, il padrone mi lasciò andare…

- Cosa?

- Non so perché lo fece…Forse perché ero troppo vecchio per lavorare, o forse perché gli facevo pena. Tornai al mio villaggio, ma…niente era più come prima…

- Che intendi dire?

- Mia moglie si era risposata. E seppi che anche Natalie aveva trovato marito. Non c’era più nessuno ad aspettarmi, così ritornai qui. Da allora, lavoro qui come domestico.

Catherine non rispose, sinceramente colpita. Pensò che, se quella notte in cui aveva ritrovato suo padre lei avesse rifiutato di prendere su di sé la colpa della rosa, probabilmente la stessa cosa sarebbe accaduta anche al mercante. Si ritrovò ad odiare profondamente la figlia di Ernest, mentre il padrone cominciava ad apparirle sotto una luce nuova, più umana.

- Il padrone non è poi tanto male, Catherine - ripeté Constance.

- Allora perché si comporta così?- disse la ragazza.- Perché ci maltratta sempre tutti quanti? Perché mi tiene rinchiusa qui dentro?

- Non credo lo faccia apposta…- provò a giustificarlo Constance.- Sai, tu e tuo padre siete state le prime persone, a parte noi, che ha incontrato dopo ben dieci anni…E’ normale che dopo tutto questo tempo abbia dimenticato un po’ le buone maniere…Ma ti assicuro che prima non era così…

- Prima di che cosa?- incalzò Catherine, curiosa.

- Beh, prima che suo padre si ammalasse…

- Suo padre?

- Il vecchio padrone, pace all’anima sua…E poi prima che succedesse…

Constance non terminò la frase, bloccata da una smorfia di dolore; Catherine notò che Ernest le aveva sferrato un calcio da sotto il tavolo.

Dopo qualche minuto di silenzio, Peter iniziò a chiacchierare di quello che aveva fatto durante le sue passeggiate nel bosco alla ricerca di frutta, e l’argomento precedente venne dimenticato.

A Catherine non restò che tacere di malavoglia, finendo ciò che restava del pranzo.

 

***

 

Un rombo di tuono spezzò il silenzio della notte; poco dopo, un fulmine squarciò il cielo a metà. Rosalie, rintanata sotto le coperte della sua stanza, ascoltò la pioggia che incominciava a cadere e il vento che ululava fra le foglie degli alberi. La ragazzina avrebbe dovuto dormire già da un pezzo, ma i suoi grandi occhi scuri erano ancora aperti e bene attenti.

Rosalie udì l’orologio a pendolo nel corridoio suonare la mezzanotte.

E’ ora, pensò, scostando le coperte e alzandosi dal letto.

Raggiunse a tentoni nel buio la porta della sua camera; l’aprì, iniziando a percorrere il corridoio deserto immerso nell’oscurità, camminando in punta dei piedi nudi, cercando la stanza di suo padre.

Dopo giorni e giorni passati con le mani in mano, la ragazzina aveva preso una decisione: voleva vedere suo padre, doveva vedere suo padre.

Lydia aveva detto che, a furia di starsene chiuso in quella stanza, si sarebbe ammalato; e così era stato. Lady Julia l’aveva annunciato con apparente tristezza, ma cercando comunque di rassicurarla.

- Tuo padre è malato, Rosalie - le aveva detto.- Ma presto starà meglio, vedrai.

Rosalie avrebbe tanto voluto crederci, ma sentiva che c’era qualcosa che non quadrava. Lady Julia non aveva permesso a nessuno, nemmeno ai suoi figli, di entrare nella stanza del malato neppure per qualche minuto, giusto il tempo di salutarlo.

La porta del mercante continuava a rimanere chiusa, e nessuno poteva entrare nella sua camera. Nessuno, nemmeno il dottore.

Già, pensò Rosalie, Lady Julia non aveva neppure voluto che si consultasse un medico.

- Il mio terzo marito era un dottore - aveva detto.- Ho imparato parecchio, penserò io a lui.

La matrigna forse aveva qualche conoscenza in fatto di medicina, si disse Rosalie, ma l’unica cosa che la ragazzina sapeva era che suo padre non dava segni di miglioramento.

Le mancava sua sorella. Catherine avrebbe certamente saputo cosa fare, in quella situazione. Ma ora Cathy era morta, e toccava a lei prendersi cura della sua famiglia.

Trovò la maniglia della porta e l’aprì, ritrovandosi nella stanza di suo padre; da che si era ammalato, lui e Lady Julia dormivano in stanze separate, e Rosalie era infinitamente sollevata per questo. Aveva deciso di agire di notte perché sapeva che, se la matrigna l’avesse scoperta, allora sarebbero stati guai seri. Ora Lady Julia stava dormendo.

Un altro lampo squarciò il cielo, illuminando la figura del mercante, disteso nel letto sotto un cumulo di coperte. Rosalie si avvicinò a lui, titubante. Il mercante stava dormendo, ma stava vivendo un sonno inquieto; continuava ad agitarsi fra le lenzuola e a mugolare qualcosa di incomprensibile nei sogni, mentre la fronte e il cuscino erano impregnati di sudore.

- Papà?- chiamò Rosalie, a bassa voce.

Il mercante non rispose, continuando a dimenarsi nel sonno.

- Papà?- ripeté la ragazzina, prima che un altro lampo illuminasse di nuovo la stanza. L’attenzione di Rosalie venne attirata da un bicchiere vuoto posato sul comodino accanto al

letto. Doveva contenere una delle “medicine” che Lady Julia somministrava regolarmente al mercante. Rosalie la prese in mano con attenzione, esaminandola accuratamente. Dentro c’era ancora un residuo di un liquido violaceo; la ragazzina accostò il viso al bicchiere, inspirandone l’odore. Era un odore strano, mai sentito prima, secco e violento, come di un acido.

Il mercante ebbe un fremito, svegliandosi di soprassalto.

- Papà?- chiamò nuovamente la ragazzina.

Il mercante si riscosse, puntando lo sguardo stanco e stralunato sulla figlia minore.

- Rosalie…- mormorò, con un debole sorriso.

- Papà, come ti senti?- sussurrò Rosalie.

Il mercante ansimò.

- Lei…- disse, in un soffio.

- Lei, chi?

- Tu!

Rosalie sobbalzò per lo spavento, facendosi scivolare di mano il bicchiere che cadde a terra tintinnando. Si girò; alle sue spalle, vestita solo di una leggera camicia da notte con una vestaglia di pizzo, sulla soglia della porta, c’era Lady Julia.

I suoi occhi lasciavano intravedere tutta la sua stizza, ma quello che colpì di più Rosalie fu il medaglione con il rubino rosso sangue che scintillava nell’oscurità.

- Che cosa ci fai tu qui?- disse, sibilando.

- Io…

- Ti avevo detto di non entrare qui dentro!- Lady Julia si diresse verso di lei con passo svelto, l’afferrò malamente per un braccio, trascinandola fuori dalla stanza. Il mercante emise un debole gemito, prima che la porta si chiudesse.

Lady Julia trascinò Rosalie lungo tutto il corridoio, mentre la ragazzina tentava disperatamente di liberarsi.

- Lasciatemi!- gridò.- Lasciatemi! E’ mio padre, ho il diritto di vederlo!

- Decido io cosa puoi o non puoi fare, mocciosa!

- E’ malato!- protestò Rosalie.- E’ malato, ha bisogno di un dottore!

- Penso io a lui. E ora, fila subito a letto!

Lady Julia non attese replica, spalancando la porta della camera di Rosalie e spingendovi dentro la ragazzina.

Non appena rimasta sola, Rosalie si gettò sul letto, iniziando a singhiozzare.

Lady Julia estrasse una chiave da una tasca della vestaglia e chiuse la serratura della stanza. Per quella sera, quella mocciosa non sarebbe più andata da nessuna parte.

La donna si appoggiò al muro, sospirando.

C’era veramente mancato poco…

Lady Julia sapeva che avrebbe dovuto trovare una soluzione per liberarsi di Rosalie, e alla svelta.

Rosalie non aveva l’acume e la perspicacia di Catherine, e senza dubbio possedeva un carattere più mite e remissivo di quello della sorella, ma ciò non le impediva di rivelarsi comunque una gran rompiscatole.

Quando aveva deciso di avvelenare il mercante, Lady Julia non aveva pensato a lei. Ora che ci rifletteva con più calma, quando suo marito fosse morto – cosa che lei sperava accadesse il più presto possibile – Rosalie sarebbe rimasta sola, e avrebbe avuto bisogno di un tutore. Henry, lui, aveva vent’anni, se la sarebbe potuto cavare da solo, ma quella ragazzina petulante di anni ne aveva tredici, e qualcuno si sarebbe dovuto occupare di lei.

E lei, Lady Julia, in qualità di matrigna, avrebbe dovuto addossarsi questo fardello.

Ma no. No, lei non aveva nessuna intenzione di farsi scombinare i piani da una marmocchia che non era neppure sua figlia. Senza contare che quella piccola vipera stava diventando troppo curiosa; quella stessa sera per poco non aveva scoperto cosa aveva fatto a suo padre.

Doveva trovare il modo di liberarsi di lei, ma non poteva farlo con la magia. Se l’avesse fatta ammalare, la cosa sarebbe risultata troppo sospetta; anche ucciderla con le proprie mani non sarebbe stata un’azione prudente, non con tutti gli omicidi che si era già lasciata alle spalle.

Doveva trovare un’altra soluzione. Ma l’avrebbe trovata.

Dopo aver sistemato suo padre, si sarebbe sbarazzata anche di Rosalie.

 

***

 

Catherine si sentiva bene.

Il giovane dagli occhi azzurri le sorrideva, mentre le accarezzava dolcemente una guancia. La ragazza chiuse gli occhi, ma quando li riaprì vide che la mano calda e morbida del giovane si era tramutata in una zampa ibrida con degli artigli affilati per unghie, che le lasciava una riga di sangue sulla guancia. Sollevò lo sguardo, per incontrare gli occhi febbrili di Lord William.

Si svegliò di soprassalto, lanciando un breve grido che presto si disperse nel nulla, sostituito dal rumore sordo di un tuono.

Catherine respirò affannosamente, cercando di riacquistare un minimo di calma e di autocontrollo. Era uno degli incubi peggiori che avesse mai avuto, senza dubbio. Si ricordò di quando era una bambina e si risvegliava in lacrime nel cuore della notte dopo un brutto sogno.

Un sogno, per quanto brutto, non può farti del male, le parve di risentire la voce dolce e rassicurante di sua madre nelle orecchie.

Aveva ragione, si disse Catherine, un brutto sogno non è altro che un brutto sogno, niente di più.

Sentì un altro tuono, poi vide la luce di un fulmine; si rimise sotto le coperte, tentando di riprendere sonno, ma non ci riuscì. Si girò e rigirò fra le lenzuola per un’ora, ma i rumori del temporale, misti al nervosismo che le aveva lasciato addosso quel sogno terribile, le impedivano di riaddormentarsi.

Sentiva la gola secca, aveva bisogno di bere un po’ d’acqua.

Si alzò dal letto, posando con cautela il piede dolorante, quindi si mise addosso una vestaglia. C’era una candela con dei fiammiferi, sul comodino; Catherine la prese e l’accese, cominciando ad avviarsi lungo il corridoio, zoppicando leggermente.

Tentò di trovare lo scalone, ma al buio era molto più difficile orientarsi in quell’immenso maniero. Le ombre gettate dalla luce della candela illuminavano le statue di mostri e gargoyle che tappezzavano l’intero castello, marcando le loro fauci spalancate e rendendo un’atmosfera inquietante, quasi come se quelle sculture stessero per prendere vita da un momento all’altro e avventarsi contro di lei.

La ragazza indietreggiò, indecisa sul da farsi. Non riusciva a dormire e aveva bisogno di un po’ d’acqua, ma se non stava attenta rischiava di perdersi in quel luogo lugubre fino alla mattina seguente.

- Che ci fai ancora sveglia?- fece una voce, da lontano.

Catherine sobbalzò, e la fiamma della candela ebbe un guizzo. La ragazza si sporse un po’ più avanti, scorgendo che, poco distante da lei, una porta semichiusa lasciava intravedere un barlume di luce nella stanza.

- Allora?- incalzò la voce, stanca, quasi annoiata.

Proveniva dalla stanza.

Catherine si avvicinò, aprendo timorosa la porta. Aveva riconosciuto la voce, non aveva dubbi su chi si sarebbe trovata di fronte. E infatti, a parlare era stato proprio il padrone.

La stanza era abbastanza ampia, anche se era difficile dirlo, dato che l’unica fonte di luce proveniva da due candele, una retta in mano da Catherine, l’altra posata su un tavolino al centro della camera. La ragazza riuscì a scorgere tre scaffali, uno per ogni parete della stanza, sui quali erano sistemati in bell’ordine centinaia di libri. Catherine rimase immobile, imbambolata sulla soglia della porta, mentre il padrone la scrutava con aria insieme critica e annoiata.

Era seduto su di una poltrona color rosso porpora, del tutto simile ad un’altra che stava accanto al tavolino di fronte a lui. La prima cosa che Catherine notò fu che non indossava più il mantello, ma una camicia, pantaloni e stivali neri. Le maniche della camicia erano un po’ rimboccate e lasciavano vedere gli avambracci e le mani bestiali.

- Che fai ancora in piedi?- domandò il padrone, chiudendo con un colpo secco il libro che teneva in mano e posandolo sul tavolino di fronte a sé.

- Io…non riuscivo a dormire - ammise Catherine, non sapendo cosa fare, se andarsene o se rimanere lì in piedi sulla porta.

- Il temporale?- fece il padrone.

- Sì.

- Beh, neanch’io dormo molto, la notte.

Fece una pausa, distogliendo brevemente lo sguardo, per poi puntare subito gli occhi di gelido azzurro su di lei.

- Ti andrebbe di tenermi compagnia?- domandò, indicandole la poltrona di fronte a sé.

Catherine rimase in dubbio per un attimo, quindi annuì con vigore, un po’ timorosa; posò la candela accanto all’altra sul tavolino, quindi si sedette, rigida, visibilmente a disagio.

Il mostro non parlava, limitandosi a scrutarla con quegli occhi azzurro ghiaccio; lei iniziò a guardarsi intorno, un po’ per fare qualcosa e un po’ per non dover sostenere lo sguardo del padrone.

- E’ una libreria, questa?- chiese dopo poco.

- Sì, è una libreria.

La ragazza abbassò lo sguardo sul libro che era rimasto abbandonato sul tavolino.

- Che cos’è?- chiese.

- Un libro che sto leggendo. A dire il vero, non è la prima volta che lo leggo, ma la storia non mi dispiace...

- Posso?- Catherine indicò il libro.

Il padrone fece un gesto di assenso con la mano.

La ragazza prese il volume fra le mani, leggendone il titolo: Notre Dame de Paris.

- Non l’ho mai letto - disse.- Di che parla?

- Parla di un mostro - spiegò il padrone, senza smettere di scrutarla.

- Un mostro?

Il padrone annuì.

- Un uomo deforme, orribile, che vive nascosto in una cattedrale - continuò il padrone.- Un giorno salva da morte certa una zingara, perseguitata da un malvagio arcidiacono, e s’innamora di lei.

- E lei ricambia?- chiese Catherine, pur intuendo già la risposta.

Il padrone, infatti, scosse piano il capo.

- E’ innamorata di un altro - disse.- E lui è talmente orrendo che lei non riesce neanche a guardarlo in faccia.

Il padrone sollevò lo sguardo, puntando i propri occhi azzurri in quelli verdi di Catherine; si aprì in un beffardo sorriso a denti aguzzi.

- Tu non sei ancora arrivata a questo punto - ghignò.- Riesci a sostenere lo sguardo di un mostro.

Catherine non sapeva che rispondere; si sentì avvampare lentamente, mentre il padrone, tornato serio, aveva ripreso a scrutarla.

- Di’ qualcosa - fece il padrone, dopo un po’ che Catherine stava in silenzio.- Parlami di te.

Catherine, se possibile, si trovò più in imbarazzo di prima.

- Cosa…cosa volete sapere?- balbettò infine.

- Qualcosa che non so già. Ti chiami Catherine Kingston, hai diciotto anni e tuo padre è un mercante. E’ tutta qui la tua vita?

- Perché v’interessa sapere qualcosa della vita di una serva?- domandò Catherine, con una lieve punta di sfida.

Il padrone fece una breve risata.

- Ecco un’altra cosa che so di te. Hai una buona parlantina - ghignò.

- Si potrebbe dire lo stesso di voi - rispose Catherine, con una piccola smorfia.

Il mostro non rispose; distolse brevemente lo sguardo, picchiettando nervosamente con le dita artigliate sul bracciolo della poltrona.

- Non saprei dirlo - rispose infine.- Non parlo con un’altra persona da…da parecchio tempo, ormai…

Catherine abbassò lo sguardo; il padrone sembrava a disagio, ora.

- E…la caviglia ti fa ancora male?- chiese d’un tratto il mostro.- Ho visto che riesci a camminare…

- Sì. Domani potrò tornare al lavoro.

- No, io non…- si affrettò a dire il padrone, sporgendosi un poco verso di lei.- Non…non intendevo dire questo, io…Maledizione!- imprecò a mezza voce.

Benché fosse l’ultima cosa che avesse voluto, Catherine si ritrovò a provare pena per lui, mista anche ad un briciolo di simpatia.

- Io volevo solo sapere come stavi, tutto qui…- riuscì a dire infine il mostro.- Non era certo per rimproverarti o altro, era solo per…insomma, io volevo solo essere…

- …gentile?- l’aiutò Catherine, con un guizzo divertito negli occhi.

- Sì. Sì, esatto.

Tornò il silenzio; stavolta era Catherine ad essere tranquilla e rilassata, mentre toccava al padrone sentirsi in imbarazzo. Il mostro tornò ad appoggiarsi allo schienale della poltrona, iniziando a guardarsi intorno nella stanza semibuia, visibilmente nervoso.

Fuori, il temporale era nel pieno della sua furia; Catherine stette ad ascoltare i tuoni e le gocce di pioggia che s’infrangevano contro le grandi vetrate del maniero.

- Ti piace leggere?- chiese d’un tratto il padrone, tornando a guardarla. Incurvò leggermente le labbra in una smorfia che voleva essere un sorriso.

- Oh, sì!- confermò Catherine, sorridendo.- Sì, adoro leggere. Penso che sarei capace di leggere tutti i libri che ci sono qui dentro…- aggiunse, indicando gli scaffali colmi di volumi.- E voi?

Anche il mostro sorrise, ora visibilmente più rilassato.

- Sì, anche a me piace molto. Anche se devo ammettere di aver un po’ trascurato i libri, in questi anni…

- Ma come?- ridacchiò Catherine.- Se quando sono entrata stavate proprio sfogliando questo…tomo!- e indicò lo spessore del libro.

- Sì, ma questa è una lettura che ho sperimentato già diversi anni fa. Non leggo nulla di nuovo da parecchio, ormai…- rispose il padrone, in tono di scuse, ma senza smettere di sorriderle.

- Beh, non è che vi siate perso molto - disse Catherine.- In questo periodo è davvero difficile trovare degli scrittori siano in grado di fare il loro mestiere. Mio padre mi regalava sempre dei libri, quando tornava dai suoi viaggi, ma io sono di gusti difficili. Era molto raro che una storia mi piacesse davvero…

- Che genere di storie preferisci?- domandò il mostro, interessato.

- Oh, beh, non c’è un genere in particolare…diciamo che mi piacciono le storie un po’ diverse dalle altre…Qualcosa di diverso dal solito principe azzurro che salva dal drago la damigella oca che è solo capace di svenire ad ogni momento, avete presente?

- Sì - rise il mostro.- Sì, ne ho lette parecchie di quel tipo…

- E a voi cos’è che piace leggere?

Il padrone fece spallucce.

- Io leggo di tutto, anche se ormai conosco a memoria tutti i libri di questo castello - rispose.- Non ho preferenze, vorrei solo poter leggere qualcosa di nuovo…

- Conoscete Il conte di Montecristo, di Dumas?- chiese Catherine.

Il mostro la guardò, stupito.

- Veramente no.

- Sul serio?- fece Catherine.- Volete dirmi che non conoscete Edmond Dantès?

- Edmond Dantès?

- E’ il protagonista del romanzo. Gran libro, parola mia. E’ una storia assolutamente meravigliosa, parla di un tradimento, poi vendette, duelli…C’è anche una storia d’amore, ma alla fine lui ha il buon senso di mandarla al diavolo, quella Mercedes, perché nel frattempo ha conosciuto una schiava che…- Catherine si bloccò, sollevando lo sguardo sul padrone.- Scusatemi…- mormorò, vergognosa.- Non intendevo annoiarvi, io…

- No, no!- si affrettò a dire il padrone.- No, non mi stai affatto annoiando. Mi piace sentirti chiacchierare…- ammise.

Il temporale era cessato; mancavano solo poche ore all’alba.

- Beh, sarà meglio che me ne torni a letto…- sorrise Catherine, alzandosi dalla poltrona e prendendo la candela ormai quasi consumata. Il padrone si alzò insieme a lei.

- Grazie per essere rimasta qui con me, Catherine…- disse.

- Grazie a voi, io…

- No - la bloccò il padrone.- Per favore, dammi del tu, d’ora in avanti. Il voi non mi è mai piaciuto - ammise, con una smorfia.

Catherine sorrise.

- Va bene, allora. Grazie a te.

- Catherine - disse d’un tratto il mostro.- Io…volevo dirti che l’ho trovato piacevole…chiacchierare con te, intendo. E mi chiedevo…mi chiedevo se non ti andasse di farlo più spesso…

- Certo! Certo, molto volentieri - rispose Catherine, con entusiasmo.

- Potremmo leggere qualcosa insieme, se ti va…Potresti finire di raccontarmi la storia di Edmond Dantès…- fece il mostro, con un sorriso.

- Con molto piacere. Solo…- Catherine gettò un’occhiata al libro Notre Dame de Paris, rimasto sul tavolino.- Non è che uno di questi giorni mi presteresti quel romanzo? Sai, sono curiosa di sapere come va a finire fra il mostro e la zingara…

Il padrone sorrise, prendendo il libro dal tavolino e porgendoglielo gentilmente.

- Ecco qui. Ti avverto, però, potresti trovarlo un po’ triste…

- Lo scoprirò presto - rispose Catherine, prendendo il libro dalle mani del mostro.

Il padrone si scostò, aprendo la porta in modo che la ragazza potesse uscire dalla stanza.

- Grazie. Allora, buona notte - disse Catherine, timidamente.

- Buona notte.

La ragazza uscì dalla stanza, dirigendosi verso la propria. Era quasi l’alba, non aveva chiuso occhio praticamente per tutta notte, ma stranamente non si sentiva affatto stanca. Appoggiò la candela spenta sul comodino e si stese supina sul letto. Aprì Notre Dame de Paris e iniziò a divorare una riga dietro l’altra; senza rendersene conto, Catherine non aveva mai smesso di sorridere da che era uscita dalla libreria.

Questo la ragazza non lo sapeva, ma a pochi metri da lei, mentre scrutava il sole che sorgeva sulla foresta, anche sul viso mostruoso del padrone era comparsa l’ombra di un sorriso.

 

Angolo Autrice: Rieccomi qui più veloce di una faina con questo nuovo capitolo! XD. Dunque, ammetto che sia un bel po’ lungo (su Word mi da ben 11 pagine!), e di averci messo parecchia carne al fuoco, ma, diciamocelo gente, sono al nono capitolo e ancora la vicenda è nel pieno del suo svolgimento, se poi mi prendo anche il lusso di tirarla per le lunghe, questa avrà almeno 500 capitoli! Comunque, spero non sia risultato troppo confusionario…

Allooora…ho girovagato per un po’ su Internet alla ricerca di immagini che rimandano (e sottolineo rimandano J) vagamente a come potrebbero essere i personaggi della mia storia.

Diciamo che il mercante potrebbe essere più o meno così:


 


 

Qui è Anthony Head che interpreta “Uther Pendragon” nella serie Merlin. So che dopo aver messo l’immagine di Morgana ad indicare Catherine questa scelta potrebbe essere banale, ma ci sono dei motivi per cui l’ho fatto.

Innanzitutto, almeno nella prima serie, mi è sempre piaciuto il rapporto che ha Uther con la sua figlia adottiva (anche se poi era sua figlia davvero!), e anche Catherine e il mercante hanno un rapporto molto speciale fra di loro…Secondo motivo, volevo un po’ sfatare, nella mia storia, l’idea che il padre della Bella fosse un vecchietto debole e malaticcio, mentre il padre di Cathy (come spero si sia capito) non è affatto così. Nella mia ff, il mercante è un uomo non più giovane, ma comunque molto forte, anche se un po’ sfortunato, e Uther Pendragon mi sembrava ideale per “impersonare” lui…

Veniamo quindi a Rosalie:


 


 

Rosalie, alias Abigail Breslin. Che vi devo dire, a me quest’attrice piace molto, e la sorella di Cathy le somiglia parecchio…Chiaramente, nessuno dei miei personaggi è uguale e identico a quelli delle immagini, è sempre solo per dare un’idea, dato che nelle descrizioni faccio schifo…

Dunque, a proposito di Rosalie…come si è visto, la piccola Kingston ha cominciato a rompere le scatole a Lady Julia, e la matrigna non è affatto un tipo che subisce…che avrà in mente per lei? E il mercante riuscirà a salvarsi o cadrà vittima dell’incantesimo della moglie?

Nel frattempo, Lord William sta dimostrando tutta la sua ossessione per Catherine, e ora ha deciso di mettere in atto il suo piano. Fin dove si spingerà la sua follia?

Ora, Cathy e il padrone sembrano aver trovato un po’ di simpatia l’uno per l’altra…come si evolveranno le cose?

Tutto questo lo scopriremo molto presto!

Nell’attesa, spero non troppo lunga, ringrazio Chococat97 per aver aggiunto questa ff alle seguite, Halley Silver Comet per averla aggiunta alle seguite e per la sua recensione, e nadlehe, missballerinafb ed Ellyra per aver recensito.

Grazie per aver letto, ci vediamo al prossimo capitolo!

Ciao a tutti,

Dora93

 

 

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Capitolo 11
*** Che la partita abbia inizio! ***


 

Catherine si era ripromessa di ritornare al lavoro il giorno seguente, ma così non fu. La nottata passata quasi del tutto in bianco l’aveva sfinita. Si era addormentata all’alba, reggendo ancora Notre Dame de Paris fra le mani, e aveva continuato a dormire per buona parte della giornata.

Si svegliò solo verso le quattro passate del pomeriggio, quando Constance entrò nella sua stanza.

Catherine aprì gli occhi di colpo.

- Oh, scusa, non volevo svegliarti - si scusò la donna, senza smettere di riporre nell’armadio un abito dopo l’altro.

- Constance…- mugolò Catherine, con la voce impastata e la gola secca.- Constance, ma che ore sono?

- Quasi le cinque del pomeriggio.

- Che cosa?!- scattò su Catherine.- Mamma mia, ma quanto ho dormito? Perché nessuno mi ha svegliata?

Constance fece spallucce, senza smettere il suo lavoro.

- Sei convalescente, puoi dormire quanto vuoi…- rispose.

- Non sono più convalescente!- protestò Catherine.- Il padrone mi voleva al lavoro, stamattina.

- Credimi, se davvero il padrone avesse voluto così, allora sarebbe venuto di persona a buttarti giù dal letto.

- Ma…- iniziò la ragazza, ma il suo sguardo cadde su un grande baule marrone ricolmo di abiti, che Constance stava riponendo ordinatamente nell’armadio della sua stanza.- Constance, che stai facendo?

- Ordini del padrone - rispose la donna.- Mi ha ordinato anche di riferirti che questi abiti d’ora in avanti sono tuoi.

- Cosa?- Catherine strabuzzò gli occhi, incredula.- Mi stai prendendo in giro?

- Certo che no! Il padrone ha detto anche di dirti che stasera cenerai con lui.

- Oh…- non trovò niente di meglio da dire Catherine.

In realtà, ci sarebbero state parecchie cose che avrebbe voluto dire. Del tipo, chiedere a Constance se per caso sapesse che cosa fosse preso al padrone e come dovesse interpretare questo improvviso cambio di rotta di cui aveva avuto un assaggio la notte prima.

- Constance - mormorò Catherine.- Perché tutto questo?

- Questo, cosa?

- Insomma, niente lavoro, i vestiti…ieri…dove vuole arrivare il padrone, con questo?

Constance la guardò, sospirando.

- Non lo so, Cathy. Anche se, a dire il vero, una mezza idea ce l’avrei…- aggiunse poi, con un mezzo sorriso.

- Che cosa?- fece Cathy, sporgendosi verso di lei.

Constance chiuse in fretta l’armadio, scostandosi da esso.

- Beh, è evidente che ha una grande considerazione di te, e non mi stupirei affatto se…

Crack!

Constance ammutolì, abbassando lo sguardo sul proprio vestito che, impigliatosi fra le ante dell’armadio, ora presentava un lungo spacco sulla gonna già rattoppata.

- Oh, per tutti i diavoli dell’Inferno!- imprecò rabbiosamente Constance, liberando quel che restava dell’abito dal punto in cui si era impigliato.

Catherine si alzò velocemente, dando un’occhiata al vestito; nonostante ora avessero cibo e legna, i domestici avevano comunque mantenuto gli stessi abiti, sempre pulitissimi, ma vecchi, logori, tutti stracciati e tenuti insieme con un’infinità di toppe e cuciture. Ernest indossava sempre la solita camicia cascante, Peter il più delle volte se ne andava in giro scalzo con addosso degli abiti tutti bucherellati, mentre Constance, di abiti, ne aveva solo due o tre, compresa la camicia da notte, e il fatto che ora si fosse strappato era un bel guaio.

- Magari si può riparare, Constance…- provò a dire la ragazza, anche se, memore delle lezioni di cucito di Lydia, non ci sperava troppo.

- Lo posso ricucire, ma non durerà a lungo - disse infatti Constance.- E’ inutile, ormai è quasi da buttar via…Pazienza, finché il padrone non si deciderà a fornirci della stoffa…cercherò di farmelo durare fino a quando potrò - concluse infine, con un sospiro sbrigativo e rassegnato al tempo stesso.- Su, basta perderci in chiacchiere, adesso. C’è del lavoro da fare - aggiunse subito, riprendendo la sua solita aria affaccendata.

Catherine la osservò dirigersi verso la porta.

- Indossa uno di quegli abiti, stasera. E sta’ serena - aggiunse, con un sorrisetto sghembo, prima di uscire.

Rimasta da sola, Catherine spalancò le ante dell’armadio, ritrovandosi di fronte ad almeno venti abiti meravigliosi ed eleganti. La ragazza ne sfiorò uno con la punta delle dita. Da brava figlia di mercante, aveva imparato a riconoscere le varie stoffe, quindi non le fu difficile capire di cosa fossero fatti quei capi: pizzo, taffetà, seta, broccato, velluto…Tutt’altra cosa dal vestito da lavoro di stoffa povera e grezza pieno di strappi e rattoppature che aveva indossato sino al giorno prima.

Il padrone non faceva altro che confonderla sempre di più ogni giorno che passava.

Per un intero mese si era comportato come un tiranno, per poi salvarle la vita quando aveva tentato di scappare; i suoi sbalzi d’umore la spaventavano ancora un po’, benché la notte precedente fosse rimasta piacevolmente sorpresa dal suo comportamento.

E ora questo.

Catherine gettò un’occhiata all’orologio. Le cinque e mezza. La cena sarebbe stata servita per le nove. Meno di quattro ore, prima di ritrovarsi faccia a faccia con il mostro.

 

***

 

Catherine continuava a torcersi le mani da mezz’ora, ormai. Lanciava in continuazione occhiate furtive al vecchio orologio a pendolo del corridoio, in piedi di fronte alla sala da pranzo.

Aveva una gran voglia di entrare e di mettere fine a quel supplizio, ma era terrorizzata al pensiero che, anche solo per una minima mancanza, il padrone sarebbe andato su tutte le furie.

Catherine aveva fatto come le aveva detto Constance. Fra tutti gli abiti aveva scelto quello più semplice, un vestito da sera azzurro con il corpetto ricamato con sottili fili dorati e la gonna stretta, e aveva acconciato i capelli in un’anonima treccia.

Quando l’orologio a pendolo suonò le nove, Catherine prese un bel respiro e spinse in basso la maniglia della porta, entrando nella sala.

Il padrone era già lì.

Era seduto a capotavola, ma non appena la vide entrare si alzò in piedi, piegando lievemente il capo in segno di saluto. Catherine sorrise in risposta, prendendo posto alla sua sinistra.

Non appena si sedette, la ragazza sentì che tutto il suo nervosismo e la sua ansia erano svanite come per magia. Passato il momento dell’attesa, ora si sentiva tranquilla, rilassata e perfino allegra.

- Vedo che ora riesci a camminare come prima…- osservò il padrone.

Era sempre vestito di nero, ma senza il mantello e senza guanti.

Catherine annuì.

- La caviglia non mi fa più male.

- Mi fa piacere. Hai sete?- chiese il padrone, facendo per versarle del vino.

Catherine rifiutò gentilmente.

- Preferirei dell’acqua, per favore…

- D’accordo.

Il padrone le versò dell’acqua nel bicchiere.

- Sei astemia?- domandò poi.

- Non proprio. Bevo vino solo nelle occasioni importanti. Per il resto del tempo, cerco di evitarlo. Non lo reggo molto bene, e mi terrorizza il pensiero di finire distesa per terra come mio fratello quella volta alla festa di Natale di un nostro cugino…- disse Catherine.- Pensa che aveva bevuto così tanto che alla fine era crollato addormentato sul tappeto. Non ti dico l’imbarazzo! Quella volta ho proprio creduto che la mia matrigna sarebbe morta per la vergogna, sai, lei tiene molto all’apparenza e al buon nome, e il pensiero che gli altri possano ridere di lei…Oh, scusa, sto parlando troppo?- si bloccò, scoccando un’occhiata al padrone.

- E’ la seconda volta che me lo chiedi - disse il mostro, con un sorriso sghembo.- Non ti ho detto niente, perché hai paura di parlare troppo?

- Beh…la mia matrigna sostiene che non so tenere la bocca chiusa. Chiacchierare troppo non si addice ad una signorina!- disse la ragazza, parlando in falsetto, facendo il verso a Lady Julia.

Il padrone fece una breve risata.

- Ammetto di non essere molto d’accordo con la tua matrigna - disse.- A me piace sentirti parlare. Senza contare che finalmente so qualcosa di più su di te. Hai detto di avere un fratello, giusto?- chiese, incoraggiandola a continuare.

Catherine annuì.

- Sì, ha due anni più di me. Ho anche una sorella minore, si chiama Rosalie. E tu?

Il padrone la guardò, stranamente sorpreso.

- Io?

- Non posso parlare sempre io!- rise Catherine.- Andiamo, dimmi qualcosa di te! Io ti ho parlato della mia famiglia, ora vorrei sapere qualcosa di più sulla tua…

Il padrone sorrise, abbassando lo sguardo, un po’ in imbarazzo.

- Io…beh, c’è poco da dire. Non ho una famiglia, come penso avrai capito.

- Non hai fratelli o sorelle?- chiese Catherine.

Il padrone scosse il capo.

- No, mai avuti.

- E i tuoi genitori?

- I miei genitori…beh, mia madre è morta quand’ero piccolo…

- Scusa!- disse Catherine, in fretta.

La ragazza s’incupì, di colpo concentrata solo su quello che aveva nel piatto.

- Perché ti scusi?- fece il padrone, sorpreso.

- Non volevo toccare un punto dolente. Scusami - ripeté Catherine.

- Ti riferisci a mia madre? Guarda che non è affatto un punto dolente - disse il padrone.- Me la ricordo a malapena. Non ci sto male, a parlare di lei. Dico sul serio.

- Come t’invidio…!- borbottò Catherine.

Il mostro si fece improvvisamente serio.

- Hai detto di avere una matrigna - disse.- Quindi, anche tua madre…?

Catherine annuì, pulendosi la bocca con il tovagliolo.

- Due anni fa. E mio padre si è risposato poco dopo con quell’oca della mia matrigna.

- Mi pare di capire che non nutri molta simpatia per lei…- sorrise il padrone.

- Hai presente una gallina tirata a lucido?- rise Catherine.- Ecco, quella è la mia matrigna!

Il padrone rise, ma a Catherine la sua risata a denti aguzzi suonò stranamente amara.

- Sì, ne so qualcosa, di matrigne…- disse poco dopo.

- Anche tu ne hai avuta una?- chiese Catherine.

Il mostro non rispose, evitando il suo sguardo.

- Scusa, ma preferirei non parlarne…- sussurrò.

Catherine non disse nulla.

Rimasero in silenzio per qualche minuto; poi, la ragazza si decise a rompere il ghiaccio.

- Parliamo di cose un po’ più allegre - propose.- Ad esempio di vestiti.

- Vestiti?- fece eco il padrone, sollevando lo sguardo su di lei.

Catherine annuì, sporgendosi verso di lui, appoggiando il mento su una mano.

- Perché mi hai regalato tutti quegli abiti?- domandò.

Il padrone cercò di assumere un’aria noncurante.

- Perché…perché ho visto come erano ridotti i tuoi vestiti e ho pensato che fosse ora di rimediare, tutto qui.

- Solo per questo?- insistette Catherine, poco convinta da quella risposta.

- Non è un motivo sufficiente?

- Non dopo un mese in cui non te ne sei minimamente curato.

Il padrone non rispose. Entrambi ripiombarono nuovamente nel silenzio per qualche minuto.

- Dimmi la verità - disse infine Catherine, seria.- Perché mi hai salvato la vita, quella notte?

Il mostro non rispose subito; si guardò intorno per diversi secondi, prima di puntare i suoi occhi di ghiaccio in quelli verdi della ragazza.

- Nessuno aveva mai cercato di scappare da qui, prima…- disse.- Nessuno. Quando te ne sei andata, io…non lo so, credo di essermi reso conto di aver esagerato. E quando ho visto quei due mascalzoni, quello che stavano per farti…

- Quindi - fece Catherine.- E’ per questo? La cena, la stanza, i vestiti…tutto questo è per farti perdonare?

- No…insomma, sì, è anche per questo, ma…quello che voglio dire è che…che mi dispiace, Catherine…- riuscì a dire infine.- Mi dispiace di averti trattata male. E se c’è qualcosa, qualunque cosa che desideri, non devi fare altro che chiederlo.

Catherine non rispose, ma abbassò lo sguardo sulle proprie mani.

Quello che voleva veramente, tornare a casa dalla sua famiglia, sapeva che lui non gliel’avrebbe mai concesso. Ma forse c’era qualcos’altro che poteva chiedere…

- Io…io vorrei…se non ti è di troppo disturbo…vorrei della stoffa - disse infine.- Con ago e filo, per favore…

- Della stoffa?- ripeté il padrone.

Catherine annuì.

- Voglio cucire dei vestiti…voglio fare un regalo a…a degli amici…- spiegò la ragazza.

Il padrone non disse nulla, e per un momento lei temette che avrebbe rifiutato.

- Va bene - disse infine.- Manderò Ernest a comprarne un po’.

- Grazie - sorrise Catherine.

- Ti piace cucire, allora…- fece il padrone, con un sorriso sghembo.

Catherine scosse vigorosamente il capo.

- Per niente. Odio cucire, anche se Lydia dice sempre che sono molto brava…

- Chi è Lydia?

- La mia vecchia balia. E’ da quando sono piccola che m’insegna a cucire, ma io non sono mai riuscita a farmelo piacere…

- Strano. Di solito, quando si studia così tanto qualcosa, si finisce per appassionarsi…

- Prova a pungerti le dita ogni volta che prendi in mano un ago, e vedrai…

Parlarono del più e del meno per tutta la cena, fino a che, quando questa non fu finita, Catherine se ne andò a letto, congedandosi con un sorriso.

 

***

 

Non appena entrò nella sua stanza, Catherine notò che sul suo letto, chiuso, c’era Notre Dame de Paris. Aveva trascorso tutta la nottata a leggerlo, e l’aveva terminato.

Lo prese, rigirandoselo fra le mani. Il padrone gliel’aveva dato in prestito, e Catherine pensò che sarebbe stato gentile, da parte sua, riportarlo in libreria.

Quando entrò, la biblioteca era buia, ma la ragazza notò che sul tavolino era posata una lampada ad olio; l’accese, cominciando a cercare lo scaffale giusto per riporre il libro, ma presto la sua attenzione venne catturata dalle centinaia di titoli che riempivano gli scaffali.

Alla fine, la tentazione fu più forte di lei.

Non c’era nessuno, si disse, poteva anche permettersi di sfogliare qualche pagina per qualche minuto.

Si sedette su una delle poltrone, aprendo il libro che aveva preso dallo scaffale.

Iniziò a leggere avidamente, perdendo totalmente la nozione del tempo.

Si riscosse solo quando udì la porta aprirsi con uno scricchiolio. Sollevò di colpo gli occhi dal libro.

- Chiedo scusa - disse il padrone, ritraendosi leggermente.- Non era mia intenzione disturbarti. Per favore, continua.

Fece per andarsene, ma Catherine lo trattenne.

- Veramente - disse la ragazza.- Ero venuta a restituirti questo.

Prese Notre Dame de Paris e glielo porse.

Il mostro sorrise, sedendosi sulla seconda poltrona.

- L’hai già finito?- chiese, stupefatto.

Catherine annuì.

- L’ho letto tutto ieri notte. E’ una storia molto avvincente. Però, avevi ragione, è un po’ triste…- aggiunse.

- Quindi, non ti è piaciuto?

- Non ho detto questo. Solo…- Catherine cercò di trovare le parole adatte.- Insomma, secondo me la Esmeralda ha sbagliato!- esclamò infine.- Voglio dire, ha continuato ad essere infatuata di quel capitano fino alla fine, anche se lui la stava prendendo in giro, e non si è mai minimamente accorta che Quasimodo era innamorato di lei.

- Beh, è difficile ricambiare le attenzioni di un mostro, non credi?- fece il padrone, piegando lievemente il capo di lato.

- Ma lui gliel’aveva dimostrato in tutti i modi. Era l’unico, tra il prete e il capitano, che l’amava veramente…

- Tu credi?

Catherine annuì con vigore.

- Assolutamente sì. Quando lei è morta, non ha saputo resistere al dolore e si è lasciato morire anche lui. Tu questo come me lo chiami? Io dico che è amore, e di quelli veri.

Il padrone ridacchiò.

- Sì, forse hai ragione - si sporse un po’ verso di lei.- E ora, cosa stai leggendo?

Catherine gli mostrò il titolo scritto in copertina: Il Fantasma dell’Opéra.

- Lettura molto piacevole anche quella - commentò il padrone.- Anche se per certi versi è molto simile alla storia del gobbo e della zingara…

- Spero almeno che finisca meglio dell’altra!- esclamò Catherine, allegra.

- Beh, a dire il vero…

- Non dirmelo!- lo bloccò Catherine.- Non dirmelo. Odio quando mi si rivela il finale. Deduco che tu abbia letto anche questo…

Il padrone annuì.

- E’ vero, l’ho già letto. Ma mi farebbe comunque piacere rileggerlo insieme a te. A questo proposito…- aggiunse.- Volevo dirti una cosa…

- Che cosa?

Il mostro la guardò.

- D’ora in avanti non lavorerai più.

Catherine rimase interdetta.

- Come? Perché?- balbettò, incredula.

- Non riuscirei più a obbligarti a lavorare. Non dopo…- non terminò, incapace di continuare.

Catherine non disse nulla per qualche istante, poi mormorò:

- Io ti ringrazio. Sul serio, ti sono molto grata per questo. Ma…- aggiunse.- Ma ti prego, lascia che io faccia ancora qualcosa. E’ per via di Constance, Ernest e Peter…- spiegò.- Loro sono stati sempre molto gentili con me, e mi sentirei davvero in colpa nel vederli lavorare e io starmene a far nulla.

Il padrone ghignò, divertito.

- Sei molto più particolare di quanto pensassi…

- E’ un complimento?

- Forse…Facciamo così - disse il mostro.- Lavorerai un po’ solo la mattina. Per il resto della giornata…beh, puoi ritenerti libera. Anche se…

- Anche se?

- Anche se mi piacerebbe che tu volessi spendere qualche momento con me, di tanto in tanto - disse il padrone.- Mi riferisco alla proposta di ieri sera. Potremmo leggere qualcosa insieme, se ti va, oppure parlare un po’, o…

- Certo - disse Catherine, con un sorriso.- Con molto piacere. Se non ricordo male, l’altra sera ci eravamo interrotti parlando di un libro…

- Già, è vero - sorrise il padrone, appoggiandosi allo schienale della poltrona.- Cosa mi dicevi, a proposito di questo Edmond Dantès?

Parlarono a lungo, risero e scherzarono, e, quando venne il momento di andare a letto, Catherine si ritirò sentendo il cuore più leggero e un senso di serenità che non aveva provava da tempo.

 

***

 

All’interno del Leone d’oro c’era puzza di alcool, di chiuso e di aria viziata mista al fumo delle pipe e delle sigarette. Le imposte erano accostate, e praticamente nel locale regnava l’oscurità.

Come al solito, l’osteria era gremita di ubriaconi e perdigiorno, ma quel giorno la maggior parte dei clienti era accalcata attorno ad un tavolo a cui erano seduti due uomini.

L’uno, un giovanotto biondo sui vent’anni, con la camicia sbottonata sul petto e visibilmente alticcio, l’altro un uomo sui venticinque, con lunghi capelli castani e un sorriso simile ad un ghigno sulle labbra.

Henry si terse il sudore dalla fronte con una manica della camicia, mentre la prostituta che aveva pagato ridacchiava volgarmente nel suo abito scollato, standosene appollaiata sulle sue ginocchia. Il giovane si costringeva a pensare che sarebbe andato tutto bene, imponendosi di distogliere il pensiero dalla montagna di debiti che aveva sulle spalle.

Ancora una volta, si era lasciato prendere la mano, e aveva collezionato una sconfitta dopo l’altra, accumulando debiti sempre più numerosi che, si era reso conto troppo, non aveva il denaro per saldare.

Aveva accettato di giocare contro Lord William Montrose per disperazione; quella partita a poker era la sua ultima occasione, l’ultima possibilità che gli era concessa per rimediare a quello che aveva fatto.

Lord William teneva lo sguardo fisso su Henry Kingston, ghignando soddisfatto. Era praticamente certo di avere la vittoria in pugno: tutto, tutto era contro il suo avversario.

Lord William sapeva che Henry non aveva la mente lucida, era troppo preoccupato per i soldi che doveva restituire, e l’alcool che continuava a trincare non lo aiutava certo, anzi, rendeva la sua mente ancora più confusa e annebbiata, e i suoi riflessi meno attenti. Era ubriaco, praticamente rovinato, e con una sgualdrina dal seno scoperto seduta sulle sue ginocchia.

L’ideale per distrarlo e distogliere la sua attenzione dal gioco.

- Bene!- esclamò ad un tratto Henry, sforzandosi di apparire rilassato e sicuro di sé. - Direi che possiamo cominciare, non credete?

- Quando volete, Henry - rispose Lord William.

Fece un cenno ad un servitore, che iniziò a mescolare le carte. Un’altra prostituta si avvicinò a Lord William con l’intento di strappargli un bacio, ma lui la respinse con un gesto brusco e seccato della mano. Non voleva distrazioni, non in quel momento.

- Ah, dimenticavo, Henry!- esclamò d’un tratto.- Non avete stabilito la posta in gioco. Quanto siete disposto ad offrire?

- Un milione - rispose prontamente Henry.

Tutt’intorno si levarono mormorii di stupore e sconcerto. La prostituta di Henry gettò un gridolino di ammirazione, accarezzandogli la chioma bionda e guardandolo con aria sensuale e seducente.

Solo Lord William rimase impassibile.

- Un milione?- ripeté, calmo.- Ne siete certo, Henry?

- Assolutamente.

Giocarsi un milione a poker era una follia, questo Henry lo sapeva, così come sapeva anche di non possedere quella somma. Ma non poteva fare altro. Doveva vincere quella partita e quei soldi, per riuscire a saldare tutti i debiti. Non aveva altra possibilità.

- Molto bene, allora - sorrise Lord William.

Il servitore distribuì le carte. Henry iniziò ad osservare le proprie con occhi febbrili, mentre gocce di sudore gli imperlavano la fronte. Lord William gli gettò un’occhiata di sottecchi, mentre sulle sue labbra si disegnava il suo solito sorriso simile ad un ghigno.

Presto Catherine sarebbe stata sua.

Che la partita abbia inizio!

 

Angolo Autrice: Ciao a tutti, scusatemi tanto x il ritardo, la prossima volta cercherò di essere puntuale, promesso! J. Dunque, questo capitolo è molto più breve del precedente, e non succede granché di emozionante, ma spero comunque che vi sia piaciuto.

Comunque, ora l’atteggiamento del padrone nei confronti di Cathy ha cambiato completamente rotta…che succederà fra i due? Lo scopriremo presto J! Nel prossimo capitolo, inoltre, vedremo come andrà a finire la partita fra Henry e Lord William e cos’avranno in mente di fare lui e Lady Julia…J.

Quindi, vi do appuntamento al prossimo capitolo e ringrazio tutti coloro che leggono, in particolare Black Fairy per aver aggiunto questa storia alle seguite e per la sua recensione, marzo2000 per averla aggiunta alle seguite, jekikika96 per averla aggiunta alle preferite e per aver recensito, e Halley Silver Comet ed Ellyra per le loro recensioni.

Grazie a tutti x aver letto, ciao!

Dora93

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Capitolo 12
*** Il patto ***


 

Imbruniva, ma i clienti del Leone d’oro non potevano vedere il tramonto nel cielo autunnale.

Le imposte erano troppo accostate e, se anche così non fosse stato, la loro attenzione in quel momento era concentrata su tutt’altro spettacolo.

La partita andava avanti sin dalla mattina, e tutti coloro che non erano troppo alticci per capirlo si erano accorti già da un pezzo che il giovane Henry Kingston cominciava a dare segni di cedimento.

Continuava a tergersi il sudore dalla fronte e a inghiottire un sorso di vino dietro l’altro; Henry sperava che tutto quell’alcool l’avrebbe aiutato a sentirsi più sciolto e rilassato, ma in realtà non faceva altro che inebetire i suoi sensi, e i suoi occhi arrossati si facevano sempre più lucidi e febbrili.

Lord William, reggendo in mano le sue carte, fingeva di prestare attenzione alla partita, ma non riusciva a reprimere il ghigno soddisfatto che gli si dipingeva sulle labbra ogni volta che osservava Henry scrutare il suo mazzo cercando disperatamente la carta vincente in grado di tirarlo fuori da quel pasticcio.

La partita durava da ore, il croupier continuava a distribuire carte su carte, e i soldi che Henry perdeva si accumulavano ogni minuto che passava. Ormai il giovane Kingston aveva perso anche più del milione che aveva puntato all’inizio; fosse dipeso da Lord William, la partita si sarebbe conclusa già da un pezzo, ma quel damerino del suo avversario era più ostinato e cocciuto di un mulo.

Beh, poco male, si disse Lord William, ghignando soddisfatto alla vista delle proprie carte. Quella sarebbe stata la mano vincente.

- Tocca a voi, Lord William…- disse Henry, ansimando leggermente.

- Certo. Siete sicuro di volere continuare, Henry?- domandò Lord William, ostentando una cortesia che veniva immediatamente contraddetta dal suo sguardo beffardo.- Non credete che sarebbe meglio dichiarare la partita conclusa? Vi vedo alquanto affaticato…

- No, no!- rispose in fretta Henry.- No, sto benissimo, credetemi. Avanti, fate il vostro gioco.

Lord William ghignò, sollevando lentamente una carta.

- Temo di dovervi annunciare, Henry, che avete perso la partita - sibilò.

