La moglie dell'orco

di Sylphs
(/viewuser.php?uid=162627)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Isadora ***
Capitolo 3: *** Un innegabile senso dell'orientamento ***
Capitolo 4: *** Il patto ***
Capitolo 5: *** Caro padre ***
Capitolo 6: *** Arrivo al maniero ***
Capitolo 7: *** Pulizie di casa ***
Capitolo 8: *** La goccia che fa traboccare il vaso ***
Capitolo 9: *** Racconti notturni ***
Capitolo 10: *** Una gita a tre ***
Capitolo 11: *** Il cacciatore e la sua preda ***
Capitolo 12: *** La felicità non dura ***
Capitolo 13: *** Come tutte le altre ***
Capitolo 14: *** Alla locanda ***
Capitolo 15: *** Lo voglio ***
Capitolo 16: *** L'utilità di un topo di campagna ***
Capitolo 17: *** Sogni d'oro! ***
Capitolo 18: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


PROLOGO

 
 
 
 
 
 
I bambini stavano giocando tutti insieme con la palla nella piazza del paese. Correvano, veloci e sorridenti, sulle piastrelle bianche, circondati da una cerchia di casupole di paglia e di catrame, col tetto di paglia e la porta di legno marcio. Anche loro, magri e allampanati, facevano pendant con la semplicità del posto. Erano tutti a piedi nudi, bambini dai cinque agli undici anni, vestiti poveramente, con giubbe piene di toppe, pantaloni sudici rimboccati al ginocchio e berrettini malconci. Tuttavia, sui loro volti sporchi si vedeva una felicità malcelata.
Si passavano agilmente una grande palla costruita con dei giunchi secchi. La squadra che non era in possesso della palla doveva intercettarla ed impadronirsene, sottraendola agli avversari. Sedute su una panchina solitaria, delle bambine osservavano i maschi con annoiato interesse, intrecciando coroncine di fiori con cui adornavano le chiome e i vestitini rattoppati. Una di loro, una biondina con i capelli lunghi e il vestito rosa un po’ meno malandato di quello delle altre, portava un grande cappello di paglia in testa.
Un bambino con una zazzera di arruffati capelli rossi e un viso ricoperto di lentiggini schivò l’avversario che tentava di sottrargli la palla e si girò un po’ di qua un po’ di là alla ricerca di un compagno smarcato. Diversi suoi compagni di squadra si sbracciavano e strepitavano per attirare la sua attenzione. Il ragazzino lentigginoso ne individuò uno dall’aria sveglia che faceva ampi gesti da un angolo della piccola piazzetta e gli lanciò la palla con tutta la forza che aveva.
Quella volò oltre le otto teste levate all’insù. Il bambino a cui era stata lanciata saltò per afferrarla, ma la mancò di poco e la palla venne inghiottita dalle ombre del piccolo vicolo che sbucava sulla piazza. I bambini strepitarono, delusi:
“Josh! Era una palla facile! Stupido pasticcione!”
Il bambino chiamato Josh arrossì e chinò la testa. Si voltò per andare a recuperare la palla, ma dovette bloccarsi: dal buio del vicolo emerse, lentamente, con andatura quasi ieratica, un uomo che stringeva la loro palla tra le mani.
Già a vederlo risultò ai bambini uno strano individuo: non era molto alto ed era di corporatura rotonda. Portava addosso una palandrana marrone piena di buchi che terminava in un cappuccio calato a nascondergli completamente il viso. Camminava in modo strano, ondeggiando su se stesso come un pinguino, i piedi rivolti in fuori come quelli di una papera. Più di un bambino dovette soffocare una risatina.
“È vostra?” chiese l’uomo, sollevando la palla. Aveva una bellissima voce, piena di enfasi e di sfumature, profonda e musicale come un canto sommesso. Una voce senza età, che poteva appartenere tanto ad un giovane quanto ad un vecchio. D’altronde il cappuccio creava dubbi riguardo a questo. I bambini, ammutoliti, annuirono. L’uomo sorrise sotto al cappuccio e tirò la palla a Josh, che la prese al volo: “Dovreste fare più attenzione alle vostre cose, se ci tenete”-
“Sissignore”.
L’uomo annuì e fece per tornarsene indietro…ma venne preso da un’esitazione, e finì per rivolgersi ancora ai bambini: “Forse mi potete aiutare. Sapete dove posso trovare una locanda rispettabile per passarci la notte?”
I bambini si guardarono l’un l’altro, poi una delle bambine, che erano corse a vedere cosa stava succedendo, chiese: “Siete straniero, signore?”
“Sì. Vengo da molto lontano” replicò l’uomo, lieto dell’interesse dimostrato dalla bambina. Fece alcuni passi con la sua andatura caracollante, e con un sospiro di sollievo si lasciò cadere sulla panchina e depose il fardello che finora aveva portato sulla schiena. Per questo camminava così storto: trasportava qualcosa, qualcosa che i bambini non avevano visto. La osservarono curiosamente: era una piccola arpa di bronzo, intagliata in modo piuttosto semplice, con corde di finissimo spago marrone. Il bambino dai capelli rossi saltò su: “Ehi, avete un’arpa! Siete un cantastorie?”
Ebbe l’impressione che l’uomo gli rivolgesse un ampio sorriso: “Intelligente osservazione, ragazzino. Ebbene sì, sono un cantastorie”.
“Che bello!” esclamò la bambina bionda, battendo le mani: “I cantastorie raccontano le favole, giusto? Ce ne può far sentire una?”
“Adesso?” chiese il misterioso cantastorie, guardandoli dall’ombra del cappuccio. I bambini annuirono vigorosamente e lo implorarono da ogni parte della piazza:
“La prego!”
“Non viene mai nessun cantastorie, qui”.
“Tanto non abbiamo nulla da fare…”
“E va bene” si arrese il cantastorie, armeggiando con l’arpa: “In fondo ho molto tempo. Ma badate: le storie che racconto io sono molto lunghe. Potrebbe passar tutta la notte”.
“Non ci importa!” dichiarò Tom, il bambino dai capelli rossi. Il cantastorie allora si accomodò meglio sulla panchina e i piccoli ascoltatori sedettero in cerchio attorno a lui, abbandonando la palla e le coroncine di fiori e dedicandogli tutta la loro attenzione. Il cantastorie si sistemò il mantello consunto e chiese: “Dunque, quale favola vi piacerebbe ascoltare?”
I bambini ci pensarono su, poi vennero gridate diverse proposte:
“La Bella Addormentata!”
“Cappuccetto Rosso!”
“Cenerentola!”
“Pollicino!”
“No, no, no” borbottò a sorpresa il cantastorie, facendo un gesto brusco con la mano. I bambini, sorpresi, si azzittirono. Lui li trapassò uno per uno con uno sguardo intenso: “Perché raccontare una favola che voi tutti già sapete a memoria? Che gusto ci sarebbe? E poi, che ricordo vi rimarrebbe di me?”
I bambini ammutolirono. Non si aspettavano affatto una risposta simile da un cantastorie. Confabularono tra loro, poi Tom prese il coraggio a due mani e obiettò: “Ma ormai tutte le favole sono sapute e risapute, quindi tanto vale raccontarne una e farla finita”.
“Questo è quello che pensi tu” ribatté il cantastorie gentilmente: “Ma in verità vi dico che ci sono molte favole che nessuno ha mai raccontato, che sono andate perdute”.
“E voi le conoscete?” mormorò Annie, la bambina bionda. L’uomo annuì compiaciuto: “Mi vanto di essere a conoscenza di alcune di esse”.
“Ce le dica, allora. Scommetto che le conosciamo!” sbottò Tom, che a quel tipo non voleva dargliela vinta. Il cantastorie non si offese e rispose con la solita cordialità: “Qualcuno di voi conosce la favola della moglie dell’orco?”
Calò un silenzio tombale che durò diversi minuti. Tom si stava disperatamente sforzando di ricordare qualcosa che combaciasse con il titolo annunciato dal cantastorie, ma non trovava nulla. Si buttò a caso: “Intendete forse dire l’orchessa che aiutò Pollicino e i suoi fratelli a nascondersi?”
“No, no, no” ripeté il cantastorie: “Intendo dire la moglie dell’orco che…insomma, qualcuno di voi sa che molti anni fa è vissuta in questo regno la marchesina Isadora di Soledad?”
I bambini si guardarono, poi scuoterono la testa. Josh esclamò confuso: “Ma questo regno non si chiama Soledad!”
“Un tempo sì” disse il cantastorie: “E dovreste saperlo! Ma ora fate silenzio e prestate attenzione. Vedo che non conoscete questa storia. Sarò io a raccontarvela”.
“Scommetto che sarà orribile e noiosa” sbraitò Tom, incrociando le braccia sul petto. A lui sarebbe andato bene solo un Pollicino. Il cantastorie gli sorrise: “Se non ti và di stare a sentire, nessuno ti obbliga a rimanere, Tom”.
“Come conosci il mio nome?!” strepitò il ragazzino. Ma poiché il cantastorie non rispondeva, e tutti gli altri bambini erano rapiti al pensiero di ascoltare una nuova storia, si arrese con un sospiro a rimanere lì e prestò attenzione a quanto stava dicendo il bizzarro soggetto: “Molto tempo fa, in un regno lontano lontano, chiamato Soledad…”

 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Isadora ***


CAPITOLO 1

 
 
 
 
 
 