Detto questo, fece scivolare al centro della tavola un asse.

Si levò un mormorio di stupore. Lord William aveva vinto. Aveva vinto, non c’erano più speranze che Henry riuscisse a riprendersi. La partita era conclusa.

Henry rimase a fissare quella carta per un tempo che gli parve infinito; d’un tratto, fu come se una grandissima stanchezza si fosse impadronita di lui. Sentì la testa leggera, braccia e gambe divenire improvvisamente deboli; si accasciò sul tavolo, trattenendo a stento un gemito di disperazione.

- Su, su!- Lord William si era alzato e lo aveva raggiunto, e ora gli picchiava una mano sulla spalla come per consolarlo.- Su, che volete che sia mai una sconfitta a poker? Andiamo, capita a tutti i gentiluomini, dico bene? Fatevi coraggio.

- Lord William…- boccheggiò Henry, sentendosi la gola secca.- Lord William…quel denaro…

- Oh, certo! Ma non preoccupatevi, non c’è fretta. Prendetevi pure la nottata per riposare. Ci vediamo domani mattina alla mia villa per il pagamento, d’accordo?

Lord William gli voltò le spalle, dirigendosi con calma verso l’uscita della locanda, sorridendo compiaciuto non appena sentì i passi di Henry Kingston avvicinarsi velocemente alle sue spalle.

- No, Lord William!- disse Henry, trattenendolo per una spalla.- Lord William…io…io non ho quel denaro…- confessò il giovane.

Lord William si costrinse a rimanere impassibile, ma dentro si sentiva ribollire.

Proprio come sospettavo…

Rimase a fissarlo per un po’, quindi si liberò dalla presa di Henry con una smorfia.

- E così…- esordì.- Mi avete truffato, Henry.

- No! No, Lord William, ve lo giuro!- cercò di difendersi il giovane.- No, io non volevo…Vi prego, Lord William!- implorò.- Vi prego, voi non avete idea di come sono ridotto! Devo dei soldi a mezza città! Vi prego, Lord William, annullate il mio debito.

- Gli affari sono affari, Henry - dichiarò Lord William, calmo, senza smettere di guardarlo.- Non posso certo passare sopra ad una questione di tale importanza, voi capite, non è vero?

- Vi prego!- supplicò Henry.- Vi prego…Magari…magari potremmo…potremmo trovare un accordo…

Gli occhi di Lord William si accesero di una luce di malvagità e soddisfazione.

- Un accordo, dite?- ripeté.- Beh, gli affari sono affari, è vero, ma qualunque gentiluomo è sempre disposto a discutere in merito a questioni importanti. Venite, andiamo a casa mia. Ne discuteremo meglio nel mio studio.

 

***

 

Lord William spalancò le porte dello studio, entrando a passo svelto. Benché si fosse sempre vantato del proprio autocontrollo, in quel momento gli risultava sempre più difficile mantenere la calma. Quell’idiota non aveva smesso di piagnucolare per tutto il tragitto, e anche ora non la smetteva di implorarlo di annullare il suo debito.

Lord William si sedette alla scrivania, accendendo una sigaretta con aria annoiata. Cominciò a tirare qualche boccata, fingendo di prestare attenzione a tutti i piagnistei di Henry Kingston: era rovinato, non aveva più un soldo, e vi prego, suo padre era vecchio e malato, non avrebbe retto ad un simile colpo, e mi dispiace infinitamente, non volevo ingannarvi, vi prego, vi prego, annullate il mio debito, farò qualunque cosa…

Qualunque cosa…

Lord William colse al volo l’occasione.

- E va bene Henry - l’interruppe, stanco di tutte quelle lagne.

Henry rimase ad osservare attonito Lord William che tirava altre due o tre boccate di fumo, prima di proseguire.

- Non mi ero reso conto di quanto fosse grave la vostra situazione - continuò Lord William.- Ma io non ho un cuore di pietra. Annullerò il vostro debito…

Gli occhi e il viso di Henry si illuminarono.

- Oh, grazie, Lord William!- esclamò.- Grazie, grazie, io non so davvero come…

- Non ho ancora finito, Henry.

Il sorriso di Henry morì così come era nato; Lord William tirò un’altra boccata.

- E’ la terza volta che ve lo ripeto, oggi: gli affari sono affari, non dimenticatelo. A tutto c’è un prezzo, anche all’annullamento di un debito.

- Quale…quale prezzo?- balbettò Henry.

Lord William spense la sigaretta nel posacenere, si alzò e fece il giro della scrivania, in modo da ritrovarsi di fronte a Henry.

- Vi propongo uno scambio.

- Che genere di scambio?

Lord William fece una pausa; quindi, guardò il giovane dritto negli occhi.

- E’ da un po’ di tempo che ho messo gli occhi su vostra sorella, Catherine.

Henry rimase per un attimo interdetto, poi replicò:

- Mia sorella Catherine è morta due mesi fa, Lord William.

Lord William lo guardò in silenzio per un secondo, quindi scoppiò in una sonora risata.

- Vi prego, Henry, non prendiamoci in giro!

- Credete che potrei mai scherzare su una cosa simile?!- ringhiò Henry, stringendo i pugni e fissando Lord William in cagnesco.- Credete che potrei mai scherzare sulla morte di mia sorella?! Catherine è morta due mesi fa, vi dico!

Lord William non sembrò scomporsi.

- Eppure sembrate sincero - commentò.- Non avrei mai pensato che poteste essere così poco informato sui vostri stessi familiari…

Henry digrignò i denti, stringendo ancora di più i pugni.

- Spiegatevi meglio - sibilò.

- Di recente, due miei…amici hanno incontrato vostra sorella nella foresta - Lord William ghignò.- In compagnia di un cavaliere sconosciuto…

Henry boccheggiò, incredulo.

- Come…come può essere?- mormorò.- Mio padre ci aveva detto che era morta…

- Forse vostro padre voleva solo evitare di darvi un dispiacere più grande - sorrise Lord William.- Evidentemente ha creduto che avreste sofferto di meno sapendo che vostra sorella era morta, piuttosto che…beh, piuttosto che si fosse disonorata

- Come vi permettete?!- abbaiò Henry.- Come vi permettete di dire una cosa simile? Catherine non…Io la conosco bene, lei non…mia sorella non avrebbe mai fatto una cosa del genere…

- A volte le persone si rivelano diverse da quelle che sembrano, Henry - disse Lord William, calmo.- Ma non è questo il punto - gli batté una mano sulla spalla, superandolo e costringendolo a voltarsi per guardarlo.

- Che cosa volete?- sibilò Henry.

- Vostra sorella.

Henry non rispose; si sentiva il sangue pulsare nelle tempie, sentiva dei brividi percorrergli la spina dorsale. Se quello che aveva detto Lord William era vero…

- Vostra sorella è viva, Henry, ve lo posso garantire. E io intendo farne mia moglie.

- Cosa?- mormorò Henry.

- Avete sentito. Catherine è bella, è giovane ed è in età da marito, e io intendo sposarla. Ho sentito dire che la vostra matrigna ha cercato più volte un marito per lei, prima che…beh, prima che morisse…- ghignò Lord William.- Pensateci, Henry. Per voi sarebbe un guadagno in ogni senso: dopo quello che è successo, dubito che qualcuno vorrà ancora sposare vostra sorella. Voi avete la possibilità di darla in moglie ad un uomo ricco, sgravando così la vostra famiglia dal peso di una donna nubile e restituendo a lei la dignità e a vostro padre la sua fortuna. Senza contare…- ridacchiò malignamente.- Senza contare che tutti i vostri debiti verrebbero immediatamente cancellati…

- Questo è un mercato!- urlò Henry, indignato.- Questo è un lurido, schifoso mercato! No, mai, non lo farò mai, al diavolo voi e i vostri soldi! Non vi darò mai mia sorella…se Catherine è viva…se è viva, allora la troverò, non importa quel che ha fatto, vendicherò il suo onore e la riporterò a casa!

- E come farete con i vostri debiti?- incalzò Lord William.- Come farete a mantenerla, quando non avrete più un soldo? Finirete in mezzo ad una strada, a mendicare come dei poveracci!

- Smettetela! Vi ordino di smetterla!

- Non basta un duello per lavare via una colpa! Senza soldi, vostra sorella si ridurrà a meretrice per mantenervi!

- Basta!

- E’ la vostra unica possibilità, Henry - disse Lord William.- Se mi darete vostra sorella, allora sarete salvo. Altrimenti…beh, sapete già cosa succederà.

Henry respirava affannosamente. Quello era un ricatto, era il più ignobile e meschino mercato che avesse mai sentito. Catherine…no, non poteva farlo! Lei era sua sorella, le voleva bene, Cathy era sempre stata buona, con lui, aveva sempre cercato di aiutarlo…

Eppure…

Henry ebbe un’improvvisa visione, si vide in mezzo ad una strada, povero e mendicante, con al suo fianco Catherine e la piccola Rosalie sporche e vestite di stracci, e suo padre malato disteso per terra, mentre tutti li evitavano e li deridevano.

Era così che sarebbero finiti, se lui non avesse saldato tutti i suoi debiti. Quella di Lord William era una proposta più che invitante: se avesse accettato, tutto si sarebbe sistemato, e Catherine…se era vero quello che aveva detto Lord William, se davvero si era data ad un uomo prima del matrimonio, allora anche lei ne avrebbe tratto vantaggio. Lord William era un uomo giovane, bello e ricco, che accettava di sposarla anche a fronte di quel che Cathy aveva fatto; con quel matrimonio, Catherine avrebbe riacquistato la sua reputazione agli occhi del mondo, e, chi poteva saperlo!, magari avrebbe ancora potuto essere felice.

Henry deglutì, senza guardare Lord William che, nel frattempo, gli si era avvicinato.

- Siamo d’accordo, Henry?- chiese, con voce melliflua, già certo della risposta.

Henry non lo guardò, ma annuì, lentamente, stringendo i pugni; poi, parve riscuotersi.

- Ma…- mormorò.- Ma mio padre dovrà dare la sua approvazione.

- Ma certamente. D’altronde, lui è anche l’unico a sapere dove si trova vostra sorella…- ghignò l’altro.

Henry non rispose; Lord William gli tese la destra aperta.

- Affare fatto?

Henry ebbe la fugace visione degli occhi verdi di Catherine che lo scrutavano pieni d’odio, mentre ricambiava la stretta di Lord William.

- Affare fatto.

 

***

 

Passarono i giorni, le settimane, i mesi.

Catherine non avrebbe mai pensato di riuscire a provare serenità, in quel luogo. Quand’era arrivata, era a tutti gli effetti una prigioniera, e l’oscuro maniero del padrone era la sua prigione, una cella buia e fredda piena solo di tristezza e dolore. Ora, invece, la ragazza vedeva quel castello tenebroso come una seconda casa.

Sì, certo, sentiva continuamente la mancanza della sua famiglia, soprattutto di suo padre; ma quando stava insieme al padrone, riusciva a dimenticare ogni nostalgia.

Catherine non finiva mai di stupirsi del padrone, ma, soprattutto, di se stessa. Trascorreva volentieri il tempo con Constance, Ernest e Peter, ma ogni giorno non vedeva l’ora che la mattinata di lavoro – divenuto, quest’ultimo, di gran lunga meno pesante – terminasse, così che potesse salire in libreria, dove, sempre puntuale, l’attendeva il padrone.

Catherine, all’inizio, aveva pensato che il padrone di casa fosse nient’altro più che un mostro, una bestia, un orribile ibrido partorito da una natura in vena di macabri scherzi; stava quasi male, adesso, nel ripensare a tutte queste cattiverie.

Nonostante il suo aspetto mostruoso, il padrone si era rivelato con un animo umano. Il suo comportamento era pari a quello di un essere umano, era intelligente e infinitamente gentile. Certo, qualche stranezza la conservava ancora. A tavola aveva smesso di divorare il cibo come una bestia, e il suo comportamento era divenuto di gran lunga più coerente, ma in lui restava sempre qualcosa di strano, quasi ultraterreno.

Spesso, Catherine si ritrovava a paragonarlo ad uno di quei gentiluomini amici di suo padre e suo fratello, o ad uno dei suoi tanti pretendenti; anche loro erano gentili e cordiali come lui, ma appena cominciavi a dargli un po’ di confidenza, quelli perdevano ogni forma di rispetto e cortesia, iniziando a comportarsi come dei gran cafoni. Lui, invece, non perdeva mai quell’atteggiamento serio e composto; non si lasciava mai andare a battute o commenti inopportuni, tantomeno rozzi o volgari, né si faceva scoprire da lei in atteggiamenti che in un uomo sarebbero stati normali, come distrarsi o essere soprappensiero. La trattava sempre con infinita gentilezza, che Catherine aveva scoperto essere naturale, non frutto di ipocrisia o affettazione. Tuttavia, il suo aspetto continuava a inquietarla ancora un po’, anche per il fatto che, spesso, lo scopriva ad osservarla con una luce strana ed enigmatica in quei suoi occhi azzurri e freddi come il ghiaccio.

In ogni caso, trascorrere il tempo con lui era molto piacevole; spesso leggevano o parlavano, e Catherine dovette riconoscergli anche la straordinaria qualità di rimanere ad ascoltare, cosa che il padrone faceva sempre con pazienza e interesse; altre volte, invece, se il vento non soffiava troppo forte e non faceva troppo freddo – si stava avvicinando l’inverno –, lui le proponeva di uscire dal maniero per fare una passeggiata.

C’era una scuderia, sul retro del castello. C’erano diversi cavalli, ma il padrone prendeva sempre il solito, un purosangue nero meraviglioso e imponente; quanto a Catherine, lei provò a montare diversi cavalli, prima di riuscire a trovare quello che facesse al caso suo. La ragazza sapeva cavalcare, ma non era brava quanto suo padre o sua sorella, e temeva sempre che l’animale potesse avere una reazione improvvisa e imprevedibile, senza contare che aveva una paura folle di venire disarcionata. Alla fine, però, trovò una cavalcatura adatta a lei: un esemplare bianco e forte, piuttosto giovane, ma tranquillo e docile. Quando il padrone si accorse che Catherine lo preferiva a tutti gli altri, le disse che da quel momento era suo. La ragazza era arrossita e aveva balbettato un grazie imbarazzato.

Alcuni modi di fare del padrone non avevano ancora finito di sorprenderla.

Facevano una passeggiata a cavallo, nella foresta. Catherine spesso ripensava con angoscia a quella terribile nottata in cui era stata aggredita, ma con il passare del tempo quegli alberi alti come torri e quel luogo buio e intricato avevano smesso di spaventarla; a volte temeva di perdersi, in mezzo a tutto quel groviglio di rami e arbusti, ma il padrone non perdeva mai il senso dell’orientamento, doveva conoscere molto bene quei luoghi.

Alla fine, tornavano al castello per la cena, che consumavano sempre insieme.

La loro giornata trascorreva così, fra un libro, una chiacchierata e una cavalcata di tanto in tanto; una piacevole routine a cui Catherine si rese conto avrebbe difficilmente saputo rinunciare.

 

***

 

- Sai che è proprio buffo?- disse un giorno Catherine, mentre erano seduti in biblioteca.

- Che cosa?- domandò il padrone, alzando gli occhi dal libro che stava leggendo insieme alla ragazza, accoccolata al suo fianco.

- Il gobbo di Notre Dame ha un nome, e perfino il Fantasma dell’Opéra ne ha uno - disse Catherine.- Sono mesi che ti conosco, e non mi hai mai detto il tuo nome.

Il mostro abbassò lo sguardo, quindi borbottò qualcosa.

- Come hai detto?- fece Catherine, che non era riuscita a capire.

- Adrian - ripeté il mostro, quasi di malavoglia.- Mi chiamo Adrian.

- Adrian?- Catherine sbatté le palpebre.- Bel nome.

- Grazie…- rispose il mostro, con una smorfia.

- Perché dici “grazie” così?

- Così come?

- Come se avessi appena pronunciato un’ingiuria.

- Non amo molto il mio nome.

- E chi ama il proprio?!- esclamò Catherine, ridendo.

- Il tuo è un bel nome…- disse il mostro, con un mezzo sorriso.

- Grazie. L’ha scelto mia madre - rispose Catherine.

- Purezza…- sussurrò Adrian.

- Come dici?

- Purezza. Catherine significa “purezza” - spiegò il padrone, stringendosi nelle spalle.- Viene dal greco antico. Mio padre diceva sempre che il nome è una specie di presentazione di noi stessi. Dice agli altri come sei…- Adrian sorrise.- Tu sei pura.

Catherine non seppe che rispondere, ma si sentì avvampare; era una sensazione piacevole.

- Sei bravo, con i nomi…- mormorò.- Conosci il significato di tutti?

- No, solo di alcuni - ammise il mostro.

- Comunque, tuo padre aveva ragione…- disse Catherine.- Il nome è un biglietto da visita. Il tuo che significa?

- Significa…significa “il tenebroso”- rispose Adrian, quasi come se si costringesse ad ammettere qualcosa di spiacevole.

- Oh!- non trovò nient’altro di meglio da dire Catherine.- Beh, non è detto che il nome dica come sei…- aggiunse poi.- Tu non sei affatto…tenebroso. Non ti rispecchia per nulla.

- No…- sussurrò il mostro, così impercettibilmente da non farsi udire dalla ragazza.- No, mi rispecchia perfettamente, invece.

Catherine non udì, e riaprì il libro. Adrian riprese a leggere insieme a lei. Ormai erano alle ultime pagine, e in cinque minuti l’ebbero terminato.

- Molto bello - dichiarò Catherine, chiudendo Il Fantasma dell’Opéra.

- Già. Ma molto simile a Notre Dame de Paris, come ti avevo detto - aggiunse il mostro, pensieroso.

- Anche se questo è ancora più triste, a mio parere - sospirò Catherine.

- Più triste? Perché?

- Beh, mi dispiace da morire per il Fantasma…Insomma, non se lo meritava, ecco.

- Scusa, ma mi permetto di dissentire. Ricorda che era un assassino.

- Sì, ma non era cattivo. Insomma, lui amava Christine Daae!- esclamò Catherine.- E lei è stata ancora più sciocca della Esmeralda. Scappare con quel damerino del visconte! Che poi, quello mi sa di viscido…

Mi ricorda molto una persona…

Adrian non rispose, ma scosse il capo, piano.

- A te non sembra assurdo?- chiese Catherine.

- A dire il vero, no. Era prevedibile.

- Prevedibile?

- Andiamo, credevi davvero che Christine avrebbe scelto il Fantasma?- il mostro la guardò negli occhi.

- Io…beh, ci speravo - ammise Catherine.

- Era un mostro e un assassino - disse Adrian.

In genere, quando parlavano di un romanzo, il padrone assumeva un tono scherzoso e disimpegnato; Catherine fu quasi spaventata, nel vederlo così serio.

- Era un mostro - ripeté lui.- Perché Christine avrebbe dovuto scegliere lui, quando aveva a disposizione un bel giovane?

Catherine non rispose, limitandosi a guardarlo.

- La bella non s’innamora mai della bestia.

 

***

 

Era l’inizio di dicembre; non nevicava, ma il cielo era sempre nuvoloso, e fuori faceva così freddo che il gelo s’insinuava nelle ossa.

Quella mattina, Catherine venne svegliata da un gelido spiffero d’aria che la raggiunse attraverso le coperte. La ragazza si svegliò, percorsa da brividi di freddo. Vide che il vento aveva spalancato la finestra, mentre il fuoco nel camino era spento, con solo un lieve sbuffo di fumo che scaturiva dalle braci annerite.

Catherine saltò giù dal letto, indossando in fretta la vestaglia e chiudendo svelta la finestra. Si chinò accanto alle braci nel tentativo di riattizzare il fuoco, quando udì l’orologio a pendolo nel corridoio battere le ore. Le otto, realizzò Catherine.

Com’era possibile? La sveglia era alle sei, Constance non mancava mai di chiamarla, perché quella mattina non era venuta?

Doveva essere successo qualcosa…

Catherine si precipitò fuori dalla porta, raggiungendo di corsa il dormitorio dei domestici.

Quando entrò, vide che Constance e Peter erano chini intorno ad un letto, l’una scuotendo la testa contrariata, l’altro osservando la scena quasi inebetito. Sul letto era disteso Ernest, pallido come un lenzuolo, che emetteva gemiti soffocati reggendosi lo stomaco.

- Ernest!- esclamò Catherine, raggiungendoli preoccupata.- Che succede? Constance, che cos’ha?

- Indigestione - rispose la donna, con tono piatto.- Non c’è da preoccuparsi, non è la prima volta che succede. Entro stasera gli sarà passato tutto.

- Ne sei sicura?- fece Catherine, osservando preoccupata Ernest.- Quel colorito non mi piace per niente…

- In effetti, non ha una bella cera - confermò Peter.

- Beh, se l’è voluta!- dichiarò Constance.- La prossima volta impara ad ingozzarsi di minestra ai porri a cena!

- Io non mi sono affatto ingozzato!- protestò Ernest, con voce roca.- Non è certo colpa mia se sono ridotto così!

- Ah, no? E di chi sarebbe, mia?- abbaiò Constance.

- Certo che è colpa tua! L’hai cucinata tu, quella roba!

- Ma come ti permetti, vecchio sclerotico?!

- Befana! Tu e i tuoi dannati intrugli…

- Ernest, non ti agitare!- intervenne Catherine.

- Già, è vero. Oggi è meglio se ti riposi - aggiunse Peter, premuroso.

- No!- gracchiò Ernest.- No, oggi…il padrone mi ha ordinato di…il giardino…

- Oggi lavoro io al tuo posto, Ernest - disse Catherine.

Tutti si voltarono a guardarla.

- Tu?- fece Peter.

- Perché no?- rispose Catherine.

- Cathy…- disse Constance.- Scusa, non che non mi fidi di te, ma…beh, è un lavoro molto pesante, quello che avrebbe dovuto fare oggi questa mummia rinsecchita - e scoccò un’occhiataccia ad Ernest.- Non è adatto ad una donna…

Catherine sbuffò, alzando le spalle.

- Non preoccuparti. Sarà un gioco da ragazzi.

 

***

 

 

Già, proprio un gioco da ragazzi…, pensò Catherine, mentre sulle labbra le si disegnava una smorfia di disappunto.

Il giardino era quasi simile alla foresta. Catherine pensò che dovevano essere mesi che nessuno se ne curava. L’erba le arrivava al ginocchio, e dovunque crescevano rovi ed erbacce.

Faceva freddo, e il cielo era nuvoloso; presto avrebbe iniziato a piovere. Era meglio sbrigarsi.

Catherine si fece strada fra l’erba, afferrando con entrambe le mani un rovo, attenta a non pungersi. Tirò con tutte le sue forze finché non riuscì a sradicarlo dal terreno.

Continuò così per un’ora, al termine della quale si sentiva sfinita e il giardino era ben lontano dall’essere accettabile. La ragazza non si diede per vinta, e afferrò un altro rovo, ma questo si rivelò più ostinato degli altri; per quanto tirasse, quella dannata pianta non ne voleva sapere di venire via.

- Cosa stai facendo?- fece una voce alle sue spalle.

Catherine si voltò, e vide Adrian avvicinarsi a lei.

- Cosa stai facendo?- ripeté il padrone.

- Io…sto…cercando di mettere un po’ in ordine…- disse Catherine, riprendendo a tirare il rovo.

- Avevo detto ad Ernest di farlo - disse il mostro, e il suo tono di voce assunse una nota minacciosa.

- Sta male - fece Catherine, in fretta.- Un’indigestione, pare.

- Non è un buon motivo per far svolgere il lavoro a te - ringhiò il padrone.

- Mi sono offerta io. E non è faticoso - mentì.

Riprese i suoi tentativi di sradicare il rovo, il quale resistette stoicamente. Si sentì un tuono in lontananza.

- Lascia almeno che ti aiuti - disse Adrian.

- No, no, io…

La pianta le sfuggì di mano, le spine strisciarono velocemente sul palmo. Catherine sentì un bruciore pungente; emise un gemito di dolore.

Sollevò il palmo all’altezza del viso; al centro della mano c’era una ferita sanguinante.

- Stai bene?- chiese il padrone, avvicinandosi a lei.

- Io…

Si udì un altro tuono; cominciò a piovere.

In un attimo, Catherine si ritrovò bagnata fradicia.

- Oh, cielo…- gemette la ragazza.

- Vieni!- disse il padrone.

La condusse in fretta sotto uno dei portici del castello, all’asciutto, ma ormai la ragazza era completamente fradicia. Senza dire una parola, il padrone si tolse di dosso il mantello nero e lo avvolse intorno alle spalle della ragazza.

- Grazie…- mormorò Catherine, stringendosi nella stoffa.

La mano sanguinava ancora.

- Fammi vedere - il padrone prese la mano di Catherine fra le sue mostruose zampe ibride.

Catherine rabbrividì a quel contatto; le venne in mente la volta in cui Lord William le aveva sfiorato la mano con le labbra, e poi quando invece l’aveva costretta a baciarlo, premendosela contro la bocca, invadendo il suo spazio vitale. Ritrasse la mano di scatto.

- Non è niente…- disse, distogliendo lo sguardo da quello di Adrian.

Il padrone sentì la mano morbida della ragazza scivolare rapidamente via dalle sue. Sentì una fitta al cuore, ma la guardò negli occhi, mentre sul suo volto mostruoso compariva un sorriso amaro.

- Sono così repellente?- mormorò.

Catherine si sentì morire; si maledisse mentalmente, dandosi della stupida per quel che aveva fatto. Adrian abbassò lo sguardo; fece per andarsene.

- No!- Catherine lo fermò, prendendogli la mano.

Adrian si voltò nuovamente verso di lei.

- Scusami!- disse Catherine, quasi implorando.- Scusami, io non…Non sei repellente, Adrian, è solo che…Mi dispiace!- esclamò, mortificata.

Il padrone non si mosse, rimanendo immobile e stupefatto mentre la ragazza lo abbracciava con slancio, cingendogli il torace con le braccia.

- Mi dispiace…- sussurrò Catherine, chiudendo gli occhi e appoggiando il capo contro il petto caldo del mostro.- Mi dispiace…

Rimasero così per qualche istante; Catherine temette che il padrone l’allontanasse, la spingesse lontano da lui come avrebbe meritato, ma Adrian non lo fece. Il mostro sorrise, sfiorandole lievemente le spalle con le mani artigliate, in un goffo tentativo di ricambiare l’abbraccio.

- Non preoccuparti…- sussurrò contro i capelli corvini della ragazza.- Non preoccuparti, non è successo niente…

Catherine si staccò dal suo petto, guardando il volto mostruoso.

- Non volevo ferirti, Adrian, credimi - mormorò la ragazza.- E’ solo che…è solo che quando mi hai preso la mano…io…mi sono tornate alla mente delle cose che…

- Non devi giustificarti - disse Adrian.- Non…non mi stupisce che tu abbia orrore di me. So di essere un mostro, Catherine.

- No!- protestò la ragazza.- No, io non provo orrore, è solo che…

Catherine capì che con le chiacchiere non avrebbe risolto nulla. Prese una mano ibrida di Adrian fra le proprie, e se la portò alla guancia.

- Perdonami - disse, guardandolo negli occhi.- Sono stata una stupida, ti prometto che non accadrà mai più. Non penso che tu sia un mostro, Adrian…Ti prego, perdonami.

Il padrone sorrise, ricambiando la carezza, attento a non farle male.

- Sono contento che tu non mi consideri un mostro, Catherine…- sussurrò.

La ragazza sorrise, sentendo il cuore fare una capriola nel petto quando sentì la mano artigliata di Adrian sfiorarle il viso.

 

Angolo Autrice: E ancora una volta ho partorito un capitolo pietoso…Il prossimo capitolo sarà migliore, prometto J. Dunque, un avviso a chi è ancora qui dopo la bellezza di dodici capitoli: credo che sia opportuno informare questi coraggiosi che la storia sarà più lunga del previsto, non so quanti capitoli durerà, ma di sicuro arriverà alla ventina…che vi devo dire, mi sono fatta prendere la mano J! In ogni caso, non preoccupatevi, non diventerà una cosa di 1000 capitoli stile soap opera, sarà nei limiti della decenza…Dunque, ora credo che sia il caso di spendere due paroline sul nome della Bestia: è dall’inizio della storia che cerco un nome per lui, ma tutti quelli che mi venivano in mente ce li vedevo più addosso ad un bel ragazzo che a un mostro, così alla fine ho optato per Adrian, quest’ultimo preso (siccome so che lo state pensando tutti XD!) dal libro Beastly di Alex Flinn. Il nome Adrian mi pareva adatto, in quanto è (a mio parere) un nome piuttosto poco comune e il nostro mostro è un tipo “tenebroso”…a questo proposito, la storia del significato dei nomi non me la sono inventata, mi sono informata e ho scoperto che uno dei possibili significati del nome Catherine deriva dal greco katharà, che appunto significa “pura”, “vera”…

Scemenze pseudo-erudite a parte, dato che si è parlato di cose in stile Beautiful e compagnia bella, a questo punto voglio levarmi lo sfizio di fare come nelle telenovele XD!

**Nella prossima puntata**

Adrian e Catherine si avvicineranno sempre più l’uno all’altra…cosa succederà fra la nostra eroina e il mostro? Nel frattempo, il Natale si avvicina, ma in casa Kingston l’atmosfera non è affatto festiva: mentre il mercante è sempre più malato, la piccola Rosalie farà una scoperta sconvolgente che spingerà la perfida Lady Julia a prendere dei seri ( e dico seri!!! ) provvedimenti nei suoi confronti…

E nel frattempo: Lord William ha ottenuto quello che voleva, ma come farà ad avere Catherine? E Henry riuscirà a restarsene a guardare senza far nulla?

**Tutto questo lo scopriremo nella prossima puntata!**

Detta questa sfilza di cretinate, ringrazio tantissimo tutti coloro che leggono, CiUffEttA per aver aggiunto questa ff alle preferite, e Black Fairy ed Ellyra per aver recensito.

Ciao a tutti, al prossimo capitolo!

Dora93

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Capitolo 13
*** Neve ***


 

Rolf si piegò sulle zampe anteriori, scoprendo i denti aguzzi e giallognoli in un ringhio feroce. Il doberman lanciò delle occhiate attente intorno a sé, che comprendevano la decina di mastini che gli si erano radunati intorno. Un bulldog si avvicinò di un passo, con la bocca gocciolante di bava.

Stavano aspettando. Erano pronti, pronti ad attaccare.

Quando Lord William gettò nel recinto una coscia di manzo, i cani vi si avventarono sopra, sollevando un polverone di terra e iniziando a dilaniare la carne con ferocia, ringhiando e mordendosi a vicenda per accaparrarsi un pezzo più grosso.

Lord William osservava la scena con il suo solito sorriso simile ad un ghigno.

Hanno fame, pensò.

Era passato diverso tempo da che aveva ucciso l’ultima volta, e i cani cominciavano ad essere inquieti. Lord William aveva allevato quei cani al fine di farne una macchina di morte, li aveva addestrati sin da cuccioli ad uccidere, sottoponendoli ad una dura disciplina: li teneva a digiuno per giorni in modo da renderli più famelici, spesso erano legati e frustati al fine di incattivirli. Lord William aveva insegnato loro a riconoscere gli odori delle proprie vittime: quando fiutavano la pista, allora era praticamente impossibile fermarli, non ritornavano al padrone se non prima di aver sbranato la preda.

Erano stati addestrati per uccidere, e ora la prolungata assenza di carne e sangue li stava rendendo sempre più inquieti e nervosi. Ma Lord William non si preoccupava troppo di questo; sapeva come tenerli a bada e, in ogni caso, presto avrebbe di nuovo avuto bisogno di loro.

Il pensiero lo rese immediatamente di malumore. Non che uccidere lo facesse sentire male; aveva sperperato il patrimonio di famiglia già da un pezzo, e non avrebbe potuto continuare a condurre la vita lussuosa che tanto amava, se non sfruttando la sua abilità al gioco e liberandosi di quei rifiuti umani che si opponevano al pagamento dei loro debiti. Insomma, scatenare i suoi cani contro quei nobili era una specie di necessità, per lui; senza contare il fatto che provava una specie di gioia perversa, nel farlo, si sentiva quasi come se, con quel gesto, stesse liberando il mondo intero da individui mediocri e inutili che non avrebbero meritato di vivere un secondo di più.

Quello che l’aveva fatto rabbuiare in quel momento era stato il pensiero di chi sarebbe stata la sua prossima vittima. Non ne conosceva né l’aspetto né il nome. Non sapeva niente di lui.

Niente, tranne il fatto che si scopava la sua donna.

Lord William digrignò i denti e strinse i pugni intorno alla staccionata del recinto, fino a conficcarsi alcune schegge di legno nei palmi. Ormai era fatta: quell’idiota di Henry Kingston aveva acconsentito a vendere sua sorella per salvare la faccia, ora l’unico ostacolo che si frapponeva fra lui e Catherine era quel maledetto che se la portava a letto.

Di nuovo quella visione: Catherine bella, sorridente, svestita. E ancora quella sensazione, quel fuoco infernale che lo bruciava dentro, lo distruggeva lentamente.

Lord William si strinse ancora di più al recinto, piegando il capo in avanti e lasciando che i capelli castani gli ricoprissero gli occhi.

Lei è mia…lei è mia!

Si asciugò la fronte imperlata di sudore, imponendosi di ritrovare la calma. Avrebbe ammazzato quel bastardo, oh, sì, eccome se l’avrebbe fatto, l’avrebbe ammazzato e si sarebbe ripreso Catherine, che lei lo volesse o no. Ma prima doveva trovarlo.

E solo il mercante sapeva dove si trovava…

 

***

 

Rosalie si aggrappò al corrimano della scala, iniziando a salire i gradini. Suo fratello era in paese, Lydia invece era uscita in giardino. In casa c’erano solo lei e suo padre. E Lady Julia.

La ragazzina giunse al secondo piano, attenta a non far rumore. Da che Catherine era morta e suo padre si era ammalato, lei se ne era sempre stata ben attaccata alle gonne di Lydia; aveva ottime ragioni per pensare che Lady Julia la credesse in giardino con l’anziana governante. Per questo doveva badare bene a non far rumore, a non farsi scoprire. Quella era la sua occasione per scoprire cosa stesse veramente tramando Lady Julia.

Rosalie era sicura che qualcosa non quadrasse, in tutta quella storia. Suo padre era malato da troppo tempo, ormai; a casa loro non s’era mai vista l’ombra di un medico, e Lady Julia si ostinava a propinare al mercante le medicine che aveva appreso dal suo terzo marito. Ma era evidente che la cosa non funzionasse, altrimenti suo padre sarebbe già guarito da un pezzo.

Anzi, a Rosalie sembrava quasi che le sue condizioni peggiorassero di giorno in giorno. Se prima la malattia era ridotta ad una semplice febbre e ad un po’ di debolezza, e il mercante riusciva ancora a mettersi seduto a letto e a parlare con lei, ora suo padre passava le giornate disteso a letto, scosso da brividi di freddo, rantolando di tanto in tanto senza riuscire ad articolare delle parole chiare, e nemmeno ad aprire gli occhi. Perfino un cieco avrebbe capito che la situazione era grave, e che continuava a peggiorare; ma Lady Julia non voleva sentire ragioni. Secondo lei le sue medicine erano più che efficaci, e anzi era lei, Rosalie, a peggiorare la situazione: con le sue continue visite, i suoi schiamazzi, lo affaticava troppo. Doveva stargli lontana.

Ecco cos’aveva fatto Lady Julia: le aveva categoricamente proibito di entrare nella stanza di suo padre.

Ma Rosalie, dopo tanto tempo trascorso a non fare nulla, alla fine si era decisa ad agire; non sapeva bene cosa avrebbe fatto, ma iniziare a capire cos’avesse intenzione di fare la sua matrigna era già un passo avanti. La ragazzina desiderò con tutto il cuore che sua sorella fosse lì: Catherine avrebbe saputo cosa fare. Ma Catherine non c’era più. Ora era in Paradiso, accanto a sua madre, le aveva detto Lydia, nel tentativo di consolarla. Cathy non era più con loro, e ora toccava a lei prendere in mano le redini della situazione.

Rosalie attraversò in punta di piedi il corridoio, ritrovandosi a pochi centimetri dalla stanza di suo padre, ringraziando che la porta fosse aperta. Lady Julia era lì dentro; Rosalie ne sentiva il fruscio della gonna e i colpi secchi dei suoi tacchi sulle assi del pavimento. La ragazzina si avvicinò, appiattendosi con la schiena contro lo stipite della porta. Sporse un po’ il viso ovale verso l’apertura, in modo da vedere ma di non essere vista.

Lady Julia era in piedi, china su un bicchiere d’acqua e una boccetta contenente un strano liquido violaceo, mentre canticchiava una melodia a labbra serrate. Era come al solito vestita in maniera impeccabile. Ormai avevano smesso il lutto, e Rosalie indossava un abito di taffetà rosso; allo stesso modo, Lady Julia indossava un abito di seta viola scuro, scollato, così che sul petto si intravedesse la sua inseparabile collana d’oro con incastonato il rubino rosso.

Rosalie osservò la matrigna versare nell’acqua una goccia del liquido contenuto nella boccetta, la quale colorò immediatamente l’acqua di viola. Lady Julia si avvicinò al mercante lentamente, con un sorriso compiaciuto sulle labbra; l’uomo scosse piano il capo, socchiudendo le palpebre. Non appena la vide, il mercante sbarrò gli occhi, cercando di aprire la bocca per urlare, ma Lady Julia lo zittì, avvicinandogli il bicchiere alle labbra.

- Bevi questo, caro…- sussurrò, con voce melliflua.- Ti farà star meglio, vedrai…

Il mercante mugolò, scuotendo con energia il capo, rifiutandosi di bere; Lady Julia digrignò i denti, innervosita, afferrandogli il mento con il pollice e l’indice.

- Andiamo, da bravo!- ringhiò, premendogli il bicchiere contro le labbra.

Lo costrinse ad ingurgitare tutto il liquido d’un fiato, fino all’ultima goccia.

- Ecco, così…

Il mercante tossì violentemente, mentre un po’ del liquido violaceo gli sfuggiva dalle labbra, macchiando il cuscino; tuttavia, l’uomo si calmò immediatamente, voltando il capo di lato e chiudendo gli occhi.

Lady Julia ghignò, avviandosi verso l’uscita.

Rosalie si spostò prontamente dal suo nascondiglio, correndo a nascondersi dietro ad una cassapanca poco lontano; si rannicchiò su se stessa, abbracciandosi le ginocchia, riuscendo a celare completamente la sua presenza grazie al suo fisico esile e minuto.

Udì i passi di Lady Julia uscire dalla stanza; Rosalie la sentì dirigersi verso la propria camera.

La ragazzina sgusciò fuori dal suo nascondiglio, avanzando carponi fino alla stanza della matrigna. Trovò la porta socchiusa; si inginocchiò, sbirciando attraverso lo spiraglio aperto.

Vide Lady Julia seduta alla toeletta, mentre si acconciava i capelli biondi, legandoli dietro la nuca e avvolgendoli in una retina argentata; le dava le spalle, ma Rosalie riusciva comunque ad intravederne il viso giovane e affascinante che si rifletteva nello specchio di fronte a lei. Lady Julia continuò a pettinarsi ancora per qualche minuto, quindi posò la spazzola. Si rimirò allo specchio, osservando con attenzione il proprio viso e il collo, esaminandosi con aria critica. La distanza non era molta, e Rosalie poté vedere chiaramente che la pelle sul dorso delle mani della matrigna era leggermente raggrinzita, meno soda, mentre sugli occhi erano spuntate alcune rughe di vecchiaia.

La ragazzina capì che anche Lady Julia le aveva notate, ma la matrigna non si scompose. Rosalie la vide portare l’indice e il medio sul rubino al suo petto, cominciando a disegnare dei piccoli cerchi sulla pietra.

Sotto gli occhi increduli della ragazzina, la pelle sulle mani ridivenne immediatamente liscia e soda, mentre le rughe sugli occhi scomparvero. Sulle labbra carnose di Lady Julia si dipinse un sorriso trionfante.

Rosalie rimase paralizzata, i grandi occhi castani sbarrati. Era incapace di muoversi, non riusciva a respirare regolarmente, ansimava.

E’ una strega!, urlò una voce nella sua testa.

Lady Julia continuava a rimirarsi compiaciuta nello specchio.

E’ una strega! Oh, santo cielo, è una strega! Una strega!

La sua matrigna era una strega. Ne era sicura. Quella era magia nera, Lydia gliel’aveva detto un migliaio di volte. Era magia nera, peccato mortale.

Doveva fare qualcosa, si disse. Doveva avvisare Henry, o Lydia. Doveva portare suo padre via da lì.

Doveva…

Indietreggiò, appoggiando una mano su un’asse smossa. Il legno scricchiolò, uno scricchiolio forte e acuto. La ragazzina trattenne il fiato.

Lady Julia si voltò di scatto; non appena scorse Rosalie, i suoi occhi si riempirono d’odio. Si alzò velocemente, facendo andare in frantumi alcune boccette di profumo sul pavimento. Si diresse a passo svelto in direzione della figliastra; Rosalie lanciò un grido, mentre la donna l’afferrava per la radice dei capelli e la tirava in piedi. Lady Julia la strattonò con rabbia fino alla sua stanza, dove entrò chiudendo la porta.

Non appena furono dentro, Lady Julia, furente, fissò per un secondo un’atterrita Rosalie negli occhi, prima di darle un sonoro ceffone che la scaraventò a terra. Rosalie finì distesa sul tappeto, tenendosi una mano premuta contro la guancia, mentre i grandi occhi scuri le si riempivano di lacrime.

- Piccola spia!- ululò Lady Julia.

Sembrava quasi posseduta, i capelli biondi scompigliati le ricadevano disordinatamente sul volto arrossato dalla rabbia, gli occhi fiammeggianti.

Strega!, pensò Rosalie.

- Piccola spia!- ripeté, in un sibilo.

Lady Julia si volse verso il camino, e con un gesto fulmineo afferrò l’attizzatoio di ferro.

- Questa me la pagherai, piccola stronza!- gridò, sollevando in aria l’attizzatoio; Rosalie indietreggiò, strisciando disperatamente sul tappeto.

- Te l’insegno io la punizione per chi spia!

- Signora Kingston!

Lady Julia si bloccò con ancora l’attizzatoio a mezz’aria, voltandosi verso la porta chiusa.

- Signora Kingston!- la voce dolce di Lydia giunse dall’esterno della stanza.

- Cosa c’è?- gracchiò Lady Julia, irritata.

- Una visita, signora Kingston. Dice che è urgente.

Lady Julia ringhiò, scaraventando a terra l’attizzatoio che sbatté sulle mattonelle del pavimento con un rumore fastidioso e metallico.

- Va bene. Digli che arrivo subito.

Si volse a guardare Rosalie.

- Con te facciamo i conti dopo - sibilò.

Lady Julia uscì sbattendo la porta, lasciando Rosalie distesa sul tappeto, confusa e terrorizzata.

Strega.

 

***

 

Lord William passeggiava nervosamente su e giù per il salotto.

Aveva domandato di parlare con il mercante Kingston. Si sentiva nervoso, ma sapeva che era solo perché presto avrebbe avuto Catherine tutta per sé; il come non lo preoccupava minimamente. Non avrebbe avuto problemi a trattare con suo padre: gli avrebbe esposto le stesse ragioni che aveva utilizzato per abbindolare quell’idiota di Henry, il mercante gli avrebbe detto dove si trovava sua figlia e il gioco sarebbe stato fatto.

La sua sicurezza venne leggermente meno quando, anziché il mercante Kingston, vide scendere dalle scale sua moglie, un po’ scarmigliata e con l’aria di chi ha una gran fretta.

Lord William si sentì montare la rabbia; le donne non capivano nulla di denaro, ed erano più suscettibili al pianto; sarebbe stato più difficile del previsto. S’impose di ritrovare la calma, mentre la signora Kingston gli si avvicinava.

Chinò lievemente il capo in segno di saluto, baciandole una mano.

- Buon pomeriggio, Lord William - salutò Lady Julia, sforzandosi di essere cordiale.- Prego, sedetevi - disse, indicando una poltrona poco più distante. Lord William si sedette, seguito subito da Lady Julia, che si accomodò su una poltroncina di fronte a lui, accavallando le gambe.

- In cosa posso esservi utile?- domandò la donna.

- A dire il vero, signora Kingston, speravo di poter scambiare due parole con vostro marito…- fece Lord William.

- Mio marito è malato - rispose Lady Julia.- Non è in condizioni di parlare, al momento. Ma potete dire a me.

E sbrigati, che non ho tempo da perdere!

- Oh…mi dispiace…- fece Lord William.

Maledizione!

- Signora Kingston…- esordì.- Io ero venuto a chiedervi la mano di vostra figlia.

- Io non ho figli, Lord William - rispose Lady Julia, secca.

- Oh, sì! Perdonatemi…Intendevo la vostra figliastra, la signorina Catherine Kingston.

Lady Julia lo squadrò, aggrottando le sopracciglia, innervosita. Strinse il bracciolo della poltrona, conficcandovi le unghie laccate.

- Mi dispiace deludervi, Lord William, ma la mia figliastra è…

Lady Julia si bloccò appena in tempo; il suo cervello aveva cominciato a lavorare da solo, a tutta velocità. Lord William era l’uomo più ricco di tutto il paese, e voleva sposare Catherine. La sua figliastra era morta, ma questo non voleva dire niente. Lady Julia si era liberata di Catherine per un caso fortuito, ma ora aveva un’altra mocciosa in casa, una sgualdrinella che aveva scoperto il suo segreto e di cui, quando suo marito fosse morto, avrebbe dovuto tollerare il peso. Un fardello di cui liberarsi, insomma, e possibilmente senza usare la magia e senza sporcarsi le mani.

Per un uomo ricco, questo non sarebbe dovuto essere un problema…

- …la mia figliastra è in visita da alcuni amici.

A Lord William venne la nausea, a quella risposta. Buon cielo, possibile che lo credessero davvero così idiota?

- Che sfortuna - commentò, stando svogliatamente al gioco.- Ma in quanto alla mia richiesta…?

- Sarò franca, Lord William - disse Lady Julia, alzandosi dalla poltrona e iniziando a passeggiare per il salotto.- Mi sorprende che voi vogliate sposare la mia figliastra, pur sapendo che è priva di dote. Tuttavia, visto il vostro rango e la vostra rendita, sono ben disposta ad accettare.

- Vi ringrazio, signora Kingston - disse Lord William.- Ma ora penso che sarebbe il caso di…

- Non ho ancora finito, Lord William.

Il giovane ammutolì, rimanendo immobile a fissare Lady Julia che, con un sorriso sulle labbra, riprendeva a parlare.

- Ho detto che accettavo. Ma ha tutto c’è un prezzo. Quanto siete disposto a pagare, per avere Catherine?

- Qualunque cosa!- saltò su Lord William.

Era vero; avrebbe fatto qualunque cosa, pur di avere Catherine Kingston per sé.

- Molto bene - sorrise Lady Julia.- Si da il caso, Lord William, che io abbia una seccatura di cui sbarazzarmi. Vi ricordate dell’altra mia figliastra, Rosalie? Quella che vi ha sporcato la camicia - ghignò Lady Julia.

Lord William annuì, serio.

- Ebbene, diciamo che è diventata un po’ troppo…petulante, per i miei gusti - Lady Julia si avvicinò a Lord William, fino a sfiorare le sue ginocchia con il proprio abito.- Senza contare che mio marito è malato. Gli resta poco tempo da vivere. Sarebbe un’ingiustizia che la piccola Rosalie rimanesse sola al mondo, non vi pare?

- Certamente - rispose Lord William, ghignando.

Lady Julia sorrise, compiaciuta. Era fatta; si sarebbe sbarazzata di Rosalie e di suo padre. Quanto a Catherine, beh, non era un problema, avrebbe detto la verità a Lord William solo più tardi, quando ormai fosse stato tutto compiuto. E chissà, forse col tempo avrebbe dimenticato quella serpe della sua figliastra; era un giovane bello, ricco…proprio quello che faceva al caso suo.

Lady Julia si avvicinò ancora di più a Lord William; con un gesto veloce e leggero, si sedette sulle sue ginocchia, cingendogli il collo con le braccia.

- Fate questo per me, e Catherine sarà vostra…- sussurrò, con le labbra a pochi centimetri da quelle di lui.

Lord William annuì, senza staccare gli occhi da quelli della donna.

- Quando?- chiese, in un soffio.

- Domani. Il giorno di Natale sarà perfetto. D’altronde, chi muore il venticinque dicembre va in Paradiso…- ghignò Lady Julia, prima di posare un bacio umido sulle labbra di Lord William.

Lord William rimase immobile, ricambiando il bacio e cercando di reprimere il senso di schifo che questo gli stava procurando. Penoso, ecco che cos’era. Penoso. Tutti molluschi che cercavano di nascondere con delle menzogne la colpa di una sgualdrina, ricorrendo a mediocri giochi di seduzione per convincerlo a cedere ad un nauseante ricatto.

Beh, poco male. Avrebbe accontentato quella vipera di Lady Julia, e dopo Catherine sarebbe stata sua. Aveva già ucciso molte volte, e il fatto che questa volta la vittima sarebbe stata poco più che una bambina non faceva differenza.

Gettò un’occhiata fuori dalla finestra: aveva iniziato a nevicare, ma quella neve fredda e bagnata non sarebbe bastata a spegnere il fuoco che sentiva accendersi in lui ogni volta che pensava a Catherine.

Lady Julia continuò a baciare il giovane, guardando la neve cadere. Presto, si disse, quella neve avrebbe coperto il corpo di colei che aveva scoperto il suo segreto.

Rosalie, rannicchiata sul suo letto, in lacrime, guardava i fiocchi di neve che cadevano così come il suo mondo le stava crollando intorno, piano, pezzo dopo pezzo, finché non ne fosse rimasto altro che acqua e nulla.

 

***

 

Catherine si svegliò sorridendo. Aveva sognato di nuovo quel bel giovane dagli occhi azzurri, e aveva udito quella voce femminile calda e rassicurante.

Si tirò a sedere, gettando un’occhiata fuori dalla finestra. Era ancora notte, ma la ragazza riuscì a distinguere chiaramente dei fiocchi di neve che cadevano lenti dal cielo. Avrebbero avuto la neve per Natale.

Catherine spalancò le imposte, inspirando l’aria notturna. Il giorno seguente sarebbe stato il 25 dicembre; i domestici le avevano detto che era da più di dieci anni che al maniero questa ricorrenza non si festeggiava. La ragazza aveva perlustrato tutto il castello alla ricerca di un albero di Natale o di qualche addobbo, ma non ne aveva trovati. Alla fine, aveva concordato con Ernest e Peter di fare una sorpresa ad Adrian.

La ragazza si era impegnata a fondo, e il giorno seguente sarebbe stato un Natale speciale.

Il padrone di casa era un po’ orso, ma Catherine era sicura che gli sarebbe piaciuto.

Sentì un tuffo al cuore; continuò ad osservare la neve, mentre sentiva le guance imporporarsi al pensiero del padrone di casa.

 

Angolo Autrice: Allora, prima di tutto mi scuso se sto procedendo un po’ lenta, ma sto cercando di dosare tutti gli elementi in maniera che la storia dia spazio a tutto in maniera uniforme. In questo capitolo ho dato poco spazio ha Cathy e al mostro, ma nel prossimo torneranno al centro della scena, e si avrà una svolta nella loro vicenda…che succederà? Quali novità porterà il Natale nelle loro vite? Sarà tutto come prima, o qualcosa fra loro cambierà? E che cosa avranno in mente Lady Julia e Lord William per la piccola Rosalie, che è venuta a conoscenza del segreto della matrigna?

Lo scopriremo nel prossimo capitolo J!