Molto tempo fa, in un regno lontano lontano, chiamato Soledad, il marchese che lo governava era appena tornato a casa dopo una lunga assenza causata dai suoi infiniti affari esteri. Era dovuto andare in campagna, ad occuparsi di una faida tra due contadini, perché era sempre opportuno aiutare il popolo per averlo come alleato, ed era stato via per una settimana intera.
A bordo del suo sontuoso calesse rosso con bordature d’oro, con il frustino stretto nella mano grassoccia e i due destrieri bianchi dinnanzi, assaporò a lungo l’aria afosa di Soledad, che non cambiava mai, nemmeno in inverno. Le case, ordinate e pulite, erano attaccate l’una all’altra, coi loro balconcini fioriti, le loro porticine colorate e le tendine ricamate. I bambini giocavano per le vie terrose, i vecchi sedevano all’ombra di qualche albero, e le carrozze sfrecciavano sulla strada della cittadina. Il marchese, scrutando tutto questo coi suoi tondi occhi pallidi, si sentì rinascere. Era buffo: già anziano, aveva un ventre rubicondo, canuti capelli ricci e grigi e un faccione flaccido, che però aveva innegabilmente un’aria docile e buona. Un paio di baffoni bianchi gli adornava il labbro superiore. Indossava un panciotto ricamato che si tendeva sul pancione e calzoni di pelle.
Pregustava l’attimo in cui sarebbe entrato nella sua adorata magione, in cui i domestici gli avrebbero preparato un pasto caldo e adagiato addosso una coperta. Avrebbe anche potuto rivedere Isadora, che aveva compiuto gli anni mentre lui era via, le avrebbe dato il regalo che le aveva comprato. Sorrise tra sé e sé. Non appena entrò in Soledad, una folla di bambini e di popolani si accalcò intorno al calesse, inneggiandolo e gridandogli la gioia che tutti provavano per il suo ritorno. Il marchese si rattrappì nella sua modesta persona, infilò una mano nelle vesti, ne trasse una manciata di sonanti fiorini e la gettò in direzione della folla. Tutti si lanciarono per arraffarne quanti potevano. Il marchese fece un cerimonioso cenno di saluto e passò oltre, infilandosi nelle vie nobiliari di Soledad, dove i villini erano magnifici e barocchi, i cancelli erano preceduti da statue di marmo e la gente andava in giro in vesti ricche e pretenziose. Da quando era arrivato lì, molti anni prima, non era cambiato niente.
Il calesse giunse in vista della villa del marchese, che la fissò adorante: era un imponente palazzo di marmo bianco, con balconi floreali e statue d’erba nel vasto giardino che incorniciavano l’enorme portone in legno di ciliegio con incastonate borchie d’ottone e di bronzo.  Era lì che viveva, e da lì che sua moglie, allora una ragazza vivace e piena di voglia di vivere, era fuggita, ignorando le grida inorridite del marito e i vagiti della figlia. Il marchese si era risposato tanti anni dopo con una donna che era il contrario della prima: chiusa, ossessivamente religiosa, amante della solitudine e del raccoglimento. Lui aveva sperato e sperato che si trovasse bene con Isadora, ma la figlia aveva preso molto dalla madre e non comprendeva i limiti che Natalie, la matrigna, le imponeva. Comunque, Natalie era sempre ammalata o chiusa nella sua stanza, per cui gli abitanti della villa, compresa Isadora, la vedevano molto di rado.
Quando il calesse del marchese fu visibile, le imposte vennero spalancate da cameriere che si sporsero ad agitare i fazzoletti in segno di saluto, e il portone aperto da una folla di servitori in livrea che si accalcò ad occuparsi dei cavalli. Il marchese sorrise e si fece aiutare da due servitori a scendere, muovendosi goffamente. Il maggiordomo, nel suo impeccabile completo nero, si inchinò affettatamente e declamò: “Buongiorno, signore. Avete fatto buon viaggio?”
“Non c’è male, non c’è male” borbottò il marchese mentre entrava nel palazzo: “Mi sono un po’ stancato, ma tutto si è risolto per il meglio”.
“Quei due contadini si sono ritenuti soddisfatti?” si informò il maggiordomo mentre lo accompagnava all’interno dell’imponente magione. Il marchese sorrise con evidente sollievo e si attorcigliò uno dei baffoni da tricheco intorno al dito grassoccio: “All’inizio erano molto arrabbiati, ma alla fine, con un po’ di buonsenso, li ho fatti ragionare”.
“Come farebbe il regno senza di voi?” sospirò il maggiordomo. Le guance rubizze del marchese si arrossarono notevolmente: i complimenti lo mettevano a disagio. Fece un gesto brusco con la mano grassoccia: “Il regno ce la farebbe benissimo, senza di me. Io mi do da fare, ma non riuscirei in nulla senza l’aiuto del popolo”.
Oltrepassò il portone ed entrò nel trionfo d’oro e d’argento della magione: era tutto un tripudio di stucchi, tappeti intessuti minuziosamente, arazzi lussureggianti, lampadari incastonati di gemme, quadri rari e scalinate di marmo bianco. Apparteneva alla sua famiglia da generazioni e generazioni, e non era stato spostato o sostituito niente da secoli, neanche il più piccolo granello di polvere. Il marchese aspirò a lungo l’odore di pulito di casa e rilassò il faccione in un’espressione beata. “Che bello essere a casa” pensò avanzando in direzione della scalinata candida che conduceva ai piani superiori. Ritrovare quegli oggetti familiari era piacevole e gratificante, dopo quei giorni passati a far da paciere a due contadini inferociti per questioni di debiti non pagati.
Si tolse il cappello e lo porse, assieme al suo bastone da passeggio con una testa d’aquila in oro in cima, al maggiordomo, che solerte si affrettò a riporlo nell’atrio. Al che il marchese si sfregò le mani con aria soddisfatta: “Allora” esordì vivacemente: “Dove sono le mie due donne di casa?”
“Madame Natalie è nella sua stanza a pregare” spiegò il maggiordomo con il suo comportamento formale: “La signorina Isadora è…ehm..” d’improvviso parve a corto di parole. Arrossì violentemente, si fissò la punta delle scarpe e cincischiò in modo patetico. Il marchese si insospettì: “Cosa?”
“Ecco…la signorina al momento è occupata con…con…”
“Non avere paura, amico mio” lo rassicurò il marchese, assestandogli una goffa manata cameratesca sulla schiena ossuta: “So che dovevano venire dei promettenti giovanotti che aspiravano alla sua mano, o almeno, così mi ha scritto Natalie. Ha trovato qualcuno di speciale? Beh, è normale, a quell’età le ragazze di buona famiglia si sposano” aggiunse con un po’ d’amarezza, pensando che avrebbe preferito di gran lunga tenere Isadora sempre con sé.
Il maggiordomo arrossì ancora di più. Allorché provò a parlare, gli uscì un mezzo gracidio. Il marchese si spaventò: era successo qualcosa alla sua pupilla?! Era malata? Aveva avuto un incidente? Con una nuova veemenza, che mal si addiceva al suo temperamento mite, intimò: “Parla, in nome del cielo! Che succede?!”
“C-come vi ha scritto Madame, oggi sono venuti a farle visita dei giovanotti di Soledad. Solo che…ecco…”
“Non sono stati carini con lei?” chiese ansioso il marchese, torcendosi le mani sudate. Il maggiordomo scosse meccanicamente la testa: “Oh, no, sono stati oltremodo cortesi, però…però…”
“Però?!”
“La signorina non li ha trovati di suo gradimento” concluse infine il servitore in un balbettio. Il marchese lo fissò con le sopracciglia aggrottate per diversi istanti. Aveva il complesso di sentirsi stupido, ma non riusciva a capire dove fosse il problema. A guardare il maggiordomo, sembrava che sua figlia avesse squartato i pretendenti a sangue freddo. In quell’istante si udirono dalle cucine una serie di rumori sonori: cocci infranti, grida di uomini e tonfi sinistri, seguiti dal suono di qualcosa che si schianta contro una superficie metallica. Il marchese sobbalzò: “Che sta succedendo là?”
“La signorina non li ha trovati di suo gradimento” insisté il maggiordomo come una macchina, fissando ad occhi spalancati la direzione delle cucine. A quel punto il marchese, che ne aveva abbastanza di quel mistero, scostò col braccio il servitore e marciò a grandi passi verso le cucine. Qualunque cosa fosse, di certo non era una tragedia, insomma!
Via via che si avvicinava, i rumori terribili crescevano di volume: sembrava che nelle cucine stesse avendo luogo una vera baraonda. Il marchese si domandò con il cuore in gola cosa fosse capitato in sua assenza. Ripensò all’ultima volta che alcuni giovanotti si erano presentati per Isadora, e al ricordo di com’era andata a finire, impallidì: “Oh, no” pensò. Temeva di aver capito.
Percorse l’ultimo tratto di corridoio e giunse di fronte all’ingresso delle cucine. Non fece in tempo a farsi avanti, che un corpo venne letteralmente scagliato fuori dall’occhio del ciclone, sfondando la porta con un botto sordo e rotolando scompostamente sul pavimento. Il marchese cacciò un urlo e indietreggiò. Il malconcio e gemente giovane che era stato lanciato fuori dalle cucine atterrò proprio ai piedi del marchese e lo fissò da basso con uno sguardo carico di sconforto. Era pesto, coi vestiti a brandelli, i capelli arruffati e un occhio nero. Scoprì una bocca a cui mancavano due denti in un sorriso inebetito: “Salve, signore” balbettò. Il marchese lo fissò inorridito, poi entrò nelle cucine, lasciandolo a gemere sul pavimento.
Le cucine erano un ambiente vasto, dal cui soffitto pendevano prosciutti e salumi da cucinare. Le pareti e il pavimento erano impregnate di umido. In un angolo c’erano pentoloni, padelle e altri attrezzi da cucina. Ma era tutto nel caos: per terra giacevano cucchiai, stoviglie, piatti rotti e bicchieri infranti, che creavano una confusione indescrivibile.
Il marchese rimase a corto di parole: al centro di quel caos, ritta sopra un tavolo di legno, c’era sua figlia Isadora, che incombeva come un’affascinante minaccia sui cinque giovanotti ben vestiti che circondavano il tavolo, scomposti e ansimanti. Era una ragazza che aveva compiuto da poco i diciassette anni, per cui era nel fiore della giovinezza. Aveva guance rosse da ragazzina, labbra piene e un corpo snello e vivace. Indossava un lungo abito rosso piuttosto sfarzoso, degno della figlia d’un marchese, ma era tutto stropicciato. I lunghi capelli arruffati che le cadevano sulle spalle erano biondi come l’oro, con riflessi rossi, e i grandi occhi brillanti di divertimento azzurri come il cielo. Nonostante questi colori delicati, i tratti del viso erano decisi e marcati. Non era particolarmente bella, ma possedeva un fascino notevole.
Impugnava saldamente un massiccio badile e una pentola che faceva dondolare minacciosamente sopra le teste dei suoi pretendenti. Sorrideva, piena di divertimento e di minacce, e vederla in quel modo, a lei, quella piacente fanciulla, risultò alquanto paradossale al marchese.
Uno dei giovanotti che circondavano il tavolo sul quale era in piedi la ragazza si fece avanti coraggiosamente, visibilmente irato dall’atteggiamento di Isadora. Tese le mani per afferrarla, ma lei non si fece cogliere impreparata: balzò all’indietro, sollevò il badile fin sopra la testa e lo abbatté con tutte le forze sul pretendente. Lo prese in pieno viso e lo scagliò lontano con una risata alta e cristallina. Il giovane cozzò violentemente contro uno dei pentoloni e si accasciò inerte al suolo, la faccia appiattita dal colpo.
I quattro superstiti esitarono di fronte a quella furia. Isadora buttò indietro i lunghi capelli biondi e li incitò con voce minacciosamente dolce: “Avanti, fatevi sotto! Siete qui per me, no?”
I giovani si guardarono, poi uno di loro, un tipo nerboruto, si fece avanti borbottando: “Non accetto di farmi battere da una donna..”
Allorché balzò su Isadora, lei fu rapida a vibrare un colpo micidiale di badile, ma lui lo schivò. Sorrise beffardo: “Vediamo un po’ come te la cavi adesso…” incontrò con sfida gli occhi azzurri della ragazza, che risposero con evidente orgoglio. Isadora saltò giù dal tavolo agilmente e afferrò l’estremità di una lunga corda di canapa che terminava avvolta ad uno degli immensi prosciutti. Attese senza batter ciglio che il giovane si fosse fatto avanti, poi, quando fu ad un passo da lei, diede un colpo secco alla corda. Il prosciutto, privo di sostegno, cadde dall’alto dritto verso il pretendente, che si accorse del tutto solo troppo tardi: ebbe appena il tempo di alzare lo sguardo che il prosciutto gli era già crollato sulla testa, facendolo stramazzare inerte. Isadora sorrise compiaciuta.
Sulla soglia, il marchese assisteva alla scena a bocca spalancata. Intorno alla figlia indemoniata restavano solo tre pretendenti. A prendere il posto del precedente ne vennero due, che scelsero di collaborare in squadra: uno di loro si gettò sulle gambe di Isadora per farla cadere, mentre l’altro l’assaliva da sopra. Perfino allora, in evidente svantaggio, la marchesina non perse coraggio. Rivolgendosi apparentemente al nulla, gridò: “Armageddon, tocca a te!”
“Oh, no” pensò disperato il marchese: “Ancora quel maledetto topo!”
Ad uscire da una delle ampie maniche rosse dell’abito di Isadora fu infatti un piccolo topolino bianco, con i baffi vibranti e furbi occhietti neri che sbirciavano da dietro un paio di enormi orecchie tonde. Zampettò sulla mano di Isadora agilmente, quindi si gettò a capofitto sul viso del pretendente che veniva da sopra, atterrandogli in faccia. Quello urlò così forte da spaccare i timpani: “Un ratto! Un ratto!” in preda all’isteria, urtò il compagno che tentava di falciare Isadora e crollarono in un groviglio umano a terra. Il topolino Armageddon emerse da quel putiferio pochi secondi dopo, trionfante. Isadora gli regalò un sorriso complice, si chinò e gli offrì il braccio. Il topolino bianco le si arrampicò sul braccio e andò ad appollaiarsi sulla sua spalla destra. La ragazza si raddrizzò e puntò lo sguardo sull’ultimo superstite. Quello sbiancò e tentò goffamente di indietreggiare.
Isadora gli venne incontro e, così facendo, lo spinse sopra una sorta di trampolino creato da una lunga asse di legno solitamente utilizzata come tavolo, che poggiava su di un piano inclinato. Il pretendente ci salì sopra senza quasi rendersene conto, ma Isadora fu fulminea: utilizzando lo stesso trucco che aveva usato col giovane nerboruto, liberò un secondo prosciutto dalla corda che lo teneva appeso al soffitto e quello atterrò all’altra estremità del trampolino. Tonfandoci sopra, portò l’estremità su cui era in piedi il pretendente a sollevarsi con impeto e a scagliare in aria l’urlante fardello, che volò dritto dritto in direzione di una porticina sudicia che dava sui vicoli di Soledad.
Isadora corse rapida verso la porta, la aprì e si scostò in modo che il pretendente volante ci passasse attraverso. Uscito dalla magione, atterrò con un grido sul fango che ricopriva il sudicio vicolo su cui dava la porta delle cucine e vi giacque semicosciente. Isadora gli fece un ironico cenno di saluto con la mano ed esclamò: “A presto, amore!” poi, voltandosi e accorgendosi che gli altri pretendenti erano ancora distesi sul pavimento, sbottò: “Ancora qui, voi?”
Terrorizzati, quelli riuscirono, non si sa come, a rimettersi in piedi e corsero in preda all’isteria fuori dalle cucine, oltrepassando la ragazza cenciosi, malconci e umiliati. Lei li osservò con malcelato trionfo, quindi fece per chiudere la porta. Si rese conto all’improvviso di essere osservata da un uomo che la scrutava da dietro l’angolo di un vicolo, appoggiato ad un muro di pietra. Era vestito in modo impeccabile e doveva avere una quarantina d’anni. Era pallido, con capelli rossi e ricci e astuti occhi verdi, e aveva qualcosa di malvagio in sé, forse quella postura da vincitore, forse solo il bagliore sinistro negli occhi. Quando s’accorse che lei lo guardava, stirò le labbra in un sorriso astuto che le fece accapponare la pelle. Accigliandosi, lo guardò rabbiosa e gli sbatté la porta in faccia per sfuggire a quel sogghigno malvagio.
Solo allora vide il padre, che se ne era rimasto, esterrefatto, sulla soglia, e sorrise con genuina felicità, andandogli incontro come se nulla fosse: “Salve, papà” esordì allegramente. Anche il topino Armageddon, dall’alto della sua spalla, si raddrizzò sulle zampette posteriori quando vide il marchese. Il poveretto rimase a fissare la figlia scarmigliata e scomposta a bocca spalancata e non accennò la minima mossa neanche quando lei lo abbracciò con grande affetto: “Finalmente sei tornato! Mi sembrava di impazzire, in questa vecchia catapecchia, senza di te!”
“Isadora” balbettò il marchese, riprendendosi un poco: “Cosa…cosa hai fatto? Perché…perché li hai…” fissò il caos che regnava nelle cucine e si perse in un rauco balbettio. Isadora gettò indietro la testa e scoppiò a ridere: “Si erano fatti un po’ troppo appiccicosi e ho dovuto…come dire…scollarmeli di dosso”.
“Isa! Ti avevo già detto e ridetto che non dovevi farlo più! Il povero Michael ha riportato tre fratture, l’ultima volta, e abbiamo passato un bel po’ di guai con suo padre il duca!”
“Innanzitutto Michael povero non lo era per niente, visto che ha provato a baciarmi” replicò Isadora, piccata: “E poi proprio non ci riesco ad essere gentile con quelli là. Sono così noiosi e prevedibili!”
“Ti capisco, cara, ti capisco, ma vedi, se continui così, nessuno vorrà più sposarti, e hai l’età giusta per farlo”.
“Chi lo vuole un marito del genere? Che vadano tutti al diavolo!” sbottò la ragazza, avviandosi col padre fuori dalle cucine. Lui sorrise, intenerito, e le aggiustò una ciocca di capelli dietro l’orecchio: “Dài, uno di loro ti sarà piaciuto almeno un pochino”.
“Niente affatto!” insorse Isadora: “Non è vero, Armageddon? Non abbiamo bisogno di nessuno, noi. Gli abbiamo dato una bella lezione” porse il mignolo al topolino e lui ci batté sopra la minuscola zampetta. Il marchese corrugò la fronte con aria di disapprovazione: “Perché insisti a portarti dietro ovunque quel vecchio topo?”
“Ancora?! Sei appena tornato e già mi fai la predica? Suvvia, papà, godiamoci questa giornata assieme, non mettere il muso” cercò di rabbonirlo Isadora, appoggiandosi a lui e guardandolo a lungo e con affetto. Lui si raddolcì e la circondò con un braccio: “Vedi di fare la brava, quando ci sono io…”
“Scherzi?” fece lei, poi usò un tono cadenzato, come se stesse ripetendo una frase che era già in uso tra loro: “Io farei qualsiasi cosa per te, papà. Qualsiasi”.
Il marchese rise con leggerezza su quelle parole: “Andiamo a cena, cara. Sono certo che Natalie sarà ansiosa di parlare con noi”.
“Quella donna orribile!” borbottò accigliata Isadora. Il marchese si mortificò alquanto: “Perché dici così? Non ti ha mai fatto nulla di male, lei è solo…fatta così”.
“Nulla di male, dici? Scommetti che esattamente dieci secondi dopo che ci saremo seduti a tavola lascerà cadere la forchetta, si sporgerà verso di me e dirà” Isadora contraffece la propria voce in modo da renderla acuta e petulante: “Il tuo comportamento quotidiano è stato riprovevole, marchesina Isadora”.
“Invece io sono sicuro che lascerà correre. Anzi, magari non se n’è neanche accorta” la confortò il marchese.
 
Esattamente dieci secondi dopo che la famiglia del marchese si fu seduta a tavola, Natalie lasciò cadere la forchetta nel piatto pieno di ravanelli, si sporse verso Isadora che sedeva di fronte a lei e disse con voce acuta e petulante: “Il tuo comportamento quotidiano è stato riprovevole, marchesina Isadora”.
La ragazza alzò gli occhi al cielo. Sedevano, tutti e tre, alla lunga tavola della sala da pranzo. Essendo quello uno dei pochi luoghi in cui Natalie osava comparire, l’aveva arredato personalmente, gettando ogni stucco o decorazione che c’era in passato. Le pareti erano spoglie, il pavimento era spoglio, la tavola era spoglia e le stesse sedie su cui erano accomodati i commensali erano di legno. L’illuminazione era fioca e si limitava a due candele poste al centro della tavola. Il solo quadro che adornava le pareti rappresentava una scena religiosa, e il pasto della famiglia consisteva in una brodaglia insipida e verdognola, in ravanelli in gran quantità e in acqua di fonte.
Isadora ricordava ogni genere di ben di dio quando era stata bambina: dolci luculliani, polli dorati, patate croccanti, pasticci monumentali. Altro che quel pasto da carcerato che Natalie imponeva come regola, perché sosteneva che il cibo è un’opera di Dio e non và sprecato. In più era vegetariana e detestava che si mangiasse carne, anche durante le feste. Il marchese, dal canto suo, pavido per natura, non sapeva mai dirle no.
“Non alzare gli occhi al cielo, marchesina Isadora” la rimbeccò Natalie. Era una donna alta e scheletrica, senza età, che sembrava semplicemente nata vecchia. I capelli erano nascosti del tutto da un pezzo di stoffa nera avvolto sulla testa a mo di turbante, il corpo era compresso in un severo abito nero che le scendeva fino ai piedi. Aveva un volto pallido e giallastro, sgradevole, dominato da due piccoli occhi scuri, affilati come lame. Erano affilate soprattutto le sue dita scheletriche, che somigliavano ad uncini e tamburellavano tra loro sul tavolo. Isadora seguì spaventata il tic di quegli uncini: erano la sola cosa al mondo che le faceva paura.
“Ne parleremo tra un istante” continuò Natalie, trapassandola coi suoi occhi affilati: “Ora preghiamo!” soggiunse solennemente. Congiunse gli uncini e Isadora fu costretta a fare lo stesso. Natalie controllò che la figliastra e il marito fossero pronti, quindi fece un cenno della testa. Attaccarono tutti e tre a declamare con voce monotona: “Ti ringraziamo, Signore, per il cibo che ci offri e per la salute che ci preservi, ti preghiamo di benedire questa tavola e di donarci quanto necessario per sopravvivere. Sia gloria al tuo nome!”
“Bene. Ora possiamo incominciare” fece Natalie, impassibile. Silenziosi come tombe, i tre si chinarono sulla brodaglia che galleggiava nelle scodelle di porcellana e presero a mangiare. Natalie la mandava giù con apparente soddisfazione, il marchese fingeva di trovarla gustosissima per farle un piacere, e Isadora faceva girare il cucchiaio nel piatto senza mangiare, disgustata. Ad un certo punto la matrigna si pulì la bocca col fazzoletto e le piantò addosso di nuovo lo sguardo aguzzo: “Allora, marchesina Isadora. Puoi darmi una spiegazione sul tuo comportamento di oggi?”
“Non capisco di cosa parlate, matrigna Natalie” sbottò Isadora, lasciando andare con malagrazia il cucchiaio. Da che ricordava, Natalie non le aveva mai rivolto una sola parola di apprezzamento da quando era sciaguratamente entrata nella sua vita. Sapeva solo rimproverarla, o, se si comportava bene, le rivolgeva quel suo tipico sguardo di disprezzo e di compatimento, come se la considerasse una macchia d’unto che sporcava la perfezione del suo ritiro: “Non fare l’impudente, marchesina Isadora. Sai benissimo di cosa parlo. Del modo in cui hai trattato i simpatici giovanotti che si sono degnati di venire a farti visita. D’altronde, ognuno ha i suoi gusti” commentò sottovoce.
“Cosa vi importa di come tratto le mie conoscenze?” obiettò Isadora. Il marchese suggeva nervosamente il brodo dal suo piatto. Sapeva che impicciarsi e difendere la figlia sarebbe stato inutile. Natalie continuava a fissarla come se volesse liquefarla con lo sguardo: “Mi importa, perché tu sei la mia figliastra, e facciamo parte della stessa famiglia. Le figlie delle mie amiche sono tutte sposate da quando avevano quindici anni. In molti qui a Soledad si chiedono perché tu non hai ancora trovato marito”.
“Semplice: perché in giro ci sono solo babbei”.
“Non esprimerti in questo modo! Con la reputazione che ti sei creata, sarebbe un miracolo che un vero babbeo ti prendesse. Non sei brutta. Avrei sperato di poterti combinare un matrimonio al di là delle tue aspettative, magari col figlio del Re…”
“Sì, magari” commentò sarcastica Isadora: “E vissero felici e contenti! Il mese scorso c’è stato un ballo al palazzo del Re, fuori da Soledad, e hanno invitato tutte le ragazze di qui…tranne me. Il Principe si è innamorato di un’oca che è stata così idiota da perdere una scarpetta mentre tornava a casa. Ma dico, come si fa a perdere una scarpetta?! Posso capire un fermaglio, un gioiello, perfino l’ombrello…ma la scarpa! Si sposeranno in Estate”.
“Ecco, hai visto?” fece Natalie, infastidita del fatto che la figliastra fosse a conoscenza di pettegolezzi che lei non era venuta a sapere: “Se non ti fossi comportata così male in questi mesi, il Principe ti avrebbe invitata, e magari avrebbe scelto te, anziché la ragazza della scarpetta! Che, tanto per saperlo, quanti anni ha?”
“Sedici” confessò di malavoglia Isadora. Errore imperdonabile. Il viso di Natalie divenne ancora più severo: “Sedici, marchesina Isadora. Sedici. Una popolana qualsiasi impiega solo sedici anni ad accalappiare il maschio più ambito di tutti e sette i regni, e tu in diciassette hai collezionato soltanto fiaschi”.
“Via, Natalie, non essere così dura con la ragazza” si fece timidamente avanti il marchese: “Lei è fatta così, non possiamo fargliene una colpa…”
“Un brutto carattere si può piegare” lo mise a tacere Natalie: “Fossero questi gli ostacoli! Cosa dovrebbero dire le povere Anastasia e Genoveffa? La loro madre, una mia carissima amica, mi ha detto che sono tornate in lacrime dal ballo, coi piedi gonfi e l’emicrania. Loro sì che devono fare i conti con un aspetto esteriore tutt’altro che gratificante: mentre tu, marchesina Isadora, non riesci nemmeno a controllare i tuoi atteggiamenti”.
“Però Anastasia e Genoveffa al ballo sono state almeno invitate” sibilò Isadora tra i denti, fissando la propria zuppa. Quanto odiava quella donna! Riusciva sempre a farla sentire una nullità, uno scarto della natura, una…macchia d’unto, appunto. Il marchese la guardava comprensivo, ma taceva. Natalie fece per affondare ulteriormente il dito nella piaga, ma all’improvviso Armageddon, attratto dal profumo del pane, fece capolino dalla manica di Isadora. Terrorizzata, la ragazza fece per fargli barriera con le mani, ma era troppo tardi: scorgendolo, Natalie cacciò uno strillo, ruotò su se stessa e urlò: “Ancora quell’odioso ratto!!!”
Ignaro dell’aria che tirava, Armageddon saltò sul tavolo e zampettò verso il cesto del pane. Isadora protese le mani per riporlo nuovamente nella manica: “Armageddon, no!”
Ma Natalie fu più veloce. Afferrò il cucchiaio, prese bene la mira e lo abbatté sul povero Armageddon, strillando: “Che orrore! Perfino a tavola!”
Il cucchiaio colpì in pieno il povero topolino, che con uno squittio di dolore venne scagliato contro la parete di fronte. Scivolò inerte al suolo, mezzo morto di spavento. Isadora sgranò gli occhi e scattò in piedi con tanta foga da rovesciare la sedia: “Armageddon!” esclamò allarmata. Corse verso il corpicino riverso a terra e si chinò angosciosamente su di lui: “Tutto bene?” lo raccolse con infinita delicatezza nelle mani a coppa e lo sollevò: “Armageddon…”
D’improvviso il topolino drizzò la testa e le indirizzò un’occhiata abbattuta. Isadora soffocò a stento una crisi di commozione: “Oh, sei vivo! Che spavento che mi hai fatto prendere!” se lo avvicinò al viso e gli posò un minuscolo bacio sulla testina pelosa. Natalie rabbrividì di disgusto, ma il marchese si sentì sciogliere di fronte alla tenerezza di quella scena. Isadora si girò verso la matrigna e la fulminò con un’occhiataccia: “Potevate ucciderlo!”
“Speravo fosse così” replicò Natalie imperturbabile: “Come ti permetti di portarti dietro quel ratto perfino a tavola?”
“Armageddon non è un ratto” disse Isadora, cullandolo tra le mani: “È un topo di campagna!”
“Qualunque cosa sia quel piccolo mostro, devi smetterla di scarrozzartelo dietro ovunque. Innanzitutto è antigienico, e poi non è un animale appropriato per una ragazza. Quante volte devo ripetertelo? Niente cani e topi, solo gatti di razza!”
“Chi lo vuole un gatto tutto infiocchettato e profumato come se fosse un essere umano? Armageddon almeno è un animale vero, ed è mio amico”.
“È proprio quello la causa della tua cattiva reputazione” Natalie non le lasciava tregua: “Ti isola dal mondo intero e ti impedisce di frequentare ragazze simpatiche come Anastasia e Genoveffa. È pure vecchio e moribondo, quel topaccio. Sai cosa dovresti fare? Dallo al giardiniere, ci penserà lui ad affogarlo in una tinozza”.
“Come potete dire una cosa simile?” strepitò inorridita Isadora, stringendosi Armageddon al petto: “Lui è mio amico da quando avevo un anno. Me l’ha regalato mia madre!”
Altro errore madornale. Nel sentire le ultime due parole, le sopracciglia affilate di Natalie si aggrottarono in modo minaccioso: “Tua madre” pronunciò il nome come se si trattasse di una pustola nauseabonda: “Quella donnetta da quattro soldi che ha abbandonato a se stesso il tuo povero padre. Il fatto che te l’abbia regalato lei è un motivo in più per affogarlo”.
“Ora basta!” insorse all’improvviso il marchese. Tuttavia, aveva parlato in tono quasi implorante: “Sono appena tornato, potremmo tentare di andare d’accordo almeno un po’? Parliamone domani, vi và?”
Scoccandosi un’occhiata in cagnesco, Natalie ed Isadora sedettero ognuna al suo posto. Terrorizzato, Armageddon tornò a rifugiarsi nella manica della padroncina. La ragazza piluccò il brodo freddo con aria svogliata e borbottò: “Vorrei andarmene di qui…”
“Brava. Trova marito e sarai accontentata” sibilò Natalie tra sé. Il marchese, però, la guardò con dispiacere: “Pensavo che Soledad ti piacesse”.
“Mi piace” mormorò Isadora, accasciandosi sulla sedia: “È che è sempre uguale. Da quando sono arrivata qui non è mai cambiato niente. Sempre la stessa gente, sempre la stessa routine, le stesse cose da fare…alla fine ci si annoia. Tu no, papà, perché parti spesso. Io vorrei…” sorrise e scosse la testa. Il marchese però insistette: “Cosa? Vorresti cosa?”
“Sembra stupido, ma…vorrei vivere avventure. Vorrei girare il mondo e conoscere gente interessante, come ladri, tiratori di frecce, cercatori di perle, draghi sputafuoco…”
“La feccia della terra” commentò Natalie a bassa voce. Isadora la ignorò e andò avanti con un sorriso sognante dipinto sulle labbra, che le addolciva il viso: “Oppure vorrei trovare un qualche posto in cui trascorrere il resto della mia vita…ogni volta in un modo diverso”.
“Attenta a ciò che chiedi” disse Natalie. Stranamente, stavolta non c’era acidità in lei, e parlava come chi sa fin troppo bene: “Perché potresti ottenerlo, e solo quando avrai perso tutto ciò che hai ti renderai conto di quanto ti manca”.
“Non è che abbia tanto da perdere” questo Isadora si accontentò di pensarlo, perché non voleva dare un dispiacere a suo padre. Il marchese, impacciato, emise un colpo di tosse: “Beh, ragazze, che ne dite di finire il brodo? Si fredderà tutto!” sorseggiò l’orrenda minestra gelida e si produsse in un sorriso disperato: “Ottima!” gracidò.
Con un sospiro, ognuno tornò alla propria scodella. Isadora sussurrò alla testolina bianca di Armageddon che faceva capolino dalla manica: “Loro non possono capirmi, Armageddon…ma tu sì, vero?” gli sorrise, e dovette ammettere che era un vero peccato che lui non sapesse parlare.      
 