Nel frattempo, ringrazio tutti coloro che leggono, in particolare BizarreBiscuit e keikoten per aver aggiunto questa storia alle seguite, DQPVF per averla aggiunta alle preferite e per la sua recensione, e jekikika96 ed Ellyra per aver recensito.

Ciao a tutti, al prossimo capitolo!

Bacio,

Dora93

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Capitolo 14
*** Un Natale al maniero ***


 

- Oh, signor Kingston!- esclamò l’oste, sorpreso, vedendo entrare Henry. Il giovane non lo guardò nemmeno, rimanendo in piedi sulla soglia della porta del Leone d’oro. - Non mi aspettavo di vedervi qui anche il giorno di Natale - continuò l’uomo, mentre Henry si toglieva il mantello, scrollandosi di dosso la neve bagnata che non aveva smesso di cadere dalla notte precedente.

- Perché, non siete aperti, forse?- fece il giovane, secco, scoccandogli un’occhiata ben poco amichevole.

- Ma certo, certo!- si affrettò a dire l’oste. Poi, inarcando un sopracciglio:- Specialmente per chi ha intenzione di saldare il conto…

- Come dite?

- Avete ben sei mesi di credito, signor Kingston - disse l’oste, sporgendosi in avanti sul bancone.- Se non pagate sarò costretto a…

Prima che potesse finire, Henry estrasse da una tasca del mantello un sacchetto di monete, scaraventandolo con malgarbo sul ripiano del bancone. L’oste l’osservò sbatacchiare sul legno facendo tintinnare le monete.

- Eccoli, i vostri soldi!- ringhiò Henry, con una smorfia di disgusto.- Tenete pure il resto…

Tutti i pochi clienti che erano presenti si erano voltati a guardarlo, ma il giovane non se ne curò, avviandosi a passi pesanti verso il primo tavolo libero.

- Portami qualcosa da bere - fece, senza alzare lo sguardo.- E che sia qualcosa di forte…

Udì i passi dell’oste allontanarsi. Prima l’avrebbe sbeffeggiato e insultato, Henry lo sapeva, ma ora che aveva saldato il suo debito non si azzardava più a dirgli alcunché.

Henry aveva pagato tutti i suoi debiti, tutti, ricompensando i creditori fino all’ultimo centesimo; sapeva di essere salvo, ma avrebbe mille volte preferito la rovina e la galera, piuttosto che aver compiuto quel gesto orribile.

Erano giorni che ci pensava; si era pentito, si era pentito fino in fondo di quel che aveva fatto, e avrebbe dato qualunque cosa pur di tornare indietro e non ripetere quello sbaglio.

Catherine…

Il viso di sua sorella gli appariva di fronte agli occhi in continuazione, quasi come se volesse perseguitarlo, punirlo per averla venduta come un pezzo di carne da macello. Henry tentava di convincersi che non aveva avuto altra scelta, che in fondo l’aveva fatto anche per lei, per salvarla dalla vergogna, ma la sua coscienza si rifiutava di credere ad una simile menzogna.

Il giovane continuava a tenere gli occhi bassi, ma si accorse che l’oste gli aveva posato di fronte un boccale di birra.

Catherine, la sua sorellina…presto sarebbe stata in balia di quel verme di Lord William, e per che cosa?

Tutto per questa porcheria!, pensò Henry, trattenendosi a stento dallo scaraventare a terra il boccale e mandarlo in mille pezzi. Si prese il capo fra le mani, affondando le dita nei capelli biondi. Era tutta colpa sua. Era stato un idiota, un incosciente, non aveva avuto rispetto per la sua famiglia, per suo padre che peggiorava di giorno in giorno, per la piccola Rosalie che l’aveva sempre ammirato…e per Catherine, che aveva sempre cercato di aiutarlo, sempre, anche quando tornava a casa ubriaco la sera, anche quando aveva perso a carte l’intero patrimonio di suo padre…

Cedendola a Lord William, aveva creduto di farle un favore; l’avrebbe salvata dalla vergogna, si era detto, l’avrebbe riscattata agli occhi della gente dalla colpa che aveva compiuto. Ma si era sbagliato. Per questo, sarebbe stato sufficiente un duello.

O un matrimonio.

Adesso, Henry si rendeva perfettamente conto di come stavano le cose. Sua sorella aveva rifiutato una marea di pretendenti, e ora si era donata ad un uomo. Se aveva compiuto questo gesto, allora, non c’era dubbio che l’avesse fatto per amore. Nonostante lui l’avesse disonorata, Catherine amava l’uomo a cui si era concessa.

E ora, avendola ceduta a quell’infame di Lord William per salvare la propria, inutile, schifosa pelle, Henry l’aveva condannata due volte: moglie di un uomo spregevole e per di più separata da quello che era il suo amore.

Mi dispiace tanto, Cathy…

- Ehi, avete sentito?- la frase biascicata ad alta voce da uno dei clienti lo distolse dai suoi pensieri; alzò lo sguardo verso il tavolo da cui era provenuta la domanda, scorgendo quattro uomini che bevevano e giocavano a carte.

- Hanno trovato un altro morto…- disse uno di loro, rispondendo alla propria domanda.

- Un altro morto ammazzato?- fece un secondo. Il primo annuì.

- Nella foresta, sbranato vivo pure questo.

- Chi era, si sa?- chiese il terzo.

- Un riccone del villaggio qui vicino, uno che commerciava in spezie. Sai, quello spilungone che una settimana fa stava giocando a carte con Lord William Montrose, ricordi?

Henry, a sentire quell’ultima frase, aggrottò le sopracciglia. Lord William conosceva la vittima…

- E’ il sesto…- mormorò il secondo.

- Io dico che c’è qualcosa, in quella foresta!- esclamò d’un tratto il quarto, con una punta d’ira.

- Qualcosa di mostruoso, una bestia che sbrana i poveri malcapitati che si perdono nel bosco!

- Ma non dire fesserie!- lo rimbrottò il terzo.

- Ah, io dico fesserie? Datemi retta, io dico che in quella foresta c’è qualche essere demoniaco, un mostro che si diverte a sbranare gli uomini…Lo stesso che ha sbranato il Conte DeBourgh e il Marchese Van Tassel, e anche quell’altro…come si chiamava…il quarto che è morto, quel proprietario terriero…ah, sì, Whitaker!

Whitaker. Il nome fu come un eco nella mente di Henry.

Sì, si ricordava di Whitaker. O meglio, ricordava i commenti che si erano fatti su di lui.

- Povero Whitaker…!- avevano continuato a dire al Leone d’oro, quando lui non era ancora morto.

- Stavolta non so proprio come se la caverà…

- Lord William l’ha rovinato…

Lord William!

Henry sentì il sangue salirgli alle tempie. Ora ricordava. Whitaker aveva fatto la sua stessa fine, aveva perso una fortuna a carte, giocando contro Lord William, e Henry rammentava anche di aver sentito qualcosa in merito ad un rifiuto di pagamento, o qualcosa di simile. Ma questo non importava.

Lord William aveva conosciuto due delle vittime, e aveva giocato a carte con loro. Non solo, ricordò Henry improvvisamente, era certo di aver visto Lord William allontanarsi in compagnia del Marchese Van Tassel, prima che questi venisse trovato ucciso…

E, pensò Henry, con un po’ di fortuna non sarebbe stato difficile trovare una connessione anche con il Conte DeBourgh e le altre vittime…

Non ne era certo, ma ora il suo sesto senso gli stava urlando di stare attento.

Perché, forse, Lord William nascondeva un segreto…

 

***

 

Catherine si svegliò presto; era sempre stata mattutina, quindi non fu difficile, per lei, alzarsi. Fuori nevicava; la ragazza sorrise, alla vista dei fiocchi di neve. L’ultima volta che c’era stata neve a Natale, lei ed Henry erano molto piccoli e Rosalie non esisteva ancora. Da quella volta, aveva sempre sperato che a Natale nevicasse, ma non l’aveva mai fatto; fino a quel giorno.

Si vedeva che doveva essere un Natale speciale.

Si alzò in fretta dal letto, gettando lontano da sé le coperte con un gesto allegro. Si diresse verso l’armadio e ne estrasse l’abito che, dopo molti dubbi e indecisioni, aveva deciso di indossare per quel giorno. Si trattava di un vestito bianco, non pesante ma sufficientemente adatto al clima invernale; le lasciava le spalle leggermente scoperte, mentre le maniche lunghe terminavano con una sottile striscia di pizzo ai polsi. Intorno alla vita era avvolta una sciarpa color crema, che le cingeva i fianchi lasciando che un lembo pendesse lungo la gonna.

Catherine fece per acconciarsi i capelli in una treccia, ma improvvisamente ricordò che, una volta, Adrian le aveva detto che gli piaceva molto quando teneva i riccioli corvini sciolti sulle spalle. Decise quindi di lasciarli così com’erano; ultimamente, sentiva sempre più forte il desiderio di fare piacere al padrone di casa. Catherine non sapeva perché, ma ogni volta che lui le parlava sentiva il cuore accelerare i suoi battiti, e sempre più spesso si ritrovava a ricercare il suo sguardo, quando chiacchieravano, quando cenavano insieme, quando leggevano…

Tutta l’avversione e l’astio che aveva provato nei suoi confronti i primi tempi si erano come dissolti; alla ragazza sembrava quasi che quei giorni facessero parte di un brutto sogno, dal quale, fortunatamente si era risvegliata.

Oggi è Natale, si disse. E dev’essere un bel giorno…

Diede un ultimo colpo di spazzola alla chioma corvina, quindi uscì dalla stanza e prese a scendere velocemente i gradini dello scalone.

Trovò i domestici nell’atrio, Ernest e Peter intenti ad armeggiare con palline e festoni, Constance che li osservava, in disparte, un po’ pensierosa.

- Buon Natale!- salutò Catherine, finendo di scendere le scale.

- Buon Natale, Cathy!- augurò Peter, frugando in un vecchio baule colmo di decorazioni.

- Buon Natale - fece Ernest, appendendo una pallina all’albero.

Catherine osservò l’abete; il giorno prima, lei ed Ernest erano stati quasi tutta la mattinata nella foresta, alla ricerca di un albero di Natale adatto. Alla fine, la scelta era caduta su di un abete non molto alto ma con folti e lunghi rami, l’ideale per appenderci delle decorazioni.

La ragazza si chinò sul baule, prendendovi due o tre palline bianche e argentate.

- Buon Natale, Constance - augurò.

- Buon Natale…- borbottò la donna, senza sorridere.

- Che c’è? Qualcosa non va?- domandò Catherine.

- No, è solo che…Il padrone lo sa, di tutta questa storia dell’albero?

- Beh…veramente no - ammise la ragazza.

- Ma…non pensi che sarebbe stato il caso di chiederglielo?- incalzò Constance, guardando Peter tentare di decorare l’abete con un festone e avvolgendosi quest’ultimo intorno alla vita.

- E a che pro?- fece Catherine.- Non penso che a Natale si debba chiedere il permesso per addobbare l’albero.

- Beh, veramente, sì - insistette Constance.- Insomma, qui non facciamo nulla senza l’autorizzazione del padrone e…Cathy, ricorda che nessuno, in questo maniero, festeggia il Natale da dieci anni, ormai!

- Ma…intendi dire che non lo festeggiate proprio?- fece Catherine, incredula.- Cioè, niente regali, niente di niente?

Constance scosse il capo. Anche Peter ed Ernest assunsero un’espressione seria.

- Il Natale, qui, è sempre stato un giorno come un altro - spiegò il vecchio.- Il padrone non ha più voluto festeggiarlo da quando…- Ernest si bloccò, come alla ricerca delle parole adatte.

- Da quando?- incalzò la ragazza.

- Da quando suo padre è scomparso - concluse Constance, scoccando ad Ernest un’occhiataccia che Catherine non faticò ad intercettare.

Era da un po’ di tempo che la ragazza aveva l’impressione che tutti, perfino Peter, le stessero nascondendo qualcosa. Aveva provato più e più volte a capire di cosa si trattasse, ma si era sempre trovata di fronte ad un muro di mattoni. Tuttavia, non voleva guastare l’atmosfera festosa con una serie di domande a raffica, quindi fece finta di nulla.

- Beh, forse è ora che ricominci - dichiarò.- Io sono sicura che a suo padre avrebbe fatto piacere. E in ogni caso, non preoccupatevi, me la vedrò io, con lui - aggiunse, notando lo sguardo poco convinto di Constance.

Ripresero ad addobbare l’albero, chiacchierando del più e del meno, fino a che Ernest non estrasse dal baule una scatolina dorata. Il vecchio l’esaminò per qualche istante, quindi l’aprì; subito, da essa cominciò ad uscire una melodia ritmata e allegra, come quella delle danze delle feste di paese a cui Catherine partecipava quando ancora lei e la sua famiglia stavano in città.

- E’ un carillon!- esclamò la ragazza.

- Orecchiabile, questa canzone - commentò Peter, mentre già cominciava a non riuscire più a stare fermo.

- Che fai, Peter? Ti metti a ballare?- scherzò Catherine; poi, senza attendere risposta, prese le mani del ragazzino fra le sue.- E apriamo le danze, allora!

Cominciarono a volteggiare, preoccupandosi poco di seguire il ritmo, ridendo come due bambini. D’un tratto, Peter si fermò e, fattosi serio, si esibì in un inchino a cui la ragazza rispose con una breve e infantile riverenza. Ripresero a ballare, atteggiandosi a dama e cavaliere, fatto che strappò ad Ernest un breve risata.

- Ma cosa ridi?!- lo rimbeccò Constance.- Cerca di rimanere serio e fai smettere subito quella musica, piuttosto!

- Oh, andiamo, Constance! Guarda come si divertono!- disse Ernest, indicando Catherine e Peter che volteggiavano, ridendo come matti.

- Ma sono solo io, qui, ad avere un po’ di buon senso?! Non sappiamo se il padrone è d’accordo, se si accorge che stiamo…

- E dai, mamma, lasciati andare!- la incitò Peter, interrompendo per un attimo quella folle danza.

- Giusto, Constance, lasciati andare!- ripeté Catherine, prendendo una mano della donna e tirandola verso di sé. Constance lanciò un gridolino di sorpresa, mentre la ragazza, ridendo, la trascinava con sé in una serie di piroette.

- Oh…! Oh, santo cielo! No, Cathy, non…! Oh, cielo!- alla fine, anche Constance iniziò a ridere come una bambina, lasciandosi travolgere dal ballo.

Peter batté le mani, unendosi insieme ad Ernest alle risate; d’un tratto, però, il ragazzino sbiancò, e corse immediatamente a chiudere il coperchio del carillon, facendo così cessare la musica. Le due donne si bloccarono di colpo.

- Peter, ma perché hai…?- iniziò Catherine, ma all’improvviso si accorse che gli altri domestici stavano guardando, immobili, lo scalone. La ragazza si voltò, vedendo la figura del padrone in piedi di fronte a loro.

Era vestito di nero, come al solito, e indossava sempre lo stesso mantello scuro con il cappuccio abbassato; era evidente che non si aspettava feste, pensò Catherine.

- Che succede qui?- fece, osservando l’intero salone.

Non sembrava innervosito, solo sorpreso, ma Constance emise comunque un gemito soffocato.

- Mi dispiace, padrone…- pigolò.

- Che succede qui?- ripeté Adrian, terminando di scendere i gradini.

Catherine si schiarì la voce, lisciandosi le pieghe del vestito.

- Buon Natale, Adrian - disse.

Lui parve ancora più sorpreso.

- Io…oh, beh, io…buon Natale…- mormorò infine.- Cosa state facendo?

- E’ colpa mia, Adrian - disse la ragazza.- Sai, ho pensato che sarebbe stato carino, un albero di Natale…ti dispiace?

- Cosa? No, io…non mi dispiace affatto - disse, guardando l’albero ancora non completamente addobbato.- E’ stata una tua idea?

- Sì - disse Catherine.- Ho saputo che voi qui non festeggiate mai il Natale, ma mi sono chiesta se…se per caso quest’anno non volessi fare un’eccezione e…vuoi fare un’eccezione?

Il padrone la guardò, con il suo solito sorriso a denti aguzzi, ma sincero.

- E eccezione sia!- acconsentì.

I volti di Peter ed Ernest si illuminarono; Catherine credette che Constance stesse per svenire dallo stupore.

- Grazie, Adrian!- sorrise la ragazza, radiosa.- Che ne dici, ti va di aiutarci a finire di addobbare l’albero?

Ormai mancava davvero poco, solo qualche decorazione; all’inizio, i domestici erano visibilmente a disagio per la presenza del mostro, ma dopo poco cominciarono ad abituarcisi, riprendendo a chiacchierare allegramente. Catherine e Adrian terminarono di appendere le varie decorazioni, finché non ne rimase soltanto una, un piccolo angelo di porcellana bianca.

Catherine lo prese con attenzione, cercando di appenderlo all’unico ramo rimasto libero, ma era troppo in alto.

- Cielo, quanto vorrei avere qualche centimetro in più!- sbuffò la ragazza.

Il padrone le si avvicinò.

- Aspetta, ti aiuto…- disse.

Sfiorò lievemente una mano della ragazza con una delle sue zampe artigliate, aiutandola ad arrivare fino al ramo. Quando Catherine ebbe sistemato l’angelo, tuttavia, nessuno dei due lasciò la mano dell’altro; le riabbassarono contemporaneamente, e la ragazza abbandonò il proprio palmo nella mano artigliata di Adrian.

Catherine distolse lo sguardo, sentendosi avvampare.

Constance, Ernest e Peter interruppero ciò che stavano facendo, sporgendosi a guardarli; sulle labbra della donna si dipinse un sorrisetto malizioso.

- Grazie…- mormorò piano Catherine.

- Di niente…- rispose il padrone, con un sorriso sghembo.

Non appena si accorsero che i domestici li stavano fissando, si riscossero immediatamente.

- Oh, ma che sbadata!- esclamò la ragazza.- Non vi ho ancora dato i vostri regali.

Detto questo, si chinò ed estrasse da sotto l’albero tre pacchi che aveva nascosto la sera prima.

- Constance, Ernest, Peter, tanti auguri di buon Natale!- disse, distribuendo i regali ad ognuno dei domestici.

- Wow, grazie, Cathy!- esclamò Peter, iniziando a lacerare la carta del proprio pacchetto.

- Non dovevi…- fece Ernest.

- Oh, cielo, che vergogna, io non ho niente per te…- fece Constance, aprendo il proprio regalo.

- Non fa niente…Non è granché, lo so, ma ho fatto del mio meglio. Spero che vi piacciano.

Ai domestici piacevano; erano abiti, ma per loro, che da tempo immemorabile, ormai, non indossavano altro che vestiti stracciati, parvero come pentole d’oro. Catherine aveva regalato a Peter tre sciarpe, una rossa, una verde e una blu, e ad Ernest due camicie di lino bianche; quanto a Constance, per lei la ragazza aveva cucito tre abiti, due molto semplici, e il terzo rosso fuoco con ricami di pizzo e la gonna di seta.

- No, questo…questo è…è troppo per me…- disse, rimirandolo.- Catherine, davvero, grazie, io non…mamma mia, credo che non avrò mai il coraggio di indossarlo, talmente è bello…

Catherine rise; anche Adrian sorrise, avvicinandosi a lei.

- Ecco a cosa ti serviva, quella stoffa…

Non c’erano regali per lui, ma il mostro non se ne prese a male.

Sei tu il regalo più bello, pensò, guardando Catherine che, sorridente e vestita di bianco, in quel momento gli parve come un angelo.

Ecco cos’era Catherine: un angelo. Un angelo che era arrivato a portare un po’ di luce nella sua vita buia. Adrian si rendeva conto di non aver accettato subito quel dono che il cielo aveva voluto mandargli, e non passava giorno senza che non si pentisse per quello che aveva fatto a quella ragazza.

Prima che lei arrivasse, lui era una bestia. Sì, una bestia. Era conscio di essere un mostro, ma, dopo dieci anni, lo era divenuto anche all’interno, non solo esteriormente. Da dieci anni viveva rinchiuso nel suo stesso castello, solo, senza altra compagnia se non quella di tre domestici che a malapena gli rivolgevano la parola, tanto si era fatto temere. Era una bestia, prima che Catherine arrivasse, lui non distingueva nemmeno più cosa provava: le sue emozioni erano un groviglio insensato di sentimenti, ormai non riusciva più a capire cosa provasse veramente, o se fosse ancora in grado di provare qualcosa.

Adrian non ricordava neanche perché l’avesse tenuta prigioniera, perché l’avesse maltrattata in quel modo, quando lei non aveva fatto altro che consegnarsi a lui per salvare suo padre…Ma in quei momenti, era come se non fosse più Adrian, il mostro si era impossessato di lui, era la bestia che dettava legge: la bestia gli ordinava di urlare contro Catherine, era la bestia che voleva che lui la maltrattasse…ma era stata anche la bestia che, quella notte, si era scatenata contro i due tagliagole che stavano per farle del male.

Ma da quella notte, qualcosa era cambiato: la bestia a volte riusciva ancora a prendere il sopravvento, ma col tempo lui aveva imparato a dominarla…e, grazie all’aiuto di Catherine, Adrian sentiva di aver sconfitto per sempre il mostro. Quando Catherine gli era vicino, lui sentiva che le emozioni ricominciavano a prendere forma: quando parlava con lei, quando lei gli sorrideva, o semplicemente quando la guardava, cominciava a dare un nome a quello che provava, prima simpatia, poi amicizia, affetto…amore.

Amore. Sì, con il tempo si era reso conto che era amore, quello che provava per Catherine. Non che sapesse molto di cosa voleva dire amare: quando la sua vita era finita per sempre, lui aveva vent’anni, si era invaghito di qualche fanciulla, aveva avuto qualche avventura, e l’unica persona a cui sentiva di aver mai voluto bene era suo padre, benché, prima di scoprire chi fosse in realtà, si fosse sentito molto vicino anche alla sua matrigna.

Ma non aveva mai amato nessuno come amava Catherine.

Lei non era solo bella, era anche dolce e intelligente; era stata la prima persona, dopo tanto tempo, che avesse saputo accettarlo, che avesse dimostrato un po’ di affetto nei suoi confronti…che avesse saputo guardare oltre la sua mostruosità.

Quello che era successo poche settimane prima, quell’abbraccio inaspettato, li aveva avvicinati molto. Adrian temeva che lei provasse ancora ribrezzo per lui, e per questo cercava sempre di aspettare che fosse lei ad avvicinarsi, a toccarlo, benché a volte la tentazione era per lui così forte da divenire insopportabile. Il padrone assaporava fino in fondo i momenti in cui le porgeva la mano per aiutarla a scendere da cavallo, e quando, cenando vicini, la mano di lei sfiorava casualmente una delle sue zampe mostruose.

Ma erano quando leggevano insieme, seduti l’uno accanto all’altra, che si sentiva veramente felice. Gli piaceva osservare senza essere visto il suo bel viso concentrato nella lettura. Spesso, in quei momenti, immaginava come sarebbe stato posarle un lieve bacio sulla spalla, o accarezzarle piano una guancia, tracciando il suo profilo e insinuando le sue dita artigliate fra i capelli corvini della ragazza. Era sicuro che lei ne sarebbe stata inorridita, che l’avrebbe respinto con orrore; ma non poteva impedirsi di immaginare quanto sarebbe stato bello, per una volta, una sola volta, tenerla fra le braccia e posarle un bacio sulle labbra.

Lei avrebbe provato ribrezzo…all’inizio. Forse, ora no.

Adrian lo sperava con tutto il cuore; voleva che Catherine rimanesse con lui, per sempre, non da prigioniera, ma con la volontà di rimanere…rimanere al suo fianco, perché lo amava.

I domestici avevano ripreso a chiacchierare; Peter aveva riacceso il carillon.

- Che cos’è?- domandò Adrian, ascoltando quella musica vivace.

- Non lo so, ma a me piace un sacco - rispose Catherine, allegra.- E anche a Constance.

- A me?- fece la donna, sgranando gli occhi.

- Certo, poco fa ti sei esibita in veste di ballerina!- scherzò Ernest.

- Ma per piacere…- borbottò lei.

- Forza, Constance, vogliamo il bis!- rise Catherine.

- Sì, mamma, dai!

- No, no, no, non se ne parla nemmeno, e poi io…

- E su!- Ernest si fece avanti, trascinando la donna al centro del salone.

- Cosa?! No, ma che scherziamo?! Io non ballo con te, non voglio averti sulla coscienza se ti rompi un femore…

Ernest non l’ascoltò, cominciando a trascinarla in una danza non molto veloce, a causa dell’età di lui e della resistenza di lei. Catherine fece una breve risata, quindi si voltò verso il padrone.

Gli prese una mano artigliata.

- Balliamo anche noi, che ne dici?

- Cosa? Io…non so ballare, mi dispiace - ammise il mostro, stringendosi nelle spalle.

- Beh, neanch’io. Siamo una coppia perfetta, non ti pare?

Alla fine, Adrian si lasciò convincere.

Iniziarono un valzer strano, fuori tempo, senza seguire i passi della danza, ma a loro non importava. Catherine si divertiva un mondo, ridendo della propria goffaggine; alla fine, esausta per il troppo danzare e il troppo ridere, appoggiò il capo contro il petto del padrone.

A quel gesto, Adrian iniziò a sperare più vivamente.

 

***

 

Rosalie si faceva tirare; Lady Julia la strattonava per un braccio, ma senza forza, quasi stesse trasportando un sacco di patate.

Rosalie aveva tentato più volte di rivedere suo padre, ma invano. La porta della sua stanza era sempre chiusa a chiave; tuttavia, la ragazzina lo sentiva gemere e tossire tutta notte, e ogni giorno che passava era sempre più in ansia per lui.

Aveva tentato di raccontare quello che aveva scoperto su Lady Julia, ma invano; la matrigna la teneva chiusa nella sua stanza dalla sera prima, e quelle due o tre parole che era riuscita a spiccicare con Lydia erano subito state liquidate come sciocche fantasie.

Lady Julia aprì la porta d’ingresso; subito, il vento gelido dell’inverno nevoso entrò nella casa.

- Devi andare nella foresta - le disse la matrigna.- Mi occorrono delle bacche.

- Bacche? Per che cosa?- fece Rosalie, diffidente.

- Per le medicine di tuo padre. Prendine quante più riesci.

- Come pretendete che trovi delle bacche in mezzo alla neve?

Per tutta risposta, Lady Julia la tirò per un orecchio.

- Credi che non sappia quello che faccio o che dico, ragazzina? Su, forza, muoviti!- e la spinse verso la porta.

- Signora Kingston!- chiamò Lydia, scendendo in fretta le scale.

- Cosa c’è?- ringhiò Lady Julia.

- Non pensate che sarebbe il caso che smettesse almeno di nevicare? La signorina Rosalie potrebbe prendersi una polmonite, se…

- Mio marito è malato, vecchia - disse Lady Julia.- E’ grave, quelle bacche mi servono il più presto possibile.- Tornò a rivolgersi a Rosalie.- Se vuoi aiutare tuo padre, mocciosa, allora muovi le gambette e vai nella foresta!- detto questo, le diede in mano un cestino vuoto.

Rosalie lo prese, stringendolo forte fra le mani.

- E va bene!- acconsentì, afferrando la maniglia della porta.

- Aspettate, signorina!- fece Lydia, avvicinandosi.

Rosalie vide che la vecchia balia aveva in mano uno strano involucro rosso; quando lo sciolse, questo divenne una mantella con il cappuccio, che Lydia le avvolse intorno alle spalle.

- State attenta, signorina - si raccomandò.- Non lasciate mai il sentiero, e guardatevi dagli sconosciuti…

La ragazzina annuì, seria.

- Abbiamo finito?- fece Lady Julia, impaziente, spingendo la figliastra fuori dalla porta.

Rosalie riuscì appena a intravedere gli occhi colmi di preoccupazione di Lydia, prima che la porta in legno di quercia di casa sua si chiudesse con un tonfo.

 

***

 

Rolf e gli altri cani annusarono avidamente il colletto di pizzo bianco che il loro padrone gli porgeva. Lord William ghignò soddisfatto, mentre i cani ululavano e iniziavano a correre verso la foresta.

Lady Julia gli aveva fornito il colletto della sua figliastra per meglio facilitare la caccia ai suoi cani. Presto avrebbero stanato la preda, pensò Lord William.

Presto Catherine sarebbe stata sua.

 

***

 

Rosalie inspirò l’aria gelida del mattino, stingendo più forte il cesto di vimini fra le dita già intirizzite. Se davvero quelle bacche servivano per suo padre, allora poco importava che Lady Julia fosse una strega e che lei dovesse camminare in mezzo alla neve, le avrebbe trovate.

Si mise il cappuccio rosso per proteggersi dalla neve che continuava a cadere, e si addentrò nella foresta.

 

***

 

Catherine scivolò nella biblioteca, chiudendosi la porta alle spalle.

- Perché mi hai portato qui?- domandò Adrian, in piedi di fronte a lei.

La ragazza si avvicinò al tavolino, sul quale era poggiato un piccolo pacco. Lo prese e lo porse al padrone.

- Volevo darti il tuo regalo.

Il mostro rimase un attimo interdetto, quindi lo prese con un sorriso.

- Pensavi che mi fossi dimenticata di te, vero?- ridacchiò Catherine.

- Grazie, Catherine, io…

- Aspetta a ringraziarmi. Prima, aprilo.

Il padrone ubbidì, aprendolo con cura.

Era un libro.

Non un libro normale, perché le pagine erano cucite insieme con ago e filo, ed erano tutte bianche.

- E’ un libro. Cioè, una specie - spiegò Catherine.- Vedi, non sapevo cosa regalarti, poi ho pensato che a te piacciono molto i libri. E così, ecco qui. Questo è un libro tutto tuo, puoi scriverci quello che vuoi. Lo so, è un’idea sciocca, ma…

- Non è affatto un’idea sciocca. Mi piace molto - sorrise il padrone.- E…e spero che vorrai scriverlo insieme a me…

- Con molto piacere, se vorrai - Catherine lo guardò sorridendo.

Calò il silenzio, ma un silenzio amichevole, non carico di tensione come i primi tempi. La ragazza si avvicinò alla finestra, osservando la neve cadere. Adrian poggiò il libro sul tavolino, sentendo che il nervosismo stava aumentando.

Guardò la ragazza. Catherine, con quell’abito bianco, illuminata dalla luce della neve, era una visione stupenda.

- Sei bellissima…- sussurrò.

La ragazza si voltò a guardarlo, arrossendo vistosamente.

- Grazie…- mormorò.

Catherine si accorse che Adrian era come in difficoltà, quasi stesse cercando di dire qualcosa che non sapeva esprimere. Teneva gli occhi bassi, senza guardarla.

- Adrian…- chiamò, un po’ preoccupata.- Adrian, va tutto bene?

- Sì…sì, io…- balbettò, poco convinto.- Sì, sto bene…

La ragazza sapeva che non era vero. C’era qualcosa che lo turbava, era evidente. Mosse qualche passo verso di lui.

- Adrian, se c’è qualcosa che ti turba, a me puoi dirlo, se vuoi - disse.

- Io…in effetti, c’è una cosa che vorrei chiederti…- mormorò il mostro, sempre tenendo gli occhi bassi.

- Ti ascolto - lo incoraggiò la ragazza.

Adrian prese un bel respiro, quindi si decise a parlare.

- Catherine - disse, guardandola con i suoi impenetrabili occhi azzurri.- Catherine, vuoi sposarmi?

 

Angolo Autrice: Scommetto che questa non ve l’aspettavate…XD!

Ok, scherzi a parte, il mantello di Rosalie è un chiaro riferimento a Cappuccetto Rosso…nel prossimo capitolo, vedremo cosa succederà alla piccola Rose e come risponderà Cathy…

Un avviso: chiedo scusa a tutti voi, ma cause di forza maggiore mi terranno lontana da EFP per un po’, e dovrei riuscire a pubblicare il prossimo capitolo solo verso il 10 luglio. Vi chiedo di nuovo scusa, e spero che avrete la pazienza di continuare a seguirmi, vi assicuro che ho tutta l’intenzione di finire questa ff e che pubblicherò il prossimo capitolo appena mi sarà possibile.

Ringrazio molto tutti coloro che leggono, castilla e Flaren per aver aggiunto questa ff alle seguite, Black Fairy per averla aggiunta alle preferite e per la sua recensione, LaFenice per averla aggiunta alle ricordate, ed Ellyra per aver recensito.

Chiedo scusa ancora e spero di ritrovarvi tutti qui!

Ciao a tutti!

Dora93

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Capitolo 15
*** Bianco come la neve, rosso come il sangue ***


 

Catherine ebbe la sensazione di cadere, tanto da appoggiare una mano ad una parete nel tentativo di tenersi in equilibrio. Boccheggiò, incapace di distogliere lo sguardo dal volto mostruoso di Adrian. Le ci volle qualche momento, prima di riuscire a mettere a fuoco il senso di quello che era appena uscito dalle labbra del mostro, ma alla fine si rese conto di quel che stava succedendo: Adrian le stava chiedendo di diventare sua moglie.

Si sentì impallidire, mosse le labbra come per parlare, ma dalla sua bocca non uscì alcun suono. Catherine si mise alla disperata ricerca di una risposta adeguata, ma forse questa risposta neanche esisteva. Che doveva fare? Era già rimasta in silenzio per troppo tempo, esitare ancora sarebbe stato scortese...

Sì, scortese, si disse. Ma tremendamente rivelatorio.

Catherine vide gli occhi azzurri di Adrian adombrarsi di un velo di tristezza, quindi il mostro sospirò, chinando il capo.

- Lo sapevo...- mormorò.- Sapevo che non avresti mai accettato...Ma...per un attimo...ho creduto che...

Non terminò la frase, incapace di continuare.

Catherine si sentì salire le lacrime agli occhi, improvvisamente consapevole di quello che aveva appena fatto. L'aveva ferito. Lui si era innamorato di lei, aveva trovato il coraggio di dichiararsi, e lei gli aveva causato un dolore immenso nel rifiutarlo. Non era come le altre volte. Aveva respinto una marea di pretendenti, ogni volta deridendoli e ridicolizzandoli per la loro passione falsa e nutrita di luoghi comuni stantii, ma stavolta era diverso. Era Adrian che stava respingendo.

- Sono stato uno stolto. Non avrei mai potuto sperare che tu accettassi di diventare mia moglie, che tu ti innamorassi di me...Perché dovresti ricambiare l'amore di un mostro?- disse Adrian, amaramente, senza guardarla negli occhi.

Senza quasi rendersene conto, Catherine aveva iniziato a singhiozzare; si sentì infinitamente stupida e ipocrita, avrebbe voluto strappare via quelle dannate lacrime dalla sua faccia, ma queste continuavano a rigarle le guance, senza fermarsi.

- Mi dispiace...- singhiozzò, chinando il capo.- Mi dispiace tanto, Adrian...

Non ce l'avrebbe fatta a rimanere lì un minuto di più. Non con la consapevolezza che le sue lacrime la stavano rendendo ancora più ipocrita e patetica, non sapendo di stare facendo del male ad entrambi, non conscia di aver ferito Adrian in un modo tale che nemmeno mille spade avrebbero potuto eguagliare.

Senza guardarlo, gli passò accanto velocemente, quasi correndo e, senza smettere di piangere, afferrò la maniglia della porta e la spalancò.

- Mi dispiace...- ripeté, singhiozzando, prima di uscire di corsa dalla biblioteca chiudendosi la pesante porta di legno alle spalle.

Il padrone non disse nulla, né la guardò. Tenne il capo chino, stringendo i pugni abbandonati lungo i fianchi fino a conficcarsi le unghie affilate nella carne; serrò le labbra e chiuse gli occhi, mentre il dolore e l'umiliazione cominciavano a farsi strada nel suo animo.

 

***

 

Catherine attraversò i corridoi bui del maniero di corsa, senza fermarsi, senza riuscire a frenare le lacrime. Quando raggiunse la sua stanza, vi si chiuse dentro e serrò la porta a chiave, per poi lasciarsi scivolare con la schiena contro il legno di quercia, fino a ritrovarsi seduta sul pavimento. Si prese il viso fra le mani, affondando nella disperazione. Le lacrime non volevano saperne di smettere di sgorgarle dagli occhi, le sembrava quasi che qualcuno le avesse afferrato il cuore e lo stesse stringendo in una morsa.

Scivolò fino al tappeto persiano disteso di fronte al caminetto e vi si stese, raggomitolandosi in posizione fetale. Inspirò l'odore della cenere e delle braci, mentre quello che era appena successo assumeva nella sua mente contorni ora più confusi ora chiari e vividi.

Adrian l'amava. Come aveva potuto non accorgersene prima? Ora che la verità le era stata sbattuta in faccia in quella maniera così palese e inequivocabile, Catherine cominciava a trovare un perché a tutti i comportamenti del mostro. Quella sua strana attenzione per lei, quel suo interesse nei suoi confronti, quel continuo cercarla, l'impegno costante affinché lei stesse bene e non le mancasse nulla per essere serena...Quello era amore, dunque? Amore che gli aveva fatto dimenticare che lei non era nient'altro che una serva, che lo aveva spinto a ricercare il perdono per tutto ciò che le aveva fatto patire all'inizio, che lo aveva perfino indotto a chiederle di sposarlo?

Catherine lo aveva perdonato; tutto quel che era successo fra di loro i primi tempi faceva ormai parte di un ricordo lontano, un brutto sogno da cui finalmente si era risvegliata...Spesso si chiedeva come fosse riuscita a fare una cosa simile. Era consapevole di non essere come quelle principesse delle favole così stucchevolmente buone da perdonare anche la più crudele delle infamie, di essere una persona permalosa e, a volte, anche vendicativa, e di avere il brutto vizio di legarsi al dito qualunque torto. Com'era possibile che avesse perdonato Adrian, dopo tutto quel che le aveva fatto?

Questa domanda, ora, in quel momento, andava a mischiarsi con altre che già da tempo affollavano la sua mente. Si era resa conto di essere molto cambiata, da quando Adrian era entrato nella sua vita. Si era ritrovata a provare emozioni e sensazioni mai sperimentate prima, a cui fino a quel momento era stata incapace di dare un nome. Anche il suo comportamento non era più lo stesso? Cos'era quello stano batticuore quando stava per incontrarlo, quel piacevole fremito quando a tavola le loro mani si sfioravano o quando il padrone le si avvicinava per parlarle o per leggere insieme a lei? Perché, se fino a pochi mesi prima si era sempre creduta una persona indipendente e non le era mai importato nulla del comportamento altrui, ora era costantemente governata dal desiderio di fargli piacere, perché si sentiva sussultare, non per paura o ribrezzo, quando i suoi occhi incrociavano quelli gelidi e impenetrabili di Adrian, quando i loro volti si trovavano così vicini che le loro labbra erano ad un passo dallo sfiorarsi?

Anche lei era innamorata di lui? Catherine non lo sapeva, né voleva saperlo. In quel momento, si sentiva come le protagoniste dei romanzi che aveva letto insieme ad Adrian. Anche lei era amata da un mostro, ma era stata peggiore di Christine Daae e della Esmeralda. Loro, almeno, non si erano mostrate gentili e dolci con l'essere mostruoso che le amava, lo avevano respinto subito, mentre lei aveva illuso Adrian. L'aveva ingannato con il suo comportamento, gli aveva fatto credere di provare qualcosa per lui, e ora l'aveva ferito, rifiutandolo.

Benché il desiderio di rimediare a quello che aveva fatto fosse così forte da urlarle di smetterla di piagnucolare e di correre immediatamente fra le braccia del padrone di casa, Catherine sapeva che non avrebbe mai potuto accettare di diventare sua moglie.

Non ci credeva più, nell'amore. Era un'illusione che si era lasciata alle spalle molto tempo prima, quando sua madre era morta. Aveva sempre visto il mercante e Lady Elizabeth come l'esempio vivente dell'amore. Fra i suoi genitori non c'erano mai state ombre, mai nuvole ad oscurare la loro felicità. Poi, tutto si era spezzato. Quando sua madre era morta, era come se suo padre avesse perso un pezzo di se stesso, un frammento che non sarebbe mai più riuscito a ritrovare. Quando, alla fine, nonostante avesse più volte dichiarato che non avrebbe mai amato nessun'altra all'infuori della moglie defunta, il mercante si era risposato con quell'arpia di Lady Julia, a Catherine era sembrato di assistere alla morte non solo di sua madre e della sua memoria, ma anche a quella dell'amore. Era evidente che il mercante aveva sposato Lady Julia senza amarla, spinto solo dalla convinzione che i suoi figli, Rosalie in particolar modo, avessero bisogno di una figura materna, e che, da parte sua, la sua seconda moglie si era innamorata più del suo allora gonfio portafogli che di lui; Catherine aveva provato per mesi un senso di tristezza misto a sconforto e disgusto, e aveva giurato a se stessa che mai si sarebbe sposata, mai avrebbe amato qualcuno, se il suo destino era quello di vedere il suo amore un giorno ridicolizzato e ridotto alla stregua della più volgare e grottesca imitazione della passione dei romanzi cavallereschi. L'amore era un gioco, solo uno stupido gioco senza importanza. Suo padre e la sua matrigna dimostravano che le cose stavano così; ne avevano dato prova i suoi pretendenti, che la riempivano di frasi fatte lette nei libri prive di ogni significato; e lo dimostravano anche suo fratello, quando tornava a casa tardi la sera con addosso l'odore del bordello e del profumo forte e dolciastro delle prostitute da cui aveva comprato i favori, e Lord William, che aveva preteso di ottenere il suo amore attraverso la forza.

L'amore era un'illusione, nulla di più. E, se anche così non fosse stato, se anche si fosse sbagliata, Catherine sentiva che non avrebbe mai potuto ricambiare Adrian. Non voleva. Non voleva amarlo, perché sapeva che perderlo sarebbe stato troppo, per lei, da sopportare. Se un giorno l'avesse perduto, se un giorno fosse accaduto ciò che era successo ai suoi genitori, Catherine sapeva che non sarebbe stata così forte come suo padre.

Non avrebbe potuto vivere, senza quel frammento di sé.

Non singhiozzava più; le lacrime continuavano a scorrere, ma silenziose, rigandole le guance. Era stanca, sentiva le palpebre divenire sempre più pesanti. Decise di non opporre resistenza, e si lasciò andare. Da quando era arrivata al maniero, i suoi sogni erano sempre stati dolci e piacevoli.

Forse, nel sonno, avrebbe ritrovato un po' di serenità.

 

***

 

Rosalie sentiva il rumore dei propri passi affondare nella neve alta e bianca. Per fortuna il tempo si manteneva clemente, ma a giudicare dagli spessi nuvoloni grigiastri che stavano cominciando a coprire il cielo, presto avrebbe ripreso a nevicare. La ragazzina sperò solo che ciò non accadesse finché lei se ne stava ancora la foresta. Come poteva pensare la sua matrigna di trovare delle bacche in quel periodo dell'anno, questo rimaneva un mistero. Così come rimaneva un mistero il perché si fosse lasciata convincere ad andare nel bosco da quella megera.

Rosalie l'aveva fatto essenzialmente per suo padre. Lady Julia sarà stata anche una strega - perché su questo non c'erano dubbi, ormai -, ma la ragazzina ricordava bene tutto quello che aveva letto nei libri di favole, o i racconti meravigliosi che le narrava sua madre la sera per farla addormentare. Le streghe sono esperte di pozioni magiche, pensò. Lady Julia era una strega, quindi sapeva anche come curare suo padre.

Questa era una ben magra consolazione, a dire il vero. Rosalie non aveva mai provato troppa simpatia per la matrigna, ma ora che aveva scoperto il suo segreto l'avversione si era tramutata in vero e proprio terrore. Aveva cercato più volte, da quando era venuta a conoscenza della verità, di dire a qualcuno chi fosse veramente la nuova signora Kingston; ma Lady Julia l'aveva immediatamente chiusa a chiave in camera sua, e quel poco che la ragazzina era riuscita a dire non era servito a granché. Non appena aveva accennato qualcosa alla religiosa e superstiziosa Lydia, questa si era immediatamente fatta il segno della croce e le aveva imposto di non parlare mai più di simili cose che erano solo frutto di Satana; quanto ad Henry, beh, forse lui le avrebbe creduto, ma la ragazzina non era riuscita a dirgli niente. E, in ogni caso, suo fratello ultimamente era strano, distratto, sembrava quasi triste o in ansia per qualcosa, e faceva di tutto per trascorrere in casa il minor tempo possibile.

Era sola; al pensiero, a Rosalie venne voglia di mettersi a piangere. Aveva tredici anni, non sarebbe dovuto toccare a lei occuparsi di faccende da adulti, eppure era così. Era per questo che aveva accettato senza opporsi l'ordine di Lady Julia. Era sola e, ora che anche Catherine era morta - chissà quando e in che modo - doveva pensare lei a tutto; aveva già perso sua madre e sua sorella, non poteva permettere che ora anche il mercante l'abbandonasse. Quindi avrebbe trovato quelle bacche, si disse, cominciando a marciare nella neve con più decisione di prima. Avrebbe trovato quelle dannate bacche, anche se questo comportava fare il gioco di quella strega della sua matrigna, anche se si trattava di congelarsi in mezzo alla neve, non importava; avrebbe salvato suo padre.

Avanzò ancora per qualche minuto; la temperatura si era abbassata, lo sentiva. Aveva molto più freddo. Si sistemò il cappuccio sul capo e si strinse nella mantella rossa, mentre si sentiva scossa da brividi dovuti al gelo. Sentì uno strano rumore proveniente da di fronte a sé. Erano come dei colpi, dei colpi secchi sul legno. Dopo poco, un brusio affaticato di alcune voci.

Rosalie si avvicinò, fino a raggiungere la corteccia di una grande quercia. Rimase semi-nascosta, fissando una piccola radura innevata in cui tre taglialegna, avvolti in pesanti mantelli e cappotti di pelliccia, stavano spaccando alcuni tronchi di alberi abbattuti, legando poi i pezzi di legno insieme con delle robuste corde. Erano tre energumeni grandi e grossi, con delle spalle larghe e delle mani grandi e spesse avvolte in guanti da lavoro. Uno di loro, il più snello, era uno spilungone alto e allampanato, con una leggera barba scura e i capelli neri e arruffati; il secondo doveva avere all'incirca sui quarantacinque anni, aveva un po' di pancia e i capelli castano scuro folti e mossi, così come lo era la barba lunga che gli nascondeva completamente il mento e parte del collo; il terzo, invece, era giovane e robusto, sbarbato e con i capelli di un insolito castano rossiccio.

Il barbuto, d'un tratto, mentre era intento a legare assieme alcuni tronchi, si lasciò sfuggire di mano la corda, e il legno cadde nella neve rotolando.

- E fa' attenzione, Jones!- lo ammonì quello con i capelli rossicci.

- Scusa, non l'ho fatto apposta...- borbottò Jones, raccattando il legno da terra.

- Cerchiamo di muoverci...- fece l'altro per tutta risposta, con un'espressione corrucciata.- Non mi piace stare qui...

- E perché no, Vincent?- chiese lo spilungone, e Rosalie notò che aveva una luce furba e maliziosa negli occhi.

Vincent si voltò di scatto, guardandolo con aria truce.

- E' già abbastanza deprimente dover lavorare anche il giorno di Natale...- rispose, digrignando i denti.- Non voglio dover rimanere nella foresta più di quanto sia necessario. Non dopo quello che è successo...

Si girò di nuovo, tornando a lavorare, ma lo spilungone non aveva intenzione di dargli tregua. Anche Jones sollevò lo sguardo su di lui.

- Che c'è, Vincent, hai paura?- ghignò lo spilungone.

- Io non ho paura, io voglio solo evitare di finire come quel poveraccio di Whitaker e come tutti gli altri...- ringhiò Vincent, assestando un colpo secco e deciso con l'ascia al tronco dell'albero.- Avete sentito, no? Tutti quei morti...

- Sarà stato un cinghiale...o un branco di lupi...- fece Jones, grattandosi il capo con aria noncurante.

- Sì, cinghiali e lupi, come no!- sbottò Vincent, lasciando cadere l'ascia.- Quei disgraziati sono stati sbranati vivi! I cinghiali non hanno delle zanne così grosse, e i lupi non attaccano l'uomo se non sono affamati...Avete sentito quello che si dice in paese? Dicono che ci sia qualcosa nella foresta, un animale, una bestia, un mostro assetato di sangue...

- Che ti succede ora, Vincent, hai paura che il mostro cattivo ti mangi?- ghignò lo spilungone, piombandogli alle spalle e mimando il gesto di un animale feroce che si lancia sulla preda. Vincent lo allontanò con una gomitata.

- Non sto scherzando, ragazzi, e neanche tu dovresti farlo, Tyger!- ringhiò.- Ci sono già sei morti, avete capito? Senza contare poi quella povera ragazza...

- Ragazza? Che ragazza?- fece Jones.

- La figlia di quel mercante, quel Kingston.

Tyger lo guardò inarcando le folte sopracciglia nere, stupito.

- Che c'entra la figlia di Kingston, ora?

- Avete notato che ultimamente non la si è vista più in paese?

- E allora? Magari è malata...

- Dopo sei mesi? L'ultima volta che l'hanno vista era a cavallo, e si stava dirigendo verso la foresta.

- Ma...- provò a obiettare Tyger.- Ma se fosse stata uccisa, avrebbero trovato il corpo come quello di tutti gli altri, no?

- E chi lo sa! Magari quell'animale se l'è sbranata...

- Sì, sbranata!- ridacchiò Jones.- So io in che genere di animale si è imbattuta, quella...

Jones, ridendo, alzò gli occhi dal proprio lavoro, scorgendo un lembo di stoffa rossa che si nascondeva dietro la quercia. Il taglialegna scattò in piedi.

- Ehi! Chi va là?- urlò, al che anche Vincent e Tyger si voltarono in quella direzione.

Molto lentamente, Rosalie, rossa in viso, uscì dal suo nascondiglio.

- Oh!- fece Jones, imbarazzato, vedendo quella figurina esile in mezzo alla neve, vestita con una mantella del colore del sangue.- Ci hai spaventati, lo sai?

- Chiedo scusa - pigolò Rosalie.

- Che ci fai nella foresta? Da sola e il giorno di Natale, per giunta - disse Tyger.- Perché non sei a casa con la tua famiglia?

- Mi servono delle bacche. Sapete dove posso trovarne?- domandò Rosalie.

- Bacche?- ripeté Jones, stupefatto.- Mi spiace, ragazzina, ma non credo che ne troverai, con questa neve...Ti conviene provare quando il tempo sarà un po' migliorato.

- Ma mi servono con urgenza!- inistette Rosalie.

- Senti, piccola, è meglio se te ne torni a casa - disse Vincent.- Credimi, la foresta non è un posto adatto ad una bambina. Su, forza, torna a casa, tua madre sarà in pensiero...

Rosalie scosse il capo, sistemandosi meglio il cappuccio.

- Mi dispiace, ma proprio non posso. Grazie comunque - mormorò, riprendendo lentamente a camminare.

Superò i tre taglialegna, che si voltarono a guardarla, stupefatti e angosciati.

- E va bene...ma sta' attenta!- le gridò Vincent.

Rosalie non si voltò, e continuò a camminare, mentre alcuni fiocchi di neve avevano cominciato a cadere.

 

***

 

- Potrei chiedervi un favore?- sussurrò Henry, appoggiando i gomiti sul bancone e sporgendosi verso l'oste, facendo saettare lo sguardo intorno con aria guardinga.

- Dipende. Che tipo di favore?- fece l'oste, diffidente, asciugando un piatto con un vecchio straccio.

- Mi occorrono delle informazioni.

- Che genere di informazioni?

Henry inspirò profondamente, prima di parlare.

- Quell'uomo che è stato ucciso. Ho sentito dire che aveva giocato d'azzardo contro Lord William, giusto?

L'uomo non rispose, ma lo squadrò da capo a piedi.

- Perché volete saperlo?- biascicò poi, ritraendosi un poco senza smettere di strofinare.

- Sapete quale fosse stato l'esito della partita? Quell'uomo aveva perduto, per caso?- insistette Henry, ignorando la domanda.

- Capita a tutti di perdere una partita...- rispose l'oste, evasivo.

- Sì, ma non che qualcuno a seguito di questo venga ucciso. Se Lord William ha vinto, allora deve avere tratto anche dei benefici, dalla sua morte, dico bene?

Henry ricevette in risposta solo un categorico silenzio. Il giovane sospirò, ben sapendo che significava. Estrasse dalla tasca del mantello tre monete d'argento e le fece scivolare sul bancone. Aveva imparato abbastanza dalla vita per sapere che, a volte, il denaro valeva più di qualunque altra parola. Perfino più di un segreto.

L'oste gettò un'occhiata alle monete, quindi le afferrò svelto e le fece sparire nella tasca del grembiule.

- Sì, quell'uomo aveva perso. Ora che è morto, Lord William dovrebbe ereditare tutti i suoi possedimenti...

- E' successo lo stesso anche con quell'altro, Whitaker, vero?

- Sì, anche lui aveva perso la sua fortuna contro Lord William...

- E che mi dite del Marchese Van Tassel?

Di nuovo l'oste non rispose.

- Oh, andiamo! Voi siete il padrone, qui, sarete pur informato di quello che accade ai tavoli da gioco!- sbottò Henry.

Non ottenne risposta.

Sospirò nuovamente, stavolta più seccato, e fece cadere altre tre monete d'argento sul bancone. Se la situazione non fosse stata così difficile, Henry avrebbe quasi sorriso, a quel pensiero: Lord William, incastrato grazie al suo stesso denaro.

- Anche il Marchese aveva perduto contro Lord William, vero?- inistette.- E poi è stato ucciso, esattamente come tutti gli altri. E guarda caso, chi ha beneficiato di più di questa disgrazia è stato proprio Lord William...

- Ma, insomma, a voi che importa di tutto questo?- sbottò l'oste, con i sudori freddi.- Quegli uomini si erano fatti rovinare da Lord William, e poi sono morti, è vero. E allora? Si saranno persi nella foresta a seguito di una sbronza e quel mostro che si annida lì dentro se li è sbranati. Può essersi trattato di una casualità...

- Io credo poco nel caso, signore. Tanto più che sono certo che anche il Conte DeBourgh e gli altri due morti avevano dei debiti con Lord William, non è così?

- E se anche fosse?- boccheggiò l'oste.- Se anche fosse così? A voi che importerebbe?

Henry lo guardò per un lungo istante, quindi si decise a parlare.

- Voi che fareste?- mormorò.- Voi che fareste se sapeste di aver commesso un enorme sbaglio, e che vostra sorella, vostra moglie, o vostra figlia stessero per cadere per sempre nelle grinfie di un uomo che forse è un assassino? Voi che fareste, al mio posto?

- Io...

L'oste si bloccò non appena vide la porta spalancarsi, lasciando entrare Ralph e Glouster, i due scagnozzi di Lord William. L'uomo boccheggiò, infine si sporse verso Henry, così che le loro fronti quasi potevano toccarsi.

- Sentite - sussurrò, a voce così bassa che Henry dovette fare uno sforzo immane per riuscire ad udirlo.- State a sentire. Venite domattina qui, presto, e vi dirò quello che so. Nel frattempo, state attento, signor Kingston. Lord William non è un uomo con cui scherzare.

 

***

 

Un fiocco di neve bianca si posò dolcemente sul naso di Rosalie, la quale lo asciugò con la manica del vestito. Ora aveva ripreso a nevicare forte, e lei era ancora nel bel mezzo della foresta, senza aver trovato nulla. L'attraversò più volte il pensiero di tornare indietro, ma il ricordo di suo padre la spingeva a continuare.

D'un tratto, si fermò, rimanendo immobile al centro di una piccola radura. Alzò gli occhi al cielo, e vide che il sole stava per tramontare. Per quanto tempo aveva camminato? Aveva vagato nella foresta per quasi una giornata intera, senza sapere esattamente dove stesse andando, ed era sempre stata talmente assorta da non curarsi nemmeno di segnare la strada per la via del ritorno, come una perfetta sciocca.

Ora, non sapeva più nemmeno dove si trovava.

Sentì un fruscio alle sue spalle; si voltò, cominciando a respirare più forte, e il fiato le usciva dalla bocca in delle nuvolette di fumo. Vide le foglie di un cespuglio muoversi e indietreggiò istintivamente, ma poi vide che a causare quel fruscio era stato solo un innocuo scoiattolo, il quale sgattaiolò fuori e si allontanò di corsa. Rosalie tirò un sospiro di sollievo, ma subito dopo quel fruscio fu seguito da un altro, più forte e intenso, alle spalle della ragazzina. Si girò, nuovamente, ma non vide nessuno. D'un tratto, abbassò lo sguardo sul manto di neve che ricopriva l'erba e scorse delle impronte canine a pochi passi da lei. Udì dei ringhi sommessi.

La ragazzina iniziò a respirare più affannosamente, mentre il cuore accelerava i suoi battiti. Dal folto della foresta, in mezzo agli alberi dalle radici torte, emerse un branco di cani.

Rosalie indietreggiò, rischiando di incespicare nella neve, tenendo lo sguardo fisso sugli animali: la stavano guardando con aria famelica, due pitbull e tre bulldog le puntavano addosso i loro grugni schiacciati; un rottweiler si piegò sulle zampe anteriori, in posizione d'attacco. Ma quello che le faceva più paura era un grande doberman nero, che le ringhiava contro scoprendo i denti affilati da cui grondavano grumi di bava.

Aveva paura dei cani. Era una fobia che le era rimasta da quando, a tre anni, aveva tirato per gioco la coda del cane di un vicino di casa, e questo l'aveva morsa ad una mano. Poco importava, ora, che quelli avessero un collare; i loro musi cattivi e famelici la terrorizzaroni.

Il rottweiler annusò l'aria, quindi prese ad abbaiarle contro; il doberman scoprì ancora di più le zanne, ringhiando più forte. Rosalie si voltò nella direzione opposta, tentando di scappare, ma subito gli animali le furono addosso. Un bulldog le afferrò con i denti la mantella rossa, facendola cadere di schiena con un tonfo attutito dalla neve. Rosalie si girò, tentando disperatamente di liberarasi, ma il rottweiler le azzannò un lembo della gonna, strappandogliela fino a che l'orlo non fu completamente sbrindellato. La ragazzian gridò, cercando di divincolarsi, mentre anche gli altri cani le si gettarono addosso, strattonandole l'abito, mentre il bulldog continuava a tirare la mantella. Rosalie si dimenò disperatamente, lanciando un grido di dolore quando un pittbull le morse una caviglia, facendo penetrare i denti aguzzi attraverso lo stivaletto. Quando un altro cane le azzannò una mano, questa prese a sanguinare. Rosalie sentì le lacrime salirgli agli occhi; il doberman le fu sopra, pronto ad azzannarla alla gola. La ragazzina liberò le mani dalla presa degli animali appena in tempo per afferrare il collo del doberman, lottando contro le zanne affilate del cane per tenerlo lontano da sé. Nel tentativo di liberarsi, il doberman la colpì con una violenta zampata in viso, che le segnò dei tagli su una guancia, abbastanza lievi ma non tanto da non bruciare e sanguinare. E intanto gli altri cani continuavano a graffiarla e a morderla, lei si dimenava con disperazione senza riuscire a liberarsi, e il bulldog continuava a tirare la mantella. Rosalie si sentì mancare il fiato, la stava strangolando. Tentando ancora di tenere a bada il doberman, Rosalie portò si portò una mano alla gola, cominciando ad armeggiare con furia nel tentativo di slacciare i bottoni. Alla fine, la mantella si sfilò, rimanendo completamente inerme fra le zanne delle bestie, che la lacerarono senza pietà. Rosalie, libera dall'ingombro, inarcò di scatto la schiena, sferrano una ginocchiata nel ventre del doberman, allontanandolo da sé. La ragazzina allungò di scatto un braccio e afferrò un sasso poco distante da lei, colpendo ad un occhio l'animale, che guaì di dolore. Rosalie liberò gli abiti con uno strattone, alzandosi e iniziando a correre nella direzione opposta, incespicando nella neve bagnata, ferita, con gli abiti strappati e i capelli biondi scompigliati nel vento invernale. Le ferite delle zanne lasciarono cadere delle goccioline di sangue, delle macchioline rosse sulla neve immacolata.

I cani abbandonarono la mantella al suolo, e le furono immediatamente alle calcagna.

Rosalie corse con disperazione, rabbrividendo alle sferzate del vento gelido e della neve, sentendo i cani sempre più vicini. D'un tratto, presa dalla folle e disperata corsa, la ragazzina non si accorse che di fronte a sé il terreno entrava in pendenza. Rosalie si fermò appena in tempo sull'orlo di una ripida discesa, sulla quale spuntavano, in mezzo alla neve, arbusti, rovi e rocce affilate. Guardò in basso, ansimando, con gli occhi sgranati per il terrore, per poi voltarsi in direzione dei cani, ormai vicinissimi. La ragazzina indietreggiò sull'orlo della discesa.

Era finita.

Incespicò, alcuni pezzi di terra si staccarono. Gli stivali di Rosalie scivolarono, facendole perdere l'equilibrio. La ragazzina lanciò un grido, scivolando giù.

 

***

 

Un grido infantile riecheggiò nella radura.

Vincent alzò lo sguardo di scatto.

- Ehi, avete sentito?- mormorò.

Anche Jones e Tyger prestarono ascolto. Un altro grido, simile al primo, squarciò l'aria.

- Merda!- imprecò Vincent, afferrando l'ascia e iniziando a correre in direzione dell'urlo.- Lo sapevo! Lo sapevo che quella ragazzina si sarebbe cacciata nei guai! Su, muovetevi!

Jones e Tyger non esitarono, afferrarono le proprie accette e seguirono Vincent nel folto della foresta.

 

***

 

Rosalie continuava a cadere, rotolando giù per la discesa e urtando di tanto in tanto le rocce e i rovi. I cani la seguirono, affondando le unghie delle zampe nel terreno per tenersi in equilibrio. La ragazzina raggiunse la fine della discesa, scivolando lungo il terreno piatto per qualche metro, fino a fermarsi. Mugolò di dolore, stringendo i denti e portandosi una mano ad un fianco.

Alzò lo sguardo. Quei cagnacci erano a pochi metri da lei, che la fissavano, stranamente immobili. Soltanto il doberman mosse qualche passo nella sua direzione, cauto, ringhiandole contro. Rosalie si tirò su a sedere, scivolando sul nevischio. Teneva lo sguardo puntato sui cani: solo il doberman si stava avvicinando a lei, ma gli altri si mantenevano immobili nella posizione in cui erano prima. Perché se ne stavano fermi?

Lo capì non appena sentì uno scricchiolio sotto di sé. Abbassò lo sguardo verso le proprie gambe lievemente divaricate, e vide che in mezzo ad esse stava cominciando ad allargarsi una profonda crepa. Era caduta sul del ghiaccio!

Non terminò di pensarlo che lo scricchiolio si fece più forte, fino a divenire un vero e proprio rumore, il rumore di qualcosa che s'infrangeva. Il doberman barcollò sul posto, grattando con le unghie la lastra di ghiaccio che si spaccò sotto di loro. Rosalie lanciò un grido, vedendo aprirsi sotto di sé l'acqua gelida, dentro cui finì il doberman, che iniziò a guaiare e ad annaspare. Gli altri cani si voltarono, fuggendo via.

Il ghiaccio si ruppe in tante zolle; Rosalie si ritrovò su una di queste, ma era troppo scivolosa, e la ragazzina non riuscì a rimanervi sopra. Scivolò nell'acqua fino alla vita, rimanendo aggrappata al ghiaccio. Il doberman non aveva rinunciato alla sua caccia. Nuotò con le zampe fino a lei, alla quale si aggrappò, iniziando a strattonarle il colletto con i denti. Rosalie cercò di allontanarlo, ma entrambi finirono sott'acqua. Riemersero subito; la ragazzina, libera, si aggrappò nuovamente alla zolla di ghiaccio, mentre il cane nuotò fino a riva. Risalì la sponda del laghetto, si scrollò l'acqua dal pelo corto e ispido e se ne andò, lanciando un'ultima, feroce occhiata alla ragazzina.

Rosalie annaspò, aggrappandosi alla lastra conficcando le unghie nel ghiaccio fino a farle sanguinare, ma non servì. Il ghiaccio era troppo scivoloso, il peso del suo corpo la tirava in basso, e la zolla si ribaltò. La ragazzina andò a fondo.

L'impatto completo con l'acqua gelida fu terribile. Rosalie provò un dolore immenso, era come se centinaia e centinaia di spilloni la stessero trafiggendo in tutto il corpo. Tentò di risalire in superficie, ma non sapeva nuotare bene come Henry o Catherine, l'abito la impacciava, e il freddo era troppo intenso. Rosalie sentì il proprio corpo irrigidirsi, presto non riuscì più a muovere braccia e mani. Stava cominciando ad esaurire il fiato nei polmoni, aveva bisogno d'aria. Sentì che anche le gambe si stavano irrigidendo, e presto non fu più in grado di muovere neanche quelle. Stava andando sempre più a fondo, non riusciva più a respirare. Schiuse appena le labbra, da cui uscirono solo due o tre bollicine, mentre le palpebre si chiudevano. Ormai non avvertiva più nemmeno dolore, a malapena sentiva il freddo dell'acqua. Si arrese, lasciandosi andare al suo destino.

Non si rese conto che due mani lisce e morbide l'avevano afferrata da sotto le ascelle.

 

***

 

Vincent bloccò di colpo la sua corsa, mentre Tyger e Jones lo raggiungevano alle sue spalle. Il taglialegna ansimò, piegandosi sulle ginocchia.

Erano arrivati troppo tardi.

In mezzo alla foresta, sulla neve bianca, giacevano chiazze di sangue. Poco più in là, una mantella rossa sbrindellata.

I tre si avvicinarono. Jones emise un gemito, finendo in ginocchio. Tyger si voltò, chiudendo gli occhi e facendosi il segno della croce. Vincent si chinò, raccogliendo la mantella da terra. Se la rigirò fra le mani per diversi minuti, tenendo lo sguardo fisso di fronte a sé.

Un'altra vittima, pensò.

Ormai ne era certo: le voci sulla foresta erano fondate. Lì dentro si annidava un mostro, un mostro crudele e famelico che si divertiva a sbranare gli esseri umani. Ora aveva colpito di nuovo.

E stavolta, aveva ucciso una bambina.

 

***

 

Peter se ne stava inginocchiato in mezzo alla neve, tenendo lo sguardo fisso su quella ragazzina. Doveva avere all'incirca la sua età, era bionda, ferita e con gli abiti strappati.

E mezza congelata.

Peter si tolse in fretta il suo vecchio mantello consunto, avvolgendo il corpo inerte di Rosalie. Era nel bosco, quando aveva visto il laghetto di ghiaccio inghiottire qualcosa, una figurina esile e minuta. Aveva cacciato le mani in acqua e aveva ripescato quella ragazzina, che ora giaceva svenuta al suo fianco, sulla neve, con il visetto pallido e le labbra violacee. Doveva fare qualcosa, e alla svelta, altrimenti sarebbe morta asiderata. Peter si grattò il capo, indeciso sul da farsi. L'unica soluzione possibile sarebbe stata...Ma no! No, il padrone lo avrebbe scuoiato vivo, e poi ricordava fin troppo bene il disastro che era successo l'ultima volta. Senza contare che sua madre lo avrebbe riempito di scapaccioni.

Doveva sbrigarsi a prendere una decisione, comunque. Anche se ormai l'aveva già praticamente presa...

Sospirò, prendendo Rosalie sulle spalle. Strinse in denti per la fatica.

Buon cielo, quella ragazzina pesava come un macigno!

Si avviò arrancando e ansimando in direzione del castello, con Rosalie sulle spalle e la consapevolezza che, se non l'avesse fatto il padrone, allora ci avrebbe pensato sua madre ad ammazzarlo.

 

Angolo Autrice: Hello everyone! I'm back! Vi sono mancata? No? Beh, è comprensibile...:). Dunque, dunque, so di essere in anticipo pauroso da quanto avevo stabilito, ma siccome ora sono finalmente libera da quella spada di Damocle che mi pendeva sulla testa, alias il famigerato esame di maturità (ecco la causa di forza maggiore a cui avevo accennato :), non vedevo perché ritardare ulteriormente...Ho visto che coloro che avevano inserito la storia fra le seguite, le ricordate e le preferite non si sonon defilati, quindi sono contenta di ritrovarvi ancora tutti qui! Bene, ho superato migliaia di avversità prima di pubblicare questo capitolo, vale a dire prove scritte e orali di ogni genere, stress, crisi di panico da notte prima degli esami, l'inspiegabile e dolorosa dipartita del mio computer che mi ha obbligato a utilizzare quello di mio fratello (il quale ha fatto un aggiornamento l'ultima volta quando dalla finestra si sono visti passare Garibaldi con tutta la spedizione dei Mille, quindi mi scuso in anticipo se il testo presenterà eventuali anomalie)...quindi, spero di non aver partorito un mezzo disastro! XD.

Spero che in questo capitolo un'eventuale opinione positiva che vi eravate fatti di Cathy non sia cambiata irreversibilmente...esigenze di scena, mettiamola così! Dunque, Rosalie è (quasi) viva, ammetto di averla strapazzata parecchio, ma ora Peter la porterà al maniero di Adrian...cosa succederà? Come reagirà la piccola Rosalie quando saprà che Catherine è viva, e quando incontrerà il padrone di casa? Come reagirà invece Cathy, quando scoprirà cos'è successo in casa sua? E ancora, Henry è sempre più vicino a scoprire la verità, ma riuscirà a sistemare le cose o il nostro superman de noantri combinerà un altro dei suoi casini? E, dopo il rifiuto di Cathy, come saranno i rapporti fra lei e il mostro?

Tutto questo lo scopriremo nel prossimo capitolo! A questo proposito, ora gli aggiornamenti riprenderanno il solito andamento, vale a dire una volta a settimana, anche se forse - ma non garantisco niente - ci sarà più di un aggiornamento a settimana, visto e considerato che è estate...Comunque, su quest'ultimo punto, niente di sicuro...

Bene, non mi resta che ringraziare tutte quelle anime pie che hanno avuto la pazienza di continuare a seguirmi, in particolare un grazie a MichiamoMartina, a castilla e a May Des per aver aggiunto questa storia alle seguite, a Black Fairy per aver aggiunto la ff alle preferite e per la sua recensione, a Flaren, hanon993 per averla aggiunta alle preferite, a Martychan97 per averla aggiunta alle preferite e alle seguite, e a _wizard_, Nimel17 e a Ellyra per aver recensito.

Un grazie a tutti!

Ciao, al prossimo capitolo!

Bacio,

Dora93

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Capitolo 16
*** L'urlo della bestia ***


 

Appena prima di chiudere gli occhi, Catherine aveva sperato che, addormentandosi, avrebbe trovato un po’ di serenità lasciando da parte tutto il dolore e la disperazione che gli ultimi eventi di quel giorno le avevano procurato.

Si era aspettata di ritrovarsi nello splendido palazzo illuminato che sognava ormai quasi ogni notte, abbigliata con uno sfarzoso abito, e di incontrare di nuovo quel bel giovane dagli occhi azzurri che la guardava con amore.

Invece, la prima cosa che avvertì la ragazza fu un senso di angoscia e di spavento.

Non c’era traccia dei saloni illuminati del palazzo, ma tutto intorno a lei era così buio che Catherine non riusciva nemmeno a distinguere le pareti dal soffitto e dal pavimento. Era a piedi scalzi, i capelli sciolti, e indossava lo stesso abito con cui, mesi prima, era partita alla ricerca di suo padre, con l’orlo strappato e chiazzato di sangue.

La ragazza annaspò, muovendo le mani a tentoni nel buio. Le pareva quasi di trovarsi di nuovo nella foresta, in quella stessa notte in cui quei due tagliagole avevano tentato di stuprarla.

E’ un incubo…

Aveva paura; sentiva l’ansia crescere, continuava a camminare nel buio sentendo le gambe malferme, l’angoscia l’attanagliava sempre di più.

Devo svegliarmi. Devo svegliarmi! Su, svegliati! Svegliati, Cathy! Svegliati!

Era tutto inutile. La paura continuava ad aumentare, una paura enorme ma insensata, come se temesse che qualcosa di terribile stesse per succedere da un momento all’altro.

D’un tratto, in lontananza, nell’oscurità Catherine scorse una piccola sagoma, che si faceva sempre più distinta man mano che la ragazza vi si avvicinava. Non appena si trovò a pochi passi da essa, Catherine sbarrò gli occhi dal terrore.

Disteso ai suoi piedi, supino, c’era suo padre. Era pallido, teneva gli occhi chiusi, e i capelli già grigi ora erano divenuti bianchi come la neve. La ragazza si lasciò cadere in ginocchio accanto a lui, iniziando a chiamarlo.

- Papà!- gridò quasi, scuotendolo per la veste, sentendo le lacrime salirle agli occhi.- Papà! Papà, ti prego, svegliati!

Catherine udì il mercante emettere un mugolio sommesso, quindi socchiuse gli occhi. L’uomo le rivolse un debole sorriso, ma improvvisamente i contorni della sua figura iniziarono lentamente a sfumare, come se si stesse dissolvendo, fino a che la sua sagoma non fu completamente mutata.

Ora, sotto gli occhi esterrefatti e disperati di Catherine, al posto del mercante c’era Adrian.

Il mostro stava male come suo padre; era disteso su un fianco, e il mantello nero che era solito portare ne nascondeva praticamente tutto il corpo, di cui la ragazza riusciva a scorgere soltanto le mani artigliate e il volto mostruoso. Il padrone era pallido, l’espressione agonizzante, ma teneva gli occhi socchiusi. A Catherine parve debole, infinitamente debole e indifeso, un’immagine che mai prima d’allora aveva avuto di lui. Iniziò a piangere ancora più forte, avvicinandosi a lui.

- Adrian!- singhiozzò.- Adrian, che cos’hai? Che cosa è successo?

Il mostro non rispose, ma emise un lungo sospiro, che alla ragazza suonò come un ultimo respiro.

- Perché?- soffiò il mostro.- Perché, Catherine?

- C-cosa?- balbettò la ragazza, senza smettere di piangere.

- Perché mi fai del male, Catherine?- mormorò Adrian, guardandola in una maniera strana. Proprio come una vittima che sta per morire guarda implorante il suo carnefice.

- Che cosa…?- fece la ragazza.- Io…io non ti sto facendo del male, Adrian…Io non…

Il mostro gemette, distogliendo lo sguardo.

- Non volevo, Adrian!- singhiozzò Catherine.- Te lo giuro, non volevo! Non volevo ferirti, Adrian, ti prego, io…

Il mostro non parve udirla, ma sospirò di nuovo.

- Perché mi fai del male?- mormorò di nuovo, prima di chiudere gli occhi.

- No!- gridò Catherine, gettandosi verso di lui.

Voleva toccarlo, voleva abbracciarlo, le sembrava quasi che, stringendolo a sé, allora avrebbe potuto farlo star bene, avrebbe potuto salvarlo dal dolore che lo stava uccidendo, ma, non appena tentò sfiorarlo, la sua figura divenne evanescente, fino a scomparire di fronte ai suoi occhi.

Catherine si trovò ad abbracciare il nulla, a tentare di toccare qualcosa che non esisteva. La ragazza si accasciò a terra, scossa da violenti singhiozzi che la facevano tremare e che sembravano essere irrefrenabili.

Catherine avrebbe quasi voluto uccidersi. Mettere fine a tutto quel dolore e a quella disperazione.

- Andrà tutto bene, Catherine…

D’un tratto, di nuovo quella voce femminile, calda e dolce. Aveva sempre avuto un non so che di lontano e angelico, ma Catherine sollevò lentamente il capo, allorché la sentì più vicina a sé. Era certa che, fino ad un attimo prima, non ci fosse nessuno accanto a lei; invece, ora, voltando il capo, la ragazza vedeva chiaramente una figura evanescente, quasi si trattasse di un fantasma. Era una donna, con uno splendido abito bianco, una lunga chioma di capelli biondo scuro e degli occhi verde smeraldo così simili a quelli della ragazza, contornati da lievi rughe che, tuttavia, non alteravano la bellezza del viso.

- M-mamma?- balbettò Catherine, incredula ma allo stesso tempo tranquilla, quasi come se avesse salutato la madre appena la sera prima con la tacita promessa di rivedersi il giorno seguente, anziché averle detto per sempre addio appena due anni prima.

Lady Elizabeth non disse nulla, ma sorrise, accarezzando dolcemente le ciocche corvine della figlia; Catherine non riusciva ad avvertire quelle carezze, ma il gesto della madre in un certo senso la rassicurò. Smise di singhiozzare, ma le lacrime continuarono a rigarle le guance.

- Sono stata una stupida, mamma…- mormorò Catherine.- Adrian mi ama, e io…io l’ho ferito, è come se gli avessi sferrato una pugnalata al cuore…

La ragazza non sapeva perché stesse dicendo quelle cose; semplicemente, sentiva il bisogno di farlo. Si era sempre confidata con sua madre, e dopo la sua morte aveva sentito la sua mancanza ogni giorno, ma in modo particolare nei momenti di difficoltà. Aveva sognato spesso Lady Elizabeth, ma le era sempre apparsa come una figura lontana, oppure negli ultimi attimi della sua malattia; ora che era così vicina, non le importava di domandarsi come e perché fosse lì. Voleva solo parlare con lei e sfogare il suo dispiacere, tutto il resto non contava.

Catherine chinò il capo, poggiando la fronte sulla spalla della madre. Non avvertì il calore della pelle di Lady Elizabeth, quasi non si accorse nemmeno del suo tocco. Era come abbracciare un fantasma, ma non importava.

- Ho paura, mamma…- sussurrò.- Ho paura di quello che provo. Ci manchi tanto…- aggiunse.- Quando te ne sei andata papà…noi…è come se avessimo perso una parte di noi…Non posso amare Adrian, mamma…Non voglio…se dovessi perderlo, io non…non so come farei a…

Catherine sentì che stava per rimettersi a singhiozzare, quindi non terminò la frase. Lady Elizabeth sorrise nuovamente, facendo alzare il capo alla figlia in modo da guardarla negli occhi.

- L’amore fa male, Catherine…- sussurrò.- Questo nessuno potrà mai cambiarlo. Ma ricorda che l’amore è come una magia. E’ in grado di affrontare qualunque cosa, di sconfiggere ogni avversità. L’amore è persino più forte della morte.

Detto questo, Lady Elizabeth si chinò, baciando lievemente la fronte della figlia, proprio come faceva quando Catherine era piccola e veniva a darle la buona notte. La ragazza non ebbe il tempo di sentire il calore di quel bacio; subito, si sentì come cadere, mentre la figura di Lady Elizabeth scompariva di fronte ai suoi occhi.

Catherine mosse le mani come per trattenerla, ma prima che potesse fare alcunché, riaprì gli occhi.

Non c’era più l’oscurità indistinta del suo sogno, ma solo la sua stanza nel maniero. La ragazza sbatté due o tre volte le palpebre, quindi si tirò su a sedere. Era ancora distesa sul tappeto persiano, indossava ancora l’abito bianco, che ora era stropicciato e sporco di cenere sfuggita dalle braci del caminetto. Si sentiva a pezzi, il tappeto non era stato il luogo più adatto per un sonnellino, e ora si sentiva a pezzi. Non piangeva più, ma aveva ancora tracce di lacrime intorno agli occhi; le asciugò con un palmo della mano, gettando un’occhiata prima alla finestra, quindi all’orologio. Erano le nove di sera, fuori era buio pesto.

Natale non era ancora passato.

Catherine si fece forza, rimettendosi in piedi. Quello strano sogno l’aveva turbata e confusa molto più di quanto volesse ammettere, e non aveva dimenticato ciò che era successo fra lei e Adrian solo poche ore prima. Non era stupida, sapeva che il loro rapporto avrebbe subito delle conseguenze, ma non voleva che ciò accadesse. Sentiva la testa pesarle come un macigno sul collo, forse un bicchier d’acqua o una bella tazza di thé l’avrebbe aiutata a ragionare e a trovare un modo per rimediare al disastro che aveva combinato. Non voleva perdere Adrian; benché non avesse acconsentito a diventare sua moglie, non voleva che smettesse di essere suo amico. Doveva assolutamente rimediare a quel che era successo; sarebbe scesa in cucina per rinfrescarsi un attimo, e poi sarebbe andata a cercarlo per parlargli, sperando che lui le desse il tempo di spiegarsi.

La ragazza si sistemò le pieghe dell’abito, uscendo dalla stanza e iniziando a scendere le scale di marmo del castello. Era consapevole di essere sparita per diverse ore e di non essersi fatta vedere da nessuno per quasi tutto il pomeriggio, non sarebbe stata sorpresa di non trovare più nessuno in giro per il castello, a quell’ora. Non che questo le dispiacesse; aveva bisogno di stare da sola, solo così avrebbe potuto ragionare con lucidità.

Le sue speranze vennero pesantemente deluse quando, giunta a pochi passi dalla porta socchiusa della cucina, udì il chiacchiericcio sommesso dei domestici. Non aveva voglia di dare delle spiegazioni, e stava per girare i tacchi quando sentì la voce irritata di Constance levarsi sopra le altre.

- No, Peter! No! Non devi più portare a casa questi randagi! Ti ricordi cos’hai combinato l’ultima volta?!

- Tanto per cominciare, mamma, l’ultima volta non è stata colpa mia! E poi, guardala, è mezza congelata!

- Questi non sono affari nostri! Non puoi portare qui tutti i poveracci che si sono persi nel bosco solo perché ti fanno pena, lo vuoi capire o no?!

- Constance, ma guardala! E’ praticamente quasi morta assiderata, se non ci fosse stato Peter a salvarla, probabilmente ora questa ragazzina sarebbe…

- Non m’interessa che fine avrebbe fatto questa marmocchia, vecchio sclerotico! Il punto non è che sarebbe potuta morire, il punto è che lei non può assolutamente stare qui!

- E poi hai anche il coraggio di pregare la sera prima di andare a letto, mamma!

- Zitto tu, l’hai già combinata grossa! Stasera una buona dose di scapaccioni non te la toglie nessuno!

Allora c’era qualcun altro in casa!

Catherine non stette lì a pensarci troppo, e spalancò la porta della cucina, entrando con fare deciso. Non appena udirono il rumore della porta che veniva aperta, i domestici si voltarono all’unisono in direzione della ragazza, cercando, senza troppo successo, di nascondere qualcosa alle loro spalle.

- Cathy! Che fine avevi fatto?- provò a domandare Constance, ma il suo tono di voce suonò talmente falso che perfino Ernest e Peter le lanciarono un’occhiata di rimprovero.

Catherine non rispose, ma si sporse di lato per vedere meglio. Alle spalle dei domestici riusciva a scorgere una gran quantità di coperte e lenzuola gettate sopra un corpicino all’apparenza esile e minuto, di cui però la ragazza riusciva a distinguere solo qualche ciocca di capelli biondo scuro che sfuggivano da sotto i piumoni. D’un tratto, l’ammasso di coperte iniziò a scuotersi leggermente, mentre da sotto di esso provennero due o tre deboli colpi di tosse. Il corpicino si mosse fino a che il capo non spuntò fuori dalle lenzuola.

- Rosalie!- esclamò Catherine, sconvolta, nello scorgere il visetto ovale della sorella.

Rosalie aveva gli occhi socchiusi; era sveglia, ma pareva come stordita. I capelli biondi erano sciolti e sparsi disordinatamente sul pavimento, il volto era cianotico e le labbra violacee, le mani erano rosse dal freddo e con le unghie sporche di terra, mentre le dita erano ricoperte di geloni.

La ragazzina tossì ancora, ma spalancò i grandi occhi castani dallo stupore non appena vide la sorella correrle incontro, inginocchiarsi accanto a lei e avvolgerla in un abbraccio disperato.

- Rose!- esclamò Catherine, stringendo a sé il corpo esile della sorella.- Oh, Rose!

- Cathy…- soffiò Rosalie, ricambiando debolmente l’abbraccio.- Cathy…ma come…tu…tu sei viva…

Catherine chiuse gli occhi, e annuì vigorosamente sulla spalla della ragazzina, sentendo che questa ora la stava stringendo più forte e con più affetto. Rosalie non le era mai apparsa tanto fragile: aveva gli abiti completamente fradici, era pallida e aveva l’aria di chi ha appena passato una marea di guai. E, forse, era proprio così.

- Sì…- sorrise Catherine, emozionata, staccandosi un poco da lei e guardandola negli occhi.- Sì, sono viva, Rose. Ma tu?- chiese poi, con passione.- Perché sei qui? Sei tutta bagnata…Ma che ti è successo?

- Vi conoscete?- fece Ernest, muovendo un passo verso di loro.

Catherine annuì.

- E’ mia sorella - spiegò.- Perché si trova qui? Cosa le è capitato?

- L’ho trovata io - disse Peter.- Credo si fosse persa nella foresta. Era scivolata in un laghetto ghiacciato…l’ho tirata fuori prima che annegasse…- aggiunse, arrossendo lievemente.

- Che cosa? Nella foresta?- fece Catherine, tornando a guardare Rosalie.- Rose, che ci facevi nella foresta? Cos’è successo?

Rosalie non rispose, ma increspò le labbra; scoppiò in un pianto disperato.

- I…i ca…i cani…- balbettò, fra le lacrime.

- I cani? Che cani?- incalzò Catherine, afferrandola per le spalle.

- I cani…la foresta…Lo-loro…mi hanno morsa…nella foresta…

- Ma che ci facevi da sola nella foresta, Rose?

Rosalie continuò a singhiozzare per diversi minuti, fino a che non riuscì a mormorare, con voce rotta:

- Io…io e-ero…ero andata…papà

- Papà?

Catherine avvertì una morsa di gelo nel cuore. Le tornò in mente l’intero sogno che aveva fatto, la figura evanescente di suo padre distesa ai suoi piedi. Scosse con più vigore Rosalie per le spalle.

- Rosalie, cosa stai dicendo?- gridò quasi.- Che è successo? Dimmelo, Rose! Cos’è successo a papà?

- L-lui…papà…papà è malato, Cathy…- singhiozzò la ragazzina.- E’ malato…non…nessuno sa cosa…

- Che cos’ha, Rose? Che cos’ha?- chiese Catherine, sentendo una gran voglia di mettersi a piangere.

- Lui…

Rosalie non terminò la frase, disturbata da un rumore di passi che si faceva via via sempre più vicino. La ragazzina smise di singhiozzare, volgendo lo sguardo in direzione della porta della cucina, sulla quale aveva cominciato a stagliarsi un’ombra scura che aumentava di dimensione allo stesso ritmo a cui si avvicinavano i passi. Ernest e Peter la imitarono. Constance si portò le mani alla bocca. Catherine sentì un tuffo al cuore.

- Che succede qui?- fece una voce che a Rosalie parve calda e profonda, ma anche stranamente minacciosa.

Sulla soglia della porta, la ragazzina vide comparire un essere mostruoso, un uomo alto e robusto sul cui viso si alternavano alla pelle pelo scuro e squame verdastre; la pelle di un occhio era cascante e ripiegata su se stessa, lasciando intravedere la carne rossastra, le orecchie erano simili a quelle di un lupo. Attraverso le labbra socchiuse s’intravedevano due file di denti aguzzi e bianchissimi. Le mani erano ricoperte di pelle, dalla quale spuntava, all’altezza delle nocche, del pelo scuro, mentre le unghie erano degli artigli affilati.

Rosalie sgranò gli occhi dal terrore, mentre la bocca le si spalancava in un grido.

Catherine si gettò verso di lei e le chiuse la bocca con la mano. Il mostro emise un ruggito rabbioso, scattando leggermente indietro e coprendosi il volto con una mano bestiale e parte del mantello nero.

- No, no, calmati, è un amico, è un amico!- si affrettò a dire Catherine; quando fu completamente sicura che la sorella avesse capito e non si sarebbe rimessa a strillare, la ragazza le tolse la mano dalla bocca. Il padrone continuava a rimanersene nascosto nella penombra, facendo del suo meglio per coprirsi il volto mostruoso.

- Chi è?- ruggì, riferendosi a Rosalie.- Chi è questa ragazzina? Chi l’ha fatta entrare?- volse uno sguardo colmo d’ira in direzione dei domestici, i quali indietreggiarono, timorosi.

- Adrian…- chiamò Catherine, incerta.

Il mostro spostò lo sguardo su di lei; la ragazza non ne era sicura, dato che metà del volto era ancora nascosto dalla mano artigliata, ma le pareva che gli occhi azzurri del padrone di casa fossero colmi di rabbia e rancore.

- Adrian, lei è Rosalie. Mia sorella - mormorò.

Il mostro gettò un’occhiata irritata alla ragazzina ancora seduta sul pavimento, che si fece istintivamente indietro. A Catherine parve che fosse meno arrabbiato, ma dal suo volto non era scomparso quel rabbioso rancore che gli colmava le iridi ogni volta che il suo sguardo incrociava quello della ragazza.

- Che cosa ci fa, lei, qui?- sibilò, senza smettere di fulminare con delle occhiatacce i domestici.

- Lei…- iniziò Catherine, ma un pensiero fulmineo le impedì di continuare. Suo padre! Rosalie aveva detto che era malato. Ma la sorellina era talmente sconvolta che…possibile che si fosse sbagliata? Non si era spiegata troppo bene, in effetti…Ma quello non era un argomento su cui Catherine si sentiva di chiudere un occhio. Si trattava di suo padre! Era suo padre, lei gli voleva bene, era l’unico punto di riferimento che le fosse rimasto dopo la morte di sua madre…e se davvero stava male, allora lei non poteva…

- Adrian - disse fermamente, guardando il padrone negli occhi.- Adrian, devo parlarti.

Il mostro si fece un po’ più indietro, guardandola con diffidenza. Catherine si morse il labbro inferiore, ma non distolse lo sguardo.

- Ti prego…- sussurrò.

Il mostro serrò le mascelle per la rabbia, ma non disse nulla. Abbassò lentamente la mano bestiale, guardandola con espressione indecifrabile.

- Va bene. Vieni con me - disse infine, voltandole le spalle e uscendo dalla cucina. Catherine si alzò in piedi, sotto lo sguardo esterrefatto di tutti, specialmente di Rosalie.

- Va tutto bene, sta’ tranquilla…- le sussurrò la ragazza, sforzandosi di sorridere.- Constance, per favore, te l’affido - aggiunse, prima di uscire di corsa dalla cucina.

Rosalie, rimasta sola con i tre domestici, li fissò attentamente uno per uno. Tutti e quattro rimasero per qualche istante in un silenzio imbarazzato, fino a che Constance sembrò recuperare un briciolo del suo pragmatismo.

- Bene, bene. Ernest, porta un’altra coperta a questa signorina. Peter, metti un po’ di legna nel fuoco, non vedi che è ghiacciata?

I due la guardarono per un attimo, quindi ubbidirono.

- Ma…Constance, tu non eri quella che non voleva che stesse qui?- bisbigliò Ernest, gettando sulle spalle di Rosalie una ruvida coperta di stoffa marrone.

- In effetti, mamma, tutte quelle storie per niente…- bofonchiò Peter.

- Beh, sì, certo, all’inizio era così. Ma non sapevo chi fosse. Insomma, il padrone non sembra troppo contrariato, no? Senza contare che si tratta della sorellina di Cathy…Ora, piccola, ti preparo un po’ di thé, vedrai che ti aiuterà a riscaldarti…

Constance ricambiò per un attimo gli sguardi inebetiti di Peter ed Ernest, per poi sbottare:

- Beh, ma cosa credete? Non sono fatta di ghiaccio, io!

 

***

 

Catherine faticava a stare dietro al passo svelto del padrone che saliva l’ampio scalone di marmo con furia, quasi avesse fretta. D’un tratto, si bloccò di fronte ad una porta in legno di quercia, voltandosi a guardare la ragazza. A Catherine parve quasi di essere tornata indietro nel tempo, quand’era solo una serva in quel lugubre maniero e il padrone la trattava con astio e disprezzo. A dire il vero, non riusciva bene a decifrare quali sentimenti si celassero nei gelidi e impenetrabili occhi azzurri del mostro, ma quel che era certo era che Adrian non la guardava più con l’affetto e – ora poteva dirlo con sicurezza – l’amore del giorno prima e dei mesi precedenti.

- Allora? Cosa vuoi dirmi? Mi sei sembrata abbastanza chiara, questo pomeriggio.

Catherine non si lasciò scoraggiare dal tono rabbioso e beffardo del padrone, anche se questo la colpì. Tuttavia, riuscì a sostenere il suo sguardo.

- Si tratta di mio padre, Adrian.

- Cosa gli è successo?- chiese il mostro, con voce incolore.

- Io…non lo so con esattezza…- mormorò Catherine, sentendo che stava per crollare.- Io…non lo so…mia sorella ha detto che è malato, ma lei era così sconvolta…non so cos’abbia esattamente, ma…

Adrian vide che la ragazza era in difficoltà; balbettava, non trovava le parole, e per un attimo il mostro temette che stesse per scoppiare a piangere. Era preoccupata, era chiaro come il sole che la salute di suo padre la faceva stare in ansia. Decise di lasciare da parte per un attimo la sua rabbia; in fondo, anche se lei l’aveva rifiutato, lui l’amava.

- Vieni - disse semplicemente, aprendo la porta accanto a lui ed entrando.

Catherine lo seguì, un po’ timorosa. Si ritrovò in una stanza abbastanza ampia e quasi buia, in cui non era mai stata prima d’allora; la ragazza indovinò che fosse la camera da letto del padrone. Il mobilio era semplice: un letto a baldacchino con coperte e tende bordeaux al centro, una scrivania e una poltrona contro una parete e uno specchio appeso all’altra; in un angolo, c’era un dipinto, raffigurante un uomo sulla settantina, con barba e capelli canuti, molto somigliante ad Ernest ma con un volto più sano e gioviale, e una luce buona negli occhi.

- Chi è?- non poté impedirsi di domandare Catherine, indicando il quadro.

- Mio padre - rispose Adrian, sempre con voce incolore.

Catherine rimase un attimo interdetta; visto l’aspetto del padrone di casa, si sarebbe aspettata che anche i suoi genitori avessero qualcosa di mostruoso, ma quell’uomo era normale, se così si poteva dire. La ragazza non fece in tempo a domandarsi se chiedere spiegazioni sarebbe stato scortese o no, perché vide che il mostro si era avvicinato allo specchio e ora la stava guardando con impazienza. Catherine si affrettò a raggiungerlo, pur non capendo cosa volesse fare esattamente Adrian.

- Vedi questo?- fece il padrone indicando lo specchio, notando la sua espressione interrogativa. Adrian si spostò alle spalle della ragazza, in modo che lei si trovasse proprio di fronte allo specchio. Catherine osservò il proprio riflesso pallido, mentre il mostro torreggiava alle sue spalle.

- Questo…questo è uno specchio magico…- disse il padrone.- Può mostrarti qualunque cosa tu desideri. Basta solo che tu glielo chieda. Non ti fidi di me?- domandò, vedendo l’espressione incredula della ragazza.

- No…no, io…- provò a dire Catherine, ma Adrian non la lasciò terminare.

- Guarda. Mostrami Peter!- ordinò, e subito il vetro dello specchio cambiò. Catherine non vide più la propria immagine riflessa, bensì quella del ragazzino che, inginocchiato sul pavimento della cucina, stava facendo ridere con una battuta sua sorella Rosalie.

- Ecco come facevi a sapere tutto quello che succedeva…- mormorò la ragazza, non appena l’immagine fu svanita.

Il mostro non rispose, ma si avvicinò di più alle sue spalle.

- Vuoi sapere se tuo padre sta bene, giusto? Bene, chiedigli di mostrartelo.

Senza dire nulla, le cinse la vita con una mano artigliata. La ragazza rabbrividì, ma non lo diede a vedere. Non c’era tempo, ora, per certe cose; prima di tutto, doveva accertarsi che suo padre stesse bene. Per i chiarimenti, ci sarebbe stato tutto il tempo, dopo.

- Mostrami mio padre!- disse, con decisione.

L’immagine nello specchio cambiò di nuovo. Catherine si portò le mani alla bocca, nel vedere quella scena. Il mercante era disteso nel suo letto, pallido, con gli occhi chiusi. Probabilmente dormiva, ma gemeva e tossiva nel sonno, si vedeva lontano un miglio che era febbricitante.

Catherine ricordò con orrore che aveva lo stesso aspetto di sua madre, pochi giorni prima che morisse.

L’immagine svanì.

Catherine sentì che le gambe non la reggevano, e dovette fare uno sforzo immane per tenersi in piedi.

- No…No!- mormorò.- No…papà…ma cosa gli è capitato? Sta’ male, sta’ male…io…no, non posso lasciarlo da solo, non…

Aveva voglia di piangere, di strapparsi i capelli dalla disperazione, ma tutto quello che riusciva a fare era pensare e ripensare all’immagine di suo padre malato e solo, senza di lei. No, no, non poteva abbandonarlo, aveva bisogno di lei! Lady Julia non sarebbe stata in grado di curarlo, non si sarebbe mai sporcata le mani, quella! Aveva bisogno di lei, altrimenti avrebbe anche potuto…

- Va’ da lui.

Le parole di Adrian arrivarono con lo stesso effetto di un fulmine a ciel sereno. Catherine si volse lentamente a guardarlo, chiedendosi se non le avesse letto nel pensiero. Il volto mostruoso del padrone conservava la stessa impassibilità di un attimo prima, gli occhi azzurri la scrutavano con la medesima indecifrabilità.

- Va’ da lui - ripeté.

- C-cosa?- balbettò la ragazza, incredula.

- Hai sentito. Va’ da tuo padre.

Catherine rimase in silenzio per un attimo, quindi trovò la forza di parlare.

- Questo…- mormorò.- Questo significa che…

- Esatto. Non sei più mia prigioniera.

Catherine non avrebbe voluto dire questo, ma il mostro non le diede il tempo di spiegare.

- Dico davvero. Sei libera. Tuo padre ha bisogno di te, e io non potrei tenerti qui sapendo che non vuoi. E poi, ora sono certo che non c’è nulla che ti impedisca di andartene da qui - concluse, amaramente.

Catherine si sentì un verme, l’essere più spregevole che avesse mai calpestato questa terra. Avrebbe voluto dire qualcosa di dolce e giusto, qualcosa che curasse la ferita che lei aveva involontariamente causato, ma non trovò nulla di meglio che abbassare lo sguardo e scostarsi di un passo.

- Grazie, Adrian…- mormorò, porgendogli una mano in segno di saluto.

Il mostro l’accettò, ma non si limitò a stringerla; la tenne fra le sue a lungo, accarezzandone lievemente il dorso con le proprie dita artigliate. Catherine lo lasciò fare, scoprendosi incapace di sottrarsi a quelle goffe carezze.

Si guardarono negli occhi per un istante.

- Catherine, io ti amo - mormorò il mostro.

- Lo so…- sussurrò Catherine, maledicendosi subito dopo per la stupidità di quella risposta.

La ragazza si avvicinò al mostro, accostandosi al suo petto. Lo baciò lievemente su una spalla, attraverso la stoffa della camicia.

- Non essere triste, ti prego…- sussurrò.

Appoggiò il capo contro il suo petto, posando le mani sui pettorali scolpiti. Catherine lo sentì irrigidirsi, e questo la fece sentire ancora più male, tanto che chiuse gli occhi per frenare le lacrime.

- Adrian, ti prego, abbracciami…- implorò, con la voce rotta.

A quel punto, il padrone sentì che non ce l’avrebbe fatta a continuare con quell’atteggiamento sostenuto. Si lasciò andare, cingendo le spalle e la vita della ragazza e abbracciandola con tutto se stesso, affondando il volto mostruoso nei capelli corvini di lei. Avrebbe voluto stringerla di più a sé, posare le proprie labbra sulle sue e baciarla con ardore, ma tutto quello che poteva fare era semplicemente abbracciarla.

Dopo attimi che parvero eterni, Catherine si staccò, dirigendosi svelta verso la porta.

Si voltò un ultima volta.

- Grazie - ripeté, senza sorridere.

Il mostro non rispose, ma rimase a guardarla uscire.

 

***

 

Catherine indossò un semplice abito blu scuro e un mantello marrone; prese dalle scuderie il cavallo bianco che le aveva regalato Adrian e lo sellò. Quindi, tornò in cucina da Rosalie.

- Ma davvero sei stato tu a salvarmi?- stava chiedendo in quel momento la ragazzina a Peter.

- Ecco…beh, sì, sono stato io…- bofonchiò lui, imbarazzato.

- Grazie!- detto questo, Rosalie gli schioccò un bacio sulla guancia.

Peter divenne rosso dalle lentiggini sul naso fino alla punta delle orecchie, suscitando una risatina di Ernest.

- Rosalie!- chiamò Catherine.- Rosalie, forza, dobbiamo andare!

A quella frase, tutti si voltarono a guardarla, interdetti.

- Ma…che stai dicendo, Cathy?- domandò Constance.

- Torno a casa. Da mio padre.

- Che?- fece Peter, ancora rosso in viso. - Il padrone ti ha lasciata andare? Sei libera?

Catherine si limitò ad annuire; avrebbe voluto dire che da tempo, ormai, non si sentiva più una prigioniera, ma non poteva permettersi di trattenersi ancora di più.

- Andiamo, Rosalie!- incalzò, aiutando la sorella ad alzarsi.

- No, Catherine, aspetta!- fece la ragazzina.- Devo dirti una cosa…

- Non adesso, Rose, più tardi!

- Sul serio, Cathy, c’è una cosa che devi sapere, è molto importante…

- No, Rosalie! Non abbiamo tempo!

 

***

 

- Fate buon viaggio!- augurò Ernest, aiutando Rosalie a montare in sella; la ragazzina si aggrappò alla sorella, avvolgendole le braccia intorno alla vita.

- Grazie - mormorò Catherine, afferrando le briglie di cuoio del cavallo.

- Mi raccomando, sempre dritto finché non giungete all’albero dell’impiccato, poi da lì girate a destra e continuate fino al villaggio. Avete capito?- chiese Constance.

Catherine annuì quasi distrattamente, con lo sguardo rivolto alle torri del castello. Non riusciva a vederlo, ma la ragazza sapeva che, da qualche parte, il padrone la stava guardando.

- Ci mancherai, Cathy - disse Constance.

- Anche voi mi mancherete. Grazie di tutto - sorrise la ragazza, stringendo le mani a Constance, Ernest e Peter.

- Arrivederci, Cathy - disse quest’ultimo.- Ciao, Rosalie…- aggiunse poi, ridiventando tutto rosso in viso.

La ragazzina lo salutò con una mano; Catherine spronò il cavallo al galoppo.

Le due sorelle si lasciarono il maniero alle spalle, cavalcando per diversi metri. Catherine fermò un attimo il cavallo, volgendosi a guardare un’ultima volta le torri del maniero.

- Catherine? Che cos’hai?- chiese Rosalie.

- Nulla…- mormorò la ragazza, sentendo una stretta al cuore.

Spronò nuovamente il cavallo, che riprese la sua corsa. Catherine non si voltò.

 

***

 

Adrian rimase a guardare dalla finestra della sua stanza il cavallo bianco allontanarsi sempre di più, portando con sé quelle due figure, fino a scomparire nel folto della foresta.

Quando la cavalcatura scomparve dalla sua vista, il mostro si lasciò cadere in ginocchio sul pavimento, dando libero sfogo a tutto il suo dolore. Liberò la parte mostruosa di sé, lasciando che la bestia tornasse, impadronendosi di lui con un sonoro, rabbioso, doloroso ruggito.