Il cantastorie tacque e si accomodò meglio sulla panchina per guardare i piccoli ascoltatori da sotto l’ombra del cappuccio. Nonostante l’iniziale scetticismo, erano rimasti tutti rapiti dalla narrazione, e non si erano persi una sola parola, perfino Tom, che tuttavia si ostinava a fare il sostenuto. La bambina bionda, Annie, disse in un soffio: “Povero topolino bianco…che crudele, quella Natalie!”
“Oh, no, Natalie non era crudele” replicò il cantastorie con la sua voce enigmatica: “Lei era solo…fatta così”.    
“Ma quindi Isadora non sposerà mai il Principe?” domandò Julie, l’amica di Annie. Il cantastorie scoppiò a ridere: “Oh, no, non sarebbero stati felici insieme. Il Principe sposerà Cenerentola, ma poi la tradirà per Biancaneve”.
“Questa non la sapevo” commentò Julie. Josh, che assieme a Tom era il più scettico, parlò con voce aspra: “Ancora non capisco cosa c’entra la moglie dell’orco in tutta la faccenda”.
“Tra poco lo saprai. Pazienta ancora un po’, in fondo siamo ancora all’inizio” ribatté pacato il cantastorie. Passò ad osservare Tom, che se ne restava in disparte a braccia conserte: “E tu cosa ne pensi, Tom?”
“Penso che la state facendo un po’ troppo lunga” sibilò il ragazzino. Non voleva ammettere che la storia l’aveva interessato, e che voleva conoscere il seguito. Il cantastorie, a sorpresa, annuì: “Hai ragione. Dobbiamo continuare. Pronti ad ascoltare ancora?”
“Sì” esclamarono in coro i ragazzini. Intanto era calata la sera, sulla piazza del paese. Il cantastorie si schiarì la voce e continuò: “Alcuni giorni dopo quanto ho appena raccontato…”

 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Un innegabile senso dell'orientamento ***


CAPITOLO 2

 
 
 
 
 
 
 
Alcuni giorni dopo quanto ho appena raccontato, il marchese ricevette una lettera inaspettata da parte di uno dei più illustri nobili dei sette regni: il conte DeGuisky, che viveva nel regno di Borgofiorito, poco distante da quello di Soledad. Nella lettera, il conte lo invitava nel suo palazzo per discutere di possibili alleanze.
Il marchese provò una gioia a dir poco immensa: DeGuisky gli aveva concesso un onore immenso, invitandolo. Si erano conosciuti qualche anno prima ad un ricevimento e il marchese aveva subito tentato di fare amicizia con l’illustre personaggio. Dato che era trascorso diverso tempo dal loro incontro, aveva perso le speranze su un’alleanza tra i due regni, ma quella lettera era la prova inconfutabile che stava per arricchire ulteriormente Soledad.
Goffo e felice, spiegazzava continuamente la lettera come per assicurarsi che fosse vera e gridava, rivolto a Natalie ed Isadora: “Vi rendete conto, ragazze? Il conte DeGuisky! Il conte DeGuisky ha invitato proprio me nel suo palazzo! Ci vado immediatamente! Dov’è la carrozza?! Presto, presto!”
“È meraviglioso, caro” commentò Natalie senza alcuna intonazione. Ma gli occhi acuminati le scintillavano, astuti: “Sii cortese con il conte. Non devi lasciarti sfuggire l’occasione. Si dice che Borgofiorito abbondi di miniere d’oro e d’argento che farebbero davvero comodo ai nostri commerci”.
Isadora, però, la pensava diversamente. Guardando il padre con risentimento da sotto la chioma bionda, mormorò: “Sei appena tornato, e già te ne vai?” era stato un supplizio il periodo senza di lui, tra Natalie che incombeva e i giovanotti da sistemare. Il marchese si mortificò e le prese delicatamente il viso fra le mani: “Oh, Isa, anche a me dispiace, lo sai…ma cose del genere capitano una sola volta nella vita, capisci? Se io rimango…il conte si offenderà e potrebbe finir male…”
Era davvero desolato, così Isadora fece un sorriso mesto e gli diede una gomitata amichevole: “Dài, papà, scherzavo! Sono felice che ti sia capitata questa bella cosa, anzi, ti auguro buon viaggio”.
Il sollievo apparve chiaro sul faccione del marchese: “Non sto nella pelle, Isa. Pensi che farò una buona impressione al conte? Ho paura di fare la cosa sbagliata, di tradirmi…”
“Ma cosa vai dicendo, papà?” fece lei scoccandogli un sorriso scintillante: “Sei unico, e il conte se ne renderà conto non appena ti vedrà. Firmerete la più grande alleanza di tutti i tempi, e ti ammireranno tutti…” il marchese la fissò con sguardo sognante, pregustando quel bel sogno. Natalie, però, era un tipo più realistico: “Sta attento a non perderti, caro. Hai un pessimo senso dell’orientamento. Perché non porti con te una scorta?”
“Non ce n’è alcun bisogno” dichiarò offeso il marchese: “La strada da fare è facilissima: proseguo verso nord sempre dritto, finché non incontro una foresta oscura…”
“Ecco, quando incontri quella foresta, devi aggirarla verso sinistra, non entrarvi” gli ricordò Natalie, che era molto scettica riguardo il senso dell’orientamento del marito. Ricordava fin troppo bene quella volta che si erano affidate a lui ed erano finiti spersi nei campi, finché un contadino non li aveva riportati tutti e tre a casa: “È meglio che tu vada a sinistra, perché a metà della foresta c’è un piccolo territorio disabitato che confina con Soledad e Borgofiorito, ed è poco saggio sconfinarvi. Nessuno ne sa nulla da anni”.
“Beh, facilissimo: a sinistra, evitare la foresta. Perfetto” gongolò il marchese, sfregandosi le mani. Natalie manteneva un’aria poco convinta: “Speriamo bene…”
“Oh, andiamo, matrigna Natalie” le disse Isadora, che al contrario era sicura della buona riuscita del viaggio: “Papà è sano e vaccinato, e chiunque abbia un briciolo di cervello aggirerebbe una foresta oscura. Fidatevi di lui”. Natalie ripeté, preoccupata: “Speriamo bene…”
 
Il giorno dopo, il marchese era pronto per andare al palazzo del conte DeGuisky, e stava salutando Isadora e Natalie sulla porta dell’enorme magione, nel caos di Soledad che si svegliava, tra carri in corsa, cavalli che nitrivano e popolani al lavoro. Poco lontano dal gruppo, il calesse rosso del marchese era già stato sistemato in strada, con i due cavalli pezzati che si guardavano attorno con occhi inebetiti. Sul calesse era stato montato un fagotto con gli effetti personali del marchese e un regalo per il conte. Non c’era alcuna scorta: il marchese voleva andare da solo.
“È il momento di salutarsi” disse triste il marchese: “Ma non temete: sarò di ritorno tra pochi giorni con buone notizie e un regalo per voi”. Isadora lo guardò con tutto l’affetto di questo mondo, malinconica al pensiero di doverlo lasciare. Lui era l’unica luce che rischiarava la monotonia della sua vita. Lo osservò scambiare con Natalie uno spassionato bacio sulle labbra, poi, quando si fu voltato verso di lei, dovette fare uno sforzo per reprimere le lacrime: “In bocca al lupo, papà”.
“Sii allegra, Isa” sussurrò il buon uomo, asciugandole con la punta delle dita la lacrima che le era spuntata all’angolo dell’occhio: “Non farmi andar via col ricordo di te che piangi. Sei grande, ormai. Cosa te ne fai di un povero vecchio come me?”
“Tutto!” esclamò la ragazza con sorprendente veemenza: “Mi mancherai da morire, papà” gli gettò le braccia al collo con slancio, stringendolo fin quasi a togliergli il respiro. Il povero marchese venne contagiato dalla figlia e fu sul punto di sciogliersi in lacrime a sua volta. Poi però incontrò lo sguardo di Natalie, freddo come il ghiaccio, che lo rimise prontamente a posto. Si separò da Isadora e le accarezzò i capelli: “Ci vediamo presto, Isa”.
Fu sul punto di raggiungere il calesse, ma lei lo fermò prendendolo per un braccio: “Aspetta!” lo fissò dritto negli occhi con serietà: “Promettimi che la prossima volta mi porterai con te”.
“Promesso” disse solennemente il marchese, portandosi alle labbra le dita incrociate e baciandole. Lei annuì e gli lasciò andare il braccio con lenta riluttanza. Il marchese caracollò fino al calesse, si fece aiutare dal maggiordomo a salirci sopra e strinse in pugno le redini: “Arrivederci, ragazze” esclamò, facendo un ampio cenno di saluto. Isadora gli soffiò un bacio, Natalie si accontentò di un impercettibile cenno del capo. Al che il marchese tirò le redini e i cavalli presero vita, avviandosi al trotto fuori dalla cittadina. Il popolo si aprì in due ali per lasciar passare marchese e calesse.
Isadora e Natalie restarono un attimo sulla soglia, rattristate. Fu mentre accennava a rientrare che la giovane notò di nuovo l’uomo dallo sguardo viscido che le aveva sorriso nel vicolo tempo prima. Stavolta era in piedi accanto ad una bottega, coi suoi vestiti impeccabili e le sue folte basette, e la fissava intensamente, come un cacciatore che sta valutando attentamente una preda. I capelli rossi erano pettinati e gli occhi verdi gli scintillavano di cupidigia. Le sorrise come l’altra volta, vedendosi osservato. Lei rabbrividì e si voltò bruscamente: “Chi è quell’uomo?” bisbigliò.
“Quale?” Natalie osservò la direzione indicata da Isadora e trasalì: “Lord Fox!”
“Lord Fox?” fece Isadora aggrottando la fronte. Natalie annuì, sinceramente stupita: “Non lo conosci? È una specie di celebrità, a Soledad. È ancora più ricco di tuo padre, sai? È vedovo di quattro mogli, pover’uomo”.
“A quarant’anni è già vedovo di quattro mogli?” osservò la ragazza, scrutandolo sospettosamente. Natalie rispose: “Sono morte tutte in condizioni tragiche. L’ultima, si dice, è scivolata nella palude a nordest e non è riuscita a tornar su”.
“Come si fa a scivolare se la strada è tutta lastricata?”
“Cosa stai insinuando? Dovresti dare un freno a questa tua immaginazione contorta, marchesina Isadora. È molto sconveniente. Lord Fox è un uomo illustre e celebre e tutti ne parlano bene. Tutte le sue mogli erano figlie di famiglie ricchissime, e recavano una dote immensa. Ci vuole carisma, per avere in moglie tipi simili”.
Il senso di inquietudine che attanagliava il cuore di Isadora, però, non se ne voleva andare. Lord Fox continuava a sorriderle, famelico, e fu con grande piacere entrare in casa per sbattergli di nuovo la porta in faccia. Non voleva fargli capire che era l’unico uomo a farle paura.
 