 

Angolo Autrice: Ehm…questo capitolo è un po’ deprimente, lo so. Sul serio, gente, non so cosa mi sia preso, sarà una specie di depressione post-esame, ma proprio non ho idea di come mi sia venuta fuori una cosa così piagnucolosa…Nel prossimo capitolo, comunque, avremo un bel po’ d’azione, promesso…J. Il sogno di Catherine può apparire un episodio inutile, ma le parole di sua madre avranno importanza, più avanti nella storia. Lo specchio magico è preso dalla versione de La Bella e la Bestia della Disney, così come anche un po’ della scena finale…Ora, Cathy è partita lasciando Adrian nella disperazione…Nel prossimo capitolo, vedremo come sarà il suo rientro a casa: come tutti voi immaginerete, Lady Julia non l’accoglierà a braccia aperte con tanto di baci e abbracci…che succederà? Quali misure prenderà la matrigna? E Lord William? Riuscirà Cathy a salvare suo padre o i due cattivoni glielo impediranno? Intanto, Henry è sempre più vicino a scoprire la verità su Lord William, ma andrà tutto liscio o gli capiterà qualcosa? E Adrian, come farà, ora che la sua amata non c’è più?

Tutto questo, lo scopriremo nel prossimo capitolo!

Un grazie a tutti coloro che leggono, in particolare a jekikika96, a missballerinafb e ad Ellyra per aver recensito.

Ciao, al prossimo capitolo!

Dora93

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Capitolo 17
*** Senza scampo ***


 

Henry uscì barcollando dal Leone d’oro, calpestando il nevischio fangoso con gli stivali invernali, mentre il vento mattutino dell’alba del giorno di Santo Stefano gli sferzava sul viso e gli scompigliava i capelli biondi. Sentiva la testa stranamente leggera, e si muoveva a passi lenti e incerti quasi come se le sue gambe fossero state arti inanimati di una marionetta di legno.

Quello che gli aveva raccontato l’oste lo aveva lasciato talmente sconvolto che, per un attimo, si era domandato se non si trattasse soltanto di un volgare e macabro scherzo. Aveva dovuto lasciare al padrone dell’osteria ben dieci monete d’argento, ma alla fine era riuscito a scoprire la verità.

Proprio come aveva sospettato, tutti gli uomini uccisi avevano avuto a che fare, in un modo o nell’altro, con Lord William Montrose. Whitaker, il Marchese Van Tassel e l’ultima vittima avevano perso un intero patrimonio giocando d’azzardo con il nobile, e si erano rifiutati di pagarlo; il Conte DeBourgh era cugino di secondo grado di Lord William, ed entrambi erano gli unici eredi rimasti di un ricchissimo zio morto di recente; quanto alle prime due vittime, Henry era venuto a sapere che il giovane pretendente di Catherine era stato in affari con loro nella gestione di una grossa compagnia mercantile, le cui quote sarebbero entrate in suo possesso se i due soci vi avessero rinunciato.

In tutti i casi, Lord William avrebbe avuto solo da guadagnarci, dalla loro morte.

Esiste anche il caso, Henry, gli aveva sussurrato una voce nella sua testa, ma il giovane non le aveva dato retta: le coincidenze stavano cominciando a divenire veramente troppe. Quando poi l’oste gli aveva accennato ad un pettegolezzo secondo il quale Lord William teneva un branco di cani da caccia addestrati a stanare e a uccidere la preda, Henry non aveva avuto più alcun dubbio: l’uomo nelle cui mani aveva messo la sorte della sorella era l’assassino di sei persone.

Henry sentiva il sangue pulsargli nelle tempie, non riusciva a respirare regolarmente.

Buon Dio, che cos’aveva fatto?

Provò l’irragionevole impulso di gettarsi in ginocchio nella neve e piangere tutte le sue lacrime, di strapparsi i capelli per la disperazione, di maledirsi per la sua stoltezza, ma non lo fece. Deprimersi e autocommiserarsi non sarebbe servito a nulla. Invece, doveva agire. Aveva commesso un grossolano errore, questo era vero, ma non era ancora troppo tardi per tentare di rimediare.

Sarebbe tornato a casa, avrebbe preso con sé la pistola e la spada e sarebbe andato da Lord William. Lo avrebbe minacciato, gli avrebbe detto che sapeva tutto e gli avrebbe intimato di lasciare in pace sua sorella, quindi l’avrebbe consegnato alla giustizia. Infine, sarebbe andato a cercare Catherine, dovunque si trovasse, e avrebbe fatto in modo che lei e il suo amante si sposassero. Sua sorella avrebbe riacquistato l’onore e la felicità, e non sarebbe stata costretta a sposare un crudele assassino.

Sì, avrebbe risolto tutto, presto ogni cosa si sarebbe sistemata. Un sorriso gli si dipinse sulle labbra, a quel pensiero. Avrebbe consegnato un pazzo omicida alla giustizia e avrebbe salvato sua sorella. Finalmente, anche lui avrebbe avuto il suo momento, stavolta sarebbe toccato a lui risolvere la situazione, non avrebbe più causato grane alla sua famiglia, ma avrebbe dimostrato che anche lui valeva qualcosa, d’ora in avanti sarebbe stato accolto come un eroe…No, un momento. Non era il caso di cantar vittoria troppo presto, prima aveva una questione importante da risolvere: Lord William. Ci sarebbe stato tempo dopo, per tutto il resto; ora, doveva pensare a fermare quell’assassino.

Si avviò a passo deciso verso la propria casa, camminando nella neve, senza sentire il freddo del vento invernale, ma riscaldato dal pensiero che, presto, tutto si sarebbe risolto per il meglio.

 

***

 

Catherine tirò le briglie del cavallo, in modo che l’animale fermasse la sua corsa. Lei e Rosalie avevano galoppato per tutta notte nella foresta, e, ora che l’alba invernale si stagliava all’orizzonte, finalmente erano giunte a casa. La ragazza sollevò lo sguardo, osservando il giardino le cui piante rampicanti e le erbacce erano ora completamente ricoperte di neve e piccole stalattiti luccicanti, dando alla dimora un aspetto stranamente fiabesco e irreale. Catherine si sentì sollevata al pensiero di essere tornata, ma non provò quella folle felicità che aveva immaginato nei mesi trascorsi al maniero di Adrian. Senza contare che era lì per una ragione ben precisa. Smontò da cavallo, aiutando Rosalie a scendere; dopo un’intera nottata insonne passata a cavalcare nel buio, Catherine si sarebbe aspettata che sua sorella crollasse dal sonno, ma non era così. Rosalie era inspiegabilmente sveglia e vispa, con un che di attento e guardingo nei grandi occhi scuri. La ragazza non se ne curò troppo, e allacciò le briglie del cavallo intorno al ramo di un albero.

Spalancò il cancello e fece per entrare, ma Rosalie la bloccò tirandola per una manica dell’abito.

- Catherine, aspetta!- chiamò la ragazzina; sembrava in ansia, come se fosse stata spaventata da qualcosa.

- Che c’è, Rose?- fece Catherine, forse un po’ troppo bruscamente, senza curarsi di nascondere l’impazienza. Suo padre aveva bisogno di lei, e subito; non aveva tempo per perdersi in chiacchiere.

- Cathy, forse non dovremmo entrare…- mormorò Rosalie, gettando delle occhiate preoccupate alla porta d’ingresso.

- E perché no? E’ casa nostra; su, forza, andiamo, non c’è tempo da perdere - Catherine si liberò dalla presa della sorella ed entrò in giardino; la ragazzina le corse dietro.

- No, Catherine, per favore, ascoltami!- implorò Rosalie.- Catherine, non dobbiamo entrare! Cathy…Cathy, Lady Julia è una strega!- gridò infine.

- Sì, su questo non ci piove…- commentò la ragazza, senza scomporsi e continuando a percorrere il vialetto innevato che conduceva alla porta.

- No, Catherine, non hai capito!- ritentò Rosalie, con disperazione; ora che aveva ritrovato un po’ di sangue freddo, la ragazzina sentiva di dover mettere a parte la sorella maggiore di quel che aveva scoperto appena due giorni prima.- Lady Julia è una strega, una vera strega!

Catherine si fermò, guardando la sorella.

- Te lo giuro, Cathy…- ansimò Rosalie.- L’ho vista con i miei occhi! E’ una vecchia strega che ringiovanisce con i suoi poteri! E’ la verità! Io l’ho vista…

La ragazza alzò gli occhi al cielo; sua sorella non aveva mai avuto il vizio di raccontare bugie e storie fantasiose, ma in quel momento si sentiva molto restia a crederle. Aveva cose più importanti a cui pensare, e non aveva mai creduto né alla magia né ai fenomeni sovrannaturali. Certo, l’essere stata ospite nel maniero di un mostro per ben sei mesi l’aveva fatta ricredere non poco, ma l’aspetto…poco consono di Adrian era ben lontano dalla stregoneria e da altre simili sciocchezze. Probabilmente, Rosalie aveva semplicemente visto qualcosa che non esisteva, suggestionata da qualche racconto di fantasmi, oppure quella era una specie di tecnica per attirare la sua attenzione. Forse la sorellina aveva bisogno di conforto dopo la brutta avventura e lo ricercava inventandosi simili frottole. Ma lei non aveva tempo per gli scherzi.

- Per favore, Rose, non adesso…- la liquidò, superandola e dirigendosi decisa verso la porta.

- No, Cathy! Per favore, te lo giuro! Il medaglione, Cathy!- provò a dire la ragazzina.- Il medaglione col rubino di Lady Julia…

La ragazza non le prestò ascolto, ma afferrò il batacchio della porta e iniziò a picchiarlo con forza contro il legno, accompagnandolo con i colpi del proprio pugno.

- Lydia!- gridò.- Lydia, apri! Lydia!

Le due sorelle sentirono il rumore di passi affrettati provenire dall’interno della casa. In un attimo, la porta si spalancò, rivelando la figura grassoccia della vecchia balia. Catherine la guardò come se si trattasse di una sconosciuta: quanto era cambiata, in sei mesi!

I capelli grigi di Lydia, annodati in una crocchia dietro la nuca, erano divenuti completamente bianchi; benché la sua figura fosse ancora rotondetta, era visibilmente dimagrita, e la ragazza le trovò rughe più numerose e marcate. Aveva le occhiaie di chi aveva trascorso una notte insonne, e gli occhi arrossati dal pianto.

Tuttavia, non appena le vide, il volto stanco dell’anziana governante s’illuminò. Lydia spalancò gli occhi, boccheggiando, incredula. Si portò una mano all’altezza del cuore, emozionata, senza sapere se credere o no a quello che le stava di fronte.

- Oh…oh, ma…- balbettò.- No, non…non può essere vero, non…

- Va’ tutto bene, Lydia - si affrettò a dire Catherine, nel tentativo di tranquillizzarla.- Va’ tutto bene, siamo noi…

- Oh, santo cielo!- esclamò la donna, abbracciando Catherine con slancio.- Santo cielo…signorina Catherine…ma allora siete viva!

- Sì, Lydia. Sì, sono viva - sorrise la ragazza.

- Oh, ma questo è un miracolo…e anche voi, signorina Rosalie! Per fortuna state bene! Ero così in pensiero…ma venite, entrate, entrate!- disse poi, facendosi da parte in modo che le due sorelle potessero entrare, per poi richiudere la porta.- Sia lodato il buon Gesù! Non potevate farmi un regalo di Natale più bello…Sempre sia lodato Nostro Signore! Ma, signorina Catherine, dove siete stata tutto questo tempo?- domandò infine.

- Ecco, io…è una lunga storia…- mormorò la ragazza, sentendo una fitta al cuore.

Avrebbe tanto voluto sfogarsi con qualcuno, ma non poteva raccontare a Lydia di Adrian. La vecchia balia non le avrebbe creduto e, se anche così non fosse stato, già Rosalie ne era stata terrorizzata, Lydia sarebbe come minimo svenuta.

E poi, c’era qualcosa di molto più importante da fare, prima.

- Lydia, dov’è mio padre?- chiese, con decisione.

Quello che aveva in mente era ben preciso: era tornata a casa solo per occuparsi di suo padre, e così avrebbe fatto; ma poi, non appena il mercante si fosse sentito meglio, sarebbe tornata al maniero, da Adrian. Non sapeva ancora se avrebbe accettato di diventare sua moglie, ma certo era che non si sarebbe più separata da lui.

Ma prima, doveva pensare a suo padre.

- Signorina…- balbettò Lydia.- Signorina, vostro padre è molto malato…

- Questo lo so, Lydia, ma voglio sapere dov’è e che cos’ha - ribatté fermamente la ragazza.

- Nessuno lo sa, signorina…- pigolò la donna.- Lady Julia si è sempre rifiutata di chiamare un dottore…diceva che era in grado di curarlo lei, personalmente…

- Stupida presuntuosa…!- sibilò la ragazza, fra i denti.- Lydia, dov’è mio padre?- ripeté.

- E’ di sopra, nella sua stanza…

- Cathy, Lady Julia è…- saltò su Rosalie.

- Non adesso, Rose!- la zittì Catherine, dirigendosi in fretta e furia verso le scale.

Cominciò a salire i gradini, ma qualcuno la bloccò. La ragazza alzò lo sguardo, e i suoi occhi verdi incrociarono quelli duri di Lady Julia.

Matrigna e figliastra rimasero immobili a guardarsi per diversi istanti. Catherine vide che le pupille di Lady Julia erano leggermente dilatate, segno che era rimasta sorpresa.

La donna frenò a stento una smorfia di rabbia. Allora era viva! Quella puttanella della sua figliastra era viva! Lo sapeva, avrebbe dovuto intuire che quell’imbecille di suo marito stava mentendo, la presunta morte di Catherine era stata troppo improvvisa, era ovvio che quell’inetto le stava nascondendo qualcosa! Stupida, stupida che era stata! E anche quell’altra…come aveva fatto la mocciosa a sfuggire ai segugi di Lord William?! Maledizione, quelle due serpi dovevano essere morte, morte!

Che doveva fare, ora? Il ritorno di Catherine le aveva scombinato tutti i piani, dannazione a lei! Poteva anche dire addio al matrimonio con Lord William…quello era ancora infatuato di quella sgualdrina! Moriva dalla voglia di ammazzarla, di scatenarle contro tutta la sua magia, o di strangolarla con le proprie mani…ma le serviva! Ora che i suoi progetti erano andati in fumo, doveva tornare a quelli iniziali…E quella patetica marmocchia di Rosalie? Non aveva tempo di pensarci ora, lei avrebbe fatto la stessa fine di suo padre, ma adesso doveva assolutamente sistemare Catherine, una volta per tutte!

- Catherine!- esclamò, con voce melliflua.- Catherine, allora sei viva! Sapessi come sono felice che tu stia bene!

- Non sforzatevi troppo per sembrare sincera, Lady Julia, non serve a nulla e vi fa male alla pelle!- la rimbrottò Catherine, superandola e riprendendo a salire le scale.- Dov’è mio padre?

- Tuo padre? Oh, lui è di sopra…- rispose Lady Julia, con finta sorpresa.- Perché lo vuoi sapere? Non preferiresti prima riposarti? Devi essere stanca, su, raccontami cos’è successo…

- Non darle retta, Catherine!- gridò Rosalie, sotto lo sguardo esterrefatto di Lydia.

- E anche tu, Rosalie - disse la matrigna, voltandosi nella sua direzione.- Dove sei stata per tutta notte? Eravamo in pensiero per te…

- Sentite, signora madre, non ho tempo per queste moine!- esclamò Catherine.- Ditemi che cos’ha mio padre, altrimenti…

- Disturbo?- fece una voce maschile.

Catherine si voltò a guardare: sulla soglia della porta, c’era Lord William.

Il giovane rimase un attimo interdetto; era venuto a casa Kingston con l’intento di incontrare Lady Julia e informarla che il suo piano aveva avuto successo. I suoi cani erano ritornati la sera prima, aveva buoni motivi per credere che avessero sterminato quella mocciosa: e invece lei era lì, ancora viva!

Lord William sentì montare la rabbia dentro di sé: i suoi segugi non avevano mai fallito! Li aveva addestrati in modo che non abbandonassero la caccia fino a che la preda non fosse stata stanata e uccisa, perché stavolta non era stato così? Avrebbe punito quelle bestiacce in modo esemplare…

Tuttavia, la sua rabbia nei confronti di Rosalie svanì non appena vide Catherine; subito, il furore venne sostituito dal fuoco e dalla libidine. Era tornata! Che quell’idiota di suo fratello l’avesse riportata indietro? O che il suo amante si fosse stancato di lei? Non importava, ora era lì; e sarebbe stata sua.

- Chiedo scusa…- disse.- Non avevo intenzione di interrompervi…

- Affatto, Lord William!- disse Lady Julia.- Anzi, il vostro arrivo è stato provvidenziale…- aggiunse, scoccandogli un’occhiata eloquente.- Catherine, forse c’è qualcosa che dovresti sapere…

- Non adesso, signora madre!- l’interruppe la ragazza, riprendendo a salire le scale.- Vogliate scusarmi, Lord William…

Sulle bocche di Lady Julia e di Lord William comparve un ghigno rabbioso, mentre la ragazza scompariva al piano di sopra.

- Io voglio quello che mi spetta, signora Kingston - bisbigliò Lord William, fra i denti.

Lady Julia gli scoccò un’occhiata innervosita.

- E l’avrete, Lord William, statene certo - sibilò.- Fidatevi di me. Forse, ora, assisterete a qualcosa che non saprete spiegarvi. Ma vi pregherei di non mettervi a strillare come un maiale al macello…

 

***

 

Catherine attraversò di corsa il corridoio, fino a giungere alla stanza di suo padre, sbarrata con una porta. La ragazza non si fece troppi scrupoli ed entrò, rimanendo un attimo impietrita sulla soglia alla vista dell’uomo: il mercante era ancora più pallido di come gliel’aveva mostrato lo specchio, e aveva delle occhiaie ancor più profonde. Catherine gli si avvicinò quasi correndo, gettandosi ai piedi del letto. Gli accarezzò dolcemente il viso, guardandolo preoccupata.

- Papà?- lo chiamò, sentendo un groppo in gola. - Papà, sono io…sono Catherine…papà…

Il mercante mugolò nel sonno, ma non aprì gli occhi, né diede segno di averla udita. Catherine gli posò una mano sulla fronte: era bollente!

La ragazza si alzò di scatto, uscendo dalla stanza. Si ritrovò di fronte Lord William e la matrigna.

- Sta male!- ansimò.- Sta male. Bisogna chiamare un dottore!

Li superò entrambi, diretta verso le scale, ma la matrigna la bloccò.

- Catherine!

La ragazza si arrestò, voltandosi a guardare Lady Julia.

- Catherine, so che sei in ansia per tuo padre. E lo sono anch’io, credimi - proseguì Lady Julia, muovendo qualche passo verso di lei.- Ma, forse ora è il momento che tu sappia una cosa…

Catherine deglutì, sentendosi la gola secca.

- E sarebbe?- gracchiò.

Lord William si aprì in uno dei suoi sorrisi simili ad un ghigno, avvicinandosi a lei.

- Tu e Lord William Montrose vi sposerete!- concluse Lady Julia.

- Sarete felice con me, signorina Kingston, ve lo posso garantire…- fece Lord William, con voce melliflua.

Catherine rimase pietrificata; poi, passato il primo momento di stupore, sentì la collera crescere. Ecco cos’aveva macchinato la sua matrigna, mentre lei non c’era! L’aveva promessa sposa ad un porco, un uomo spregevole che le aveva messo le mani addosso, senza preoccuparsi che lei fosse d’accordo o no, come se fosse stata una merce di scambio! Ma non sarebbe andata così. Oh, no, se quella vipera di Lady Julia credeva che si sarebbe piegata ad una simile prepotenza si sbagliava di grosso.

- Potete scordarvelo!- disse, quasi come se stesse vomitando fuori le parole, con una rabbia e una furia che stupirono anche se stessa.- Non vi sposerò mai, Lord William, avete sentito? Mai. Mai, preferisco morire piuttosto che diventare vostra moglie, preferisco andare in convento, preferisco finire i miei giorni da zitella! Non vi sposerei mai, neanche se voi foste l’ultimo uomo rimasto sulla faccia della terra. Piuttosto che concedermi a voi preferisco essere la moglie di…

La ragazza si bloccò, sentendo le tempie pulsarle furiosamente.

Preferisco essere la moglie di…

Respirò affannosamente, tentando di recuperare un po’ di autocontrollo.

…la moglie di un mostro.

Catherine fissò intensamente negli occhi prima la matrigna, quindi Lord William.

- Non sarò mai vostra moglie.

Detto questo, si voltò nuovamente e prese a scendere le scale. Doveva andare in paese, doveva trovare un medico per suo padre, e alla svelta.

A metà scalinata, tuttavia, sentì la porta d’ingresso aprirsi. Imitò Lydia e Rosalie che, rimaste nell’atrio ad attenderla, si erano voltate non appena avevano udito il rumore. Nella stanza, pallido, barcollante, entrò Henry.

La ragazza corse incontro a suo fratello, credendolo di nuovo ubriaco, ma quando gli fu vicino vide che suo fratello non era affatto alticcio, anzi. Aveva un non so che di vispo e attento nello sguardo, e l’accolse con sincero stupore.

- Catherine!- esclamò.- Catherine, sei tornata!

La ragazza si sarebbe aspettata l’ennesimo sei viva, ma era troppo preoccupata per chiedere spiegazioni. Si gettò fra le braccia del fratello.

- Henry! Henry, per favore, accompagnami in paese! Dobbiamo trovare un dottore, papà sta male!- lo implorò.

- Cathy, io…

- Capitate proprio nel momento più opportuno, Henry!- esclamò Lord William, scendendo tranquillamente le scale seguito da Lady Julia.- Arrivate giusto in tempo per l’annuncio del mio fidanzamento con vostra sorella!

Catherine si voltò di scatto, lanciandogli un’occhiata carica d’odio, quindi tornò a rivolgersi al fratello.

- Henry, ti prego!- implorò.- Ti prego, non permettergli di farmi questo! Io non voglio sposarlo, Henry, per favore, diglielo anche tu che non sarò mai sua!- concluse, con un’altra occhiataccia a Lord William, il quale, però, non sembrò scomporsi, ma si schiarì educatamente la voce.

- Temo che stiate domandando aiuto alla persona sbagliata, signorina…

- Che intendete dire?- ringhiò Catherine.

- Beh, diciamo che vostro fratello è a favore del nostro matrimonio. Anzi, a dire il vero, senza di lui queste nozze non sarebbero mai state possibili…- ghignò Lord William.

Catherine boccheggiò, non riuscendo a capire cosa volesse dire quel ratto di fogna. Si voltò a guardare suo fratello, che era impallidito di colpo. La ragazza serrò le labbra, quindi si staccò da lui, arretrando lentamente di un passo.

- Henry, che significa?- chiese, e la voce le suonò estranea, quasi come se a parlare fosse stata un’altra.

- Vostro fratello ha una gran passione per il gioco d’azzardo, lo sapevate?- fece Lord William, sempre con quel ghigno stampato sulle labbra.- Peccato, però, che a volte il denaro scarseggi. Ma il nostro Henry è un uomo d’ingegno, dico bene? Ha trovato subito un’altra soluzione…Non sarebbe male, se al posto dei soldi tutti quanti mettessero in palio le proprie sorelle…- ridacchiò malignamente.

- Che cos’hai fatto?- domandò Catherine, incredula e sconvolta insieme.

- Signorino Henry…- boccheggiò Lydia.

- Henry…- Rosalie si portò le mani alla bocca.

- Cathy, mi dispiace, io non volevo…- mormorò il giovane.

- Che cos’hai fatto?- strillò nuovamente Catherine, lanciandosi contro il fratello.- Come hai potuto farmi questo?! Come hai potuto?!- iniziò a prenderlo a pugni sul petto, strillando istericamente, fuori di sé. Henry tentò di bloccarle i polsi, ma la sua resistenza fu debole.

- Catherine, ti prego, lascia che ti spieghi!- supplicò.

- Vattene!- gridò la ragazza, ansante, con la fronte imperlata di sudore.- Vattene! Va’ via da qui!

- Cathy, ascolta…

- Non voglio più ascoltarti, mai più! Sparisci dalla mia vista!

- Cathy…

- Via! Vattene via! Non voglio vederti mai più!- la ragazza afferrò la maniglia della porta e l’aprì, spingendo Henry fuori di casa. Il giovane non oppose resistenza; provò a ripetere un debole  mi dispiace, ma la sorella non l’ascoltò, e chiuse la porta.

 

***

 

La ragazza rimase a fissare la porta chiusa, ansimando per riprendere fiato. Poggiò la fronte contro il legno, senza avere il coraggio di voltarsi. Sentiva il cuore battere all’impazzata, le guance arrossate per la rabbia. Una lacrima le sfuggì dalle ciglia, ma la ragazza l’asciugò subito. Prese un bel respiro, e si voltò lentamente a guardare Lydia, Rosalie e soprattutto Lady Julia e Lord William. Non importava che anche suo fratello le fosse contro, che se la fosse giocata a carte come un cavallo purosangue da mercato. Lei non dipendeva né da suo fratello né dalla sua matrigna. Aveva un cervello, una volontà propria: nessuno avrebbe potuto costringerla a sposare quel verme di Lord William.

- Non importa cos’ha fatto mio fratello, né cosa avete deciso voi, Lady Julia - disse.- Preferisco la morte, piuttosto che sposare Lord William.

- Ne sei sicura?

Un grido infantile accompagnò quelle parole; Catherine si voltò, solo per vedere Lady Julia che, afferrata Rosalie per i capelli, ora le stava tenendo un pugnale puntato alla gola. La ragazza spalancò la bocca per la sorpresa e il terrore, lasciandosi sfuggire un gemito soffocato. Non fece in tempo a rendersi conto di quel che era appena successo, che sentì la lama di un coltello pizzicarle un fianco. Girò il capo, solo per vedere il ghigno di Lord William, il quale la stava minacciando con un altro pugnale.

- Le ho provate tutte, tesoro mio…- sospirò, con fare addolorato.- Ma vedo che la mia futura moglie è un tipo testardo…Beh, è comunque un difetto che si può correggere…- rise, prendendole il volto fra le dita della mano libera.

- Come osate?! Lasciatele stare, immediatamente!- urlò Lydia, cercando di avventarsi contro Lord William, ma questi le sferrò una violenta gomitata che la scaraventò contro una parete. La vecchia balia cadde a terra con gemito.

Catherine lanciò un grido; Lord William la lasciò con fare accondiscendente, e la ragazza s’inginocchiò accanto alla donna.

- Hai detto che preferisci morire, Catherine?- fece Lady Julia, sempre tenendo il coltello puntato alla gola di Rosalie.- E se a morire fossero invece i tuoi cari?

La donna premette di più la lama contro la gola bianca della ragazzina; Catherine e Rosalie osservarono inorridite una striscia di sangue uscire dal collo della sorella più giovane e imbrattarle il colletto bianco.

- Scegli, Catherine - disse Lord William.- Preferisci vedere morire le persone che ami o diventare mia moglie? Fai attenzione, questa scelta potrebbe costarti molto cara…

Catherine si guardò intorno con disperazione; vide Lydia gemere accasciata a terra, vide gli occhi di Rosalie spalancati dal terrore, pensò a suo padre agonizzante al piano di sopra.

E, in quel momento, si rese conto di non avere alcuna scelta.

 

***

 

Lord William uscì dal cancello di casa Kingston, avviandosi a passo deciso verso casa sua. D’un tratto, si ritrovò con la strada sbarrata. Henry gli si era parato di fronte con una luce di pura ferocia negli occhi; Lord William gli restituì un’occhiata infastidita.

- Non sapevo foste ancora qui, Henry…

- Voi non avrete mia sorella, Lord William!- ringhiò il giovane.

- Davvero? Avete cambiato idea? Proprio ora che ha finalmente accettato di diventare mia moglie?- ghignò l’altro.

- E che cosa le farete, una volta che l’avrete sposata? Le farete fare la stessa fine del Marchese Van Tassel e di tutti gli altri?- urlò Henry.

Lord William si sentì gelare.

No, non era possibile…

Quell’omuncolo patetico non poteva aver davvero scoperto il suo segreto! No…se così fosse stato, allora…

No, no, calma! Non si era mai lasciato cogliere impreparato, non doveva mettere il piede in fallo proprio in quella situazione. Si schiarì la voce, assumendo quella posa da gentiluomo che gli riusciva tanto bene.

- Mio caro Henry, temo che abbiate preso un abbaglio….

- Non m’incantate con i vostri discorsi! Non più!- gridò il giovane.- Ho le prove, Lord William! So che siete stato voi ad uccidere tutta quella gente!

Lord William lo guardò per un istante, quindi si decise a parlare, sempre con tono calmo.

- Perché non ne discutiamo da gentiluomini quali siamo, Henry, che ne dite?- il giovane aprì la bocca per ribattere, ma Lord William non glielo permise:- Che ne dite se c’incontriamo domani mattina presto, a caccia? Vedremo di chiarire questo equivoco, in modo da poter tornare in buoni rapporti, come si addice a due cognati. Ci vediamo domani al limitare della foresta.

Detto ciò, Lord William gli batté una mano sulla spalla, allontanandosi da un Henry sempre più sconvolto e consapevole che, forse, aveva perso per sempre sua sorella.

 

***

 

Uno sparo riempì il silenzio, seguito da un guaito. Il bulldog cadde a terra in un lago di sangue. Degli uggiolii seguirono, mentre altri spari si diffondevano nell’aria. Un pitbull si accasciò a terra, guaendo, morente. Lord William prese la mira, abbattendo un rottweiler.

Così, uno dopo l’altro, i cani che erano stati addestrati da lui stesso e trasformati in macchine di morte, vennero uccisi dalla furia del loro stesso padrone.

Lord William ansimò, osservando le carcasse degli animali sparse per tutto il cortile. Era la punizione che spettava ai negligenti.

Abbassò lentamente la pistola, tergendosi il sudore dalla fronte. Avrebbe anche potuto evitare di farlo, forse, se anche quella mocciosa li avesse riconosciuti, l’avrebbe eliminata subito dopo le nozze con sua sorella. La verità è che voleva sfogarsi.

Quella troia di Catherine Kingston era un osso duro, non c’erano dubbi. Era incredibile! Lui era l’uomo più ricco di tutta la città, le stava offrendo di sposarlo, di toglierla dalla melma in cui era finita, e lei aveva ceduto solo dopo averla minacciata con un pugnale.

Stupida puttana!

Digrignò i denti; non importa che lo volesse o meno, seppur con la forza aveva acconsentito a sposarlo, e sarebbe stata sua. Quanto al suo carattere ribelle, era solo questione di tempo, ma sarebbe riuscito a cambiarlo.

Le serviva solo qualche scopata, per calmarsi…

Ma, dannazione, perché non voleva cedergli? Lui la desiderava, la voleva, quel fuoco dentro di lui continuava ad ardere, si sarebbe placato solo quando l’avesse avuta…e ora ci si metteva anche quell’idiota di suo fratello!

Aveva scoperto il suo segreto…maledizione!

Tirò un altro colpo, mirando al cielo.

Sentì un guaito alle sue spalle, e si voltò di scatto. Dietro di lui, sfuggito al massacro, c’era il suo doberman, Rolf. Lord William ringhiò, puntando la pistola in mezzo agli occhi dell’animale, ma si bloccò un attimo prima di premere il grilletto. Abbassò lentamente l’arma, mentre un ghigno gli si dipingeva sulle labbra.

No, non avrebbe ucciso anche lui. Rolf era sempre stato il suo preferito; il doberman era come lui, forte e coraggioso, selvaggio e feroce. Non era scappato come gli altri in mezzo ad uggiolii patetici; anche adesso, pur avendo un’arma puntata contro, non indietreggiava, ma rimaneva a guardarlo, ringhiandogli contro.

Lord William tese una mano, invitandolo ad avvicinarsi. Il cane gli andò vicino, e lui lo accarezzò sul capo. L’avrebbe portato con sé, l’indomani mattina, durante l’incontro con Henry Kingston. I suoi mastini non gli occorrevano più, avevano già fallito con un’insulsa ragazzina, e ora non poteva permettersi sbagli.

Henry Kingston andava eliminato, così che portasse il suo segreto nella tomba.

E stavolta, se ne sarebbe occupato personalmente.

 

***

 

Lady Julia spinse Catherine nella propria stanza così forte che la ragazza cadde inginocchiata sul tappeto. La matrigna le rivolse uno sguardo di trionfo contornato da un ghigno beffardo, quindi chiuse la porta. La ragazza sentì la chiave scattare nella serratura.

Rosalie era già stata relegata in camera sua, e suo padre giaceva nella stanza accanto, morente; di Lydia, non sapeva nulla.

Le sue nozze con Lord William erano state fissate per l’indomani mattina.

Senza che potesse trattenersi, la ragazza iniziò a singhiozzare disperatamente, senza essere in grado di frenarsi. Si alzò in piedi, tirando un rabbioso calcio alla porta. In lacrime, si volse verso la finestra: le torri nere del maniero svettavano lugubri e minacciose in lontananza, ma Catherine rivolse loro uno sguardo pieno di affetto.

Oh, Adrian…

Perché? Perché si era comportata così? Se fosse rimasta, se avesse accettato di sposare il mostro, allora forse a quest’ora sarebbe stata felice. Non costretta a divenire la moglie dell’essere che più disprezzava al mondo.

Catherine si gettò sul letto a baldacchino, incrociando le braccia sulla fronte e affondando il viso nel materasso, sciogliendosi in lacrime disperate.

 

Angolo Autrice: Okay, qualora qualcuno lo stesse pensando, vi posso assicurare che non ho Satanasso alle spalle che m’insegue XD! So che ho già aggiornato sabato, ma questo, come avrete capito, è un capitolo “di mezzo”, quindi aggiornare non mi sembrava sbagliato…Senza contare che sono rimasta ferma per così tanto tempo che ora questa ff ho voglia di finirla, quindi, fossi in voi, mi aspetterei anche altri aggiornamenti più di una volta a settimana J. Dunque, come s’è visto, Henry non è poi così pirla come poteva apparire all’inizio, anche se rimane abbastanza ingenuotto…Come se la caverà con Lord William? E Cathy sposerà il cattivo o succederà qualcosa di inaspettato? Tutto questo lo vedremo nel prossimo capitolo!

Ringrazio molto chi legge, in particolare jekikika96, Nimel17 ed Ellyra per aver recensito.

Ciao a tutti, al prossimo capitolo!

Bacio,

Dora93

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Capitolo 18
*** Il segreto del medaglione ***


 

Un vaso di vetro cozzò contro la parete della stanza, fracassandosi rumorosamente. Ernest mosse istintivamente un passo indietro, ma non era spaventato; piuttosto, provava una gran pena e comprensione.

Adrian emise un ruggito, ribaltando in un solo colpo la scrivania; tutti gli oggetti che vi erano sistemati sopra finirono in mille pezzi sul pavimento. Il mostro afferrò le tende del letto a baldacchino, graffiandole, strappandole, lacerandole, lasciandovi sopra i segni degli artigli. Ringhiò nuovamente, colpendo con un calcio i resti di una sedia.

- Padrone, vi prego, calmatevi!- implorò Ernest.

- Zitto!- ululò Adrian, restituendogli un’occhiata di fuoco; scoprì i denti aguzzi, afferrando una sedia di legno e scaraventandola contro la parete opposta, distruggendola.- Come faccio a calmarmi?! Come faccio a calmarmi?!

Ansimò, cercando di riprendere fiato; infine, crollò in ginocchio al centro della stanza, in mezzo a resti di oggetti e pezzi di stoffa.

Ernest fece per avvicinarsi e toccargli una spalla.

- Padrone…

- Vattene!- ruggì Adrian.- Vattene, voglio stare solo!

- Ma…

- Vattene, ho detto!- urlò, fuori di sé. - Va’ via, sparisci dalla mia vista! Via!

Ernest non rispose; indietreggiò lentamente, fino a raggiungere la porta e uscire. Adrian non sollevò lo sguardo dal pavimento finché non sentì il rumore della porta che si chiudeva.

Rimasto solo, affondò le dita artigliate nei capelli castani, per poi picchiare il pugno contro il marmo del pavimento. Non pianse; le lacrime le aveva già consumate molto tempo prima. Ma si sentiva come svuotato, gli sembrava quasi che qualcuno gli avesse strappato il cuore dal petto e lo avesse ridotto in mille pezzi, distruggendolo, dissanguandolo.

Catherine…

Non l’avrebbe rivista mai più, lo sapeva. Se n’era andata per stare vicino a suo padre, ma lui sapeva che non sarebbe mai più tornata. Perché avrebbe dovuto? Ora era certo che lei non l’amava, che molto probabilmente provava ribrezzo nel vederlo…perché continuare a farsi illusioni?

Si era già ingannato abbastanza.

Era stato uno stolto; soltanto uno stolto, nulla di più. Aveva rovinato tutto; prima, almeno, poteva amare Catherine in silenzio, coltivando la speranza che, un giorno, lei avrebbe ricambiato. Ma tutto si era infranto quando aveva deciso di compiere quella follia: aveva compiuto un passo azzardato, e aveva ricevuto in cambio solo un silenzio freddo e attonito. Stupido, idiota! Probabilmente lei aveva riso di lui e della sua stoltezza, aveva provato orrore e disgusto al pensiero che una bestia si fosse innamorata di lei. Come aveva anche solo potuto pensare che un mostro come lui potesse essere riscaldato dall’amore di una fanciulla stupenda com’era Catherine?

E ora, lei se n’era andata. L’aveva persa per sempre.

- Catherine…amore…- mormorò, e le parole uscirono dalla sua bocca senza che lui potesse controllarle.

Sentì che la disperazione lo stava invadendo di nuovo; si alzò in piedi di scatto, pronto a ridurre in mille pezzi quel poco che si era salvato dalla sua furia animalesca.

Quando Catherine se n’era andata, si era detto che ormai era inutile continuare a tenere a bada gli istinti violenti e mostruosi che si erano accumulati in lui nel corso di dieci anni. Aveva permesso alla bestia di tornare, e lei era sopraggiunta in tutta la sua furia.

Si voltò di scatto, incontrando la propria immagine nello specchio. Fu come se il tempo si fosse fermato. Adrian osservò attentamente il proprio corpo né umano né animale, la faccia in cui pelle, squame, pelo convivevano mostruosamente, la bocca socchiusa che lasciava intravedere le zanne, le mani animalesche e artigliate. L’immagine di un mostro.

Era colpa sua. Tutta colpa di quella maledetta mostruosità!

Catherine era come la luce nell’oscurità, una creatura meravigliosa che meritava quanto di meglio il mondo aveva da offrire; lui, invece, era quanto di più cupo e marcio esistesse, l’essere più mostruoso che avesse mai calpestato questa terra. Non era né uomo né animale, ma solo un orrendo ibrido, un essere spregevole che tutti rifuggivano, che nessuno avrebbe mai voluto al proprio fianco.

Era colpa sua, se Catherine non l’amava.

Colpa di quella maledetta faccia!

Adrian ringhiò di rabbia e disperazione, chinandosi di scatto e afferrando un pezzo di legno. Si avventò contro lo specchio; voleva distruggerlo, gli sembrava quasi di distruggere se stesso, ma si bloccò a pochi centimetri da esso.

Ansimò, cercando di riacquistare la calma. Lasciò cadere il pezzo di legno a terra; sfiorò con gli artigli la superficie fredda e liscia dello specchio. No, non poteva distruggerlo. Benché quello specchio fosse stato creato per aumentare il suo dolore, mostrandogli una vita che lui non avrebbe mai potuto vivere, ora era diventato l’unico mezzo per alleviare almeno un poco la sua disperazione. Forse non avrebbe più rivisto Catherine di fronte a lui, entro le mura del suo maniero, ma voleva almeno avere la consolazione di guardarla da lontano, di vederla parlare e ridere senza poter udire il suono delle sue parole e delle sue risate. Non sarebbe bastato per annullare per sempre il dolore che la partenza della ragazza gli aveva procurato, ma voleva godere di quel poco che gli era sempre stato concesso: vederla.

Sospirò, guardando la sua immagine riflessa nello specchio.

- Mostrami Catherine!- ordinò.

Subito, lo specchio ubbidì. Adrian rimase interdetto, incapace di credere a quello che l’immagine gli mostrava. Si sarebbe aspettato di vedere Catherine seduta al capezzale di suo padre, oppure nella sua stanza a leggere; quello che vide lo sconvolse.

La ragazza era in piedi di fronte allo specchio di una toeletta, leggermente china, aggrappata con le mani al mobile di legno. Indossava una sottana bianca e un corsetto, e i capelli corvini le ricadevano in avanti, sul viso.

Adrian ci mise diversi istanti per accorgersi che stava piangendo.

Catherine singhiozzava, sembrava disperata; le lacrime le rigavano le guance, senza fermarsi.

Mio Dio, ma che cos’era successo?

La ragazza gettò improvvisamente il capo all’indietro, emettendo un grido di dolore che il padrone non poté udire. Qualcuno le stava allacciando il corsetto, stringendoglielo intorno alle costole così forte da farle male. Catherine emise un’altra smorfia di dolore.

L’immagine si fece più ampia, mostrando chi le stava procurando tutto quel male. Adrian sgranò i gelidi occhi azzurri, sconvolto. Boccheggiò, incredulo, mentre di fronte a lui, alle spalle di Catherine, una bellissima donna dai capelli biondi tirava i nastri del corsetto, con un ghigno di maligna soddisfazione sulla labbra.

L’immagine riflessa dallo specchio svanì.

No! No, non era possibile, non…

E invece sì. Era proprio lei.

Adrian si riscosse; spalancò la porta della stanza, attraversando di corsa i corridoi bui del maniero, fino a giungere alla cucina.

I domestici erano seduti intorno al tavolo di legno tarlato; nessuno dei tre parlava, ma Ernest esibiva un’aria preoccupata, e Constance e Peter avevano le espressioni più tristi che avesse mai visto. Tuttavia, si riscossero non appena sentirono la porta aprirsi sbattendo rumorosamente. Constance si alzò in piedi.

- Ernest!- chiamò Adrian, ansimando, al che l’anziano domestico si mostrò ancora più preoccupato.- Ernest, Catherine è in pericolo!

- In pericolo?- fece eco Constance.

- Perché? Che le è successo?- incalzò Peter, balzando in piedi.

- L’ho vista nello specchio…lei…Ernest - disse Adrian, guardando negli occhi l’anziano domestico.- Ernest, è lei.

- Cosa?!- l’uomo scattò in piedi, incredulo.- Com’è possibile? Ne siete sicuro, padrone?

- Vi dico che l’ho vista. Dovete aiutarmi…Ernest, vai a sellare il mio cavallo! Devo salvarla…

 

***

 

Catherine emise un grido soffocato, mentre Lady Julia terminava di allacciarle l’ultimo nodo del corsetto. La matrigna digrignò i denti, afferrando una spazzola e cominciando a pettinare i capelli della ragazza così forte da strapparglieli.

- Vedi di fare la brava bambina, oggi!- sibilò, senza smettere di strattonarle i riccioli corvini.- Deve essere tutto perfetto, nulla deve andare storto…

Lady Julia depose la spazzola con un gesto secco, afferrando Catherine per una ciocca di capelli e chinandosi fino a che il suo volto non fu all’altezza di quello della ragazza. Matrigna e figliastra si guardarono negli occhi attraverso lo specchio.

- Quindi, bada bene di rigare dritto e di non fare la furba…- ringhiò Lady Julia, aumentando la stretta.- Perché sappi che se ti azzarderai a farmi qualche scherzo, allora potrai dire addio per sempre a tutti quelli che ami. A cominciare da tuo padre!

Lady Julia la lasciò, rivolgendole un’occhiata rabbiosa prima di uscire dalla stanza sbattendo la porta.

Catherine guardò il proprio volto pallido riflesso nello specchio. Osservò i propri occhi arrossati dal troppo piangere, il suo viso smunto reso ancora più sofferente dal contrasto con il nero dei capelli, guardò il suo corpo avvolto in un abito da sposa pieno di pizzi e fronzoli, e si sentì come una di quelle bambole di porcellana con cui giocava quand’era piccola. Si sentiva come una creatura senza più un’anima, come se tutta la vita le fosse stata succhiata via nel giro di poche ore.

E il pensiero, raggelante, che presto non sarebbe stata più lei, Catherine…ma Lady Catherine Montrose.

Nascose il viso fra le mani, ricominciando a singhiozzare, certa che, ormai, non c’era più alcuna speranza per lei.

 

***

 

Henry percorreva nervosamente avanti e indietro il ristretto perimetro fra gli alberi, affondando gli stivali nel terreno fangoso e ancora parzialmente innevato della foresta. Lord William gli aveva dato appuntamento mezz’ora prima, in quel luogo, ma ancora non accennava a farsi vedere.

Il giovane sospirò, chiedendosi se non stesse per compiere un’altra colossale stupidaggine. Aveva accettato di incontrarsi da solo in un luogo isolato con l’assassino di sei persone! Soltanto un idiota si sarebbe potuto far abbindolare così! Già, solo un idiota…o un uomo che non aveva più nulla da perdere.

Henry aveva trascorso l’intera nottata sveglio, certo ormai di aver perso sua sorella. Catherine lo odiava, e faceva bene, lui stesso non sopportava di veder riflessa la propria faccia nello specchio, non riusciva a perdonarsi di aver dato via la sua sorellina come una merce di scambio solo per salvarsi la pelle. Non era solo Catherine, che aveva perso. Ora, anche Rosalie non avrebbe mai più voluto vederlo, e suo padre giaceva in un letto da mesi, ormai, e chissà se si sarebbe mai più ripreso.

Non aveva più nessuno. Con la sua scempiaggine, aveva perso la sua famiglia.

Era stato anche sul punto di uccidersi: in un attimo di follia, aveva afferrato la pistola e se l’era puntata ad una tempia, ma era stato troppo vigliacco per premere il grilletto.

E poi, ammazzarsi non sarebbe servito a nulla.

Se si fosse fatto saltare le cervella, quello che aveva combinato non sarebbe cambiato: Catherine sarebbe andata in sposa a Lord William comunque, e questo lui non poteva permetterlo.

Sì, certo, era sempre stato uno scavezzacollo, questo lo sapeva. Ma quando, da ragazzo, tornava a casa con gli abiti strappati e sporchi di fango, ricoperto di graffi e lividi, reduce da una lite finita in rissa con dei ragazzacci di strada, e suo padre lo rimproverava con parole aspre, sua madre non smetteva mai di ripetere che un giorno sarebbe cambiato. Lo chiamava sempre il mio monello di strada, ed Henry ricordava benissimo quello che lei diceva a suo padre ogni volta che combinava qualche guaio:

- E’ un ragazzo, è giovane, imparerà. Lo so, a volte è un po’ avventato, ma vedrai che col tempo cambierà. Un giorno, Henry farà qualcosa di giusto, perché in fondo nostro figlio ha un animo buono…

Non era stato così; per anni, Henry aveva creduto di non essere davvero in grado di combinarne una giusta. Aveva continuato a causare un guaio dietro l’altro, a comportarsi da ragazzino viziato ed immaturo, ma sua madre non aveva mai smesso di credere che in lui ci fosse qualcosa di buono. Lady Elizabeth se n’era andata con questa convinzione e, se era vero quello che diceva Lydia e sua madre lo stava guardando dal Paradiso, allora non voleva deluderla. Non più. Non voleva deludere lei, non voleva deludere se stesso e Catherine.

L’avrebbe salvata. Sì, era giunto il momento di cambiare rotta, di dimostrare a tutti e a se stesso che Lady Elizabeth non si era sbagliata, che lui valeva davvero qualcosa. Avrebbe salvato Catherine, non avrebbe permesso che Lord William ne facesse sua moglie. L’avrebbe minacciato, sì, gli avrebbe detto che sapeva tutto, che aveva le prove, gli avrebbe intimato di lasciare in pace sua sorella, altrimenti…

Udì un fruscio alle sue spalle; si voltò di scatto, solo per vedere Lord William farsi strada attraverso il sottobosco fino a lui. A fianco a lui c’era un grosso doberman nero.

Lord William era vestito di tutto punto, con la giacca scura, la camicia bianca e il giustacuore, i pantaloni stirati e gli stivali lucidi, così come lo era la spada che portava legata alla cintola. Quella mattina ci sarebbe stato il suo matrimonio con Catherine, ed Henry aveva tutta l’intenzione di impedirgli di arrivare anche solo fino ai gradini della chiesa.

- Che piacere vedervi, Henry!- salutò Lord William, sfoderando un sorriso amabile.

Henry non rispose, né il suo viso lasciò trasparire alcuna emozione. Toccò istintivamente il manico della spada che teneva intorno alla vita, accanto ad un pugnale con l’impugnatura dorata. Forse era stato un pazzo ad accettare l’invito di Lord William, ma non si poteva dire che fosse uno stupido o uno sprovveduto. Si trattava pur sempre di un assassino.

- Vi chiedo scusa per il mio imperdonabile ritardo - proseguì Lord William come se niente fosse.- Ma, sapete, un uomo deve prepararsi come si deve, il giorno del suo matrimonio…- lo guardò, tornando serio.- C’è qualcosa che non va, Henry?- domandò.- Mi sembrate silenzioso…

- Voi non andrete a nessun matrimonio, Lord William!- ringhiò Henry, sguainando la spada.

Lord William non si scompose.

- Per favore, Henry, dobbiamo proprio litigare? Non è di buon auspicio, il giorno delle nozze, litigare con il proprio futuro cognato…

- Voi non sposerete mai Catherine!- Henry sguainò la spada, puntando la lama alla gola di Lord William; ma questi continuò a rimanere calmo, senza lasciar trasparire alcuna emozione.

- Devo dunque dedurre che non avete intenzione di rispettare i patti?- domandò.

- Al diavolo i patti!- urlò Henry.- So chi siete, Lord William. So cos’avete fatto. Credete che lascerei mai che mia sorella sposi un assassino?

- Assassino…non è una parola un po’ grossa?- fece Lord William, con un sorriso sghembo.- Andiamo, Henry, non credete di stare esagerando? Tecnicamente, io non ho ucciso quelle persone. Sono stati i miei cani, a farlo.

Rolf ringhiò, scoprendo le zanne.

- Non m’incantate, Lord William, non più. Ora le regole le detto io…- Henry spinse ancora di più la punta della lama contro la pelle tesa della gola del giovane.- Lasciate in pace mia sorella. Lasciatela in pace, andatevene per sempre da qui, e io dimenticherò la vostra faccia. In caso contrario…- Henry tracciò il contorno del collo con la punta della spada.- Il boia sarà certamente felice di avere il vostro collo per la forca…

Lord William non rispose, fissando per diversi istanti ora Henry ora la spada puntata alla sua gola. Infine, si aprì in uno dei suoi sorrisi simili ad un ghigno.

- D’accordo, allora…- disse.

Henry abbassò lentamente la spada, muovendo qualche passo indietro. Lord William si spolverò brevemente la giacca.

- E’ un vero peccato, sapete?- disse.- Vostra sorella sarebbe stata una moglie eccellente, per me…

- Per averla, dovrete prima passare sul mio cadavere…- ringhiò Henry.

Lord William sollevò lentamente il capo, guardandolo negli occhi con le labbra incurvate nel suo solito ghigno.

- In tal caso…con piacere!

Lord William sguainò la spada con un gesto talmente fulmineo che Henry per poco non riuscì ad evitare il colpo. Parò la lama della propria spada di fronte a sé, e il metallo emise un suono secco nel momento in cui le due armi s’incontrarono. Henry liberò la presa, scattando all’indietro. Lord William tornò all’attacco, fendendo altri due o tre colpi che il giovane, benché colto di sorpresa, riuscì a parare. Henry scivolò agilmente sul terriccio, arrivando al fianco di Lord William e affondando un colpo di spada dritto al fianco, che l’avversario schivò senza problemi. Il moro tornò all’attacco, colpendo con la propria spada ripetutamente contro quella di Henry. Il giovane Kingston indietreggiò, nel tentativo di parare i colpi. Si difendeva soltanto, non riusciva ad attaccare. Lord William lo spinse fino ad un punto in cui il terreno diveniva un miscuglio di fango e neve. Henry scivolò, ma riuscì a mantenersi in piedi; l’attimo di distrazione, tuttavia, permise a Lord William di affondare un altro colpo, che lo ferì di striscio ad una spalla. Henry gemette di dolore, mentre il sangue cominciava a scorrere.

Lord William fece una breve risata.

- L’avete voluto voi, Henry. Se è sul vostro corpo che devo passare per avere Catherine, allora così sia!

Il moro colpì di nuovo, ma stavolta Henry riuscì a parare il colpo. Il giovane passò al contrattacco, spingendo Lord William indietro, ma il dolore per la ferita lo indeboliva. Incespicò, perdendo l’equilibrio. Lord William si chinò di scatto, raccolse con una mano una manciata di terra e la gettò negli occhi del biondo. Henry emise un urlo soffocato, portandosi un braccio all’altezza degli occhi. Lord William affondò un altro colpo, colpendolo al fianco. Il giovane ansimò, e l’avversario lo ferì ad una spalla.

Henry cadde in ginocchio sulla neve; Lord William lo colpì con un calcio al petto, mandandolo con la schiena a terra. L’avversario s’inginocchiò velocemente su di lui, premendogli un ginocchio sul torace. Con un gesto fulmineo, gli afferrò un orecchio e ne mozzò il lobo.

Henry urlò di dolore, mentre il pezzo di carne finiva sulla neve, spargendo copiosamente.

Rolf annusò l’aria; Lord William gli fece cenno di avvicinarsi. Henry fissò inorridito la scena del doberman che si avventava sul suo lobo mozzato e lo divorava, inghiottendolo in un solo colpo.

Lord William ghignò, sollevandosi da Henry. Il giovane ansimò, portandosi una mano all’orecchio mozzato, imbrattandosi il palmo di sangue.

- Per fortuna…nemmeno una macchia…- fece Lord William, osservando con attenzione la propria camicia. Spostò lo sguardo sul giovane.- Spiacente, Henry, ma temo di essere in ritardo per le mie nozze con vostra sorella. Ma non temete, Rolf si occuperà egregiamente di voi…- ghignò.

Il doberman ora conosceva l’odore di Henry, e perfino il sapore della sua carne. Lord William voltò le spalle ai due, dirigendosi verso il proprio cavallo poco distante. Henry guardò le zanne appuntite del doberman con orrore, strisciando indietro sulla neve.

Lord William montò a cavallo, ghignando nell’udire il ringhio selvaggio di Rolf.

 

***

 

Adrian tirò le briglie del purosangue nero, smontando agilmente dalla sella. Ernest arrestò il proprio ronzino, il quale rischiò di scivolare sul terreno fangoso, fatto che strappò un grido a Constance.

- Basta! Voglio scendere da qui!- disse e, senza aspettare aiuto, scese a terra. Peter la imitò.

- E ora, da dove cominciamo?- fece il ragazzino, guardandosi intorno con aria persa. Non era mai stato in paese, e tutte quelle case e quelle persone insieme lo spaventavano.

- Non lo so…- mormorò Ernest.- Padrone, come facciamo a trovarla?

Adrian non rispose, ringhiando sommessamente. Non lo sapeva; non aveva idea di dove cominciare a cercare Catherine, ma doveva trovarla, al più presto…Il pensiero che potesse trovarsi nelle grinfie di quella…quella donna, quella strega, lo uccideva. E l’incertezza non faceva altro che aumentare il suo nervosismo e la sua paura.

- Noi…chiediamo…chiediamo a qualcuno…- sospirò alla fine.

Aveva indossato il suo solito mantello nero e sollevato il cappuccio in modo che l’intero volto rimanesse celato. Non sarebbe stato difficile ottenere delle informazioni.

Videro un passante in lontananza. Peter fu il più svelto, e gli corse intorno.

- Signore!- chiamò il ragazzino, mentre gli altri lo raggiungevano.- Signore, aspettate!

L’uomo si fermò, scoccandogli un’occhiata perplessa.

- Posso esservi utile, signore?

- Noi…- ansimò Constance, cercando di riprendere fiato.- Noi stiamo cercando una nostra amica…

- Che amica?

- Sapete indicarci dove si trova la casa del mercante Kingston?- domandò Adrian, con impazienza, ricordando improvvisamente la professione del padre di Catherine.

- Sì, è fuori città…ma non credo che ci sia nessuno, a quest’ora…

- Perché?- incalzò Adrian.

- Non lo sapevate? Ne parla tutto il paese. La figlia oggi si sposa.

Adrian si sentì morire; Catherine…si sposava? No, no, non era possibile. C’era qualcosa che non andava, ricordava perfettamente cos’aveva visto nello specchio. Catherine era disperata, piangeva…non era possibile che stesse per sposarsi, che l’avesse abbandonato per correre fra le braccia di un altro uomo…se così fosse stato, allora sarebbe dovuta esserne felice.

Senza contare che c’era di mezzo quella donna…

Sentì montare la rabbia dentro di sé. No, c’era qualcosa che non andava, decisamente.

Afferrò l’uomo per il bavero della giacca.

- Ehi, ma che state facendo?! Come vi permettete?!

- Dove si sposa Catherine Kingston?- ruggì.- Dove?

 

***

 

Henry indietreggiò, scivolando sulla neve ghiacciata. Il doberman si piegò sulle zampe anteriori, mentre dalla bocca aperta in un ringhio colavano grumi di bava. Il giovane si sentiva debole, le ferite bruciavano, l’orecchio mozzato non la smetteva di sanguinare.

Il doberman spiccò un balzo, avventandoglisi contro.

Henry alzò le mani, afferrandolo per il pelo della gola, nel tentativo di fermarlo, ma era ancora troppo debole. Rolf lo azzannò ad una spalla; il giovane urlò di dolore, cercando di liberarsi. Il doberman mollò la presa, tentando di morderlo alla gola.

Henry lo tenne fermo, mentre le zampe artigliate dell’animale lo graffiavano; sentì che non ce l’avrebbe fatta a tenerlo a bada ancora a lungo, e quella bestia sembrava avere una forza sovrumana. Stava per cedere, quando si ricordò all’improvviso di qualcosa.

Il pugnale!

Ce l’aveva ancora legato alla cintura. Mosse a fatica una mano, estraendolo dalla guaina. Con un gesto fulmineo, Henry sollevò l’arma, piantandone la lama nel collo del doberman.

L’animale guaì, cercando di liberarsi; Henry affondò ancora di più il colpo. Dalla bocca del doberman cominciarono ad uscire fiotti di sangue, mentre gli occhi gli divenivano vitrei. Alla fine, Rolf smise di lottare.

Henry si liberò della carcassa del segugio, spingendola sulla neve al suo fianco. Avrebbe voluto alzarsi, correre in chiesa ad avvisare Catherine, ma sentì le forze mancargli.

Chiuse gli occhi e abbandonò il capo sul nevischio macchiato si sangue, privo di sensi.

 

***

 

Ralph accolse Lord William all’entrata della chiesa.

- Siete in ritardo, capo…- sussurrò.

- Lo so, lo so!- ribatté Lord William, innervosito, dirigendosi a passo svelto verso l’altare.- Glouster, dov’è?

- E’ con la signorina, capo…

- Va bene. E Gerald e Michael?

- Eccoli, laggiù.

Lord William scorse gli altri due suoi scagnozzi piazzati ai lati dell’altare.

- E’ tutto pronto?- bisbigliò Lord William, impaziente, rivolto al parroco, il quale annuì vigorosamente.

L’organo iniziò a suonare; le porte della chiesa si spalancarono.

Catherine sentì ancora più forte la sensazione di essere come una marionetta nelle mani dei due burattinai Lord William e Lady Julia. Il corsetto le stringeva le costole così forte da mozzarle il respiro, sentiva l’abito da sposa come un peso enorme che le gravava addosso, il velo bianco circondato da una corona di fiori le incalottava la testa in modo da impedirle di vedere bene cosa le stava intorno. La ragazza continuava a muoversi come un automa, tenendo il braccio di Glouster; ecco l’ultima umiliazione che le era toccata: essere condotta all’altare da uno degli uomini che solo pochi mesi prima avevano tentato di violentarla.

Inutile dire che non era così che avrebbe immaginato il suo matrimonio, a cominciare dallo sposo. Catherine sentiva crescere il ribrezzo e l’odio nei confronti di Lord William a mano a mano che i gradini dell’altare si facevano più vicini; avrebbe voluto ribellarsi, sollevare la gonna e fuggire via, ma sapeva che non avrebbe potuto farlo. Glielo ricordavano Lady Julia, che la guardava minacciosamente seduta nelle panche in prima fila, accanto a sua sorella Rosalie e a Lydia, entrambe con gli occhi rossi dal pianto, e Lord William, che l’attendeva con quel ghigno beffardo e cattivo stampato sulle labbra. E glielo rammentava il pensiero di suo padre, rimasto a casa, ormai vicinissimo alla morte.

Se voleva salvarlo, se voleva salvare la sua famiglia, allora doveva abbassarsi a quel diabolico ricatto, doveva sposare Lord William. Poco importava quali sarebbero state le conseguenze; ormai Catherine era pronta a sopportare tutto. Sapeva quel che l’aspettava: amplessi disgustosi, angherie, violenze di ogni tipo…ma, se anche avesse potuto, non si sarebbe ribellata. Era come se tutte le sue energie e la sua forza vitale le fossero state strappate via, non esisteva più la ragazza forte e vivace di un tempo, ma solo un burattino di legno che ora si trovava faccia a faccia con il suo signore e padrone.

Lord William le sorrise, sollevandole il velo dal viso. Notò che aveva gli occhi cerchiati di chi aveva appena pianto, e le rivolse un’occhiata rabbiosa.

- Stai per diventare mia moglie, Catherine Kingston - le sussurrò in un orecchio.- Dovresti esserne felice…

- Come potrei essere felice di sposare un mostro?- sibilò lei di rimando, con occhi di fuoco, ritrovando un briciolo di energia.

Lord William digrignò i denti; l’avrebbe presa a schiaffi, ma non poteva farlo, non in quel momento. Si impose di mantenere la calma. Ci sarebbe stato tutto il tempo, più tardi, per insegnare a quella ragazzetta presuntuosa chi comandava.

La musica dell’organo cessò. Tutti si sedettero.

- Bene, direi che possiamo cominciare!- esclamò il prete, aprendo il Libro Sacro.- Miei cari amici…siamo qui riuniti oggi per unire quest’uomo e questa donna nel sacro vincolo del matrimonio…

A Catherine parve di udire un rumore di zoccoli proveniente dall’esterno della chiesa, ma non ci badò.

- Dunque, vuoi tu, Lord William Robert Montrose, prendere questa donna come tua legittima sposa, per amarla e onorarla, in salute e in malattia, in ricchezza e in povertà, finché morte non vi separi?

- Lo voglio.

Catherine, stavolta, udì distintamente il rumore di qualcuno che batteva i pugni sul portone della chiesa; non fu l’unica: molti degli invitati, compresi Lady Julia e Lord William, si voltarono nella direzione del portone. Il legno fremeva sotto i colpi sempre più possenti; qualcuno stava cercando di aprire i battenti…o di sfondarli.

- Ma che…?- mormorò Catherine, ma Lord William digrignò i denti, afferrandola per un braccio conficcandole le unghie nella carne.

- Continuate!- intimò, rivolto al prete.

- Io…oh, sì, certo…- balbettò l’uomo. - Dunque, vediamo…vuoi tu, Catherine Elizabeth Kingston…

I colpi si fecero sempre più insistenti; sì, qualcuno stava decisamente tentando di sfondare la porta.

- Continuate!- ruggì Lord William.

- Ma…ma signore, io…- provò ad obiettare il prete.

- Continuate, ho detto!

- Io…d’accordo…ehm…vuoi tu, Catherine Elizabeth Kingston, prendere quest’uomo come tu legittimo sposo…

Ora tutti gli invitati si erano alzati, allarmati. I colpi si fecero sempre più violenti.

- …per amarlo e onorarlo…

Un altro schianto, e un altro ancora.

- …in salute e in malattia…

Sempre più forte, sempre più violento.

- …in ricchezza e in povertà…

Ormai i battenti stavano per cedere.

- …finché morte non vi separi?

Ecco, era arrivato il momento. Doveva rispondere, adesso.

Guardò Lord William, che le rivolse un’occhiata minacciosa.

I colpi non cessavano.

- Io…

I battenti si aprirono con uno schianto.

- Catherine!

La ragazza si voltò di scatto, senza riuscire ad impedire che un sorriso raggiante le illuminasse il viso.

- Adrian!- esclamò.

Il mostro aveva il volto nascosto dal cappuccio, ma Catherine lo riconobbe immediatamente. Alle sue spalle, c’erano Ernest, Constance e Peter.

Rosalie e Lydia si voltarono a guardarli, insieme a tutti gli altri invitati; Lady Julia aprì la bocca per parlare, ma non disse nulla. Sembrava quasi sotto shock.

- Oh, Adrian, sei venuto!- disse Catherine; fece per corrergli incontro, ma Lord William la trattenne saldamente per un braccio.

- Tu non ti muovi da qui, puttana!- ringhiò.

Quello doveva essere il suo amante, ne era sicuro. Avrebbe dovuto mettere in conto che quella troia avesse qualche asso nella manica!

- Lasciala stare!- ululò Adrian, muovendo qualche passo nella loro direzione.

Lord William la strinse ancora di più a sé.

- Spiacente, ma Catherine è mia moglie, ora!

La ragazza si divincolò.

- Non sono affatto tua moglie, bastardo!- strillò.

- Oh, sì che lo sei…- ringhiò Lord William.

- No, invece. Non ho detto lo voglio.

- Ha ragione, signore…- s’intromise timidamente il prete.- Senza che entrambi abbiate detto lo voglio, il matrimonio non può essere valido…

- Tu comunque da qui non te ne vai!

- Lasciala, ho detto!- tuonò Adrian.

Con un gesto fulmineo, calò il cappuccio.

Lord William rimase interdetto, sconvolto. Fra gli invitati, si levarono grida di spavento e orrore. Lydia si portò una mano alla bocca, tirando a sé Rosalie, la quale, però, non pareva più tanto spaventata.

- Tu!- gridò d’un tratto una voce.

Tutti si voltarono nella sua direzione. Lady Julia era fuori di sé, stava guardando Adrian come se volesse ucciderlo.

- Tu!- ripeté, puntandogli contro una mano aperta.

Improvvisamente, dal palmo della mano si sprigionò un fascio di luce verdastro; Adrian si scansò, evitandolo per un pelo, e l’anatema colpì le vetrate colorate della chiesa, mandandole in frantumi. Tutti, a quel punto, cominciarono a gridare, scappando verso l’uscita.

- Non ti è bastata la lezione?!- urlò Lady Julia, scagliando un altro incantesimo.- Lo sapevo che avrei dovuto ammazzarti!

Il mostro evitò anche il secondo anatema, finendo in ginocchio sul pavimento.

Catherine fece per correre in suo aiuto, ma Lord William la teneva ancora saldamente per un braccio. La ragazza gli rivolse un sguardo pieno d’odio, quindi gli assestò un violento pugno su uno zigomo. Lord William finì a terra; Catherine scese in fretta i gradini, liberandosi dal velo nuziale. Fece per avventarsi contro Lady Julia, ma questa se ne accorse e, ridendo, lanciò un incantesimo contro le tende della chiesa. Queste si animarono, staccandosi dal soffitto e avvolgendosi intorno al corpo della ragazza. Catherine si ritrovò inginocchiata sul pavimento freddo della chiesa, con la vita legata e le mani imprigionate dietro la schiena.

- Maledetta, lasciala!- strillò Constance, avventandosi contro Lady Julia.

La strega rise nuovamente, e i suoi occhi divennero dorati. Una panca si sollevò in aria, scagliandosi contro Constance, che dovette gettarsi a terra per evitarla. La panca andò a fracassarsi contro il muro.

- Mamma!- strillò Peter. Il ragazzino raccolse da terra un pezzo di legno, gettandolo contro Lady Julia. Gli occhi della strega s’illuminarono di nuovo, e il pezzo di legno venne rispedito al mittente.

Adrian si alzò a fatica, raggiungendo Catherine e cercando di liberarla. Lord William gli si avvicinò, colpendolo in pieno volto.

- E così, sei diventata la puttana di un mostro!- esclamò, rivolto a Catherine.

- Non la toccare!- ringhiò Adrian.

Lord William gli restituì un’occhiata piena di odio e gelosia.

- Lei è mia, bestia!

Lord William si rivolse verso Gerald, strappandogli la spada dalla cintura. Fece per colpire Adrian, ma questi s’inginocchiò repentinamente. Con un gesto veloce, il mostro colpì con una gamba le ginocchia di Lord William, il quale si accasciò a terra. Adrian gli fu subito addosso e, con un ruggito, gli graffiò il volto con le dita artigliate. I tagli sulla guancia di Lord William iniziarono a sanguinare.

Ernest fece per correre in aiuto del suo padrone, ma Michael e Ralph gli sbarrarono la strada.

- Dove credi di andare, vecchio?- ghignò Ralph.

Ernest indietreggiò di un passo, gettando un’occhiata al pavimento. Scorse la spada sfuggita di mano a Lord William e la raccolse con un gesto fulmineo, brandendola contro i due uomini. Michael gli fu subito addosso, e il vecchio domestico riuscì ad evitarlo per un pelo; fu la volta di Ralph. Ernest venne sbattuto a terra dalla forza dell’energumeno. Alzò un braccio come per difendersi, mentre Ralph stava per affondare un colpo.

Tuttavia, lo scagnozzo venne colpito in testa da un grosso pezzo di legno, finendo riverso a terra.

- Guarda e impara, vecchio mollaccione!- esultò Constance, brandendo la gamba di una seggiola.

Un anatema colpì una panca di legno, incenerendola. Peter evitò le fiamme per un soffio, rotolando sotto un’altra panca. Lady Julia ringhiò, scagliando un altro incantesimo. Anche la seconda panca venne distrutta, e Peter si ritrovò disteso sul pavimento, inerme, sena più alcuna protezione.

Provò ad indietreggiare, strisciando sulle mattonelle, mentre Lady Julia prendeva la mira, pronta a lanciare un altro anatema.

Rosalie afferrò un coccio di vetro, gettandosi accanto a Peter appena prima che l’incantesimo lo colpisse. L’anatema rimbalzò contro il vetro, ritornando nella direzione da cui era venuto; Lady Julia venne colpita e sbalzata indietro di diversi metri.

- Oh…grazie…- mormorò Peter, stralunato.

- Di niente! Così ora siamo pari!- sorrise Rosalie.

Lady Julia si rialzò a fatica dal pavimento, i capelli scompigliati, il volto marcato da rughe di rabbia.

- Dannati mocciosi!- ululò, pronta a lanciare un altro anatema sui due ragazzini.

Catherine riuscì a liberarsi a fatica dal nodo delle tende, gettandole lontano da sé. Non appena vide cosa stava per fare, la ragazza si lanciò contro Lady Julia, la quale cadde riversa a terra con un tonfo.

- Caspita! Bel colpo, signorina!- si complimentò Lydia.

- Cielo, da quanto tempo desideravo farlo…!- ghignò Catherine.

Lady Julia allontanò dagli occhi una ciocca di capelli biondi con un gesto rabbioso.

Adrian, liberatosi di Lord William, le fu subito addosso.

- Maledetto…!- sibilò Lady Julia.- Credevo che ti fossi ammazzato…che cosa diavolo vuoi?!

- Riprendermi ciò che è mio!- disse Adrian; con un gesto rapido, strappò il medaglione con il rubino dal collo di Lady Julia.

- No!- gracchiò la strega, cercando di riprenderselo, ma il mostro aveva già raggiunto Catherine.

- Andiamo!- le disse, prendendola per mano e guidandola fuori dalla chiesa. Lydia, Ernest, Peter, Rosalie e Constance li seguirono.

Lord William, il volto sanguinante, si rialzò a fatica, con gli occhi colmi di odio.

Lady Julia emise un grido molto simile ad un ringhio, balzando in piedi e tentando di inseguirli. Gettò i palmi aperti in avanti, cercando di scagliare un incantesimo che, però, non venne mai. La strega ci riprovò più e più volte, incredula. Infine, volse lo sguardo alle proprie mani.

La pelle, prima liscia e soda, ora era coperta di macchie marroni, raggrinzita, rugosa. Lady Julia, con un gemito di disperazione, si toccò il viso: non c’era più traccia del volto bello e seducente, ma solo una faccia piena di rughe, con le labbra screpolate, gli occhi infossati, i denti storti e marci. I capelli non erano più biondi e fluenti, ma radi e grigi, tanto da lasciar vedere chiaramente il cranio ossuto.

- No…- gemette Lady Julia, incontrando la propria immagine in un vetro rotto.- No!- gridò, finendo in ginocchio, accasciata sul pavimento.

Lanciò un urlo acuto, straziante, che mandò in frantumi i vetri colorati delle finestre.

 

***

 

Adrian, Catherine e gli altri raggiunsero i cavalli con cui il padrone e i domestici erano arrivati.

- Forza, dobbiamo tornare al maniero!- disse il mostro, cercando di aiutare Catherine a salire a cavallo, ma la ragazza si scostò.

- No, Adrian…

- Perché?

- Mio padre…- mormorò la ragazza.- E’ malato…è solo…non posso lasciarlo, Adrian…

Il mostro sospirò, quindi acconsentì.

- Va bene, andiamo da lui. Lo porteremo con noi.

 

***

 

Catherine spalancò la porta di casa, precipitandosi al piano di sopra seguita da Adrian, mentre gli altri li raggiungevano a pochi passi.

- Papà!- chiamò la ragazza, aprendo la porta della stanza del mercante.

L’uomo, pallido e sofferente, giaceva disteso fra le coperte. Catherine lo raggiunse, inginocchiandosi accanto a lui, con Adrian in piedi alle sue spalle e tutti gli altri intorno.

- Papà, svegliati!- disse.- Papà, sono io! Sono Catherine!

Il mercante aprì piano gli occhi; la ragazza gli rivolse un sorriso che lui ricambiò, debolmente.

- Catherine…- sussurrò, con voce flebile.

Il mercante non disse nient’altro; chiuse gli occhi, abbandonando il capo sul cuscino, mentre il petto smetteva di alzarsi e abbassarsi regolarmente.

Era morto.

- No!- urlò Catherine, con disperazione, cominciando a singhiozzare.- Papà, no!

Si accasciò sul petto del mercante, affondandovi il viso. Rosalie iniziò a piangere, stringendosi forte a Lydia, la quale si fece il segno della croce.

Adrian fece per sfiorare una spalla della ragazza, ma si bloccò. Stringeva ancora fra le dita artigliate il medaglione di Lady Julia. Lo guardò, ben sapendo quali sarebbero state le conseguenze di ciò che aveva in mente di fare.

Chiuse gli occhi, stringendo il gioiello nel pugno, ascoltando i singhiozzi di Catherine. Si trattava della donna che amava; avrebbe fatto qualunque cosa per lei, qualunque…Anche se questo voleva dire…

No; no, non sarebbe stato egoista. Significava soffrire per tutta la vita, ma l’avrebbe fatto; avrebbe fatto la cosa giusta.

L’avrebbe fatta per Catherine.

 

Angolo Autrice: Ok, questo capitolo è stata una sofferenza…Dunque, mi rivolgo a tutti coloro che:

a)      stanno pensando che i Kingston hanno una fortuna fuori da ogni logica dato che la scampano sempre;

b)      quando hanno letto le parti del confronto fra Adrian e Lady Julia hanno pensato una cosa del tipo Luke, io sono tuo padre!.

Beh, a tutti e due, posso solo dire che siamo in una favola, in fin dei conti (ancora ‘sta scusa…Nd Voi), e queste cose succedono…Henry mi serve vivo, esigenze di scena (a questo proposito, spero che la scena dell’orecchio mozzato non abbia turbato l’equilibrio interiore di nessuno), e il mercante…si salverà? Che ha in mente di fare Adrian? E cosa c’entra Lady Julia con lui? E la strega e Lord William si arrenderanno o torneranno all’attacco? E cosa succederà, ora, fra Adrian e Catherine (che, a proposito, spero ancora una volta non sia scesa, qui piangeva in continuazione, lo so, ma va capita, in fondo…)?

Spero che la scena del combattimento nella chiesa non sia risultato troppo banale o ridicolo, se sì, mi raccomando, non esitate a farmelo sapere…J.

Ringrazio tutti coloro che leggono, in particolare little_drawing e _XeliX_ per aver aggiunto questa ff alle seguite, e jekikika96 ed Ellyra per aver recensito.

Ciao a tutti, al prossimo capitolo!

Bacio,

Dora93

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Capitolo 19
*** Echi dal passato ***


 

I singhiozzi delle due sorelle Kingston riempivano la stanza. Anche Lydia si asciugò qualche lacrima, e perfino Constance, Ernest e Peter non poterono non provare dispiacere, alla vista di Catherine che si disperava sul corpo senza vita del mercante.

Adrian strinse ancora di più il medaglione nel pugno. Chiuse gli occhi, prendendo un profondo respiro. Catherine continuava a piangere, era disperata, e lui preferiva di gran lunga dire addio alla propria salvezza, piuttosto che guardare oltre la donna che amava soffrire.

Si avvicinò, posandole lievemente una mano artigliata sulla spalla. A quel tocco, Catherine parve riscuotersi, sollevando il capo e guardandolo con aria interrogativa.

- Catherine, io…- strinse il rubino fra le dita. - Forse…forse non è ancora tutto perduto…

- Come fai a dire questo?- mormorò la ragazza.- Mio padre è morto, Adrian!

Il mostro non rispose, ma s’inginocchiò accanto a lei.

- Forse c’è un modo per riportarlo in vita…- sussurrò, senza guardarla.

- Un…un modo?- balbettò Catherine.- Ma di che stai…

- Fidati di me - disse il padrone.- Riusciremo a riportare indietro tuo padre…

Catherine non sapeva se crederci o no; la morte era la morte, non faceva sconti per nessuno, non restituiva chi aveva preso. Ma Adrian sembrava sicuro di sé. La ragazza si asciugò gli occhi con il dorso della mano.

- Come?

Adrian le mostrò il gioiello che teneva fra le zampe.

- Il…il medaglione di Lady Julia?- fece la ragazza, incredula.

Il mostro annuì.

- E’ magico…- mormorò.- So che sembra assurdo, ma…è così, credimi. E se è la stessa magia che ha ucciso tuo padre, allora può anche riportarlo indietro…

- Ma come?

Adrian chinò il capo; non lo sapeva esattamente, non aveva idea di come funzionassero queste cose. Ma sapeva che, quando suo padre se n’era andato, lui avrebbe fatto di tutto per riportarlo indietro, avrebbe tentato qualunque via. Perché lo amava.

Il mostro aprì dolcemente la mano gelida del mercante, ponendovi al centro il medaglione; quindi, guidò con le proprie zampe artigliate la mano di Catherine sulle dita serrate dell’uomo.

- Chiudi gli occhi…- le sussurrò.- Chiudi gli occhi, stringi forte la mano di tuo padre, e pensa a tutto l’affetto che provi per lui, pensa a quanto lo ami…Ti fidi di me?- le domandò nuovamente.

La ragazza annuì, quindi chiuse lentamente gli occhi.

Al buio, sentì il contatto della sua mano con quella fredda del mercante e con l’altra calda e artigliata di Adrian. Sentì un’altra lacrima sfuggirle dalle ciglia, ma non le badò.

Ti voglio bene, papà…, pensò, fissando nella sua mente ogni parola, formulando quel pensiero con tutta la forza e l’amore che sentiva in corpo. Ti voglio bene, papà. Ti prego, non lasciarmi. Torna da me, papà.

Constance sollevò lo sguardo, sgranando gli occhi. Lydia si portò le mani al viso, mentre Ernest rimase pietrificato. Peter e Rosalie spalancarono la bocca per la sorpresa e la meraviglia.

Dal medaglione si sprigionò una luce rossa, prima molto flebile, poi sempre più forte, fino a diventare tanto intensa da avvolgere completamente le tre mani serrate intorno al gioiello. Infine, il monile iniziò a perdere luminosità, fino a che questa non si estinse completamente, e il rubino perse la sua brillante tonalità rosso fuoco, diventando una semplice pietra marrone scuro.

Catherine aprì gli occhi, incrociando quelli azzurri di Adrian. La ragazza sentì che la mano di suo padre non era più gelida, ma era tornata morbida e tiepida.

Il mercante gemette rocamente, muovendo appena il capo; infine, lentamente, aprì gli occhi.

La ragazza spalancò le iridi per la sorpresa, chiedendosi se quello fosse tutto un sogno.

- Catherine…- sussurrò il mercante, flebilmente, ma rivolgendole un debole sorriso.

La ragazza lanciò un grido di felicità, quindi si gettò verso suo padre, abbracciandolo con slancio. Stavolta, le lacrime che pianse furono di sollievo e gioia.

- Papà!- gridò Rosalie, gettandosi sul letto e unendosi alla sorella nell’abbracciare il mercante, il quale, seppure ancora molto debole, riuscì ad avvolgere entrambe le braccia intorno alle spalle delle figlie.

Adrian sorrise, alzandosi in piedi e allontanandosi in direzione della porta.

- Rosalie…- mormorò il mercante, accarezzando piano i capelli biondi della figlia minore. Volse quindi lo sguardo in direzione della maggiore.- Catherine…ma…ma tu sei viva?- gracchiò.

La ragazza annuì con vigore, sorridendo, asciugandosi le lacrime.

- Sì, sono viva, papà.

- Ma com’è possibile?- fece il mercante, sorpreso ma allo stesso tempo immensamente felice.- Credevo che quel mostro ti avesse uccisa…

- Papà, lui non è un…- iniziò a dire la ragazza, ma gli occhi del mercante incrociarono repentinamente quelli di Adrian.

- Tu!- urlò l’uomo, rabbioso, scattando a sedere sul letto con un’energia e un furore tale che spaventarono tutti i presenti.- Cosa ci fai in casa mia, maledetto bastardo?! Sei venuto per ucciderci tutti? Per riprenderti mia figlia?! Dannato mostro, bestia, animale, dovrai passare sul mio cadavere!- fece per alzarsi dal letto e scagliarsi contro Adrian, ma Catherine e Rosalie lo bloccarono afferrandolo per le braccia e le spalle.

- Papà, rimettiti giù…!- ansimò Rosalie.

- Papà, calmati!- gl’intimò Catherine.- Calmati, è un amico! Adrian non ci farà del male, papà! Ti ha salvato la vita!

- Salvato la vita?- ripeté il mercante, stralunato, tranquillizzandosi un poco.- Catherine, ma che stai…

- Credimi, papà, non ci farà del male…- ripeté la ragazza.- Adrian è un mio amico, papà.

- Un amico?!- sbottò il mercante.- Un amico! Catherine, ti ha portata via da me, dalla tua famiglia, ti ha tenuta prigioniera per tutto questo tempo, come può essere un tuo amico? Ti ha fatto il lavaggio del cervello, Cathy!

- No, papà. Ti sbagli - disse fermamente la ragazza, guardandolo negli occhi.- Adrian è un mio amico, e ti ha salvato la vita. Senza di lui, ora tu non saresti qui.

- Cosa…ma che…

- Fidati di me, papà. Adrian è…

Catherine si voltò a guardare il mostro, ma fece appena in tempo ad incrociare i suoi occhi azzurri colmi di tristezza, prima di vederlo uscire dalla stanza. Si alzò di scatto, raggiungendo di corsa la porta.

- Constance, Lydia, per favore, prendetevi cura di mio padre. E cercate di farlo ragionare!- gridò, prima di varcare la soglia della camera da letto.

Adrian era in piedi a metà del corridoio; camminava piano, costeggiando la parete, a testa china.

- Adrian!- chiamò Catherine, raggiungendolo e trattenendolo per un braccio.- Adrian, scusami, mio padre non sapeva, dagli solo un po’ di tempo per…

- No…- mormorò il mostro, senza guardarla.- No, non è per questo…è…è che…io…

Catherine scorse il suo volto pallido sotto il pelo e le squame. Adrian gemette, appoggiandosi con una spalla contro la parete e chiudendo gli occhi. Alla ragazza parve quasi che fosse sul punto di svenire. Gli prese un braccio, facendolo passare sopra le sue spalle. Gli cinse la vita con una mano e l’aiutò a rimettersi in piedi, ringraziando il cielo che si trovassero vicino alla porta della sua camera, che Catherine aprì con un calcio.

Entrarono, e la ragazza richiuse la porta alle sue spalle, prima di aiutare il mostro a sedersi sul letto, per accoccolarsi al suo fianco.

- Adrian!- chiamò, parecchio preoccupata.- Adrian, che cos’hai? Ti senti male?

Il mostro non rispose, ma si rifiutò di guardarla. Si coprì il viso con una mano artigliata. Quando la ragazza tentò di spostarla, lui si ritrasse.

- Non guardarmi!- disse, quasi urlando.- Non guardarmi…

- Perché? Perché non dovrei guardarti?

- No…Catherine, no…sono un mostro…- gemette.

- Non essere ridicolo!- sbottò Catherine, prendendo la sua mano in modo da poterlo vedere in volto.- Perché non dovrei guardarti?- ripeté.

- Io…no…io sono…Lady Julia…il medaglione…

- Che cosa?

Adrian non rispose, chinando il capo e stringendo i pugni. Tremava, l’intero corpo era scosso da fremiti. Catherine si spaventò, ma s’impose di mantenere la calma. Gli cinse la vita con un braccio, posando delicatamente una guancia sulla sua spalla, senza smettere di stringere la sua mano artigliata nelle proprie. Rimasero così per diverso tempo, fino a che Adrian non si fu calmato; solo a quel punto la ragazza trovò il coraggio di aprire la bocca.

- Adrian…- mormorò, guardandolo timorosa.- Io…non potrò mai ringraziarti abbastanza per aver salvato mio padre, ma…- esitò, cercando le parole adatte.- Ma non posso vederti così…Adrian - disse, con voce più ferma.- Come facevi a sapere del medaglione? Come facevi a sapere che Lady Julia è una strega?

Il mostro sollevò lo sguardo su di lei, e Catherine vide una luce strana nei suoi occhi. Era tristezza, ma di più: era un misto di disperazione e rabbia, di sconforto e paura. Era rassegnazione.

- Catherine…questa che vedi - mormorò, indicando il suo volto.- Questa faccia…questa…questa cosa, questa mostruosità, non è…non è il mio volto! Non è…

- Non…non credo di capire, Adrian…- fece la ragazza, guardandolo interrogativamente.

- Io…non sono sempre stato così, Catherine. Una volta ero umano…non ero…un mostro - concluse, con una nota di rabbia e disgusto nella voce.

Catherine continuava a non capire; che voleva dire che una volta era stato umano? Perché, forse ora non lo era? D’accordo, ma maggior parte delle persone l’avrebbe considerato diverso, ma quello di cui Catherine era certa era che Adrian non fosse in alcun modo un mostro.

Non ci capiva nulla; ma, forse, il miglior modo per comprendere era rimanere ad ascoltare.

- Cosa ti è successo?- sussurrò, con le labbra contro la sua spalla.

Adrian fece una breve risata, amara, carica di disperazione.

- E’ una storia lunga…

- Raccontamela. Voglio sentirla.

Il mostro la guardò, quindi si decise.

- Mia…mia madre morì quando avevo sei anni…- esordì, tentando di tenere la voce ferma.- Per mio padre fu un duro colpo. Tenne il lutto per un anno intero, e giurò che mai e poi mai si sarebbe risposato, che avrebbe tenuto fede alla memoria della moglie per anni. Quando smise il lutto, non pensò ad altro che a me. Ero il suo unico figlio, e riversò tutto il suo affetto su di me. Crebbi esclusivamente con lui, si rifiutò perfino di assumere una balia o una governante. Stravedeva per me, diceva sempre che, dopo la morte di mia madre, ero rimasto la sua unica ragione di vita.

- Per anni tenne fede al suo giuramento. Rifiutò sempre di prendere una seconda moglie, benché fosse ancora piuttosto giovane quando rimase vedovo. Molti nobiluomini tentarono di convincerlo a sposare le loro figlie o le loro sorelle, ma lui non volle mai sentire ragioni. Diceva che mia madre era stata l’unica ad averlo amato, e che tutte le altre erano soltanto interessate ai suoi soldi. E ora so che non era troppo lontano dalla verità…

- Continuò così per diversi anni, tanto che anch’io alla fine mi convinsi che non si sarebbe mai risposato. Fino a che, un giorno – avevo diciannove anni –, mi annunciò che avremmo avuto un’ospite a pranzo. Sulle prime non mi stupii più di tanto, capitava spesso che un amico o un uomo in affari con lui ci facesse visita al maniero. Invece, stavolta, si trattava di una donna…- esitò, quasi stesse cercando di trovare le parole adatte.

- Lady Julia…- mormorò Catherine, pur senza saperlo; lo sentiva.

- Sì, Lady Julia. Mio padre me la presentò come la moglie di un suo amico di vecchia data, un anziano medico morto da poco. Lady Julia ci raccontò, con le lacrime agli occhi, che il marito si era inspiegabilmente suicidato, gettandosi dalla finestra di un albergo in cui alloggiavano durante una vacanza. A quelle parole, provai una pena infinita, per lei. Era ancora piuttosto giovane, bella, e pensai che fosse un’ingiustizia che avesse perso il marito in un modo così orribile. Anche mio padre si commosse, tanto che la invitò a fermarsi da noi ancora per qualche giorno…

- Lady Julia accettò e, anche quando il suo soggiorno fu terminato, continuò a farci visita quasi tutti i giorni, di propria volontà o su invito di mio padre. Provavo simpatia, per lei. Mi sembrava una donna buona, gentile, molto colta e intelligente. Tanto che, quando mio padre annunciò il suo fidanzamento con lei, ne fui felice…

- Mia madre era morta da anni, e io l’avevo conosciuta troppo poco per esserne geloso. Perciò fui contento che mio padre si risposasse: avevo in mente di lasciare il maniero per trasferirmi a Parigi, per completare gli studi, e il pensiero che mio padre non sarebbe rimasto da solo mi rincuorava. Tanto più che Lady Julia sembrava la donna perfetta per lui: dolce, gentile, veramente innamorata. Ma mi sbagliavo. Lady Julia non amava mio padre. Lei mirava solo ai suoi soldi. E a me.

- Dopo neanche un anno dalle nozze, mio padre si ammalò gravemente. I medici dissero che gli restava poco da vivere. Rinunciai a partire, per rimanere accanto a lui e a Lady Julia, che si mostrava disperata per la malattia del marito. Alla fine, mio padre morì. E il giorno stesso del funerale, Lady Julia si prese anche la mia vita.

- Tentò di sedurmi, Catherine. Ero giovane, abbastanza piacente, e ricco, e dovetti farle gola. Appena tornati dal funerale, lei mi gettò le braccia al collo, tentò di baciarmi, mi disse che mia amava, che aveva amato sempre e solo me, e che aveva sposato mio padre solo per starmi vicino…

- A quel punto, non ci vidi più. Come osava quella serpe dire delle cose simili, dopo che aveva appena seppellito suo marito, dopo che aveva ingannato me e mio padre? La spinsi lontano da me, ebbi uno scatto di violenza, cominciai ad urlarle contro che era una vipera, un essere spregevole, le intimai di starmi lontano, di sparire per sempre dalla mia vita, provavo rabbia e disgusto per una creatura così spregevole…Probabilmente non si era aspettata un rifiuto, probabilmente il mio era il primo “no” che riceveva in vita sua…e si vendicò.

- Mi trasformò in questa cosa, Catherine. Non ero più un uomo, e non ero nemmeno una bestia, non ero nulla. Ero solo un ibrido, un essere rivoltante, un mostro. Lady Julia, come ultima umiliazione, mi fece dono di quello specchio che ti ho mostrato, in modo che potessi vedere scorrere la vita degli altri, quella vita che io non avrei mai potuto avere.

- Per dieci anni, fino a che non sei arrivata tu, ho vissuto rinchiuso in quel maniero, prigioniero nella mia stessa casa, senza più alcuna speranza di tornare normale. Fino a che, oggi, in chiesa…mai mi sarei aspettato di rivedere Lady Julia, mai avrei pensato di essere così vicino a tornare com’ero…Ma ora la magia del medaglione non esiste più…e…e…

Si prese il capo fra le mani, incapace di continuare.

Era finita. Tutte le sue speranze di ritornare alla propria vita erano svanite.

Catherine rimase per diversi istanti in silenzio; avrebbe voluto dire qualcosa, ma qualunque cosa sarebbe suonata stupida e insensata. Si limitò ad avvicinarsi di più ad Adrian, e a stringerlo in un abbraccio.

Adrian rimase un attimo interdetto, quindi fece per ricambiare; ma si accorse che qualcosa era cambiato. Catherine l’aveva abbracciato solo altre due volte, ma questo non era né l’abbraccio di scuse e amicizia di quel giorno sotto la pioggia, né quello di addio del giorno prima.

Stavolta, il mostro sentì che la ragazza stava premendo il seno contro il suo torace, e con le labbra stava tracciando il percorso della sua clavicola, cercando di avvicinarsi sempre di più a lui, di annullare qualunque distanza di far aderire completamente il proprio corpo al suo.

Era un abbraccio di amante.

Si staccò lievemente, osservando la figura della ragazza. Catherine indossava ancora l’abito da sposa, ma questo era liso e stracciato. La gonna era strappata su un fianco, e lasciava intravedere le gambe, mentre una spallina calata scopriva la spalla bianca della ragazza. Adrian la guardò negli occhi, incerto, imbarazzato, ma nel contempo conscio che non avrebbe potuto resisterle ancora a lungo. Catherine ricambiò lo sguardo, sentendosi avvampare, ma non cedette. Mosse appena le labbra come per dire qualcosa, ma non lo fece. I loro volti erano così vicini da potersi sfiorare.

Nessuno dei due seppe dire come accadde. Forse fu Catherine che tirava Adrian per la camicia, forse lui spinse la ragazza sotto di sé, fatto sta che si trovarono distesi sul letto, l’uno al di sopra dell’altra.

Catherine si lasciò cadere sul materasso, con i capelli corvini sparsi sui cuscini, senza lasciare le spalle di Adrian a cui si era aggrappata. Il mostro la sovrastava, si sollevò sui gomiti e guardò in viso la ragazza: sembrava tranquilla, non c’era paura o disgusto nei suoi occhi.

Adrian si sentì strano, come se qualcun altro si fosse impossessato del suo corpo.

La bestia era tornata.

No, no! No, non poteva permettere che a Catherine accadesse una cosa così disgustosa, non poteva…

La guardò negli occhi, ansimando, tentando di riprendere il controllo.

- Catherine, io…- sussurrò, ma la ragazza non lo lasciò terminare. Gli cinse le spalle con le braccia, attirandolo a sé.

- Shhht…- sussurrò, dolcemente, contro la sua spalla.- Sono così felice che tu sia venuto da me, Adrian…- mormorò, chiudendo gli occhi e sorridendo.

Il mostro non rispose, ma sentì che anche la bestia, ora, voleva la sua parte.

Baciò Catherine sulla fronte, sulle guance, sugli occhi chiusi, tracciando con le labbra mostruose il profilo del suo collo, indugiando sulla spalla nuda. Le accarezzò piano un fianco con la mano artigliata, per poi sfiorarle il seno, piano, quasi temesse di farle male, quasi come se lei fosse stata un oggetto molto fragile e delicato che rischiava di infrangersi al minimo tocco.

Catherine non si oppose, ma lo lasciò fare, rispondendo con gemiti e radiosi sorrisi ad ogni tocco. Gli prese le mani artigliate, guidandole dietro alla propria schiena, in una tacita richiesta. Adrian ansimò, sfiorandole piano il dorso, per poi passare a scioglierle due o tre lacci che tenevano legato il corsetto. Il corpetto si allentò, ma non lasciò il corpo della ragazza.

Adrian si chinò su di lei; le loro labbra erano vicinissime.

Catherine tolse dall’asola uno dei bottoni della camicia di Adrian.

Quel gesto fu per il padrone come una doccia fredda. Si riscosse, ricordandosi improvvisamente di cosa era. Bloccò le mani della ragazza afferrandole i polsi. Il suo petto, una volta umano, era ora ricoperto di squame che s’intervallavano con la pelle, creando uno spettacolo orribile e disgustoso.

Che avrebbe detto Catherine se l’avesse visto? Era già tanto se sopportava la sua faccia…Ricordò improvvisamente lo sguardo di orrore che la ragazza gli aveva rivolto la prima volta che l’aveva visto, il suo silenzio attonito quando le aveva chiesto di diventare sua moglie…

Ma allora perché aveva sopportato le sue carezze fino a quel momento?

Suo padre.

Ma certo…come aveva potuto essere così stupido? Lui aveva salvato suo padre, le aveva raccontato la sua storia…e subito dopo lei…

Pietà. Ecco perché l’aveva fatto. Pietà.

O peggio, gratitudine.

Si sollevò di scatto dal corpo della ragazza, mettendosi seduto sul bordo del letto.

Aveva risposto alle sue carezze, ai suoi baci, solo perché le faceva pena, per non ferirlo.

E tu, idiota, bestia, animale, ne hai anche approfittato? Meriteresti la morte solo per questo, solo per aver pensato di poter violare una creatura candida e pura come lei, lurido, schifoso, porco maiale!

- Adrian!- chiamò Catherine, attonita, sollevandosi a sedere.

Il mostro non rispose, ansimando, fissando il pavimento.

Non avrebbe mai potuto avere Catherine, non più. Non ora che aveva la certezza che sarebbe rimasto per sempre un mostro, un orrido ibrido, una creatura che non meritava nemmeno di godere del calore dell’amore di una fanciulla splendida come lei.

- Adrian, che cos’hai?- fece Catherine, stringendosi le mani al petto per evitare che il corsetto allentato l’abbandonasse completamente.

- Non posso…- mormorò Adrian, alzandosi di scatto e uscendo dalla stanza.- Perdonami, Catherine, ma non posso…non posso farti questo…

Benché stupefatta, la ragazza ebbe la prontezza di scattare in piedi e di inseguire il padrone fuori dalla camera.

- Adrian, aspetta!- gridò, affacciandosi al corrimano, mentre il mostro spalancava la porta d’ingresso.

- Non posso, Catherine!- ripeté il mostro, con la voce rotta.- Non sarò mai più come una volta! Mai più!

- No, ti prego, Adrian…

Ma era troppo tardi; il mostro uscì di casa di corsa, raggiungendo il proprio cavallo. Montò in sella e lo spronò al galoppo, addentrandosi nella foresta, diretto verso la sua prigione, dove avrebbe vissuto per sempre, rinchiuso come la bestia che sarebbe stato per sempre.

Catherine, rimasta sola, sentì che le gambe non la reggevano più, e crollò in ginocchio sui gradini, abbandonandosi alla disperazione.

 

***

 

Lord William si pulì il volto con la manica della camicia bianca, incurante del fatto di averla imbrattata di sangue, così com’era il suo volto.

La parte sinistra della sua faccia era, a partire dal naso fino a terminare trasversalmente alla mandibola, una maschera di sangue. Era sfigurato, lo sapeva, e quelle cicatrici, quattro graffi profondi nella carne, sarebbero rimasti per sempre.

Non riusciva a darsi pace; era arrivato così vicino ad avere Catherine, così vicino…e alla fine, quella sgualdrinella aveva preferito fuggire con il suo amante, quel mostro, quello scherzo della natura, quella bestia…

Sentì il fuoco ritornare, avvolgerlo completamente, divorarlo da dentro.

Non si sarebbe arreso così. No, avrebbe avuto Catherine, l’avrebbe avuta per sé, non importava se per tutta la vita o se solo per il tempo di una scopata, ma l’avrebbe avuta.

Si sarebbe vendicato, avrebbe ammazzato quel mostro e avrebbe stuprato la sua troia, ecco cos’avrebbe fatto…Poco importava che fosse sfigurato per sempre, che ora tutti in paese stessero ridendo di lui…perché lo stavano deridendo, oh, sì, ne era sicuro, chiunque ormai doveva aver saputo che cos’era successo…

Fu il primo pensiero che gli attraversò la mente non appena udì un brusio proveniente dall’interno del Leone d’oro: si stavano facendo beffe di lui!

Digrignò i denti, impugnando la pistola, pronto a fare irruzione e a vendicare col sangue chiunque stesse attentando al suo onore, ma si bloccò sull’entrata non appena vide qual era il motivo di tanto rumore.

Tutti i clienti urlavano e sbraitavano, ammassati intorno ad un tavolo su cui tre taglialegna avevano posto una mantella rossa, tutta stracciata e chiazzata di sangue.

- L’avevo detto, io!- gridò un omaccione.- L’avevo detto io che in quella foresta si annida il demonio!

- Ha ammazzato una bambina - disse Vincent, guardando la mantella rossa.

- Abbiamo tentato, ma non siamo riusciti a salvarla…- mormorò Jones, con aria colpevole.

- Ma avete almeno visto chi l’ha uccisa?

- No - rispose Tyger.- Abbiamo solo ritrovato la mantella insanguinata. Non c’era traccia né della bambina né dell’assassino…

- Ah, ma che importa se l’hanno visto o no! Ormai sappiamo con che abbiamo a che fare!

- Giusto! Questa è opera di un essere demoniaco, lo stesso che ha sbranato il Marchese Van Tassel e tutti gli altri!

- Nella foresta si annida una bestia, una belva assetata di sangue!

- E’ opera di un mostro!

Lord William stette ad ascoltare quello sbraitare con un ghigno maligno sulle labbra.

Mostro…

Ora sapeva cosa fare; quei popolani imbecilli non sapevano nemmeno che favore gli stavano facendo. Forse poteva volgere la cosa a proprio vantaggio, forse liberarsi del mostro e riprendersi la ragazza sarebbe stato più facile di quanto credesse…

Ghignò nuovamente, mentre una luce diabolica gli illuminava gli occhi.

Presto, Catherine sarebbe stata sua.

 

Angolo Autrice: Okay, e dopo questo posso anche suicidarmi…! Cavolo, mi sono vergognata da morire, era la prima scena “hot” che scrivevo, e non sono neanche sicura che mi sia venuta bene (anzi, probabilmente è uno schifo…). Comunque, prima che passiate al lancio dei pomodori, vorrei dire due paroline.

Allooora, siccome nello scrivere questa storia mi sono ispirata al metodo di Alex Flinn, autrice di Beastly (tralasciando il fatto che Alex Flinn è Alex Flinn e io sono io, ovvero una povera tapinella che pubblica le sue scemenze su Internet sperando che qualcuno le mostri un po’ di pietà e le legga XD), ovvero miscelare elementi presi dalle varie versioni de La Bella e la Bestia e (tentare di) costruire una storia originale nella sua tradizione, ecco da dove vengono fuori le stupidate scritte in questo capitolo.

Per la storia di Adrian e di Lady Julia mi sono vagamente ispirata alla versione di Villeneuve, dove però non c’erano medaglioni magici e la strega che puniva il principe per averla respinta non era la matrigna ma la balia, e in questa versione si dava più spazio al pensiero femminista che alla storia in sé. Per la scena pseudo-hot, nasce dal fatto che in tutte le versioni che ho letto della favola ho sempre riscontrato (non prendetemi x pazza ninfomane, vi prego XD!) una componente (seppur spesso molto sottile) erotico-sessuale, poi esplicitata e portata all’esasperazione nei racconti di Angela Carter, quindi ho voluto inserirla anche qui (e hai combinato un casino senza precedenti! Nd Mia coscienza).

Comunque, ora è chiaro e tondo che Adrian e Cathy si amano…ma il mostro riuscirà ad accettare se stesso? E Catherine, sarà ancora così confusa o prenderà una decisione?