Il marchese di Soledad aveva imboccato la campagna verdeggiante del suo regno con il cuore carico di speranze per il futuro incontro con il conte DeGuisky, ed era così giulivo da fischiettare allegramente sulla via e da lanciare di tanto in tanto uno zuccherino agli affaticati cavalli che trainavano il calesse. Tutt’intorno a lui, si estendevano campi dorati che scintillavano al sole, alberi dalla chioma rigogliosa e fiori multicolori. L’aria era pregna di profumi che accrescevano il suo buonumore.
“Che splendida giornata” pensò, appollaiato sul calesse in movimento: “Il sole è alto, gli uccelli cantano e io sto per incontrare il più illustre personaggio di tutti e sette i regni. Non avevo mai visto Borgofiorito. Dicono che sia splendido”.
Ad un certo punto, senza fermare il calesse, tirò fuori da una tasca del mantello da viaggio una cartina ripiegata e la aprì, osservandola con attenzione. Aveva preso la strada giusta e si stava avvicinando al confine. Avrebbe raggiunto il palazzo del conte entro l’indomani mattina, a patto che viaggiasse anche di notte.
“Poco male” pensò: “Tanto la strada è sempre dritta, potrò sonnecchiare un po’”.
Per il resto della giornata proseguì di buon passo. All’ora di pranzo comperò da un mercante ambulante uno spiedino di carne e lo divorò in un batter d’occhio: “Al diavolo Natalie e tutti i vegetariani!” era uno spasso essere libero dal giogo della moglie. Poteva fare ciò che voleva e mangiare quel che voleva. Mise da parte i fischi e prese a cantare delle vecchie ballate popolari che ballava con la sua prima sposa quand’era giovane. Era stonato come una campana, ma almeno si divertiva.
Fu verso il tramonto che incontrò le prime complicazioni. Era quasi alla linea di confine tra i due regni, ma le indicazioni sulla cartina si facevano più confuse. Illuminato dal bagliore scarlatto del sole in discesa, si mise a riflettere ad alta voce: “Natalie aveva detto che dovevo aggirare la foresta e andare a sinistra…ma che diamine, se faccio così non arriverò in tempo dal conte!”
Fermò un vecchio contadino che tornava dal lavoro nei campi: “Perdonatemi, buon uomo, sapreste dirmi che strada prendere per arrivare più in fretta a Borgofiorito?”
Il contadino si fermò, ci pensò un po’ su e poi gli spiegò con fare da intenditore: “Andate sempre dritto. Incontrerete una foresta, entrateci, seguite il sentiero e quando ne uscirete sarete arrivato a Borgofiorito”.
Non era quello che il marchese si aspettava. Dall’alto del calesse, sudato, nervoso, con la cartina stretta fra le mani, obiettò debolmente: “Io però sapevo che bisognava aggirare la foresta…”
“Sì, potreste fare anche così” replicò il contadino: “Ma ci mettereste il doppio. Quando dovreste arrivare a Borgofiorito?”
“Domani mattina sarebbe l’ideale”.
L’uomo fece un fischio: “Se aggirate la foresta arriverete al massimo domani sera. Non è difficile, avanti: vi basterà entrarci e seguire sempre il sentiero. Vi condurrà dritto dove volete andare”.
Il marchese restava poco convinto: “Mi hanno parlato di un territorio che non appartiene né a Soledad, né a Borgofiorito, i cui confini sono all’interno della foresta stessa. Correrei il rischio di entrarci?”
“Ah, sì, ho sentito qualcosa al riguardo. State tranquillo: il sentiero si tiene alla larga da quel posto. Ci metterete pochissimo”.
Le resistenze del marchese cominciarono ad ammorbidirsi: “Non è che potreste accompagnarmi?” farfugliò. Il contadino fischiò di nuovo e scosse deciso la testa: “Mi dispiace, signore, ma io ho una famiglia che mi aspetta. Mi chiedete troppo”.
“Non importa” gracidò flebilmente il marchese: “Grazie lo stesso. Arrivederci!” Il contadino fece per andarsene, ma poi ci ripensò, tornò sui suoi passi e gli porse uno strano braccialetto fatto di sottilissimi fili di tessuto: “Contro i cattivi incontri” spiegò.
Deglutendo e annodandosi il braccialetto scacciaguai al polso grassoccio, il marchese avviò il calesse al trotto. Era indeciso sul da farsi. Aggirare la foresta come gli aveva raccomandato Natalie, o guadagnare tempo come aveva detto il contadino? Era stanco, sporco e ora di cattivo umore, e avrebbe fatto qualsiasi cosa per giungere al più presto. “Che problemi mi faccio?” pensò: “In fondo si tratta solo di seguire il sentiero”.
Quando però si ritrovò di fronte alla famigerata foresta, tornarono a galla tutti i suoi timori. Aveva un aspetto tutt’altro che invitante, soprattutto adesso che era notte: era un intrico fittissimo di alberi dai rami adunchi e dalle foglie appuntite, una rada erbaccia ricopriva il terreno e ne uscivano rumori sinistri, ululati di lupo e fruscii poco raccomandabili. La luna vi splendeva sopra come una falce di morte, e un sentiero quasi invisibile si immergeva tra gli alberi. Altrimenti, la strada proseguiva a sinistra nei campi silenziosi di Soledad.
Il marchese esitò, di fronte a quel bivio. Minuscole gocce di sudore gli imperlavano la fronte, e gli occhi scattavano dal sentiero alla strada carichi di indecisione. I cavalli si mossero, nervosi. Guadagnare tempo, o salvarsi la pelle?
“Il contadino non mi avrebbe mai consigliato di fare qualcosa di pericoloso” pensò per farsi coraggio. Così non ci pensò più, tirò le redini a destra e portò il calesse dentro l’oscura foresta, che si chiuse su di lui inghiottendolo come un’enorme bocca.
L’atmosfera non era delle migliori. L’oscurità era densissima, e non si vedeva quasi niente. Solo pochi raggi lunari penetravano tra le fronde intricate degli alberi. Presenze sconosciute si muovevano tra i cespugli e i gufi cantavano nella notte scura. Il marchese era tutto rattrappito sul calesse che avanzava cauto sul sentiero quasi invisibile, pallido come un cencio e terrorizzato a dir poco. Non si era mai trovato in una situazione di pericolo. Per scacciare la paura, si mise a canticchiare tra sé una delle sue ballate. D’improvviso, uno stormo di uccelli uscì da un cespuglio e quasi travolse il marchese, che gridò e si gettò prono sul calesse. Sollevò la testa: gli uccelli erano scomparsi, ma i cavalli davano grandi strappi al mezzo, spaventati. Li calmò con parole balbettate. Aveva rischiato un infarto. Strinse convulsamente il braccialetto che gli aveva dato il contadino.
Abbassando lo sguardo, lanciò un altro grido: il sentiero era scomparso! Si girò di scatto e lo vide dietro di sé, indistinto alla luce lunare. Ma di colpo si interrompeva, e ovunque guardasse non lo trovava più. Il panico quasi lo soffocò. “Che cosa faccio adesso?”
Angosciato, restò dov’era per diversi minuti, immerso nel buio, nascosto dagli alberi. Faceva un freddo terribile: si strinse inutilmente nel mantello. In più aveva una fame da lupi e una paura pazzesca. Rimpianse i ravanelli di Natalie e si diede dello stupido per non averle dato ascolto.
“Mi sono perso in una foresta minacciosa, in piena notte, e tutti credono che sia in viaggio per il palazzo del conte DeGuisky. Può esistere qualcosa di peggio?”
L’ululato lugubre di un lupo lo riscosse. Non poteva restarsene là in attesa che succedesse qualcosa. Il sentiero non poteva semplicemente…sparire! Scese dal calesse goffamente e a malapena si resse in piedi: le gambe gli tremavano come gelatina. Fece alcuni passi tremanti sul terreno gelido e scricchiolante. I rami incombevano sulla sua testa come una volta oscura. La luna lo sbirciava da sopra quella cortina intricata con sadico divertimento. Si chinò ed esaminò il terreno, sforzandosi di vincere il terrore: forse il sentiero era nascosto dai rami caduti e dalle erbacce.
Mentre faceva questi movimenti, un rumore brusco lo costrinse a voltarsi a precipizio, il cuore in gola: con un trasalimento d’orrore, vide i cavalli terrorizzati girarsi e correre lungo il sentiero con tutto il calesse, infilandosi tra gli alberi. Scattò in piedi e corse loro dietro: “No! Fermi! Fermi!”
Ma il rumore degli zoccoli che scappavano si perse in lontananza. Il marchese, al culmine della disperazione, crollò in ginocchio e scoppiò in un pianto dirotto. Aveva sbagliato: esisteva qualcosa di peggio. Aveva anche perso il proprio mezzo di trasporto. Si abbandonò ai singhiozzi, privo di ogni speranza. Voleva rivedere Natalie ed Isadora, voleva stringerle e dimenticare quell’incubo…sarebbe morto di freddo, o divorato da un animale feroce, o di fame. Si sentì perduto.
Dall’abisso della sua disperazione, a malapena udì il respiro ansimante che era risuonato nel silenzio della foresta. Con un sussulto, sollevò la testa di scatto e rimase gelato: a pochi passi da lui, ritto tra due alberi oscuri, un immenso cane lo fissava.
Era una bestia che non assomigliava a nessuno dei cani di razza che il marchese aveva visto in passato. Doveva essere un meticcio: era ricoperto da una folta pelliccia nera e arruffata e aveva zampe possenti, ancorate con forza al terreno. Le orecchie, grandi e nere anch’esse, erano rizzate sopra il muso minaccioso, dominato da due occhi scuri e fissi. Moccoli di bava colavano dai denti appuntiti.
Il marchese si raggomitolò su se stesso. Non aveva nemmeno più la forza di urlare. Era certo che il cane l’avrebbe sbranato. Tanto vale non fare movimenti inconsulti per facilitargli l’opera, pensò. L’animale, però, restava immobile dov’era, e non dava segno di volersi avventare. Lo fissava con uno sguardo sospettoso, dimenando nell’aria la coda cespugliosa. Tra i denti era rimasto intrappolato l’ammasso di carne di una qualche preda che aveva divorato. Fu solo quando il cane si mosse che il marchese si accorse del massiccio collare di cuoio, percorso da una corona di spine di ferro, che cingeva la gola della bestia. La gioia gli illuminò il viso pallido e spaventato e scattò in piedi come una molla, esclamando: “Hai un padrone! Sia ringraziato il cielo!”
Il cane, però, scoccandogli un’ultima occhiata di sufficienza, si girò e saltò tra gli alberi. Il marchese non aveva nessuna voglia di lasciarselo scappare: “Ehi, torna qui! Ora mi porti dal tuo padrone!” gridò, scattando in corsa dietro al meticcio. Lo avvistò che percorreva un tronco divelto che faceva da ponte ad un ruscello che scorreva tra i sassi. Caracollando sulle gambe grassocce, percorse la stessa strada. Quando si è davvero terrorizzati, nulla ha più importanza, tranne la salvezza. E lui vedeva la salvezza in quel cane massiccio e cespuglioso.
L’animale avanzava senza alcuna esitazione tra i rovi e i rami, come se molte altre volte avesse percorso la stessa strada, ma lo faceva velocemente, senza attribuire importanza all’arrancante e sudato marchese che gli correva dietro, attento a non perderlo. “Aspetta!” ansimò, inciampando nel mantello. Quella grossa macchia nera svoltò a destra e venne inghiottita dal buio. Il marchese emise un gemito di sconforto: “Non scomparire anche tu, ti prego!”
Ma il cane sembrava proprio essersi volatilizzato. Il marchese rallentò il passo, sconfitto: “Ti prego…” disse in un soffio. Camminò piano nella direzione presa dal cane, le lacrime che gli rotolavano sulle guance: “Ti prego…”
Di colpo i rami si aprirono e la luna lo investì in pieno, rivelandogli ciò che prima era stato nascosto dagli alberi. Il volto del marchese divenne una maschera di stupore puro: “In nome del cielo!”
Davanti a lui, al centro di un’immensa radura di erbacce, c’era un enorme maniero nero che svettava nella notte. 
 
“Che ci faceva un maniero in una foresta?” chiese subito Josh, non appena il cantastorie tacque un attimo. Il pezzo della foresta li aveva interessati tutti, e ora non ce n’era uno che non lo ascoltasse. Anche Tom aveva smesso di fare scene e lo fissava in silenzio. Il cantastorie rispose: “Sto per dirvelo”.
“Il cane era buono o cattivo?” chiese ansiosamente Annie. Intervenne anche Alex, un bambino magro e brufoloso: “Il marchese è stato proprio stupido a non dare ascolto alla matrigna cattiva”.
“E Lord Fox che ruolo ha in tutto questo?” si aggiunse Julie. Il cantastorie rise e sollevò la mano: “Calma, ragazzi, calma! Ci sto arrivando! Ascoltate…”

 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Il patto ***


CAPITOLO 3

 
 
 
 
 
 