Non ho ancora finito di tediarvi, quindi tornate qui!

Dunque, ladies and gentlemen, vi annuncio ufficialmente che….**rullo di tamburi**…siamo agli sgoccioli! (Finalmente! Nd Voi). Ebbene sì, per la vostra felicità (siccome immagino che non ne possiate più XD) mancano ancora tre o quattro capitoli per concludere la storia…

Detto questo, che combinerà Lord William? Che ha in mente di fare?

Vi lascio con questo interrogativo fino al prossimo capitolo, e ringrazio KatherineDebMcLee per aver aggiunto questa ff alle seguite e per la sua recensione, e little_drawing ed Ellyra per aver recensito.

Ciao a tutti, al prossimo capitolo!

Bacio,

Dora93

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Capitolo 20
*** Attacco al castello ***


 

- Dobbiamo fare qualcosa!- esclamò Vincent.- Dobbiamo trovare quel mostro…stanarlo, dovunque si nasconda…e fermarlo, prima che uccida qualcun altro!

- Ma…ma chi ci assicura che ci sia davvero un mostro?- fece timidamente l’oste, attirandosi delle occhiate attonite da parte di tutti i presenti.

- Io!- disse una voce, rompendo il silenzio, mentre i clienti si voltavano in direzione della porta.

Lord William, il volto sfigurato, entrò nella locanda, con il suo solito ghigno reso ancora più distorto da un profondo taglio che gli squarciava il labbro superiore.- Ve lo assicuro io!

- Lord William...- boccheggiò un uomo. - Cosa…cosa vi è successo?

- Questa, è la vostra prova - sibilò Lord William, indicando le cicatrici.- E’ stato il mostro di cui parlate, a farmi questo.

- Voi…voi l’avete visto, Lord William?- deglutì l’oste.

- Sì, l’ho visto con i miei occhi.

Sotto lo sguardo attonito di tutti, Lord William si fece avanti con passo deciso, e con un balzo salì in piedi su uno dei tavoli.

- Io ho visto il mostro, l’assassino che da mesi terrorizza il nostro villaggio!- disse, a voce alta in modo che tutti udissero.- E’ un mostro, un ibrido né uomo né animale, un demonio creato da Satana in persona! Quest’oggi, ha fatto irruzione in chiesa, nel bel mezzo del mio matrimonio. Coloro che erano presenti possono confermarlo - rivolse una breve occhiata a Glouster, Ralph, Gerald e Michael, che annuirono con veemenza.- Ha rapito la mia promessa sposa, e mi ha sfigurato. Ora è venuto il momento di dire basta! Io dico di andarlo a prendere nella foresta, di stanarlo dovunque si nasconda, e di ammazzarlo come la bestia che è!

Bastarono quelle poche parole per convincere gli animi già infiammati dallo sdegno, resi ciechi dalla paura o inebetiti dall’alcool. Si levò un grido di euforia, mentre qualcuno batteva i pugni sul tavolo, e chi ne aveva sollevava pistole e coltelli.

Lord William osservò la scena con un ghigno di soddisfazione sul volto sfigurato.

 

***

 

Henry gemette nel sonno, quindi sbatté le palpebre, incontrando la luce rossastra del tramonto. Iniziò a tossire convulsivamente, sollevando il dorso nel tentativo di rimettersi in piedi. La tosse ci mise qualche secondo a calmarsi e, quando lo fece, il giovane si rese conto di trovarsi disteso in un lago di sangue.

Spostò lo sguardo alla sua destra, incrociando la carcassa del doberman di Lord William. La maggior parte del sangue proveniva dal cadavere dell’animale, ma anche dalle ferite al fianco, alla spalla e al braccio del giovane. Sentì un bruciore all’altezza dell’orecchio e portò una mano al punto dolorante, ricordandosi improvvisamente del proprio lobo mozzato e divorato dal doberman.

Gemette, ricacciando indietro le lacrime di rabbia e disperazione.

Lord William doveva essere già in chiesa…probabilmente aveva già sposato Cathy…

Aveva fallito. Aveva fallito di nuovo.

Si alzò in piedi, barcollando. Vedeva tutto annebbiato, gli alberi e gli arbusti gli roteavano intorno vorticosamente. Vide il proprio pugnale luccicare a terra, in mezzo alla neve. Con molta attenzione, si chinò e lo raccolse, stringendolo fra le dita. Incespicando, Henry iniziò a camminare, senza sapere dove fosse diretto, inoltrandosi ancora di più nella foresta.

 

***

 

Dopo mesi trascorsi al castello, quasi non le pareva che quella fosse casa sua. In effetti, c’era stata talmente poco da non poterla considerare casa.

La sua vera casa, forse, era sempre stata il maniero.

Catherine chiuse gli occhi, poggiando il capo contro le sbarre di legno della ringhiera; era rimasta seduta sui gradini delle scale da quando Adrian se n’era andato, con le gambe strette al petto, il vestito da sposa sporco e stracciato ancora addosso, i capelli sciolti e il corsetto allentato.

Non aveva pianto, aveva sempre detestato farlo e in quelle ultime ventiquattr’ore le pareva di aver versato fin troppe lacrime. Ma sentiva su di sé una stanchezza e una spossatezza che mai aveva avvertito, come se d’un tratto avesse perduto tutta la sua forza.

Quello che era successo era ancora stampato nella sua mente come se si fosse trattato di una sequenza di ritratti. La fuga di Adrian, come il mostro aveva salvato suo padre, la sua storia…

Mai avrebbe pensato che fosse in qualche modo coinvolto con Lady Julia, che si era rivelata essere una strega, di quelle vere. Una strega! Quello a cui aveva assistito nella cattedrale lasciava ben poco al dubbio…Catherine si maledisse mentalmente per la sua stupidità; se solo avesse dato ascolto a Rosalie, ora Adrian…

No! No, era troppo comodo scaricare la colpa tutta su Lady Julia. La sua matrigna era una strega, e va bene, tanto valeva accettare la realtà dei fatti. Era stata la moglie del padre di Adrian, e l’aveva trasformato in un mostro. Lady Julia sarà anche stata un essere riprovevole, ma non era giusto incolpare lei per quello che era successo solo un’ora prima.

Adrian le aveva dimostrato ancora una volta che l’amava; aveva salvato suo padre e rinunciato per sempre a ritornare normale. E quindi era scappato.

Ma di quest’ultimo fatto, l’unica persona a cui dare la colpa era lei.

Se avesse dato ascolto a Rosalie, se si fosse opposta un po’ di più a Lord William, se si fosse presa maggiore cura di suo padre…Se non avesse fatto…

Cielo, ma cosa le era saltato in mente?

Quello che era successo fra lei e Adrian un attimo prima che lui fuggisse le appariva ora più chiaro e nitido. Catherine non aveva portato entrambi in camera sua con doppi fini. Sul serio. Aveva chiuso la porta in modo che potessero stare tranquilli, voleva solo che Adrian si riprendesse, era semplicemente preoccupata per lui, non aveva davvero intenzione di…

Ma allora, che le era preso? Non si era mai comportata così, non si era mai nemmeno trovata in una tale situazione con un uomo…Allora, perché, così, all’improvviso, si era avvinghiata al corpo del mostro, l’aveva attirato a sé in quella maniera? Non le si addiceva, le signorine perbene non avrebbero mai fatto una cosa del genere, le figlie beneducate dei mercanti non si sarebbero mai comportate – lei non si sarebbe mai comportata! – come la peggiore delle meretrici. Eppure, in quel momento lei l’aveva fatto, l’aveva fatto conscia di ciò che avrebbe comportato, e non gliene era importato niente di ciò che avrebbero potuto pensare la gente e la sua famiglia.

L’unica cosa che voleva in quel momento era fare l’amore con Adrian, nulla di più.

Perché lei…lo amava.

Alla fine era successo; nonostante si fosse ripromessa più e più volte di non cadere nella trappola, alla fine si era innamorata. Amava Adrian. Poco importava se lui era un mostro, e se sarebbe per sempre rimasto tale. Non aveva mai creduto che Adrian potesse essere diverso da come era, che potesse essere umano; per quanto si sforzasse, non riusciva ad immaginarselo senza pelo e squame a devastare il suo viso, con delle mani normali al posto di quelle zampe artigliate. Lei lo aveva sempre conosciuto così, ed era così che lo amava.

I suoi baci e le sue carezze artigliate le bruciavano ancora sul corpo.

Non importava se lui era un mostro; lei lo amava ugualmente. Lo aveva rifiutato, ma solo ora si rendeva conto del grossolano errore che aveva commesso. Si era comportata come tutte le altre, le donne che avevano respinto il mostro che le amava.

Ma stavolta sarebbe stato diverso. Perché lei non era né Christine Daae né la Esmeralda. Lei era Catherine Kingston.

E amava un mostro.

- Signorina Catherine…- la voce di Lydia la riscosse; la ragazza sollevò lo sguardo, mentre la vecchia balia le posava una mano sulla spalla.- Signorina, che fate qui? Siete sparita da più di un’ora, che fate seduta sui gradini?

- Io…ecco, Lydia, io…

- Il signor Kingston.

A sentire di suo padre, Catherine sembrò riscuotersi.

- Come sta?

- Meglio, anche se è ancora un po’ debole. Ha chiesto di potervi parlare. Ma guardatevi, siete tutta sciupata! Venite, venite, cercherò di rimettervi in ordine.

Catherine accettò la mano che Lydia le offriva senza opporsi, lasciandosi tirare in piedi. Come una bambola, permise alla vecchia balia di liberarla dall’ingombrante abito da sposa e di vestirla con un più semplice abito rosso scuro.

La ragazza sembrò riscuotersi non appena entrò nella stanza di suo padre.

Il mercante era seduto sul letto, con ancora le coperte rimboccate, pallido ma decisamente in condizioni migliori di quando si era svegliato. Di certo, era abbastanza in forma per permettersi di litigare con Constance.

- Che cos’è questa roba?- stava chiedendo l’uomo, scettico, osservando uno strano liquido verdastro in un bicchiere che la donna gli aveva porto.

- Una medicina.

Ernest, appoggiato contro una parete, sollevò un sopracciglio. Peter e Rosalie, seduti vicini su due seggiole, si scambiarono un’occhiata eloquente.

- Una medicina?!- fece il mercante.- Si può sapere dove avete studiato, voi, per somministrarmi una tale porcheria?

- Porcheria!- sbottò Constance.- Fareste meglio a berla, questa porcheria, se non volete ritornare all’altro mondo!

- Ma come vi permettete?! Voi, signora, non avete nessun diritto di…

- E su!

Constance prese il bicchiere contenente la medicina e gliene fece ingoiare un grosso sorso, al che il mercante iniziò a tossire.

- Ma voi siete matta!- ansimò.

- Forse è vero, ma se non altro l’avete bevuta.

- Ma questa poi…

- Ehi, è per il vostro bene, sapete? Rischiavate di finire di nuovo all’aldilà…

- Per poco non mi ci mandavate voi, all’aldilà!

Constance sbuffò, dandogli le spalle.

- Gli uomini! Sono così bambini!*

Catherine trattenne un sorriso, entrando nella stanza.

- Catherine!- fece il mercante, non appena la vide. La ragazza si avvicinò, sedendosi sul letto accanto a lui.- Che fine avevi fatto? Sei sparita…

- Io…io ero…ero occupata…- balbettò Catherine.

Il mercante le lanciò un’occhiata in tralice.

- Eri con quel mostro, non è vero?

- Papà, per favore, non chiamarlo più così!- sbottò la ragazza.- Adrian non è un mostro!

- E che cos’è? Un cavaliere senza macchia e senza paura? Il principe azzurro?- ironizzò l’uomo.

- Per favore, papà!- fece Catherine, alterata.- Non sto scherzando. Ti ripeto che Adrian non è un mostro. Sì, è vero, di certo non è il principe azzurro, ma…

- Ma?- incalzò il mercante.- Ma, che cosa? Catherine, io non posso dimenticare quello che ha fatto. Quello che ha fatto a me, a te. Ti ha portata via da me, Catherine. Ti ha tenuta prigioniera per tutto questo tempo, e non oso nemmeno pensare a che cosa abbia potuto farti.

Catherine non disse nulla, distogliendo lo sguardo. Il mercante la guardò, posandole una lieve carezza su una guancia.

- Ora proprio non ti capisco…- mormorò, mentre la ragazza tornava a guardarlo negli occhi.- Perché lo difendi, Catherine? Hai dimenticato tutto quello che è successo? Oppure è accaduto qualcosa che io non so?

- In effetti…c’è qualcosa che non ti ho detto…- mormorò la ragazza, facendosi coraggio. Doveva dirglielo; voleva che suo padre lo sapesse. Era sempre stata sincera con lui, e doveva esserlo anche e soprattutto in quel frangente. Adrian era troppo importante, per lei.

- Papà, io lo amo.

Il mercante sgranò gli occhi. Ernest represse a stento un sorrisetto compiaciuto; Peter e Rosalie si scambiarono un’occhiata incredula.

- Finalmente…- commentò sottovoce Constance, continuando a trafficare con medicine e intrugli posti sul comodino.

- Ma…ma…ma hai perso il senno?- sbottò il mercante, scattando seduto sul letto.- Che stai dicendo, Catherine? Ti rendi conto di quello che hai appena affermato? Hai appena ammesso di essere innamorata di un most…di un uomo con un aspetto a dir poco fuori dalla norma, che in più si è rivelato essere un sadico e un…

- No, papà!- lo bloccò la ragazza.- No, Adrian non è un sadico, non è malvagio come poteva apparire all’inizio. Per favore, ascoltami - disse, guardandolo negli occhi.- All’inizio la pensavo anch’io così, è vero. Lo odiavo. Ma poi…poi…non lo so, qualcosa è cambiato. Io sono cambiata, e ho scoperto che Adrian è l’uomo più meraviglioso che potessi incontrare. E poi, ti ha salvato la vita, papà!- esclamò.- Se non fosse stato per lui, ora tu non saresti qui. E non m’importa del suo aspetto, non più. Io lo amo, papà, ne sono sicura. Ho rifiutato chiunque, tranne lui. Sono innamorata di Adrian, papà, e questo nessuno potrà cambiarlo. Io lo amo - ripeté, sottovoce.

Il mercante rimase un attimo interdetto. Buon Dio, Catherine non si era mai rivolta a lui in quel modo! Non gli era mai parsa tanto decisa e sicura di sé…e poi, in effetti era vero: aveva respinto il fior fiore della gioventù che l’aveva chiesta in moglie, perché ora avrebbe dovuto accettare di sposare una bestia, se non l’avesse amato? Certo, non poteva dimenticare ciò che quell’animale aveva fatto, ma se era vero che gli aveva salvato la vita, allora…

- E date retta a vostra figlia, una volta per tutte!- sbottò Constance, rompendo il silenzio.

Il mercante sospirò, guardando sua figlia.

- Se è quello che vuoi…se davvero lo ami…

Catherine sorrise radiosa, gettandogli le braccia al collo.

- Grazie, papà. Devo andare subito da lui!- disse, scattando in piedi. Sembrava quasi che il burattino che era stata fino ad un attimo prima fosse sparito d’incanto. Ora Catherine sentiva di aver ritrovato tutta la sua energia e il suo fervore, si sentiva di nuovo viva. E innamorata.

- Ma…ma signorina Catherine, non sta bene, non…- provò ad obiettare Lydia, ma la ragazza non le diede ascolto.

- Ah, beata gioventù!- commentò Ernest, attirandosi un’occhiataccia da parte della governante.

- E non datele corda, voi!

Peter soffocò una risata con una mano, mentre Rosalie non si fece scrupoli a ridacchiare.

- Forza, bevete questa - disse Constance, porgendo un altro intruglio al mercante.- E vedete di non fare storie…

- Uff! E va bene, va bene!- borbottò il mercante.- Ma dove diavolo si è cacciato Henry?

Catherine si arrestò di colpo sulla soglia della porta, scambiandosi un’occhiata con Rosalie. Nella frenesia degli ultimi avvenimenti, si era completamente dimenticata di suo fratello. Non che l’idea di rivederlo la rendesse particolarmente felice, ma ora cominciava a chiedersi che fine avesse fatto.

Rosalie aprì la bocca per rispondere, ma un brusio e delle voci esaltate provenienti dall’esterno della casa glielo impedirono.

- Ma che cos’è?- mormorò Catherine.

Tutti ammutolirono, prestando ascolto. Catherine si diresse a grandi passi verso la finestra della stanza, che dava sulla via che portava al paese. La strada era gremita di gente, tutti abitanti del villaggio, perfino donne, vecchi e bambini, ma solo gli uomini avevano in mano delle armi: c’era chi impugnava spade, coltelli e pistole, e chi non ne aveva brandiva asce e forconi. Imbruniva, e le torce accese che qualcuno teneva sollevate rendevano la scena più cupa e inquietante, creando un gioco di luci e ombre.

Catherine rimase interdetta, non capendo cosa stava succedendo. Guardò meglio, accorgendosi che il gruppo era compatto, ed erano tutti rivolti ad ascoltare qualcuno che parlava con voce alta e carismatica, creando urla di esaltazione: Lord William, con il volto sfigurato e il ghigno malvagio sulla labbra tagliate.

La ragazza non ci mise molto a capire com’era la situazione, perché tutta quella gente si era radunata. Sentì un tuffo al cuore, ma allo stesso tempo digrignò i denti per la rabbia. Uscì di corsa dalla stanza e scese le scale in fretta e furia, gettandosi sulle spalle un mantello nero.

Spalancò la porta e attraversò correndo il giardino, fino a raggiungere la folla. Si fece largo a suon di spintoni fra la gente, fino a ritrovarsi abbastanza vicina a Lord William per sentire quello che diceva. Aveva lo sguardo spiritato, sembrava quasi posseduto.

- …e per questo io vi dico: uccidiamo il mostro, a morte l’assassino!

A quell’ultima frase, si levò un boato di approvazione, mentre tutti lanciavano urla di battaglia. Catherine si sentì invadere di rabbia. Senza pensarci due volte, allontanò con una gomitata l’uomo che le stava di fronte e si lanciò su Lord William. Lo afferrò per la camicia con rabbia, finendo entrambi a terra. Catherine gridò, cercando di colpirlo, ma Ralph e Glouster l’afferrarono per le braccia e la tirarono indietro.

- Catherine!- urlò il mercante, raggiungendo la folla, seguito di corsa dallo strano gruppetto formato da Constance, Ernest, Peter, Rosalie e perfino Lydia.

La ragazza continuò a dimenarsi, cercando di divincolarsi dalla salda presa dei due scagnozzi, senza smettere di guardare Lord William come se volesse ucciderlo.

Una vecchia, poco distante, col viso nascosto da un cappuccio rosso fuoco, si fece appena più indietro, osservando la scena.

Lord William si rialzò, ghignando mentre ripuliva i propri abiti dal fango.

- Salve, mia sposa!- la salutò, beffardo.- Hai cambiato idea? Hai deciso di tornare da me? Forse ha capito che le carezze di un mostro sono troppo schifose per poter essere sopportate!- gridò, suscitando l’ilarità della folla.

- Maledetto!- ringhiò Catherine.- Brutto bastardo, prova a fare del male ad Adrian e ti ammazzo!

- Adrian? Quella bestia ha un nome, anche?- rise Lord William.

Quindi le si avvicinò, chinandosi per guardarla meglio negli occhi.

- Non mi fermerai stavolta, piccola troia!- sibilò.- Il tuo mostro deve pagare per quello che ha fatto. Tu eri mia…mia! Pagherà per averti portata via da me, lo ammazzerò con queste mie mani!

Catherine lo guardò rabbiosa, quindi gli sputò in un occhio.

Lord William si pulì il viso con una manica, facendo un segno a Ralph e Glouster. I due scagnozzi sollevarono Catherine per le braccia, scaraventandola a terra, al di fuori della folla. La ragazza finì del fango, ma cercò subito di rimettersi in piedi. Constance corse in suo aiuto, mentre la folla cominciava a disperdersi.

Le donne e i bambini se ne tornarono al villaggio, mentre gli uomini, cappeggiati da Lord William, si inoltravano nella foresta, diretti verso il maniero.

L’unica a seguirli fu una donna, la vecchia con il cappuccio rosso, che se ne stette in disparte, limitandosi ad aggregarsi in silenzio alla marcia.

Catherine si rialzò a fatica, sentendosi improvvisamente impotente, ma carica di disperazione.

- Dobbiamo fare qualcosa…- tossì, rivolta agli altri.- Dobbiamo fermarli, dobbiamo avvisare Adrian!

- E come?- fece Peter.

- Noi…noi dobbiamo arrivare al maniero prima di loro…- ansimò la ragazza.- Venite, andiamo in paese. Dobbiamo trovare dei cavalli…

 

***

 

Lord William teneva lo sguardo fisso di fronte a sé, conscio che un’intera folla armata lo stava seguendo. Catherine sarebbe stata sua, o di nessun altro.

In lontananza, vide stagliarsi la sagoma lugubre del maniero.

Presto avrebbe avuto la sua vendetta.

 

***

 

Adrian udì un rumore di voci e coltelli, quindi più schianti. Stavano cercando di sfondare il portone. Non se ne curò; semplicemente si limitò ad osservare la scena dalla finestra della sua stanza. Gli assalitori erano cappeggiati dal fidanzato di Catherine, l’uomo che lui stesso aveva sfigurato.

Sospirò, volgendo le spalle alla finestra e incontrando l’immagine del proprio volto mostruoso riflessa nello specchio.

Che quegli uomini facessero pure. Tanto non gliene importava più niente di vivere o morire. Non faceva differenza: se fosse vissuto, sarebbe rimasto un mostro; se fosse morto, sarebbe morto da mostro. In entrambi i casi, non avrebbe potuto avere Catherine.

Lei era stata l’unica cosa che avesse avuto un senso, dopo più di dieci anni. Ora che sapeva che lei non sarebbe mai stata al suo fianco, non valeva più la pena di lottare.

Sperava solo che il portone cedesse il più in fretta possibile.

 

***

 

Henry incespicò, aggrappandosi ad un ramo per rimanere in piedi. Ansimò, appoggiandosi con il dorso al tronco dell’albero. Non sapeva dove si trovava, camminava da ore senza una meta, ed era sfinito. Le ferite avevano smesso di sanguinare, ma il dolore rimaneva.

Cercò di riprendere fiato, sforzandosi di ragionare sul da farsi.

Sentì uno schianto in lontananza, quindi un altro. Delle urla di battaglia in sottofondo. Henry si riscosse, prendendo a camminare lentamente in direzione di quei rumori.

Spostò con una mano insanguinata un ramo spoglio: di fronte a lui si ergeva un maniero maestoso e inquietante, circondato da statue di mostri che spalancavano le loro fauci in urla mostruose. Un gruppo di uomini – gente del villaggio, vide – lo stava assaltando, ammassato di fronte al portone d’ingresso che stava cominciando a cedere sotto i colpi di un grande ariete.

All’ennesimo schianto, si levò una risata malvagia.

Henry sgranò gli occhi: alla testa della folla, con una spada in mano e il volto sfigurato, c’era Lord William.

Il giovane lo guardò, stringendo in mano il pugnale.

 

***

 

Catherine fermò il cavallo tirando con decisione le briglie di cuoio. L’animale rischiò di scivolare sul nevischio ghiacciato, ma riuscì a rimanere in piedi.

- Siamo arrivati tardi…- gemette, osservando la folla che già assaltava il castello.

- Cosa facciamo, ora?- fece il mercante, aiutando Constance a smontare dalla groppa del cavallo.

- Dobbiamo riuscire ad entrare.

- E come?- pigolò Rosalie.

- Ernest, c’è un’entrata secondaria?- chiese Catherine.

- Sì, sul retro, ma per entrare dobbiamo comunque passare dal cancello…- le gridò il vecchio domestico di rimando.

Catherine tornò a volgere lo sguardo al maniero; dannazione, il cortile era praticamente accerchiato, non era possibile entrare. Se anche fossero riusciti a passare in mezzo, sarebbe risultato troppo sospetto che un gruppetto di persone si allontanasse dalla moltitudine.

Ma doveva assolutamente entrare…se solo ci fosse stata una terza via d’accesso oltre a quella sul retro e al portone principale…

No, un momento. Lei non era passata dalla porta principale, la prima volta che era arrivata al maniero. C’era una botola, ricordò improvvisamente. Una botola proprio accanto al portone d’ingresso…se fosse stata abbastanza scaltra, e avesse avuto un po’ di fortuna, allora forse sarebbe riuscita ad entrare.

Si tirò il cappuccio nero sul capo, in modo da essere meno riconoscibile.

- Ho un’idea - disse, rivolta agli altri.- Seguitemi.

Senza attendere, Catherine corse in direzione del cancello. Il mercante e Constance si scambiarono una rapida occhiata, quindi fecero un cenno ad Ernest, Lydia e ai due ragazzini, seguendo la ragazza.

Catherine si ritrovò di fronte alla folla urlante. Lanciò una breve occhiata a suo padre, suggerendo silenziosamente a lui e agli altri di imitarla. Si chinò lievemente, scivolando in mezzo ai corpi premuti l’uno contro l’altro, facendosi strada fra armi e forconi. In mezzo a tutta quella massa, gli spintoni e le gomitate volavano a destra e a manca, quindi nessuno si stupì più di tanto nel sentirsi urtato.

Alla fine, il gruppetto giunse in prossimità del portone; Catherine si sollevò sulle punte per vedere meglio. La botola era a pochi metri da lei, ricoperta di neve, ma aperta. Ma sarebbe stato troppo rischioso entrare tutti e sette insieme, avrebbero attirato troppo l’attenzione.

Si volse a guardare Constance e suo padre.

- Devo andare da sola!- disse.

- Cosa? No, Catherine, te lo proibisco!- cercò di trattenerla il mercante, ma la ragazza era già scivolata silenziosamente al di fuori della massa. Raggiunse a passo svelto la botola, aprendola lo stretto necessario che le occorreva per entrare, quindi vi si gettò dentro.

- Catherine!- urlò il mercante, cercando di raggiungerla, ma Constance lo trattenne per il collo della casacca.

- E abbassate la voce, volete farci scoprire?- ringhiò la donna.

- Lasciatemi!- cercò di divincolarsi il mercante.- Mia figlia è da sola, devo aiutarla!

- Cathy se la sa cavare benissimo da sola, lo ha dimostrato in tutti questi mesi!- ribatté Constance.- Se andate con lei, non l’aiuterete di certo, anzi, le sarete solo d’impaccio. Piuttosto, aiutateci a fermare questo branco di ubriaconi!

- E come?- fece l’uomo, stralunato.- Non abbiamo armi, e loro sono più di cinquanta! Come pensate di fermarli?!

- Per le armi non ci saranno problemi, una volta entrati, fidatevi di me - assicurò Constance. Quindi, gli rivolse un sorrisetto furbo:- Mio nonno era un soldato, sapete?- ammiccò.- Mi raccontava sempre delle sue imprese nell’armata di Sua Maestà. E diceva sempre che il miglior modo per sconfiggere un nemico è attaccarlo dall’interno…

 

***

 

La donna con il mantello rosso scorse Catherine scivolare nella botola, e ghignò sommessamente. Senza farsi vedere, si staccò dalla massa, sgattaiolando in direzione dell’entrata sotterranea.

Con un altro ghigno, non vista, spalancò la botola ed entrò.

 

*citazione dal film Anastasia.

 

Angolo Autrice: Lo so, sono un essere orribile! Voi mi lasciate sempre tante belle recensioni, siete così gentili, mentre io invece faccio schifo per avervi fatto aspettare così tanto! L. Vi chiedo scusa, ma questa settimana proprio non ce l’ho fatta ad aggiornare…prometto che non succederà più, perdono J! Dunque, questo è un altro capitoletto di mezzo, ma allungarlo troppo mi sembrava eccessivo, e nel prossimo vedremo cosa succederà. Lord William e i suoi riusciranno ad entrare? Catherine arriverà in tempo per salvare Adrian o il mostro soccomberà alla furia di Lord William? Come se la caveranno il mercante, Constance e gli altri in mezzo alla folla inferocita? Henry deciderà di intervenire o rimarrà fermo a guardare? E ancora, chi è la donna in rosso e che cosa vuole da Catherine?

Tutto questo lo scopriremo nel prossimo capitolo!

Ringrazio denise26 per aver aggiunto questa storia alle seguite, e little_drawing, jekikika96, KatherineDebMcLee ed Ellyra per aver recensito.

Un grazie a tutti, ci vediamo al prossimo capitolo!

Bacio,

Dora93

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Capitolo 21
*** La fine della strega ***


 

I colpi si fecero sempre più insistenti e violenti, fino a che il portone non crollò, lasciando libero accesso alla folla inferocita. Lord William rise, entrando alla testa della massa.

Henry, ancora nascosto nel folto della foresta, osservò il volto sfigurato dell’uomo mentre si faceva strada fra la gente del villaggio, e strinse ancora più forte il manico del pugnale. Mosse qualche passo; le ferite gli facevano ancora male, sentiva le gambe pesanti come macigni, ma s’impose di rimanere in piedi.

Barcollando, uscì dalla macchia, dirigendosi verso il castello.

 

***

 

Constance si aggiustò il bavero del mantello, chinando leggermente il capo. Gettò un’occhiata alle sue spalle, assicurandosi che suo figlio stesse bene quindi, a fianco del mercante, si aggregò alla folla.

Non appena furono entrati, gli uomini del villaggio, la maggior parte dei quali era ubriaca, diedero libero sfogo a tutta la loro avidità e furia. I Kingston e i domestici pensarono addirittura che l’unico motivo per cui quella gente era venuta lì fosse soltanto il gusto di saccheggiare e distruggere.

Gli uomini iniziarono a sfasciare tutto quanto capitava loro a tiro, mobili, oggetti, vetri, continuando a ridere sguaiatamente, ad urlare frasi sconnesse di cui si distingueva solamente qualche vago a morte il mostro!, o vai all’Inferno, assassino!. Ma sembrava che la furia omicida prima diretta verso Adrian si fosse ormai diradata, lasciando il posto all’impulso bestiale di distruggere e rubare quanto più possibile.

Lydia gettò un grido soffocato quando un energumeno lanciò un vaso di porcellana contro una parete, così, per il gusto di farlo, mandandolo in mille pezzi. Ernest fu pronto a zittirla accostando l’indice alle proprie labbra.

- State attenta, Madam!- sussurrò.- Non dobbiamo fare rumore, o potremmo fare la fine di quel vaso!

- Che bestie!- ringhiò Lydia.- Che animali! Violare così la casa d’altri!

- Motivo per cui dobbiamo fermarli al più presto…- bisbigliò Constance, appiattendosi insieme agli altri contro una parete, in un angolo buio.

- E come facciamo?- squittì Rosalie, mentre una rissa era scoppiata nel bel mezzo dell’atrio fra quattro o cinque ubriaconi, che si stavano azzuffando come animali, tirando pugni e calci su membra illividite e labbra sanguinanti. La ragazzina spalancò gli occhi dallo spavento, nel vedere un uomo cadere a terra; Peter le strinse dolcemente un polso, nel tentativo di rassicurarla.

- So io come - dichiarò fermamente Constance, iniziando a scivolare lungo la parete.- Fidatevi di me…

Constance e il mercante raggiunsero il ripostiglio dove i domestici tenevano tutto l’occorrente per le pulizie del castello. Incurante del saccheggio ancora in corso, Constance lo aprì con decisione. Iniziò ad estrarne gli oggetti da lavoro e a passarli agli altri.

- Ma volete scherzare?!- esclamò il mercante, osservando il badile che gli era capitato in mano. - E’ così che intendete fermarli? Con scope e stoviglie?

- Non sarà artiglieria, ma loro non sono certo meglio attrezzati!- ribatté Constance.- Guardateli: la maggior parte di loro ha solo dei forconi. Forse non li fermeremo, ma non è questo il nostro obiettivo…

- E qual è, di grazia?

- E’ distrarli, rallentare la loro furia fino a che Cathy non sarà riuscita ad avvisare il padrone…

- Povera signorina, speriamo che stia bene…- gracchiò Lydia.

- Sta benissimo, ne sono certa - tagliò corto Constance.

- Ma siamo troppo pochi!- obiettò il mercante.- Noi siamo solo in sei, e loro almeno cinquanta, se non di più! Come pensate che possa funzionare? Ci ammazzeranno nel giro di due minuti!

- Dimenticate che sono quasi tutti ubriachi - gli disse la donna.- Ubriachi, e quindi più lenti e con i riflessi meno pronti. Con un po’ di fortuna, riusciremo a metterli gli uni contro gli altri.

Il mercante non rispose, riflettendoci per un attimo; quindi, rivolse alla donna uno sguardo sinceramente ammirato.

- Siete una stratega davvero eccellente, signora…

Constance lo guardò, inarcando un sopracciglio e abbozzando un sorriso.

- E ancora non mi avete visto come combattente…

Lord William, in piedi in mezzo allo scalone centrale, gettò un’occhiata rabbiosa a quella massa di imbecilli che pensava solo a riempirsi le tasche. Lo sapeva, lo sapeva che avrebbe dovuto agire da solo! Ma ormai era fatta, e lui non avrebbe rinunciato alla sua vendetta solo per un branco di ubriaconi.

- Ascoltate!- gridò con rabbia, cercando di sovrastare il fracasso di urla e oggetti che si rompevano.- Ascoltatemi, tutti quanti!

Lentamente, coloro che si azzuffavano smisero di litigare, gli oggetti fracassati diminuirono. Presto, tutti si ammassarono ai piedi dello scalone, con i volti arrossati per la fuga e l’alcool puntati verso Lord William.

- Siamo venuti qui con uno scopo ben preciso!- urlò lo sfregiato.- Siamo venuti qui per vendicarci, per uccidere il mostro che ha massacrato i nostri amici, brava gente come noi che è stata ammazzata e sbranata da una belva famelica e selvaggia!

Gli uomini risposero con un boato di assenso.

- E per questo, io vi invito a rimanere compatti, e ancora una volta vi dico: uccidiamo il mostro!

- Prima dovrai passare sul mio cadavere, bastardo!

L’esclamazione fu accompagnata da un gemito soffocato. In mezzo alla folla, un uomo cadde a terra a faccia in giù. Constance, alle sue spalle, emise un grido di trionfo, brandendo una padella.

- Ehi tu, brutta strega…!- esclamò un energumeno, sollevando un pugno come per colpirla, ma subito si accasciò sulle proprie ginocchia. Ernest gli aveva appena sferrato un colpo di scopa su una rotula.

- Brutta strega…a me?!- strillò Constance, colpendolo in viso con una padellata. L’energumeno finì a terra.

Subito si scatenò un putiferio, chi osservava la scena ammutolito, chi non sapeva che fare, alcuni che accennavano a vendicarsi.

- Idioti! Fermateli!- ululò Lord William.

In un attimo, tutti furono addosso al gruppetto. Iniziò una battaglia furiosa che, nonostante la disparità dei numeri, si rivelò subito accanita. Constance colpì con un’altra padellata un altro uomo, mentre il mercante sferrò una badilata contro un ometto piccolo e tarchiato.

Peter strinse il forcone nelle mani, vedendosi arrivare addosso Gerald.

- Sta’ attento a non farti male, ragazzino…- ghignò lo scagnozzo.

- Oh, certo. Ma fate attenzione anche voi.

Peter colpì con il manico del tridente Gerald in pieno stomaco, e il tagliagole si accasciò al suolo, gemendo. Il ragazzino emise un’esclamazione di trionfo, ma subito la sua euforia si spense non appena vide Rosalie indietreggiare, brandendo inutilmente una padella contro un omaccione grande e grosso che continuava a sghignazzare, cercando di afferrare il corpicino esile e minuto della biondina.

- Ma che bella bambina…di’ un po’, ce l’hai il fidanzato, piccola?- rise l’uomo, ubriaco fradicio.

Rosalie tremò, continuando ad indietreggiare, fino a che non si ritrovò con le spalle contro al muro. L’uomo le si avventò contro.

- Rosalie! Le tende!- gridò Peter.

La ragazzina volse il capo di scatto, scorgendo dei lunghi tendaggi di broccato rosso a pochi passi da lei. Si gettò di lato appena prima che l’energumeno l’afferrasse, aggrappandosi alle tende. L’uomo si lanciò nuovamente contro di lei, ma prima di esserle addosso, Rosalie si spostò a destra, tirando con sé le tende. L’energumeno vi si ritrovò invischiato fino al capo; dimenandosi furiosamente nel tentativo di liberarsi, tirò i tendaggi in modo che anche il bastone che li reggeva si staccasse dal soffitto e gli crollasse sulla terra. L’uomo barcollò, per poi cadere a terra privo di sensi.

Rosalie fece un salto di felicità, battendo le mani.

Poco più distante, Lydia, barcollando malamente sulle gambe grassocce, colpì con una scopa un altro uomo, stordendolo ma senza abbatterlo.

- Che il Signore mi aiuti, non ho più l’età per certe cose!- sbuffò.

- A chi lo dite, Madam!- fece Ernest, sferrando un colpo allo stomaco di un uomo. - Alla nostra età dovremmo occuparci dei nipotini, e invece…

- …e invece eccoci ad occuparci di altri bambini, molto più cresciuti, però!- ironizzò la vecchia balia, colpendo con un pugno il muso di uno spilungone alto e magro. Questi rimase un attimo stordito, il tempo sufficiente per permettere a Lydia ed Ernest di spostarsi dalla sua mira. Lo spilungone barcollò, iniziando a vedere doppio a causa del colpo e della sbronza. Lo sguardo gli cadde su quello di un suo compagno, che gli stava a pochi metri di distanza.

- Tu!- ringhiò rabbioso, sferrandogli un pugno sul grugno.

Quello incassò il colpo, ma si riprese immediatamente; afferrò un pezzo di legno e glielo scagliò, ma l’oggetto mancò il bersaglio, sbattendo contro la spalla di un terzo.

Presto, gli uomini prima alleati iniziarono una rissa intestina.

- Ha! Sta funzionando!- esultò Constance, combattendo a fianco del mercante, il quale aveva appena messo al tappeto Michael, uno degli scagnozzi di Lord William. Preso dal combattimento, l’uomo non si accorse che un altro scagnozzo gli stava arrivando alle spalle.

- Attento!- gridò Constance; il mercante si piegò sulle ginocchia, e la donna colpì con una padellata l’aggressore.

- Oh…caspita…- mormorò il mercante, rialzandosi lentamente e osservando esterrefatto il corpo inerte dell’aggressore. Constance si aprì in un sorriso trionfante.

- Mi credevate una damigella in pericolo, signore? Beh, spero vi siate reso conto che non sono indifesa come tutte le altre donne che avete conosciuto…

- Questo lo so, ma…- il mercante fece un cenno a Constance; la donna si abbassò di scatto, in modo che il mercante potesse colpire con una badilata l’uomo che la stava aggredendo alle spalle.

Non appena anche l’altro aggressore fu messo al tappeto, il mercante tese una mano ad una stupefatta Constance.

- …ma ogni tanto tutti abbiamo bisogno di aiuto, dico bene?- ridacchiò.

Constance abbozzò un sorriso, accettando la mano e alzandosi in piedi.

- Sì, forse avete ragione…

Peter si scostò un ciuffo di capelli scuri dagli occhi, cercando Rosalie con lo sguardo. La ragazzina se la stava vedendo con Glouster, ma era evidente che lo scontro era impari. Lo scagnozzo era un omone grande e grosso armato di coltello, mentre Rosalie una ragazzina di tredici anni con un fisico mingherlino e solo una padella per difendersi. Con uno spintone, Glouster la scaraventò a terra, ridendo sguaiatamente del suo sguardo atterrito. Lo scagnozzo sollevò in aria il coltello, pronto a colpire.

Peter digrignò i denti, frapponendosi in mezzo a loro e sferrando un calcio alle ginocchia di Glouster, il quale si accasciò al suolo con un gemito simile ad un guaito. Il ragazzino colse al volo l’occasione, sferrandogli un pugno sul grugno e mandandolo al tappeto.

- Ora basta! Finiamola, subito!- abbaiò Lord William.

In un attimo, Ralph fu addosso a Peter e, prima che il ragazzino potesse reagire, lo afferrò per la gola. Peter boccheggiò, cercando di liberarsi. Rosalie, ancora sul pavimento, si gettò con un balzo verso Ralph, mordendolo ad un braccio. Lo scagnozzo gridò di dolore, lasciando la presa.

- Ehi, tu! Non toccare mio figlio!- strillò Constance avventandosi su Ralph, ma qualcuno l’afferrò per le spalle.

Il mercante fece per correre in suo aiuto, ma un altro uomo gli immobilizzò le braccia dietro la schiena. Quattro energumeni bloccarono Ernest e Lydia, mentre altri due sollevarono Peter e Rosalie da sotto le ascelle.

Sapevano che non sarebbe durata, eppure ora erano in preda al panico e allo stupore. Li gettarono sul pavimento, in mezzo ad una cinquantina di uomini. Constance annaspò, cercando di rialzarsi, mentre Lord William, con un ghigno malefico sul volto sfigurato, scendeva lo scalone dirigendosi verso di loro.

Non visto, Henry era giunto sulla soglia del portone, con ancora il pugnale in mano. Si appoggiò allo stipite della porta, ansimando, con gli occhi puntati su quanto stava accadendo.

Lord William si fece strada fra il gruppo di aggressori, squadrando il mercante, Constance e gli altri con espressione soddisfatta.

- Devo dire che vi siete battuti bene…- commentò, con apparente noncuranza.- Peccato che non sia servito a molto…

- Maledetto…!- tossì Rosalie.

- Dannato vigliacco!- ringhiò Constance.- Brutto bastardo! Non ce l’avrai vinta, Cathy e il padrone ti fermeranno, non puoi vincere!

- Ah, no? Io invece temo di averlo già fatto, signora…- ghignò Lord William, sguainando la spada.- Quanto a Catherine e al suo mostro…beh, penso che gli invierò un regalo…che ne dite della vostra testa?- rise, sollevando la spada in aria.

- No!- urlò il mercante.

- Mamma!- strillò Peter.

Gli uomini si fecero avanti, trattenendoli. Constance lanciò un grido, alzando il braccio per difendersi. Lord William abbassò la spada.

Henry digrignò i denti, prendendo subitaneamente la mira. Con un gesto fulmineo, scagliò il pugnale in direzione dello sfregiato. Il coltello roteò su se stesso e, prima che Lord William potesse colpire Constance, la lama gli trapassò il braccio e la punta uscì dall’altro lato.

Lord William urlò di dolore, lasciando cadere la spada. Dal suo braccio aveva iniziato a sgorgare sangue; tutti erano esterrefatti, ammutoliti. Con un ringhio di dolore, Lord William estrasse la lama dal braccio, fasciandoselo con un lembo del mantello strappato.

- Assassino!- urlò Henry, accasciandosi al suolo.

Tutti si voltarono nella sua direzione.

- Henry…!- boccheggiò il mercante.

- Assassino…!- tossì di nuovo Henry, in ginocchio.- Maledetto…sei un assassino!

- Assassino?- fece eco qualcuno.- Ma che sta dicendo?

- E’ stato lui…- ansimò Henry.- E’ stato lui ad ammazzare tutta quella gente! E’ stato lui…i suoi cani…ha ammazzato lui quelle persone…voleva solo i loro soldi…!

Lord William sentì lo sguardo di tutti addosso; il mondo gli crollò sotto i piedi, il suo castello di bugie era stato abbattuto.

- No…- provò a dire.- No…lui, non…è stato quel mostro…è pazzo…è un pazzo, vi dico…!

Era inutile, lo sapeva. Viste le condizioni in cui si trovava Henry, ferito, sanguinante e con un orecchio mozzato, chiunque gli avrebbe creduto. Infatti, tutti ora sembravano mossi da una nuova furia, ora non esisteva più alcun mostro…solo un uomo, un assassino.

La folla si dimenticò del gruppo di prigionieri, scagliandosi nella sua direzione brandendo spade e coltelli. Lord William ringhiò, salendo lo scalone centrale di corsa, con la massa di uomini alle calcagna.

Appena prima che lo raggiungessero, lo sfregiato spalancò una porta, superandola e chiudendola a chiave alle sue spalle.

Il mercante si girò a guardare suo figlio; Henry emise un gemito soffocato, prima di finire riverso a terra.

- Henry!- esclamò Rosalie, correndo verso di lui insieme a tutti gli altri.

- Henry! Come ti senti?- fece il mercante, tastando la fronte del giovane.

- Io…bene, ho bisogno solo…sono così stanco…

- E’ riposo, quello che vi ci vuole…- dichiarò Constance, strappandosi un abbondante lembo dell’abito e iniziando a fasciare le ferite di Henry.

- La signora ha ragione, signorino Henry…- Lydia fece una smorfia.- Stavolta avete proprio trovato chi vi ha conciato per le feste…

Rosalie, con una guancia sporca di sangue e i capelli scompigliati, si sporse verso di lui, preoccupata. Peter le posò una mano sulla spalla.

- Sta’ tranquilla, vedrai che presto starà bene…- sussurrò.

Rosalie non rispose, ma voltò lentamente il capo, guardando il ragazzino con i suoi grandi occhioni scuri.

- Mi hai salvato la vita…di nuovo…- fece un debole sorriso.

- Io…ehm…credo di sì…- bofonchiò il ragazzino, imbarazzato.- Ma non voglio che di sdebiti! Per carità, ne ho abbastanza di battaglie e combattimenti - ridacchiò.

Anche Rosalie fece una breve risata, quindi tornò seria.

- Allora…dovrò trovare un altro modo per sdebitarmi…- mormorò.

Senza attendere risposta, Rosalie si sporse verso il ragazzino, e gli posò un tenero bacio sulle labbra. La ragazzina chiuse gli occhi, come aveva letto che facevano le damigelle nei romanzi, mentre Peter gli occhi li tenne spalancati per lo stupore, arrossendo fino alla punta dei capelli.

- Rosalie!- sbottò il mercante.

- Signorina!- Lydia si portò le mani al viso.

Ernest non si preoccupò di trattenere un sorriso intenerito.

- Beh, direi che ho appena accasato un figlio…- commentò Constance.

Henry ridacchiò.

- Brava, Rose! Così si fa!- tossì.

Rosalie si staccò da Peter, sorridendo raggiante. Il ragazzino impiegò qualche istante per riprendersi del tutto. Boccheggiò.

- Oh…oh, capperi…io…ehm…beh, tu sì che ci sai fare…- mormorò, rosso in viso e con lo sguardo da pesce lesso. Rosalie rise contenta.

Henry si unì alla risata, ma subito riprese a tossire. Tutti tornarono a dedicare la sua attenzione a lui.

- Dov’è…dov’è Cathy?- ansimò.

- Si è allontanata prima…- fece il mercante.- Spero solo che stia bene…

- Quel bastardo è scappato!- esclamò Constance.- Forse è in pericolo, e anche il padrone! Dobbiamo aiutarli!

- E’ vero, andiamo!- disse il mercante, alzandosi in piedi. Gettò un’occhiata di traverso alla figlia minore.

- Con te facciamo i conti dopo, signorina!

 

***

 

Catherine ricordava bene quella prima parte del percorso, e costeggiò i muri sudici e ricoperti di muffa delle prigioni con passo sicuro e deciso, procedendo svelta lungo i corridoi bui, fino a giungere all’angusta cella in cui aveva ritrovato suo padre imprigionato. Fortunatamente aveva trovato una torcia accesa all’inizio della galleria, quindi orientarsi nell’oscurità non le fu troppo difficile. Le pareva così strano, ritrovarsi in quei luoghi dove, all’inizio, aveva creduto di essere nient’altro che una serva e una prigioniera, ma da cui se n’era andata portando con sé il più grande dei tesori. Tuttavia, s’impose di non lasciarsi andare ad inutili sentimenti nostalgici; non era venuta lì per piagnucolare o fare la romantica: Adrian aveva bisogno di lei, doveva salvarlo dalla furia omicida di Lord William.

Sperava solo che non fosse troppo tardi…

Accelerò il passo, stringendo saldamente la torcia accesa in una mano e spalancando la porticina dalla quale era uscita sei mesi prima spintonata dal padrone. Proseguì velocemente per alcuni metri, con il cappuccio calato sul viso, ma presto si vide costretta a rallentare, fino a fermarsi, immobile in mezzo al corridoio. Stava percorrendo una parte del castello che non conosceva, che non aveva mai visto. O meglio, che aveva visto ma a cui non aveva prestato attenzione, troppo presa dall’autocommiserarsi per la sua situazione per guardare dove Adriana la stesse conducendo. Maledisse se stessa per non essere stata attenta. Mai avrebbe pensato che un giorno le sarebbe servito, ricordarsi di quel percorso. Ma non c’era tempo da perdere: doveva aiutare Adrian.

Avanzò ancora di qualche metro, ricordando vagamente di aver salito delle scale, la prima volta. Salì frettolosamente qualche gradino, quindi svoltò a destra, iniziando a percorrere una stretta e ripida scala a chiocciola. Un gradino marcito si ruppe sotto i suoi piedi, e Catherine fu sul punto di cadere. Si tenne in equilibrio appoggiando una mano contro la parete.

Nell’attimo in cui rimase immobile, alla ragazza parve di udire dei passi alle sue spalle. Si voltò di scatto, illuminando con la fiamma della torcia il percorso buio dietro di sé. Nessuno.

- Adrian?- chiamò, con una nota di speranza nella voce.

Nessuno rispose, né nulla si mosse. La ragazza mosse lentamente la torcia, la cui fiamma gettava ombre scure sulle pareti, rendendo il sotterraneo buio e silenzioso un luogo ancora più inquietante. Catherine osservò per qualche istante lo spicchio di luce creato dalla fiamma. No, non c’era nessuno. Eppure avrebbe potuto giurare di aver sentito dei passi, alle sue spalle…

Si riscosse, imponendosi di non fare la stupida. Le prigioni pullulavano di topi, lo sapeva, probabilmente erano stati loro a fare quel rumore, non c’era bisogno di farsi prendere dall’ansia. Quello non era il momento né per farsi prendere dal panico né tantomeno per le allucinazioni.

Sollevò appena un lembo della gonna rossa per facilitare la marcia, quindi riprese a salire i gradini scricchiolanti della scala a chiocciola.

Arrivata in cima, si ritrovò in un lungo corridoio. Questo, tuttavia, non era spoglio come lo erano le gallerie dei sotterranei. La luce lunare entrava da una finestra che andava dal pavimento fino al soffitto, a cui erano appese delle tende rosse sbrindellate. Accanto ad essa, vi era un tavolino mezzo tarlato, al di sopra del quale era appeso uno specchio annerito.

Doveva essere capitata in un’ala abbandonata del castello. Alla fine del corridoio, vi era un’altra scalinata.

Sì, era sulla strada giusta. Catherine cominciò ad attraversare il corridoio con passo deciso, ma presto iniziò a rallentare progressivamente la camminata. Abbassò il cappuccio; non le piaceva quel posto. Sapeva che era sciocco farsi prendere da certe paure infantili proprio in quella situazione, quando l’uomo che amava aveva bisogno di lei ora più che mai, eppure quel luogo abbandonato le ispirava istintiva diffidenza. Sentì di nuovo il campanello d’allarme suonare, ma s’impose di non badarci. Era solo suggestionata, nulla di più. Strano, però, era certa che ci fosse qualcun altro con lei…quei passi…che fossero davvero topi?

Proseguì lentamente, guardandosi intorno con aria circospetta. Superò la finestra e le tende strappate, quindi passò di fronte al tavolino, incrociando la sua immagine riflessa nello specchio. Senza sapere perché, si fermò un istante. Lo specchio era annerito, mostrava macchie scure dovunque…come se fossero delle ombre…

All’improvviso, Catherine vide comparire riflesso alle sue spalle il volto orribile di una vecchia, con la pelle rugosa e chiazzata di macchie scure, cascante e decrepita, con i capelli grigi scompigliati e così radi da lasciar vedere il cranio, la bocca spalancata in un ghigno mostrando i pochi denti scuri e marci.

Prima che potesse reagire, la ragazza si sentì afferrare per i capelli, e la vecchia la sbatté con la fronte contro lo specchio, che si ruppe in mille pezzi. Lasciò andare Catherine che finì accasciata al suolo; la torcia le sfuggì di mano, ma non si spense, rotolando fino all’estremità di una delle tende. La vecchia rise, una risata diabolica, facendo mulinare il mantello rosso.

La ragazza, ferendosi le mani con i cocci di vetro, si volse a guardarla.

- Lady Julia!- strillò.

La vecchia rise nuovamente, mentre Catherine cercava di allontanarsi da lei, strisciando sui vetri rotti. La fiamma della torcia ebbe un guizzo, e un alito di vento fece muovere le tende. La stoffa iniziò lentamente a prendere fuoco

- Sta’ lontano da me, strega!- gridò Catherine, rabbiosa, cercando di rialzarsi.

- Via, è questo il modo di salutare la tua matrigna?- la beffeggiò Lady Julia. Infilò una mano ossuta al di sotto del mantello e, sotto lo sguardo inorridito della figliastra, ne estrasse un lungo e affilato pugnale.- Me la pagherai, puttanella!- sibilò.

Lady Julia si chinò, afferrando Catherine per la radice dei capelli; la ragazza urlò, mentre la matrigna la costringeva a mettersi in ginocchio. Catherine si ritrovò con il proprio viso a pochi centimetri da quello orribile e decrepito della donna.

- Cosa credevi? Di potermi rovinare i piani, e farla franca?

La gettò sul pavimento; Catherine strisciò, nel tentativo di scappare.

- Di rubarmi i miei poteri, e di passarla liscia?- gridò la donna, gettandosi su di lei, brandendo il pugnale. Catherine si ritrovò con la schiena schiacciata contro il pavimento, con il corpo ossuto della matrigna che le gravava sopra. Lady Julia gridò, un grido furioso, animalesco, e fece per affondare il pugnale. Catherine la bloccò per un polso, con la lama del pugnale a pochi centimetri dal suo viso. La ragazza strinse i denti per la fatica: Lady Julia sembrava avere una forza sovrumana.

Lentamente, le tende continuavano a prendere fuoco.

- Anche se non ho più i miei poteri, questo non significa che non possa ammazzarti!- sibilò Lady Julia.- Mi sei sempre sembrata inutile!- ridacchiò, mostrando i denti storti e marci.- Mi hai sempre infastidito, per anni sei stata una vera seccatura! Ora finalmente posso sbarazzarmi di te, piccola troia!

Lady Julia fece ancora più pressione sul pugnale. Catherine ringhiò di fatica e disperazione e, con uno sforzo immane, riuscì a spingere via la matrigna da sé. Lady Julia rotolò sul pavimento, perdendo di mano il pugnale. Catherine fece per rialzarsi, ma la strega l’afferrò per una caviglia, facendola ripiombare a terra. Con un gesto fulmineo le fu nuovamente sopra, iniziando a stringere la gola bianca della ragazza con le sue mani ossute.

Catherine tossì, boccheggiando mentre sentiva il respiro mancarle. Portò le mani all’altezza dei polsi di Lady Julia, cercando di liberarsi, ma la matrigna continuava a stringerle la gola con forza. Catherine scorse il pugnale a pochi metri da lei. Allungò una mano, nel tentativo di afferrarlo, ma era troppo lontano; la ragazza riusciva appena a sfiorarne l’impugnatura.

Ora il fuoco si era espanso, e aveva catturato anche il tavolino di legno.

Lady Julia gettò il capo all’indietro, aprendosi in una sguaiata risata di trionfo.

Catherine non riusciva più a respirare; cominciava a vedere delle macchie scure che le annebbiavano gli occhi. Allungò ancora di più la mano, con disperazione. Riuscì ad arrivare al coltello.

- Vai all’Inferno, piccola Catherine!- ghignò Lady Julia.

Utilizzando tutte le forze che le rimanevano, la ragazza impugnò saldamente il manico del pugnale, e conficcò la lama nella spalla di Lady Julia. La strega lasciò la presa, lanciando un grido di dolore.

- Credo che quello sia il posto adatto per voi, signora madre!- ringhiò Catherine.

Estrasse il pugnale insanguinato dalla carne della donna. Con una violenta ginocchiata allo stomaco, la ragazza si liberò del peso del corpo della matrigna, spingendola contro le tende infuocate.

In un attimo, le fiamme si attaccarono agli abiti della strega, avvolgendone l’intero corpo. La vecchia urlò di rabbia e dolore, mentre le fiamme iniziavano a divorarla. Cercò di spegnerle, muovendosi convulsivamente, rotolandosi sul pavimento, ma era tutto inutile.

Lady Julia era diventata una torcia umana.

Catherine, con ancora il pugnale in mano, corse verso la scalinata, volgendosi un attimo a guardare il corpo ormai inerte della strega che veniva divorato dalle fiamme, prima di andarsene.

 

***

 

Lord William ansimò, appoggiato con la schiena contro la porta.

Era andato tutto storto…ora tutta la sua vita era rovinata: l’intero villaggio sapeva che lui era un assassino, aveva perso la sua bellezza e il suo patrimonio, i suoi scagnozzi l’avevano abbandonato, e non aveva più alcuna speranza di riavere Catherine.

Strinse con forza il pugnale nella mano.

Non aveva più nulla…ma una cosa, forse, gli era rimasta. E se la sarebbe presa.

Avrebbe avuto comunque la sua vendetta.

 

Angolo Autrice: E con questo, signore e signori, vi annuncio che mancano soltanto ancora due capitoli! Ta daan…XD. Siamo quasi arrivati alla fine, dunque, x la vostra felicità, immagino che vi sarete stufati…

Dunque, so che l’ultima parte di questo capitolo è un po’ macabra, ma tant’è…Ora, ricapitolando: Lady Julia è stata fatta fuori definitivamente, Henry si è finalmente reso utile e ha smascherato Lord William, Constance, il mercante e co. stanno bene, la vera natura del rapporto fra Rosalie e Peter è stata esplicitata (a proposito, spero che nessuno mi denunci x pedofilia, affronto alla morale o roba simile, so che i due hanno solo tredici anni ma è poi solo un bacio quello che si sono dati…J), dunque non mi resta che chiedervi: cosa succederà nel prossimo capitolo? Catherine arriverà in tempo o Lord William riuscirà ad uccidere Adrian?

Lo scopriremo nel prossimo, e penultimo, capitolo!

Non mi resta che ringraziare tutti coloro che leggono, in particolare rosaa93 per aver aggiunto questa ff alle seguite, mutilla per averla aggiunta alle preferite, e KatherineDebMcLee, little_drawing, Black Fairy, Halley Silver Comet ed Ellyra per aver recensito.

Ciao, al prossimo capitolo!

Bacio,

Dora93

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Capitolo 22
*** Più forte della morte ***


 

Catherine percorse la breve scalinata che la separava dal salone d’ingresso incespicando, lasciandosi alle spalle le fiamme che divoravano il corpo senza vita di Lady Julia. Voltò il capo, guardando dietro di sé: il fuoco si faceva sempre più alto, ormai aveva invaso tutto il corridoio. Catherine terminò di salire le scale in fretta, spalancando la porta in cima ai gradini, ritrovandosi nell’atrio, ormai sgombro dalla folla infuriata che lo aveva occupato fino a poco prima.

Inciampò nella gonna dell’abito, finendo in ginocchio a terra.

- Catherine!- soffiò Henry, sgranando gli occhi per il sollievo.

- Catherine, stai bene?- il mercante le corse incontro, aiutandola a rialzarsi da terra.

La ragazza fece per rispondere, ma una scarica di colpi di tosse dovuti al fumo la costrinse a riprendere più volte fiato, prima di riuscire a dire alcunché.

- Lady…Lady Julia…- ansimò alla fine.- Lady Julia è morta…

- Morta?- il mercante sgranò gli occhi.

- Strega…- borbottò Rosalie.

- Henry!- esclamò Catherine, vedendo il corpo sanguinante del fratello disteso sul pavimento. Gli si avvicinò di corsa, inginocchiandosi accanto a lui.- Henry, che hai fatto? Cosa ti è successo?

- Io…- il giovane gettò qualche colpo di tosse.- Mi dispiace tanto, Cathy…- sussurrò.- Mi dispiace, sono stato un idiota, non…

Catherine gli passò brevemente le dita fra i capelli biondi.

- Non…non ha importanza, adesso…- disse.- Ora l’importante è che tu ti riprenda, al resto penseremo dopo…Ma chi ti ha ridotto così?

- L-lord…William…- annaspò Henry.

- Lord William?!- Catherine ritornò improvvisamente alla realtà, ma non riusciva a capire. Era convinta che l’intero villaggio fosse entrato al castello, ma il salone era deserto, benché presentasse segni inconfutabili di un saccheggio.- Constance, ma dove sono tutti?

- Tuo fratello ha smascherato Lord William, Cathy…- disse la donna, continuando a tamponare il sangue delle ferite di Henry.

- E’ stato lui, Cathy…- fece il giovane.- Ti ricordi di tutti quegli uomini uccisi? E’ stato Lord William…

- Quando l’ha scoperto, la folla s’è rivoltata contro di lui - aggiunse Ernest.- Ora ci sono due uomini ad ogni porta, mentre gli altri stanno tornando al villaggio per avvisare la polizia…

- E lui dov’è?

- E’ riuscito a scappare, si è nascosto al piano di sopra - fece Peter.

Catherine sussultò.

Adrian…

- Dov’è Adrian?- chiese con furia, mentre la voce le si incrinava.

- Non lo sappiamo…- disse Peter.- Stavamo per andare a cercare te e lui, ma…

La ragazza scattò in piedi.

- Qualcuno rimanga qui con Henry - disse.- Per favore, aiutatemi a trovarlo…lui…Lord William potrebbe…

Catherine venne interrotta da un tonfo sordo. Tutti si voltarono in direzione del rumore: l’incendio era giunto fino all’atrio, e ora le fiamme avevano fatto crollare alcune tende da una finestra.

- Oh mio Dio!- esclamò Lydia, portandosi una mano al cuore.

- Sbrighiamoci, prima che bruci tutto!- saltò su Constance.- Peter, corri al pozzo a prendere dell’acqua! E anche tu, brutto vecchio sfaticato, muovi quelle gambe ossute e fa qualcosa! Voi - si rivolse al mercante.- Aiutatemi a contenere quelle fiamme! Servono delle coperte, nello sgabuzzino!

- Andiamo noi!- disse Rosalie, trascinando Lydia per mano.

Catherine ansimò, rimanendo a guardare per un istante le fiamme. Avrebbe dovuto aiutare a spegnerle, ma…Dio, Lord William era ancora a piede libero, e Adrian era da solo, disarmato contro di lui…

Constance e suo padre avevano altre persone ad aiutarli, avrebbero fatto anche a meno di lei. C’era qualcun altro, invece, che aveva bisogno del suo aiuto…

Si rese conto di avere ancora in mano il pugnale di Lady Julia. Lo strinse con vigore, quindi si voltò di scatto e prese a salire di corsa le scale. Svoltò a destra, aprendo la prima porta che trovò ed entrandovici. Fece appena in tempo a sentire l’esclamazione di sorpresa e sgomento di suo padre, prima di richiudere la porta alle sue spalle.

Si ritrovò da sola all’inizio di un lungo corridoio immerso nella semioscurità. Non si sentiva nulla, nemmeno il più piccolo rumore. Catherine mosse qualche passo, guardinga. Lord William poteva essere dovunque, poteva tenderle un’imboscata così come aveva fatto Lady Julia.

Tese l’orecchio, ascoltando anche il minimo scricchiolio. Quando fu certa che non ci fosse nessuno, iniziò a percorrere velocemente il corridoio, sperando che non fosse troppo tardi.

 

***

 

Lord William sfondò una porta con un calcio, brandendo il pugnale.

Nessuno.

Una smorfia di rabbia passò sul suo volto sfregiato.

- Dove diavolo ti sei nascosto, mostro?- sibilò, sfondando un’altra porta. Ancora niente.

Ad ogni fallimento, la sua furia aumentava, il desiderio di ammazzare quella bestia si faceva sempre più forte. Sentiva di nuovo quel fuoco che lo ardeva, ma non era più la passione per Catherine. Ora era solo sete di vendetta.

Scorse una piccola luce che filtrava da sotto una porta chiusa. Sogghignò con aria folle.

Ti ho trovato, finalmente…

Senza indugiare oltre, sferrò un violento calcio contro il legno della porta, che si spalancò di colpo.

Adrian era seduto sul letto della sua stanza, chino, con i gomiti poggiati sulle gambe e lo sguardo fisso sulle sue mani mostruose. Sollevò appena il capo per vedere chi fosse entrato, ma subito tornò a fissarsi le mani.

Si sarebbe aspettato un’intera folla pronta a linciarlo, e invece c’era soltanto un uomo con un pugnale. Adrian riconobbe vagamente il giovane che aveva sfigurato durante il matrimonio di Catherine, ma non diede molta importanza a questo fatto. L’unica cosa che sperava era che quell’uomo, chiunque fosse, la facesse finita in fretta.

Non si era mai arreso di fronte a nulla, nemmeno quando Lady Julia gli aveva lanciato quella maledizione, ma ora non sentiva più di farcela a combattere. Era tutto finito. Ormai non aveva più possibilità di tornare normale, e con quell’aspetto mostruoso Catherine non l’avrebbe mai amato. E senza di lei, tanto valeva morire.

Lord William digrignò i denti. Quel mostro l’aveva visto, e allora? Perché non reagiva? Perché non

lo attaccava, perché non cercava di difendersi?

Avanzò di qualche passo, brandendo il pugnale.

- E allora?- ringhiò, avvicinandosi sempre di più a lui.- Che cosa intendi fare, eh, mostro?

Adrian non rispose, né fece nulla, senza nemmeno guardarlo.

Lord William lanciò un urlo di rabbia, tirando un calcio ad un pezzo di mobile poggiato sul pavimento.

- Tu la ami, non è vero, mostro?- sibilò.- La ami, vero? Sei innamorato di Catherine…e hai deciso di portarmela via. Lei doveva essere mia…mia! Doveva essere solo mia, e tu me l’hai portata via, mi hai sfigurato, mi hai fatto diventare orribile come te!- urlò Lord William.- E me la pagherai…

Con un gesto veloce, afferrò Adrian per il mantello e lo scaraventò a terra. Il mostro emise un gemito soffocato, tentando di rialzarsi, ma non dava segno di voler reagire.

- Alzati!- urlò Lord William.- Alzati e combatti!

Gli sferrò un violento calcio nello stomaco. Adrian gemette di dolore, ma non fece nulla per fronteggiarlo.

Lord William digrignò i denti. Non voleva vincere così, la sua vendetta sarebbe stata troppo semplice, ma quell’animale non voleva combattere!

Meglio farla finita in fretta…

Afferrò Adrian per il collo del mantello, costringendolo a mettersi in ginocchio e a piegare il capo all’indietro, scoprendo la gola. Lord William si chinò su di lui, premendogli la lama del pugnale contro la giugulare.

- Sarò l’ultima cosa che vedrai prima di morire, mostro…- sibilò.- Dirò alla tua puttana che la ami…Addio!

 

***

 

Catherine si fermò di colpo di fronte alla porta sfondata della biblioteca. Adrian non c’era, ma nulla all’interno era stato toccato, segno che Lord William non aveva trovato il padrone. La ragazza riprese la sua corsa, scorgendo una luce accesa poco distante.

La stanza da cui proveniva era aperta, ma all’interno non si udiva nulla.

Catherine la raggiunse di corsa, fermandosi sulla soglia. Vide Lord William tenere un coltello puntato alla gola di Adrian, con un’espressione di ferocia folle sul volto sfigurato.

- Adrian!- gridò la ragazza, come se le parole le uscissero spontaneamente dalla bocca.

Il mostro sgranò gli occhi, alla vista di Catherine. Allora era tornata! Era tornata da lui!

Lord William voltò di scatto il capo.

- Tu!- ringhiò, allontanando un poco il pugnale dalla gola del mostro.

Approfittando dell’attimo di distrazione di Lord William, Adrian gli afferrò il polso, scaraventandolo sul pavimento, sopra i resti dei mobili e dei cocci di vetro.

Lord William gridò, ma Adrian gli fu subito sopra, strappandogli il pugnale di mano. Il giovane si riprese immediatamente, sferrando un pugno sul volto mostruoso del padrone. Con uno spintone ribaltò le posizioni, e Adrian si ritrovò con la schiena premuta contro il pavimento, mentre Lord William aveva riafferrato il pugnale.

Sollevò la lama con un ghigno, pronto ad affondare.

Catherine si gettò sopra di lui, cercando di colpirlo con il proprio coltello. La ragazza lo afferrò per le spalle, graffiandolo attraverso una manica della giacca. Lord William ringhiò, liberandosi di lei con una spinta così forte da farla cadere a terra.

Adrian ancora una volta non perse l’occasione, e spinse via Lord William da sé, mandandolo a cozzare contro il muro. Il giovane gemette, cercando di rimettersi in piedi. Il padrone si rialzò, tendendo una mano a Catherine.

- Stai bene?- ansimò, tirandola su.

Una risata beffarda di Lord William non le diede il tempo di rispondere. Adrian si voltò a guardare il giovane, che si stava reggendo alla parete mentre si rialzava. Il mostro si pose sulla difensiva: ora che Catherine era tornata, sentiva che tutte le sue energie avevano fatto ritorno insieme a lei, era come se una nuova forza si fosse impadronita di lui.

- Ma che bello…un bel romanzetto rosa…- ghignò Lord William, stringendo il pugnale.- Avresti potuto avere me, puttanella!- ringhiò, rivolto a Catherine.- Avresti potuto avere il meglio, e invece hai preferito le schifose carezze di un mostro. Bene, siccome siete tanto innamorati, farò in modo che possiate stare insieme…nell’aldilà!

Lord William si avventò su Catherine, brandendo il pugnale.

- No!

Adrian spinse di lato la ragazza, ma non riuscì a fermare l’attacco del giovane. Lord William affondò il colpo, e la lama trapassò Adrian all’altezza del fianco. Il mostro ruggì di dolore, afferrando il polso dell’avversario. Con un unico, veloce gesto, fece in modo che Lord William estraesse il coltello dalla sua carne, quindi lo afferrò per le spalle, spingendolo contro la finestra. L’avversario si aggrappò al mantello del mostro, tirandolo con sé mentre finiva con il dorso disteso sul davanzale in pietra della finestra. Gettò un’occhiata verso il basso: le estremità appuntite del grande cancello in ferro battuto luccicavano nel buio.

Lord William brandì nuovamente il coltello, ma Adrian lo disarmò con uno scossone al braccio. Afferrò il giovane per la gola, spingendogli la testa al di fuori della finestra.

Gli occhi dei due s’incontrarono per un istante che parve eterno.

Catherine si rialzò a fatica dal pavimento, guardando la scena con il fiato mozzato. Adrian ansimò, mentre sulle labbra di Lord William si disegnava il solito ghigno.

- Direi…direi che hai vinto, mostro…- annaspò.- Hai vinto. Su coraggio: ammazzami!

Era una richiesta, pensò Adrian. Lord William gli stava concedendo la vittoria, e nel contempo gli permetteva di porre fine alla sua vita, in quanto vincitore, come nei tornei fra gladiatori nella Roma degli imperatori.

Il mostro lo fissò per un altro interminabile istante, quindi, lentamente, sciolse la presa dalla sua gola. Lord William tornò a respirare, mentre Adrian si spostava da lui, permettendogli di riprendere la posizione eretta. Il padrone lo afferrò per il bavero della camicia, guardandolo negli occhi.

- Vattene!- sibilò.- Vattene via da qui, non farti mai più vedere. Lasciaci in pace, lascia in pace Catherine, e non tornare mai più.

Lord William ghignò nuovamente, quindi annuì con lentezza. Adrian lo lasciò andare, voltandogli le spalle, iniziando ad avanzare barcollando in direzione di Catherine.

La ragazza stava per gettargli le braccia al collo, quando vide Lord William che, con il suo solito ghigno, si chinava di scatto a raccogliere il pugnale, pronto a colpire il mostro alle spalle.

- Attento!- strillò la ragazza.

Adrian si voltò di scatto, solo per vedere la lama del pugnale incombere su di lui. Con un gesto rapido, Catherine prese il proprio coltello e lo passò ad Adrian, che lo afferrò al volo. Il mostro affondò il pugnale nella carne dell’avversario. Lasciò il manico, allontanandosi di qualche passo.

Lord William tossì, e dalla sua bocca uscì un fiotto di sangue. Portò una mano al pugnale piantato nel proprio fegato, estraendolo con una smorfia.

Barcollò all’indietro. Catherine lo vide incespicare in un’asse smossa, quindi cadere di schiena fuori dalla finestra. Lord William urlò, precipitando nel vuoto. L’urlo cessò quando il corpo del giovane venne trapassato da una punta acuminata del cancello, che gli perforò la colonna vertebrale e lo stomaco. Lord William rimase in quella posizione, a mezz’aria con la testa e le braccia reclinate indietro, le gambe molli, con la bocca spalancata in un urlo e gli occhi sbarrati ormai senza vita.

I secondi che seguirono parvero durare anni.

Catherine ansimò, passandosi una mano fra i capelli. Adrian gettò un’occhiata alla finestra, quindi si volse verso la ragazza. Catherine non ne era sicura, ma le parve quasi che il mostro stesse sorridendo impercettibilmente, e che avesse quasi aperto le braccia in una muta richiesta di un abbraccio cui la fanciulla non tardò a rispondere.

Si gettò fra le braccia del padrone, stringendolo a sé come se temesse di vederlo scomparire da un momento all’altro.

- C-Catherine…- soffiò il mostro, ricambiando l’abbraccio.

Catherine lo sentì gemere impercettibilmente di dolore. Si allontanò un poco, guardandolo negli occhi. Adrian gemette nuovamente, abbassando lo sguardo e portandosi una mano al fianco. La ragazza riconobbe una chiazza di sangue sulla camicia nera.

Catherine sgranò gli occhi; fece per dire qualcosa, ma Adrian glielo impedì.

Le prese il capo fra le mani artigliate, cominciando ad accarezzarla, attento a non farle male. Le posò diversi baci sul viso, sulle guance, sugli occhi, sui capelli.

- Catherine…- sussurrò sorridendo, posando una guancia sui capelli corvini della ragazza.- Catherine, tu…tu sei tornata…

Sembrava non importargliene niente del fatto che fosse ferito, che stesse male. La ragazza, invece, si sentì salire le lacrime agli occhi.

- Adrian…- mormorò, con disperazione.- Adrian, tu…sei ferito, dobbiamo…

Il mostro emise un altro gemito, e le ginocchia non lo ressero. La ragazza lo sostenne per la vita, aiutandolo a distendersi sul pavimento. Gli tenne un braccio intorno alle spalle, mentre il mostro poggiava il capo contro una sua spalla. Continuava a sorridere, sembrava non accorgersi di nulla, eppure era chiaro come il sole che stava male.

Catherine guardò la ferita: Dio mio, era così profonda! E continuava a sanguinare!

Cercando di tenere a freno le lacrime, la ragazza strappò un abbondante pezzo del suo abito, premendo la stoffa contro la ferita in modo da fermare il sangue.

- Aspettami qui!- disse, con la voce rotta.- Adrian, dobbiamo chiamare qualcuno…hai bisogno di un medico…

- No…- gemette il padrone.

- Fammi solo avvertire gli altri, manderò Peter o mio padre a cercare un medico, ma tu ora…

- No!- fece il mostro, con più forza. La trattenne per un braccio.- No, ti prego…resta…resta con me…

Catherine avrebbe voluto obiettare, ma quella richiesta così disperata, proprio nel momento in cui Adrian stava morendo, le tolse ogni capacità di resistenza. Iniziò a piangere, tenendo fra le braccia il mostro e chinandosi lievemente su di lui, in modo da avvicinare il proprio viso al suo.

- Mi dispiace tanto, Adrian…- singhiozzò.- E’ solo colpa mia…ho cercato di avvisarti, non ce l’ho fatta…è colpa mia se ti hanno ferito…

- Shhht…- sussurrò dolcemente il padrone, senza smettere di guardarla.- Non dire così, non è vero…

- Perdonami…- disse Catherine, chiudendo gli occhi nel vano tentativo di frenare le lacrime.- Perdonami, se solo…se solo non mi fossi comportata come una stupida…se solo avessi capito prima che…

Si bloccò; era inutile piangere e rimuginare su quello che sarebbe potuto essere, ma proprio non riusciva ad impedirselo, ora che Adrian stava morendo, ora che sapeva che l’avrebbe perso per sempre…

- Sì - disse d’un tratto, con la voce ferma, guardandolo negli occhi.

- C-come?- ansimò il mostro, non capendo.

- La mia risposta è sì - Catherine si sforzò di sorridere, accarezzando lievemente il volto ibrido di Adrian.- Voglio sposarti, Adrian.

Il padrone sorrise, chiudendo gli occhi per un istante, per poi tornare a guardare la ragazza. Non voleva perdere nemmeno un attimo di lei, sapendo che, ora che stava per morire, non l’avrebbe più rivista.

- Ti prego, non morire…- sussurrò Catherine, con la voce rotta.- Promettimi che starai bene…promettimi che guarirai, che vivrai per me…ti prego, Adrian, fallo per me…- ricominciò a piangere.- Non puoi lasciarmi…non puoi lasciarmi proprio adesso che…

Non riuscì a terminare la frase, scossa dai singhiozzi.

Adrian non rispose, ma continuò a sorridere. Sollevò lentamente una mano artigliata, sfiorandole una guancia e delle ciocche dei capelli corvini.

- Grazie, Catherine…- soffiò.- Grazie per essere riuscita a cambiarmi…grazie per aver portato un po’ di luce nella mia vita, grazie per avermi fatto innamorare di te…Grazie per essere tornata. Non avrei potuto desiderare altro, prima di morire…ho potuto vederti…per…l’ultima…volta…

Il mostro abbassò la mano; Catherine lo vide poggiare il capo contro la sua spalla, quindi chiudere gli occhi, per non riaprirli più.

- No!- singhiozzò la ragazza, stringendosi più a lui.- No…Adrian…ti prego, dimmi qualcosa…ti prego, apri gli occhi…Adrian…no…- Catherine affondò il volto nell’incavo fra il suo collo e la spalla, stringendolo di più a sé.- Adrian…non lasciarmi…ti prego, non lasciarmi…

Iniziò a cullarlo piano, molto lentamente, cercando di sentirsi più vicina a lui. Non poteva essere accaduto per davvero…Adrian non poteva davvero essere morto…L’aveva perso per sempre, non avrebbe mai più rivisto quegli occhi azzurri, non avrebbe mai più potuto stare con lui, proprio adesso che aveva capito che…

Sollevò il viso rigato dalle lacrime, guardando il volto mostruoso e immobile di Adrian. Lo accarezzò lievemente, tracciando tutto il suo profilo.

- Ti amo…- sussurrò, chinandosi su di lui e posandogli un lieve e dolce bacio sulle labbra.

Lo strinse ancora di più a sé, riprendendo a singhiozzare.

D’un tratto, una brezza leggera iniziò a soffiare nella stanza. Catherine non ci badò, nemmeno se ne accorse, ma quel che era certo era che quel venticello fresco non proveniva dall’esterno del castello. La brezza iniziò a scompigliare impercettibilmente i capelli della ragazza, insinuandosi fra lei e il mostro. Solo in quel momento Catherine se ne accorse, e sollevò piano il capo.

In lontananza, le parve di udire il suono di una voce calda e dolce, una voce femminile dal timbro chiaro e rassicurante.

La voce di sua madre.

Ricorda che l’amore è come una magia. E’ in grado di affrontare qualunque cosa, di sconfiggere ogni avversità. L’amore è persino più forte della morte.

Catherine fece appena in tempo ad udire le parole di Lady Elizabeth che la sua voce era già sparita, e con essa anche quella brezza leggera. La ragazza tornò a guardare il corpo del mostro: la chiazza di sangue era sparita!

Adrian gemette. Catherine sentì un tuffo al cuore, mentre sul volto ibrido del mostro tornava la vita, e quegli occhi azzurri si aprivano ancora una volta per guardarla con amore.

Adrian si sollevò a sedere, apparentemente frastornato. Catherine boccheggiò, senza staccare lo sguardo dal volto mostruoso. Il padrone sollevò lentamente lo sguardo, incrociando quello esterrefatto e incredulo della ragazza.

- Catherine…- sussurrò, mentre le sue labbra si aprivano nel sorriso a denti aguzzi che la giovane aveva imparato ad adorare.

- Oh, Adrian!- senza dargli tempo di dire o fare alcunché, Caherine gli gettò le braccia al collo, cominciando a baciarlo con foga, baci a cui Adrian, benché ancora un po’ frastornato, rispose con slancio. Ai baci focosi si sostituirono, dopo poco, altri più dolci e lievi, quindi Catherine tornò ad abbracciarlo, ridendo e piangendo insieme.

- Sei vivo…- sussurrò contro la sua spalla.

Il mostro sorrise, accarezzandole i capelli neri con le sue mani artigliate. La ragazza si staccò, guardandolo negli occhi.

- So che è merito tuo…- disse Adrian.- Ma…ma come hai fatto?

Catherine scosse il capo con vigore.

- Non lo so e non m’interessa!- rise.- Quello che m’importa è che ora tu sia di nuovo qui con me…

Cercò di baciarlo ancora, ma il padrone si ritrasse lievemente, guardandola negli occhi.

- Ma…ma io ora non posso più tornare umano!- disse.

Catherine sorrise, accarezzandolo sul volto.

- Non m’importa - dichiarò fermamente.- Non me ne importa nulla del tuo aspetto, Adrian…

- Ma io sono un mostro, Catherine.

- Tu non sei un mostro!- esclamò la ragazza.- Ci sono esseri ben più mostruosi di te, al mondo, dovresti averlo capito. Tu non sei un mostro, Adrian - ripeté.- Tu sei l’uomo più bello che io abbia mai incontrato…e ti amo…- concluse, un po’ timidamente.

Adrian sorrise, attirandola a sé.

- E io amo te…

Senza aggiungere altro, Adrian la baciò. Fu un bacio lungo, intenso, ad occhi chiusi, pieno d’amore. L’amore che aveva sconfitto anche la morte.

 

Angolo Autrice: Ehm…lo so, molti di voi si sarebbero aspettati la tradizionale metamorfosi nel bel principe, ma…Lasciatemi dire due paroline di spiegazione, a questo proposito: la trasformazione nel bellone non mi ha mai convinto perché, okay che l’amore vede dietro le apparenze e sconfigge la maledizione, ma ciò non toglie che la Bella s’era innamorata della Bestia, non del Principe…e d’accordo che l’aspetto fisico non conta (guai se contasse, in questa storia), però anche quello vuole la sua parte, e credo che se mi trovassi al posto della Bella e m’innamorassi di un mostro, e dopodiché mi arrivasse un principe totalmente diverso…Insomma, penso che avrei bisogno di un po’ per abituarmi, per “innamorarmi” di questa nuova versione, e mi sembrerebbe di avere di fronte un estraneo…Senza contare che mi sono troppo affezionata a questa versione di Adrian, non avevo cuore di cambiarlo, secondo me (e dimenticate un attimo che l’ho inventato io) lui è perfetto così, lui e Cathy stanno bene così come sono, sono “Il mostro e la fanciulla” e devono rimanere tali J.

Spero di non aver deluso nessuno con questa novità…se sì, chiedo umilmente perdono J.

Ringrazio tutti coloro che leggono, aithusa87 per aver aggiunto questa storia alle seguite, historygirl93 per averla aggiunta alle ricordate e per aver recensito, e Martychan97, little_drawing, Halley Silver Comet, Selvaggia_1D e Sylphs per aver recensito.

Vi aspetto tutti con l’epilogo!

Ciao, un bacio,

Dora93

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Capitolo 23
*** Epilogo ***


 

Il mercante aiutò Adrian ed Ernest a rimuovere il cadavere di Lord William dalle inferiate del cancello. Quel che restava del corpo carbonizzato di Lady Julia venne spostato dai sotterranei da Catherine e Constance. Il mercante si rifiutò di vederla.

Entrambi vennero trasportati al di fuori del maniero e portati nella foresta. Ormai, la voce di ciò che era successo si era sparsa in paese, e il parroco non avrebbe di certo voluto seppellire nel proprio cimitero i corpi di un assassino e di una strega; e, in ogni caso, nessuno sarebbe mai venuto a reclamare le loro salme.

Scavarono una fossa nel folto della foresta, dove nessuno avrebbe potuto raggiungerla, e vi gettarono dentro i corpi. Benché consapevole che quello fosse un atto ben poco cristiano, Catherine non si sentiva di sprecare una sola preghiera per quei due esseri diabolici, e così anche Adrian e tutti gli altri. Fu solo grazie all’anima pia di Lydia che quella tomba scavata nella terra non rimase una semplice fossa: su insistenza della donna, Ernest intagliò una rozza croce di legno, che piantò nel terreno poco distante. Rosalie, spinta dal suo animo ingenuo e buono, recitò sottovoce un breve requiescant in pace. Questo fu tutto. Catherine, Adrian e tutti gli altri se ne andarono dopo qualche minuto, senza voltarsi, senza provare dispiacere o rimorso.

La tomba di Lord William e Lady Julia rimase una semplice croce di legno piantata su di un cumulo di terra, destinata all’oblio e alla solitudine nell’oscurità e nel silenzio della foresta.

Henry si riprese dopo poco; le ferite ricevute erano state molto profonde, ma guarirono molto presto, grazie alle cure solerti e un po’ burbere di Lydia e Constance. Quello a cui non si era potuto rimediare era stato il suo orecchio mozzato, ma presto il ragazzo aveva trasformato quella mutilazione in una storia su cui scherzare e far ridere Rosalie con qualche battuta. Tutti, Catherine per prima, si sarebbero aspettati che riprendesse la sua vita di sempre, ma si sbagliavano.

Poco dopo la conclusione di quella rocambolesca avventura, tutti al maniero non poterono fare a meno di notare che il mercante e Adrian trascorrevano sempre più tempo chiusi nello studio di quest’ultimo. A poco servirono le sbirciatine dal buco della serratura da parte di Rosalie e Peter, le domande sempre più insistenti di Catherine, le supposizioni di Constance: nessuno seppe nulla di nulla fino a che, un giorno, stupendo tutti gli abitanti del maniero, il mercante uscì dallo studio di Adrian camminando a mezzo metro sopra il suolo e annunciando che finalmente avrebbe potuto riprendere i suoi commerci. Adrian gli aveva fornito il denaro necessario per finanziare una nave e comprare dei prodotti, accettando una parte del guadagno.

Catherine non fece in tempo a gettargli le braccia al collo, che Henry si offrì per essere a capo della spedizione. Il ragazzo era consapevole che, benché tutto fosse finito per il meglio, quello che aveva fatto non poteva essere cancellato; per anni aveva creato alla sua famiglia solo dei guai, fino ad arrivare a vendere Catherine per salvarsi la pelle. Sebbene nessuno lo avesse detto apertamente, Henry sapeva di essere stato silenziosamente perdonato, ma questo non gli bastava. Per una volta tanto, voleva dimostrare di valere qualcosa, di non essere solo un semplice rompicollo.

Ci furono parecchi dubbi all’inizio, infinite discussioni, ma alla fine il mercante si mise una mano sul cuore e acconsentì. Henry s’imbarcò alla volta dell’India il mese seguente; a Catherine, che lo stava abbracciando in segno di saluto, rivolse un sorrisetto complice.

- Tranquilla, sorellina. Dovessi anche attraversare l’oceano a nuoto, sarò di ritorno per il tuo matrimonio.

Catherine non tornò a casa; si trasferì al maniero di Adrian, e così fecero anche suo padre, Rosalie e Lydia. Il padrone era felice che la donna che amava fosse felice, Constance era contenta di avere una mano in più in casa e Peter e Rosalie ormai erano praticamente inseparabili.

Tutto sembrava andare per il meglio, ma la quiete non tardò a cessare.

Sin dalle prime settimane cominciò ad aleggiare al maniero un problema che, benché apparentemente banale, si rivelò così scottante da divenire una specie di questione di stato: il matrimonio.

Ora, sebbene Catherine amasse Adrian e gli avesse risposto di sì, la ragazza non sembrava avere alcuna fretta di convolare a nozze, e lo stesso valeva per il padrone. Passato il timore di venire respinto e rifiutato, Adriana aveva assunto anch’egli un atteggiamento pacato e ben poco frettoloso, ed entrambi si divertirono per un po’ a trascorrere le giornate senza grandi progetti, così come lo erano state quelle della prigionia di Catherine.

- In poche parole - aveva commentato Constance una sera a cena.- Stanno giocando a fare i fidanzatini.

La cosa di per sé non avrebbe suscitato grande scalpore, d’altronde sarebbe risultato troppo strano che Catherine, dopo aver rifiutato per anni di sposarsi, si smentisse proprio ora; quando li vedevano scambiarsi qualche tenerezza, Constance ed Ernest si guardavano compiaciuti, il mercante sorrideva e fingeva di non aver visto nulla, Rosalie li osservava di nascosto con aria sognante – con enorme imbarazzo di Peter.

L’unica a non gradire tutto ciò era Lydia. La vecchia balia, sempre fedele ai suoi principi cattolici e religiosi, aveva già trovato scandaloso il fatto che una signorina perbene andasse a vivere con un uomo che non era suo marito, e questo continuo scambio di baci e tenerezze senza uno straccio di anello al dito non faceva che turbarla profondamente nella sua morale.

Non perdeva occasione per parlare di matrimonio e giuramento di fronte a Dio, di raccontare delle nozze di questa o quest’altra signorina, di riferire a Catherine l’apertura di ogni sartoria per abiti da sposa nei dintorni e non del maniero. Alle volte, quando scorgeva la signorina e il padrone scambiarsi un bacio, o anche solo un abbraccio un po’ troppo intimo per i suoi gusti, non riusciva a trattenersi e correva a dividerli con malgarbo.

- Ma insomma, se proprio non riuscite a stare lontani, sposatevi, una buona volta!- borbottava, fra le risate divertite dei due.

Tuttavia, Lydia ebbe modo di calmarsi e compiacersi brevemente a causa di un altro matrimonio.

Il mercante, infatti, trascorse diversi mesi senza riuscire a riprendersi dal tradimento di Lady Julia. Benché il loro fosse stato nulla più che un matrimonio di convenienza, l’uomo alla fine si era affezionato a lei, le aveva dato fiducia, e ora proprio non riusciva a capacitarsi di quello che la strega aveva fatto. Catherine e Rosalie tentarono di stargli vicino, di consolarlo, ma era evidente che, per quanto volessero bene al padre, non potevano capire fino in fondo quello che stava passando.

L’unica che riuscì a tirarlo su di morale fu, inaspettatamente, Constance. La donna capiva meglio di chiunque altro cosa provasse il mercante; anche lei, da giovane, era stata tradita e ingannata da un marito che l’aveva abbandonata sola, povera, e con un figlio da crescere.

Tutti, al maniero, assistettero giorno dopo giorno al loro avvicinamento, senza riuscire a capire se si trattasse di semplice solidarietà, amicizia, o qualcos’altro…Fatto sta che, col tempo, il mercante ridivenne più allegro e Constance meno bacchettona.

Quando una sera, a cena, la donna indossò l’abito che Catherine le aveva regalato a Natale e che aveva definito troppo bello per lei, allora ogni dubbio venne spazzato via.

Constance e il mercante convolarono a nozze poche settimane dopo.

- Tecnicamente, ora Rosalie ed io abbiamo un fratello…- commentò Catherine, la sera delle nozze, seduta in biblioteca con Adrian.- Un bel guaio…

- Perché? Peter è un ragazzino in gamba, lo sai…

- Sì, certo, è solo che stavo pensando a mia sorella…

- Oh. Capisco - Adrian ghignò maliziosamente.- Lydia lo sa che Rosalie e Peter sono…ehm…fidanzati, diciamo?

- Sì, e ha già fatto un mucchio di scongiuri - rise la ragazza.- Povera Lydia, alla sua età non dovrebbe agitarsi così…Prima il fatto che io e te viviamo insieme senza essere sposati, e ora questo…

- Già. Forse dovremmo fare qualcosa per alleviare le sue sofferenze…- mormorò Adrian, facendosi improvvisamente serio.- Non darle più così tante preoccupazioni per le nostre anime da peccatori…

- Che intendi dire?- fece Catherine.

Adrian si voltò a guardarla.

- Dicevi sul serio, quella notte?- le chiese.- Dicevi sul serio quando hai detto di amarmi e che volevi sposarmi nonostante…beh, questa…- e indicò la sua faccia.

Catherine lo guardò, in silenzio. Adrian aveva ormai quasi accettato il suo aspetto, ma in cuor suo temeva ancora che lei non riuscisse ad accettarlo per come era. La ragazza osservò attentamente il suo viso, ricordando improvvisamente che, da quella notte, non aveva più sognato il bel giovane. Poco male, si disse. L’aveva incontrato di persona. Non le importava che Adrian non fosse come nel suo sogno. Lei lo amava così com’era, e lo avrebbe amato comunque, sia che il suo viso fosse affascinante e attraente, o ibrido e mostruoso. Per lei, era sempre bellissimo.

Gli sorrise, rassicurandolo.

- Ancora me lo chiedi?- scherzò.- Ancora hai dei dubbi?

- No, è che…mi piace fare le cose per bene…- sorrise il padrone. Catherine gli avvolse le braccia intorno alle spalle.

- E quindi…?- lo incoraggiò.

- Quindi…Catherine, vuoi sposarmi?- chiese Adrian.

La ragazza gli sorrise, radiosa.

- Sì.

 

***

 

Quel giorno il maniero era in completo trambusto. Di fatto era quasi tutto pronto, ma Lydia ed Ernest continuavano ad affannarsi su e giù per il castello alla ricerca di qualcosa che, sospettava Catherine, nemmeno loro sapessero bene cosa fosse. Il mercante aveva iniziato fin dalla mattina presto a saltellare da una stanza all’altra con aria agitatissima, e solo un ammonimento secco della moglie era riuscita a farlo calmare almeno un po’.

- Sei una matrigna veramente perfida, Constance…- scherzò Catherine, all’ennesimo strattone che la donna aveva dato al suo corsetto.

Constance sbuffò, con la sua solita aria affaccendata. Indossava un abito rosa chiaro semplice ma elegante, e i capelli erano annodati in uno chignon.

- Nel caso tu te lo sia dimenticato, Cathy, stanno tutti aspettando te…

- Ah, sì? E chi l’ha detto?- rise la ragazza.

- Beh, nessuno, però non so tu, ma io non ho mai visto un matrimonio senza la sposa…

- Uhm…sì, forse hai ragione…

Per quanto si sforzasse, Catherine non riusciva a smettere di sorridere.

- Non fare tanto la spiritosa, piuttosto, e vieni ad indossare il vestito.

L’abito da sposa di Catherine era di seta e tulle, molto semplice ma ugualmente bellissimo. Il corpetto era ricamato con ghirigori argentati, le maniche erano a sbuffo e un velo bianco sul capo completava l’opera.

- Sei pronta?- il mercante si affacciò sulla soglia della porta. Constance lo guardò severa.

- Che fine ha fatto la cara vecchia abitudine di bussare, prima di fare irruzione in una stanza dove ci sono delle signore?

Il mercante le schioccò un bacio sulle labbra.

- Scusa, amore…Allora, Cathy, sei pronta?- ripeté.

- Sì, papà…

Il mercante la prese sottobraccio.

- Ho sempre sognato di accompagnarti all’altare…Constance, tu ci aspetti di sotto?

- Va bene, ma vedete di non fare tardi, almeno oggi!

Il mercante e la figlia si scambiarono un’occhiata, sorridendo, quindi scesero al piano di sotto.

Il salone del maniero era stato preparato appositamente per la festa. Tutt’intorno si vedevano fiori e decorazioni bianche, intervallate qua e là da qualche seggiola su cui erano sistemati i pochi invitati. A parte il parroco, tutti i presenti facevano parte della famiglia, e per i due sposi avere vicino le persone che amavano era tutto ciò che si potesse desiderare.

Tutti avevano indossato i loro abiti più eleganti per l’occasione. Lydia aveva un vestito blu scuro un po’ fuori moda, ma comunque molto grazioso, mentre Ernest esibiva il suo completo migliore, rigido e impettito in una camicia bianca con pantaloni, giacca e panciotto neri – praticamente già pronto per la bara!, aveva commentato Constance. Henry aveva mantenuto la sua promessa, ed era in prima fila, con un sorriso che mai nessuno gli aveva visto in viso prima. Rosalie, nel suo migliore abito di broccato rosso scuro e i capelli biondi raccolti in una treccia, stava tentando disperatamente di sistemare il papillon a Peter, il quale non riusciva a smettere di agitarsi nel suo abito elegante troppo stretto che continuava a dargli prurito dovunque. La ragazzina smise il suo lavoro non appena sentì le porte del salone aprirsi. Tutti quanti, compreso Adrian, già in piedi sull’altare, si voltarono a guardare Catherine che, bellissima nel suo abito da sposa, faceva il suo ingresso al braccio del mercante, il quale si stava impegnando con tutte le sue forze per non mettersi a piangere.

Giunta all’altare, la ragazza e il padrone si scambiarono uno sguardo pieno di amore e colmo di parole; quasi non ci fu bisogno della cerimonia del prete perché, ancor prima di aver detto lo voglio e di essersi scambiati le fedi, il mostro e la fanciulla erano già sposati, uniti nel cuore e nell’anima.

Alle parole del prete può baciare la sposa, Adrian non esitò nemmeno un attimo ad ubbidire, e tutti esplosero in un applauso. Catherine e il padrone risero contenti, mentre Constance porgeva un fazzoletto al marito, che era scoppiato a piangere.

Quando venne il momento del lancio del bouquet, Catherine si voltò di spalle, ma riuscì comunque a barare; seguendo la traiettoria riflessa in uno specchio, la ragazza gettò il mazzo di gigli in modo che finisse dritto nelle mani della sorella. Rosalie afferrò il bouquet e iniziò a saltellare di gioia, per poi abbracciare Peter.

- Beh, era ora che si sposassero…- commentò Lydia, soddisfatta.

Ernest la guardò con un sorrisetto.

- Già, concordo pienamente. Però è strano…Tutto questo tempo a fare i fidanzatini, e poi si sposano così in fretta e furia…

- E cosa c’è di strano?- fece Lydia.

- Beh, chi lo sa…magari diverranno genitori molto prima del previsto…o forse lo sono già e noi non lo sappiamo…

Lydia lo guardò scandalizzata.

- Ma come vi permettete?! Dieci Ave Maria e dieci Pater Noster, maleducato che non siete altro!

Catherine e Adrian scoppiarono a ridere, quindi si guardarono negli occhi e, senza aggiungere altro, si scambiarono un lungo bacio d’amore.

Oggi sono trascorsi dieci anni. Il mercante e Constance vivono ancora al castello, e stavolta sono certi di aver trovato il compagno della loro vita. Ernest e Lydia, invece, dopo essersi sposati, hanno deciso di lasciare il servizio dei loro padroni e di ritirarsi in campagna, ma spesso tornano al maniero per una visita. Recentemente, Rosalie e Peter si sono sposati, e ora il ventre della ragazza non è più piatto come una volta; tutti si divertono ad immaginare se il nascituro sarà maschio o femmina, e i due giovani genitori sono su di giri per la felicità.

Henry ha messo la testa a posto, e continua a viaggiare per mare. Si è innamorato di una ragazza portoricana che ha sposato e che gli ha donato tre figli.

Adrian e Catherine vivono felici, ancora innamorati l’uno dell’altra come la prima volta. Ora tutta la famiglia è riunita in giardino. La padrona di casa porge da bere a sua sorella, ma intanto non perde d’occhio una bambina di sei anni che sta giocando con Adrian poco distante.

Catherine guarda suo marito e sua figlia, e si sente riempire gli occhi di lacrime di commozione. Un tempo non avrebbe pensato che sarebbe stato possibile tutto questo, e invece ora sente di non avere nulla di più da chiedere alla vita. Quando era rimasta incinta, Adrian aveva temuto che la maledizione di Lady Julia avesse potuto colpire anche il nascituro, ma così non era stato. Il loro amore, il cui frutto era la loro bambina, era stato più forte di qualunque incantesimo.

Sua figlia aveva una pelle di porcellana come la sua, i capelli castani e gli occhi azzurri come il padre. Aveva la sensibilità e la dolcezza di Adrian, ma anche il carattere forte e deciso della mamma. Catherine aveva voluto darle il nome di sua madre: Elizabeth.

Catherine sapeva che, in qualche modo, sua madre l’aveva aiutata a realizzare tutta quella felicità di cui poteva godere ora. Non sapeva bene come, ma era certa che fosse così.

E ora, Catherine poteva dire di essere veramente felice, perché aveva imparato ad amare più di se stessa, andando contro le apparenze e i pregiudizi, costruendo insieme ad Adrian una vita di felicità e amore.

 

FINE

 

Angolo Autrice: Ed ecco qui il prologo di cui, lo ammetto in tutta sincerità, non sono affatto convinta…Spero di non essere stata troppo sdolcinata, se sì, chiedo umilmente perdono!

Dunque, che dire? Ho pensato che il nome della bambina non potesse essere diverso da quello della madre di Cathy, e così…

Nulla da aggiungere…A parte il fatto che mi sento tristissima…sigh…cavoli, è vero che una storia prima o poi deve finire, ma mi ci ero così affezionata, per me è quasi come un figlio…L.

Grazie a tutti quanti per avermi seguito fin qui. A questo proposito, siccome la storia è finita e non ho più nulla da perdere (se non la mia dignità di fanwriter che, comunque, è già andata dispersa da tempo immemore…XD), voglio togliermi lo sfizio di fare come nei film: TITOLI DI CODA! Non prendetemi per pazza, immaginate una musica che vi piace in sottofondo e, in quanto ad alcune note accanto ai nick, non preoccupatevi, i diretti interessati capiranno.

 

A Special Thanks to:

 

Martychan97

 

historygirl93 (e al suo sesto senso)

 

Halley Silver Comet

 

Selvaggia_1D

 

Sylphs (e a Raphael)

 

Black Fairy

 

CiUffEttA

 

cola23

 

desyyy

 

DQPVF

 

little_drawing (e a Winnie de Pooh)

 

Flaren

 

hanon993

 

jekikika96

 

mutilla

 

LaFenice

 

Nimel17

 

aithusa87

 

Alex_J

 

BizarreBiscuit

 

castilla

 

Chococat97

 

denise26

 

Ishimaru

 

KatherineDebMcLee

 

keikoten

 

La ragazza in BlueJeans

 

LadyAndromeda

 

LadySerpeNera

 

Lisa95

 

marzo2000

 

May Des

 

Niglia

 

Renesmee94

 

rosaa93

 

_Xelix_

 

Un grazie inoltre a:

 

Il Fantasma dell’Opéra e il Gobbo di Notre Dame

e i rispettivi autori Gaston Leroux e Victor Hugo

 

Le autrici LePrince de Beaumont, Villeneuve, Carter e Flinn,

dai cui libri:

 

La Bella e la Bestia

 

La corte di Mr. Lyon

 

La sposa della tigre

 

Beastly

 

ho preso ispirazione.

 

Infine, un grazie ad Adrian, Catherine, Rosalie, Peter, Constance, il mercante, Ernest, Lydia, Lord William e Lady Julia, e a tutti gli altri personaggi de Il mostro e la fanciulla.

 

 

 

Grazie di nuovo a tutti per avermi seguito fino a qui.

Alla prossima!

Un bacio,

Dora93

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