Il marchese rimase immobile al limitare della radura, sopraffatto dallo stupore e dalla sorpresa. Fissava, con un misto di paura e di interesse, l’enorme castello che incombeva nella notte, simile ad un titano imponente e minaccioso. Era costruito con guglie aguzze e statue mostruose che facevano capolino da ogni lato, sbarrato da un pesante portone di ferro chiuso da due battenti a forma di testa di diavolo. Le finestre erano pozzi neri di buio, le torri fragili monumenti investiti dal chiarore lunare. Sembrava un maniero disabitato che era stato conquistato dagli spiriti della foresta.
Il marchese accennò qualche passo in quella direzione, intimorito. Mille domande gli affollavano la mente: chi viveva in un posto simile? Dove si trovava? Avrebbe trovato ospitalità? Di certo, non era né a Soledad né a Borgofiorito. Si strinse nel leggero mantello da viaggio. Fuori dagli alberi, sentiva ancora più freddo. E fame. E sonno. Doveva almeno tentare di ricevere ospitalità. Tanto peggio di così non poteva andare. D’altronde, colui che possedeva quel castello, per quanto esso fosse lugubre e inospitale, doveva essere di nobile nascita.
Un abbaio lo fece sobbalzare. Voltandosi, scorse il grosso cane nero che trotterellava verso il maniero e accennò perfino un sorriso: “Mi hai portato dal tuo padrone, eh? Grazie” preso il coraggio a due mani, si avviò in direzione della minacciosa costruzione. Se qualcuno gli avesse raccontato, solo poche ore prima, della disavventura che gli era capitata, non avrebbe creduto ad una sola parola. Era tutto dannatamente soprannaturale.
“Andrà tutto bene” mormorò tra i denti: “Non c’è nulla di cui preoccuparsi”.
Via via che si avvicinava al portone d’ingresso, scorse diverse statue ricoperte di erbacce che costeggiavano la radura. Ritraevano tutte draghi, bicefali e altre creature mitologiche nell’atto di assalirlo. Deglutì rumorosamente. “A quest’ora sarei già arrivato a Borgofiorito, e gusterei tè e biscotti al burro con il conte” sibilò. Parlare da solo lo aiutava ad affrontare la paura crescente.
Una volta giunto di fronte all’immenso portone, esitò. Come annunciarsi? Nessuno sembrava essersi accorto del suo arrivo, e il cane doveva essersi già introdotto nel maniero. Con le mani che tremavano, afferrò uno dei due battenti e lo picchiò sul portone tre volte, ansimando: era pesantissimo! Poiché non rispondeva nessuno, e freddo e fame crescevano, si gettò contro il portone e lo aprì per metà. Si fece avanti in quello che doveva essere l’atrio balbettando: “È permesso? C’è qualcuno?”
L’interno era minaccioso addirittura più dell’esterno. Muri e soffitto erano di nuda pietra, il pavimento era coperto da tappeti ricavati dalle carcasse di animali impagliati, e oltre l’atrio si diramavano una serie di oscuri corridoi illuminati solo dalla fioca luce delle torce appese alle pareti. Il marchese si chiuse il portone alle spalle pieno di paura e di ansia: “C’è nessuno?” disse un po’ più forte. Nessuna risposta. Si guardò attorno in quel tripudio di pietra. Faceva meno freddo che fuori, ma l’aria era carica di un gelo sottile. Avanzò un poco: “M-mi sono perso nel bosco, p-potreste concedermi ospitalità per la notte? Sono il m-marchese di Soledad. P-potrei ricompensarvi profumatamente!”
Ancora niente. La sua voce produceva un eco che si perdeva in lontananza. Il marchese udì un movimento e avvistò il cane nero che lo fissava all’ingresso di uno degli stretti corridoi. Rassicurato da quella presenza in qualche modo amica, gli chiese: “Dov’è il tuo padrone? Dove mi hai portato, bello?”
La bestia emise un ringhio sommesso e si infilò nel corridoio. Al marchese non restò che seguirlo. Era il suo gomitolo di Arianna. “Se solo il conte non mi avesse invitato, ora starei dormendo con la mia famiglia” pensò. Se riusciva ad uscirne, si ripromise di non partire mai più da Soledad.
Ai lati dei bui corridoi erano disposte statue mostruose e armature d’acciaio, che sembravano scrutare il marchese che passava. Non c’erano decorazioni, in quel castello. Ad un certo punto ci si imbatteva in una teca al cui interno erano posti in bella mostra diversi animali impagliati. Il marchese si avvicinò e li scrutò: un trampoliere, una lepre, una marmotta e altre bestie che lo fissavano con vuoti occhi di vetro. Rabbrividì, e scorse sulle pareti teste di cinghiale e corna di cervo. C’erano anche pelli di animale disposte sul pavimento di pietra. Natalie sarebbe svenuta, se avesse visto. Osservando un topolino bianco impagliato, pensò ad Armageddon, e il volto di Isadora gli tornò prepotente alla mente, riempiendolo di rimpianto.
Il cane nero, che si era fermato mentre lui osservava quei macabri trofei, lo richiamò con un verso impaziente. Quando il marchese si fu voltato, l’animale ricominciò a camminare, e l’altro gli venne dietro.
Si incominciò ad intravedere una luce più intensa delle altre che proveniva da una stanza situata alla fine del corridoio che stavano attraversando, e il rumore di qualcosa che bolliva in pentola. L’odore fece fremere di desiderio il marchese: sembrava carne arrosto…affrettò il passo, allungando le mani verso la luce.
Il cane, invece, lanciò un abbaio festoso e scattò in avanti, superando il marchese e giungendo alla fine del corridoio in quattro balzi. D’improvviso una sagoma scheletrica uscì dalla stanza illuminata e allargò le braccia verso il meticcio, esclamando con voce rauca e femminile: “Bruto! Sei tornato, eh?”
Il marchese si pietrificò dov’era. Per un po’ la sagoma e il cane si fecero le feste a vicenda, poi questa prima sollevò lo sguardo e lo scorse immobile in mezzo al corridoio. Si immobilizzò a sua volta, poi cacciò un urlo così terrificante che il marchese fu costretto a tapparsi le orecchie: “Bruto!” strillò la figura, senza porsi limiti di volume: “Hai portato un estraneo nel castello?! Oh, come hai potuto?! Il padrone mi ucciderà!”
“Ehm, chiedo scusa” balbettò il marchese, facendosi avanti timidamente: “Io sono…”
Ma la figura scattò in avanti e lo raggiunse senza dargli il tempo di pronunciare un solo monosillabo. Lo agguantò per un braccio con la mano lunga e nodosa e lo trasse a sé.
Era una vecchietta davvero decrepita. Il marchese non aveva mai visto qualcuno in un simile stato di deterioramento: era scheletrica, ma scheletrica davvero, tanto che si vedevano le ossa che sporgevano dal costato e il cranio premeva pateticamente sulla pelle tesa come un foglio di cartilagine. Aveva un viso ricoperto da una ragnatela di fitte rughe, incorniciato da una massa stopposa di capelli grigi raccolti sotto una cuffia sudicia. Portava un lurido straccio addosso e zoccoli dall’aria ingombrante, e aveva un grembiule pieno di macchie d’unto intorno ai fianchi ossuti. Gli occhi opachi guardavano in direzioni diverse, ma nel complesso sembrava una persona mite e un po’ toccata.
Il marchese rabbrividì di ribrezzo quando la vecchietta lo afferrò per il braccio. Puzzava da far paura. Ma si sentì anche rassicurato: non ci si poteva aspettare nulla di male da una nonnina e un cane. La sua ospite lo fissò con lo sguardo strabico e fisso e gracchiò: “Presto, vattene via, finché sei in tempo!”
“Perdonatemi, signora” fece compunto il marchese: “Ma mi sono perso nel bosco, ho freddo e fame, e non ho un posto dove andare. Potete concedermi cibo e ospitalità per una notte?”
“No!” urlò la vecchia: “Bruto non avrebbe dovuto portarti qui! Vattene subito, altrimenti il padrone ammazza te e chiude me in soffitta!”
Il marchese non ci capiva niente e sospettava che alla vecchietta mancasse qualche rotella: “Avete un padrone?” chiese. Lei annuì freneticamente e provò a spingerlo lontano dal corridoio: “Oh, sì, e dovresti ringraziare il cielo che non sia in casa…che dire, è un bravo ragazzo, ma…” si interruppe e scosse con violenza la testa: “Non dobbiamo perdere tempo! Sarà di ritorno a breve, e se ti trova saranno guai, oh, se lo saranno!”
“Signora” sussurrò il marchese con tono implorante: “Dove potrei andare, con questo freddo, a quest’ora di notte? Permettetemi almeno di mangiare qualcosa. Vi prego, non ho nient’altri che voi a cui appellarmi per un po’ di pietà” crollò in ginocchio e le afferrò una delle mani rugose, superando il ribrezzo che lei gli ispirava. Chiunque fosse quel misterioso padrone, di certo non l’avrebbe ucciso! Vide comparire negli occhi strabici della vecchia un lampo di compassione: “Messere, io voglio aiutarti, davvero” gracchiò: “Ma se rimani, finiremo male entrambi. Sai cosa è successo all’ultimo disperso che Bruto ha portato qui?” rabbrividì, come se solo il ricordo le facesse paura. Il marchese insistette, cocciuto: “Allora offritemi almeno un po’ di cibo. Non chiedo altro, un pasto caldo e poi me ne andrò”.
Scorse l’indecisione farsi strada sul volto della sua buona samaritana e le strinse la mano ossuta con foga: “Vi prego…ho una moglie e una figlia che mi aspettano a Soledad…”
Al che la vecchia, che era un tipo sentimentale, si arrese: “Vada per il cibo. Ma devi fare in fretta! Nessuno capita qui da anni!” gli fece strada dentro alla stanza illuminata, che si rivelò essere un’imponente sala da pranzo al cui centro troneggiava un massiccio tavolo di legno con due sole sedie. “Accomodatevi” fece la vecchietta, rivolgendogli un sorriso sdentato: “Sarò qui tra un attimo” scomparve nelle cucine, che dovevano comunicare con quella sala.
Il marchese sedette cautamente a capotavola. Forse non era stata una grande idea chiedere aiuto alla strana vecchia. In quel lugubre maniero parevano accadere cose misteriose e poco raccomandabili. Ma scorgendo il buio fuori dalle finestre, si disse che tutto era preferibile al freddo e al digiuno.
La vecchietta tornò recando un piatto molto grande sul quale era posata una piccola fetta di carne di montone. Si era rassettata il grembiule e la cuffia sudicia senza troppo successo. Quando vide il marchese seduto a capotavola, sbiancò e quasi lasciò cadere il piatto: “No!” strillò: “Non sulla sedia del padrone! Spostatevi!”
Stranito, il marchese cambiò posto, poi la vecchia gli mise di fronte la fetta di carne. Il marchese sollevò un sopracciglio: “Ehm ehm” fece. La vecchia si girò: “Sì?”
“Le…ehm…le posate?”
“Ah! Giusto!” la vecchietta sfrecciò di nuovo nelle cucine. Il marchese si sentiva sempre più stranito. Lei tornò un secondo dopo stringendo trionfante una forchetta e un coltello di dimensioni notevoli, che sbatté di fronte all’ospite: “Ecco qua. Dovete perdonarmi, messere, ma dopo tanti anni si fa fatica a mandare avanti il mestiere”.
“Chi siete?” le chiese curiosamente il marchese, avventandosi sul montone. Aveva un sapore un po’ rozzo, ma nel complesso lo sfamava. La vecchietta sorrise impettita e declamò: “Sono la domestica Katrina. Mando avanti questo castello da cinquant’anni, per servirvi…”
“Marchese di Soledad” si presentò lui, impacciato. Katrina sorrise e gettò verso il cane Bruto, che si era acciambellato sulla soglia, un secondo pezzo di montone. L’animale lo aggredì voracemente, strappandogli brani con i lunghi denti. Il marchese, deglutendo il cibo, disse: “E chi è il padrone del castello?”
“Oh” il viso rugoso della domestica si fece più pallido: “Non ho servito solo lui” confessò a fatica, senza rispondere direttamente alla domanda: “Per molto tempo ero al servizio del padre. Sono sempre stata l’unica a servire, qui. Il vecchio padrone non era molto…avvezzo a trattar bene la servitù. Pensi” aggiunse con tono polemico: “Una volta mi dimenticai di preparargli della salsa per cena e mi diede venti bastonate!”
“Che cosa terribile!” esclamò indignato il marchese. Lui aveva sempre trattato la servitù come se facesse parte della famiglia. Katrina annuì, desolata: “Io non mi lamento, anzi, ormai faccio parte della famiglia, però…il vecchio padrone ci andava tosto, a volte. Poi, alcuni anni fa, è morto, ed è arrivato il nuovo padrone. Lui è migliore di quello vecchio, perché non è mai cattivo con la povera Katrina, ma si sforza sempre di assomigliare al padre, e non sopporta gli estranei e le incurie”.
“E chi è? Un nobile?” insistette il marchese, tutto preso dal montone. Katrina scosse la testa e un sorriso parve sfiorarle le labbra screpolate: “Oh, no, nulla di tutto questo. Lui…” d’improvviso si accigliò e si diede uno schiaffo: “Zitta, Katrina! Parli troppo” rivolgendosi all’ospite, tornò a sorridere: “Dicevamo?”
“Questa è matta” pensò il marchese. Si sforzò di suonare cortese: “C’è mai stata una padrona?”
“Una padrona?” fece Katrina: “All’epoca del vecchio padrone c’è stata una specie di padrona…ma da quando hanno dato alla luce il nuovo padrone, lui l’ha cacciata. D’altronde fanno tutti così”.
“Chi fa così?” chiese il marchese, che pensò con amarezza all’abbandono della sua prima moglie. In quel caso era stata lei, in un certo senso, a cacciare lui. Katrina rifece quel sorrisetto enigmatico: “Beh, gli…”
Non fece in tempo a finire la frase. Si udì di colpo il botto del portone che veniva aperto e il rumore del vento che proveniva da fuori. Il marchese sobbalzò, il cane Bruto sollevò la testa dai resti del suo pasto. Ma la domestica Katrina precipitò nel panico più assoluto. Gli occhi pallidi si spalancarono, il corpo prese a tremare convulsamente e la bocca si aprì in un urlo muto. Poi esplose: “Oh, no! È tornato! È tornato e tu sei ancora qui! Lo sapevo che non avrei mai dovuto permetterti di restare! Ma tu mi facevi gli occhi dolci…e ora cosa faccio?! Cosa faccio?! Se ti scopre ci ucciderà! Aiuto! Aiuto!”
“Ma che…” balbettò il marchese, spaesato. Dei passi pesanti ai piani inferiori risuonavano lugubri nel silenzio e si avvicinavano sempre più alla sala da pranzo. Katrina si riebbe di colpo dalla trance. Terrorizzata, agguantò il marchese brutalmente: “Nasconditi sotto il tavolo, presto!”
“C-che?”
“Presto! Resta lì e non muoverti! Lo dico per il tuo bene” lo implorò Katrina. Sembrava a tal punto terrorizzata che trasmise al marchese la paura e lui fece come gli era stato detto, rintanandosi sotto al massiccio tavolo di legno. Si raggomitolò e fissò da là sotto, con un misto di terrore e di meraviglia, i piedi della domestica che correvano alla rinfusa. Non capiva più niente, non riusciva a dare un senso a quanto stava accadendo. “Perché non me ne sono rimasto a Soledad?” pensò per l’ennesima volta.
Katrina afferrò il piatto del marchese mentre i passi continuavano ad avvicinarsi e, piena di foga, gettò il restante montone dalla finestra per cancellare le tracce. Il marchese assisteva da sotto al tavolo, tremante e spaurito. La vide correre nelle cucine, poi tornare con un piatto e un bicchiere che sistemò a precipizio sulla tavola. Si girò di qua e di là per controllare che tutto fosse a posto, poi fissò il tavolo e storse la bocca: “L’odore si sentirà da chilometri…”
“L’odore?” pensò il marchese. I passi erano ormai prossimi alla soglia. Che cosa si stava avvicinando? Era sempre più confuso e spaventato. Più di lui lo era Katrina, che tremava leggermente, sforzandosi di assumere un atteggiamento rilassato. Si lisciò il grembiule con movimenti convulsi e afferrò il mantello che il marchese aveva lasciato sulla sedia, gettandolo sotto al tavolo dov’era anche il proprietario: “Non muoverti, non farti sentire” gli sussurrò a voce appena udibile. Lui rimase immobile.
Poi la porta della sala da pranzo venne brutalmente aperta e andò a sbattere contro lo stipite. Il marchese non osava guardare. Sentì Bruto che abbaiava festante e che si spostava dal punto in cui si era acciambellato, e poi sentì una voce tonante che gli fece accapponare la pelle esclamare: “Ho sentito dei rumori, Katrina. Cosa c’è?”
Non era una voce umana. Katrina, però, essendoci abituata, rispose con tono innocente: “Che rumori, padrone? Avrete sentito me che parlavo da sola”.
“Strano” commentò, glaciale, la voce stentorea: “Avevo la netta impressione che tu stessi parlando con qualcuno”.
“Vi sbagliate, padrone” fece Katrina, con un leggero tremito nella voce: “A volte sembra proprio che mi rivolga a qualcuno, ma converso da sola”.
Il padrone emise un grugnito insoddisfatto ed entrò nella sala da pranzo. Fu solo allora che il marchese osò guardare. Dovette premersi una mano sulla bocca per impedirsi di urlare, soffocato dal terrore: un orco! Era un orco il padrone del castello! Era imponente e massiccio e superava di numerosi centimetri sia lui che Katrina, e vestiva di una rustica casacca da cacciatore e di pantaloni in pelle di animale. Portava un cinturone con le borchie da cui pendevano brandelli di pelli di cacciagione, e stivaloni di cuoio. Al cinturone erano assicurati inoltre una lunga serie di coltellacci dall’aria minacciosa. Inutile dire quanto fosse spaventoso, quanto i suoi occhi ardessero, quanto la sua bocca somigliasse ad un pozzo nero, quanto quelle cespugliose sopracciglia fossero aggrottate.
Il marchese era mezzo morto dallo spavento. Era capitato nella tana del lupo senza saperlo, dritto dritto nelle fauci di un orco. Ora era tutto chiaro: il maniero lugubre e disabitato, la domestica toccata, il cane nero…il marchese rammentò cosa si diceva sugli orchi e rabbrividì: mangiavano carne umana. “Mi mangerà” pensò, reprimendo a stento i singhiozzi: “Mi mangerà…”
L’orco fiutò l’aria a lungo: “Credo” disse dopo un istante, con la sua voce tonante: “Credo che tu mi nasconda qualcosa, Katrina”.
“Ma cosa dite, padrone?” farfugliò lei: “Io non vi nasconderei mai nulla, questo lo sapete. Avete fatto buona caccia?” chiese per cambiare argomento. Con un verso irritato, l’orco lasciò cadere con malagrazia il pesante sacco che portava sulle spalle e crollò a capotavola, appoggiando i gomiti sul tavolo: “Qualcosa ha fatto scappare tutti gli animali, Katrina. Ho visto un calesse senza conducente dirigersi imbizzarrito per la foresta. Ho dato un’occhiata al carico: tutte cose abbastanza preziose…” affilò lo sguardo: “Secondo te dove è finito il conducente?”
Il marchese, singhiozzante e tremante, esattamente sotto l’orco, coi suoi grossi piedi a pochi centimetri, emise un muto singulto. Katrina sembrò soffocare: “Non ne ho idea, padrone. Volete che vi porti la cena?”
“Naturale. Altrimenti non mi sarei preso il disturbo di venire qui” sibilò l’orco. Scattante e solerte come pochi, Katrina annuì ed entrò in cucina guardando nervosamente il tavolo. Disperato, il marchese mimò con le labbra: “Non mi abbandonare” ma lei gli restituì solo uno sguardo desolato, poi scomparve alla vista.
Rimase solo con l’orco. Il cuore gli batteva a mille in petto, e aveva una voglia matta di mettersi a urlare. Ma resisteva. Lui, il goffo, il pacioso, il pavido marchese di Soledad che teneva duro sotto a un tavolo, nel maniero di un orco seduto pochi passi più in là. Si sentì quasi importante. Poi Bruto arrivò trotterellando e si alzò sulle zampe posteriori. La grande mano dell’orco si abbassò e grattò distrattamente la testa dell’imponente meticcio. Che, guarda caso, si accorse del marchese sotto al tavolo e tornò ad appoggiarsi sulle quattro zampe. Abbaiò piano. Il marchese, pallido come un cencio, lo implorò silenziosamente: “In nome del cielo, Bruto, non mi tradire…”
Divertito da quello che gli sembrava un gioco, il cane abbaiò ancora. L’orco borbottò: “Cosa c’è, adesso?”
Il cuore del marchese prese a battere a velocità decuplicata. A salvarlo fu Katrina, che tornò recando un piatto enorme su cui era posto l’intero montone affumicato. Lo appoggiò dinnanzi all’orco, che afferrò le posate. Quando stava per dare il primo morso, però, si bloccò: “Perché ne manca una parte?”
“Come?” disse Katrina. L’orco, innervosito, ripeté alzando la voce: “Perché ne manca una parte, Katrina?”
“Er…ecco…l’ho data a Bruto, come voi avevate ordinato, no?” abbozzò lei. L’orco tamburellò le dita massicce sul tavolo, che vibrò sopra al marchese: “Così tanta?” Katrina annuì con aria falsamente sottomessa: “Ho sbagliato? Bruto sa essere davvero persuasivo, a volte”.
“Uhm” poco convinto, l’orco incominciò a mangiare. La tensione era al massimo. Il marchese avvertì, sempre più impellente, il bisogno di starnutire. Con tutto il freddo che aveva preso, era più che naturale. Ma starnutire in quella situazione era come trafiggersi di propria volontà con una spada. Si tappò naso e bocca con una mano, ma il bisogno continuava. Cercò di pensare a Natalie, ad Isadora, alla gioia che avrebbe provato rivedendole, ai profumi di Soledad…ma si perse a tal punto nei ricordi che staccò un attimo la mano e risuonò, secco il suono del suo starnuto. Il sangue gli si ghiacciò nelle vene, e maledisse il giorno in cui era nato.
L’orco sobbalzò e balzò in piedi con un unico movimento. Katrina, da parte sua, si appiattì atterrita al muro. L’orco le gridò contro, formidabile nella sua furia: “Sporca bugiarda! Mi hai mentito di nuovo!” chinandosi, strappò la tovaglia dal tavolo brutalmente. Katrina si coprì il volto con le mani: “No!”
Il marchese cacciò un urlo quando la faccia dell’orco comparve sotto al tavolo. I suoi occhi di brace lo fissarono, furibondi. Allungò una mano senza dire una parola. Gli sforzi del marchese di gattonare lontano furono inutili: lesto come una serpe, il suo aguzzino lo afferrò per la casacca e lo trascinò scalciante fuori dal tavolo, sovrastandolo in tutta la sua terribile stazza. “Noo!” gridò il marchese con tutto il fiato che aveva in gola, il viso rigato di lacrime: “Noo!”
“Posso spiegare, padrone!” strillò Katrina, su di giri quanto lui. Ma il volto dell’orco era contratto dalla furia: “Taci! Con te farò i conti dopo!” prese il marchese gemente per il collo, lo sollevò come se pesasse meno di una piuma, e lo sbatté con violenza contro una delle pareti di pietra. Il marchese gemette di dolore. Il furore non abbandonò i tratti dell’orco nemmeno per un istante mentre estraeva dal cinturone uno dei coltellacci e premeva la fredda lama sulla gola del marchese. Lui si sentì mancare e provò una nausea impellente. Gli sembrava di vedere la morte in faccia.
“Non fatelo, padrone” tentò ancora Katrina, disperata, senza osare farsi avanti: “Il signore aveva freddo, si era perso, e voleva solo passare la notte in un posto caldo…”
“Sempre la stessa storia” ringhiò l’orco, stringendo la presa sul collo del marchese: “Come se importasse qualcosa!” premette più a fondo la lama sulla pulsante vena giugulare della vittima: “Come hai osato entrare nel mio territorio?”
“C-chiedo scusa, i-io non s-sapevo che questo f-fosse il vostro t-territorio” farfugliò il marchese in tono quasi incomprensibile. Piangeva e farfugliava, farfugliava e piangeva, mezzo soffocato dalla presa dell’orco. Il quale scoprì i denti in un sorriso maligno: “Non lo sapevi? Eppure ti avranno detto che questo non era uno dei regni che conoscevi…”
“S-sì, ma io…”
“Cosa?” la mano lo soffocava con sadica lentezza. Il marchese lo pregò con un fil di voce: “Non mi mangi”.
A quel punto, l’orco gettò indietro la testa e scoppiò in una risata da far venire la pelle d’oca: “Mangiarti?” chiese, rabbioso e divertito insieme: “No, mi faresti troppo schifo. Ti sei introdotto nel mio territorio, sei entrato in casa mia, hai corrotto la mia domestica, hai mangiato il mio cibo e pensavi anche di darmela a bere. Morirai, ma sarà per mano di questa lama”.
Il marchese ansimò disperatamente: “Vi prego, farò qualunque cosa…ho moglie e figli…”
“Pensi che la cosa mi importi?” disse l’orco, implacabile nella sua furia: “Potevi pensarci prima di entrare nel mio territorio. Nessun forestiero può farlo e sopravvivere”.
Il marchese aveva la lama sempre più vicina alla gola: “Sono il marchese di Soledad, se mi risparmierete saprò ricompensarvi profumatamente”.
L’orco non abbandonò né la presa né la rabbia: “Non c’è gioiello che compensi la tua violazione del mio territorio”.
“Ma saprei farvi proposte interessanti!” insistette il marchese con disperazione. Katrina intervenne: “Dategli ascolto, padrone” l’orco la mise a tacere con un ringhio. Il marchese riprese quasi subito a parlare, sforzandosi di sembrare invitante: “Ho denaro a palate, sapete? Volete…volete il denaro? Dite una cifra, sarò ben lieto di concedervela!”
“Il denaro non mi interessa” sibilò l’orco, che era sempre più infuriato da quelle chiacchiere. Ma, poiché pareva non volerlo uccidere mentre parlava, lui lo fece ben presto, lavorando freneticamente di cervello per trovare una ricompensa appropriata: “Che ne dite di gioielli e pietre preziose? Vi piacerebbero?”
L’espressione dell’orco non cambiò di una virgola. Gli occhi gli ardevano come fuoco: “Ne ho fin troppi. Ve l’ho già detto, morirete. Cercate almeno di farlo con dignità”.
“Aspettate!” strepitò il marchese: “Ci dev’essere qualcosa che…ho trovato! Architetti per abbellire il vostro castello?”
“No”.
“Servi giovani e in gamba?”
“No”.
“Assaggiatori?”
“No”.
“Musici e bardi per allietarvi la serata?”
“Noo!” esplose l’orco alla fine, fuori di sé. Il marchese si sentì privo di speranza. Non c’era nulla che inducesse l’orco a ragionare. D’altronde gliele aveva proposte tutte. Doveva dunque morire? Osservò il coltellaccio che calava. No, non poteva finire così! Doveva esserci qualcosa che l’orco trovasse interessante…se solo gli fosse venuta in mente prima che…prima che…
Un’idea assurda prese forma nel suo cervello. Ripensò alla frase che Isadora gli ripeteva sempre: “Io farei qualsiasi cosa per te, papà. Qualsiasi”.
“No” si disse: “Non posso farlo. Ma se…”
Quando il coltello era prossimo ad affondargli nel collo, e Katrina si era già coperta gli occhi con le mani, il marchese gridò la sua ultima speranza: “Ho una figlia in età da marito, brava e servizievole! Una moglie zitta che non dà problemi! Potrei offrirvela!”
Chiuse gli occhi e li strinse, aspettandosi di sentire il dolore. Che non venne. Lentamente, il marchese riaprì gli occhi, stupefatto. L’orco lo teneva ancora per il collo, la mano che reggeva il coltello ferma a mezz’aria. Tuttavia, la sua espressione era cambiata, e da furibonda era diventata pensierosa e colpita. Parve riflettere per lunghi, infiniti istanti che il marchese passò in apnea. Alla fine borbottò, accigliato: “Una figlia in età da marito”.
“Sì! Sì, una forte e giovane fanciulla di nome Isadora pronta a soddisfare il prossimo ad ogni occasione” singhiozzò il marchese, sorvolando gli episodi che c’erano stati con i corteggiatori. Bastava dire all’orco quello che voleva sentirsi dire. Lui allentò leggermente la presa sul collo del marchese, sempre in riflessione: “Sa fare i mestieri, portare avanti la casa?”
“Ma certo! È lei che tiene in ordine la magione di famiglia!” mentì prontamente il marchese. Katrina si scostò le mani dagli occhi e li fissò, stupita. L’orco fece una smorfia, come se gli rodesse ammettere di essere prossimo ad un compromesso: “Sta a sentire” disse con tono brusco: “Mi serve una moglie, ma solo per trovare una persona che gestisca il castello…non un incapace” gettò a Katrina un’occhiata di fuoco: “Per cui potrei prendere tua figlia, ma non garantisco per quello che succederà poi”.
Il marchese si rese improvvisamente conto di quello che stava per fare. Stava per vendere la sua pupilla ad un orco assetato di sangue e per distruggerle i sogni…ma dato che il coltello non era ancora tornato alla cintura, continuò ad annuire: “Io ti darò in moglie mia figlia, ma tu mi risparmierai”.
L’orco lo lasciò andare e lo osservò sputacchiare e tossire con aria imperturbabile. Poi gli tese la grande mano callosa: “Facciamo un patto, straniero” sibilò: “Io ti risparmio la vita, ma tu porti qui tua figlia entro tre giorni e tre notti. Bada, però” soggiunse, stringendo minacciosamente gli occhi: “Se non lo farai, se ti dimostrerai spergiuro, la mia vendetta sarà terribile. Andrò nel regno in cui vivi e ne ucciderò tutti gli abitanti, insieme a te e alla tua famiglia. Chiaro?”
Il marchese deglutì. Non c’erano vie di fuga. Condannare Isadora, o morire nel peggiore dei modi. Esitò di fronte alla mano dell’orco. Che fare? Alla fine l’istinto di conservazione e la paura ebbero la meglio e strinse la mano dell’orco con un brivido: “Ci sto” balbettò. L’orco annuì: “Abbiamo un accordo, allora. Ora vattene, e non farti rivedere se non insieme a tua figlia, pronta per le nozze”.
Il marchese si voltò e uscì dalla sala da pranzo di corsa, soffocato dai singhiozzi e dal rimorso. Katrina, felice come una pasqua, batté le mani al pensiero di una compagna di sventura: “Un matrimonio, che gioia!” quando però il suo padrone le rivolse uno sguardo minaccioso, tornò precipitosamente alle sue faccende.
Una volta uscito dal maniero, il marchese provò quasi sollievo nel freddo della foresta. “Isadora mi odierà per sempre” pensò. Ma se tentava di scamparla, l’orco li avrebbe uccisi tutti. Si avviò verso Soledad con la morte nel cuore.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Caro padre ***


CAPITOLO 4

 
 
 
 
 
 
Su Soledad quella mattina splendeva un sole timido e benefico, e un venticello fresco spirava nell’aria. Isadora si godeva il fresco del mattino da una finestra ai piani alti della sontuosa magione del marchese e fantasticava sul ritorno del padre e sui doni che le avrebbe portato. Lui le mancava terribilmente, anche se era andato via solo il giorno prima. Immaginava il prestigio che la sua famiglia avrebbe acquistato grazie all’alleanza con il conte DeGuisky. Finalmente Anastasia, Genoveffa e le altre ragazze del villaggio avrebbero smesso di guardarla dall’alto in basso.
“Ti sta venendo un filo storto come uno zoppo, marchesina Isadora”.
La ragazza sussultò, e si ritrovò improvvisamente seduta su un divanetto con un lavoro a maglia sulle ginocchia. Natalie sedeva di fronte e lavorava ad uncinetto. Mentre il suo filato era impeccabile, quello di Isadora era misero e malfatto. La matrigna la trafisse con una delle sue solite occhiate di disapprovazione: “Invece di guardar fuori dalla finestra dovresti concentrarti sul tuo lavoro”.
Isadora sbuffò: “Io ci provo, matrigna Natalie, ma mi viene sempre male”.
“Piangersi addosso è il rifugio dei perdenti” sibilò lei implacabile: “È un modo stupido per giustificarsi di un comportamento inetto”.
“Grazie per avermi illuminata sulla mia natura di perdente” mugugnò Isadora. Con un lungo sospiro, tornò a guardare fuori dalla finestra e lasciò cadere lo sguardo sulle vie caotiche di Soledad. Un gruppo di bambini giocava con le biglie accanto alla fontana, delle donne portavano brocche piene d’acqua sulla testa, e una figura era ferma accanto ad una palazzina di pietra. Isadora si chiese con un brivido se fosse l’enigmatico Lord Fox. Era diventato il suo personale spiritello dispettoso, anche se non sapeva perché. Aveva negli occhi verdi una luce strana che cresceva ogni volta che la vedeva. Dal canto suo, in quei due giorni Isadora gli aveva sbattuto la porta in faccia almeno dieci volte senza che recepisse il messaggio.
Fu mentre osservava quel caotico viavai di gente che notò un uomo che si avvicinava con passo da zombie alla magione, solo. Aveva un che di familiare, e lo osservò più attentamente. Indossava vestiti stropicciati e sporchi, che innegabilmente però erano di stoffa pregiata. I capelli grigi erano arruffati, e non c’era alcuna traccia del calesse né dei regali che aveva promesso. Isadora mormorò: “Ehi, ma quello non è…” poi, quando l’uomo si fu fermato di fronte alla magione, il viso della ragazza si illuminò di un sorriso di gioia pura: “PAPÀ!!”
“Che?” balbettò Natalie, sobbalzando. Isadora balzò in piedi come una molla, raggiante come un sole calato in terra, gli occhi azzurri luminosi, indicando freneticamente l’uomo immobile in strada: “È papà!” gridò come se fosse appena apparso il Creatore. Natalie apparve confusa: “Ma sarebbe dovuto tornare minimo domani…”
“Che importa? Ora è qui!” esclamò felice Isadora. Senza aspettare che la matrigna aggiungesse qualcos’altro, corse fuori dalla stanza e si gettò a rotta di collo giù per le scale, sempre sorridendo gioiosamente, sempre gridando: “Papà!”
Era magnifico che fosse tornato in anticipo. Avrebbero passato la giornata insieme e lui le avrebbe raccontato un sacco di cose interessanti su Borgofiorito e sul conte DeGuisky. Al diavolo il lavoro a maglia, al diavolo Natalie e al diavolo il dovere. Era tornato suo padre! Mentre scendeva a precipizio le scale, i capelli biondi che le cadevano scarmigliati sulle spalle, urtò il maggiordomo che invece le saliva con una tazza di tè per Natalie. L’uomo la lasciò cadere con un grido e quella andò in frantumi. Irato, si girò: “Ehi!” ma la gioconda sorridente era già sfrecciata lontano senza neanche chiedere scusa.
Isadora raggiunse ansimando il portone d’ingresso e si rivolse ai servitori che erano nell’atrio: “Aprite, presto, è tornato mio padre!” impaziente attese che quelli avessero obbedito, poi, quando ebbe via libera per l’esterno, volò fuori dal palazzo e ripeté per la terza volta: “Papà!”
Venne investita dal calore del sole. Suo padre era là, a pochi metri da lei, e la fissava come pietrificato. Senza smettere di sorridere, gli corse incontro: “Papà! Sei tornato!” allargò le braccia per abbracciarlo. Ma si bloccò quando lo vide bene. Il marchese non era più lo stesso: gli abiti gli pendevano a brandelli, i capelli radi erano tutti ingarbugliati, e il volto aveva un pallore mortale. La fissava con gli occhi sbarrati, come se avesse di fronte un fantasma. Isadora si fermò con le braccia ancora alzate in un abbraccio, e dalla gioia la sua espressione passò alla perplessità: “Papà? Tutto bene?” mormorò. Lui sbarrò ancora di più gli occhi e non rispose. Isadora iniziò a percepire una vaga inquietudine: “Dov’è il calesse?”
Il marchese aprì la bocca, ma non ne uscì alcun suono. Isadora lo afferrò per le spalle, spalle inerti: “Che ti succede? Stai male?” bisbigliò. Tutta la gioia che l’aveva animata poco prima era stata risucchiata via dall’angoscia. Cos’aveva suo padre? Era così pallido e apatico…lo scosse leggermente e percepì un peso che le occludeva la gola: “Papà, rispondimi, ti prego!”
Il marchese esalò un gemito e si accasciò senza un lamento sulla strada. Terrorizzata, Isadora lo sostenne goffamente e gridò a pieni polmoni: “Natalie! Natalie, vieni, papà sta male!!”
La matrigna accorse prontamente e si chinò sul marito, afferrandolo laddove Isadora non riusciva a tenerlo: “Caro, cos’è successo?” nella sua voce c’era una nota di ansia, ma, a differenza di Isadora, le sue reazioni erano più controllate. Il marchese, pallidissimo, non dava cenni di vita. Isadora divenne tutta rossa e gli occhi le si fecero lucidi di lacrime: “Papà…” singhiozzò. Anche il viso di Natalie era pallido di ansia, ma prese in mano la situazione con una forza che Isadora, stranamente, le apprezzò: “Portiamolo dentro, presto, Isa”.
Sorpresa dell’essere stata chiamata per soprannome per la prima volta, la ragazza obbedì. Le due donne tirarono su a fatica il marchese, che giaceva abbandonato alla loro presa, e lo trascinarono in direzione del portone d’ingresso. Isadora lottava arduamente con le lacrime. Non riusciva a concepire che qualcuno potesse aver fatto del male a suo padre, una persona così mite, buona e altruista. Temeva di perderlo, perché sapeva che non avrebbe avuto più nulla. Lui la fissò e parve prendere vita all’improvviso: “Non odiarmi” biascicò con voce fioca. Isadora si sforzò di sorridergli dolcemente: “Odiarti? Come potrei, papà? Io ti voglio bene”.
“Non odiarmi” ripeté lui come una cantilena. Lo scortarono fino ad un grosso tavolo in legno di noce e lo fecero sedere su una sedia. Il marchese vi piombò sopra come un sacco. Natalie gli deterse la fronte con un fazzoletto imbevuto d’acqua e si rivolse seccamente ad una domestica di passaggio: “Portami dell’acqua zuccherata, Trudy” quella annuì. Isadora aiutò il padre a togliersi la giacca rovinata, poi gli prese tra le sue una delle mani inerti, vi posò un lungo bacio e gli chiese con viva ansia: “Cos’è accaduto? Sei stato aggredito dai briganti?”
Trudy ritornò con un bicchiere che porse a Natalie. Lei lo accostò alle labbra del marchese e lo aiutò a bere. Lui lo fece avidamente, come se non bevesse da anni. Quando ebbe finito, Natalie depose il bicchiere, poi piantò gli occhi affilati nei suoi e chiese: “Ora però devi raccontarci, caro. Sei ferito? Oppure solo sconvolto?”
“Io…io…” farfugliò lui. Se prima era immobile, ora tremava violentemente, e Isadora provvide ad avvolgerlo in una calda coperta: “Ti prego, papà, dì qualcosa. Altrimenti non possiamo aiutarti!” lo implorò. Lui volse lentamente la testa e la fissò. L’affetto disarmante con cui lo guardava gli fece sentire una fitta al cuore. Era stato vigliacco, vigliacco ed egoista. Lei non lo meritava. Ma ormai si era messo in trappola: in gioco c’era la vita di tutti loro. Così parlò: “Ho rovinato la tua vita, Isa. Ma ti giuro che non volevo”.
Così raccontò tutto. Provava dolore a farlo, ma doveva. Parlò di come si era perso nella foresta, del cane Bruto, del maniero, di Katrina, dell’orco e del patto che era stato costretto a stringere con lui. Si sentiva morire via via che andava avanti, quasi non osava guardare in faccia sua figlia.
Mentre Natalie mantenne un’espressione imperturbabile durante tutto il racconto, Isadora lo ascoltò dapprima con interesse ansioso. Lentamente quell’interesse si mutò in paura, una paura premonitrice. All’ultima parte del racconto, le guance rosee della giovane persero completamente il loro colore, gli occhi si spalancarono, le mani le salirono istintivamente alla gola. Di colpo scattò in piedi e si allontanò dal marchese incespicando: “No!” lo urlò come se solo quella semplice parola potesse cambiare il senso di quanto aveva appreso: “No!” ripeté, sgomenta, guardandolo con occhi colmi d’orrore. Il marchese si sentì prossimo alla morte: “Mi dispiace, Isadora. Sono stato un vile” allungò una mano per accarezzarle il viso, ma lei si scostò di scatto come se l’avesse morsa. Gli occhi del marchese si riempirono di lacrime: “Isa, ti prego…”
“No!” gridò lei. Non riusciva a crederlo. Non poteva crederlo. In un attimo vedeva sgretolarsi i suoi sogni, le sue aspettative, tutto quello in cui aveva creduto e che aveva sperato, e un orrore senza confini quasi la soffocava, riempiendola di nausea e di rabbia: “Come…come hai potuto?” trovò infine la forza di biascicare: “Come hai potuto farmi questo? Mi hai venduta ad un orco per salvarti la pelle?” quelle parole contenevano una tale sgradevolezza che provò l’impulso di piangere, ma non riusciva a fare neppure quello. Il marchese a malapena riuscì a ribattere: “Avresti preferito vedermi morto?”
Isadora rimase come folgorata. Era tutto così ingiusto che non sapeva più cosa fare, come gestire quell’incubo in procinto di catturarla. Serrò i pugni con tanta forza da farsi sbiancare le nocche: “È colpa tua comunque! Sei tu che sei entrato in quel posto, sei tu che ti sei fatto scoprire, e tu mi hai offerta come carne al macello!”
“Se ci fosse stato il minimo rischio per te, avrei accettato la morte…”
“Preferisco morire che diventare la moglie di un orco fino alla morte!” urlò lei, fuori di sé. Da pallida era diventata paonazza e ansante, e respirava a fatica, come dopo una lunga corsa. Tuttavia nei suoi occhi azzurri non c’era odio per il marchese, solo una delusione immensa, unita a crescente disperazione. Natalie, che era rimasta in silenzio durante tutto il colloquio, le disse freddamente: “Devi fare come ha deciso tuo padre. Devi sposare quell’orco”.
“Potete scordarvelo!” continuò a urlare Isadora, fissandoli con furore: “Io non sposerò nessun orco, e non accetterò nemmeno di passare la vita chiusa in un maniero a far la serva! Non contate su di me!”
“Perché sei così egoista?” la aggredì Natalie. Isadora la guardò come se fosse matta: “Sarei io l’egoista?!” lanciò un’occhiata al padre, che parve rimpicciolire, devastato. Ma Natalie non si fece impietosire dall’orrore, dalla disperazione e dalla rabbia della ragazza. Si alzò e la fronteggiò, fissandola con uno sguardo accusatorio: “Sì, sei tu l’egoista. Tuo padre ha rischiato di morire, e se ha fatto quel che ha fatto, è stato solo perché era l’unica speranza di sopravvivere”.
“Io sarei morta piuttosto che venderlo ad un orco!” replicò Isadora. Ma Natalie non mollò l’osso: “Nelle situazioni bisogna esserci, cara mia. Se non sposerai quell’orco, lui verrà qui, tra tre giorni, e ci ucciderà tutti. È questo che vuoi? Sappi che non sarà tuo padre ad averci tutti sulla coscienza…ma tu! Sì, proprio così, ragazza viziata: avrai sulla coscienza tutto Soledad!”
Isadora indietreggiò, come se quelle parole l’avessero in qualche modo trafitta. Le labbra le tremarono, le lacrime indugiarono sulle palpebre. Poi scosse con violenza la testa, voltò le spalle ai due e corse via gridando: “Potete scordarvelo!”
 
Isadora spalancò la porta della sua stanza con tale foga da sbilanciarsi leggermente, poi se la sbatté alle spalle con un botto sordo. Per un attimo fissò con gli occhi velati di lacrime il comodino, il letto a baldacchino e l’armadio bianco, poi si buttò a capofitto sul materasso e affondò la faccia in uno dei due cuscini di piume. Tutte le lacrime che aveva trattenuto poco prima tornarono a galla impetuosamente e scoppiò in un pianto dirotto. Rimase distesa sul letto come morta a piangere sul cuscino, singhiozzando e sussultando.
“Non è giusto” pensò tra un singhiozzo e l’altro. Come aveva potuto suo padre distruggerle i sogni in quel modo? L’aveva condannata a morire o a sposare un orco. Lei che voleva vivere avventure, lei che voleva girare il mondo, lei che voleva innamorarsi di un impertinente avventuriero come Robin Hood… non avrebbe mai fatto nulla di tutto ciò. La sua vita era finita. Le era capitato il peggiore dei destini. Immaginava come avrebbero sparlato di lei Anastasia, Genoveffa e tutte le altre ragazze in età da marito:
“Povera marchesina Isadora” avrebbe detto Anastasia acida: “È finita prigioniera nel castello di un orco a fargli le faccende tutto il giorno. Il padre non ha avuto pietà”.
“Beh, c’era da aspettarselo” avrebbe commentato Genoveffa: “Con quel bel caratterino che si ritrova, sarebbe rimasta zitella. Meglio così che niente”.
Isadora le invidiò. Perché loro avevano una cosa che le mancava: una vita davanti.
“Non voglio sposare quell’orco” sibilò al cuscino: “Non me ne importa di quello che potrebbe accadere”.
Si sentì toccare delicatamente una spalla, e sollevò il viso rigato di lacrime. Due occhietti neri e brillanti le restituirono lo sguardo, interrogativi e accorati. Il topolino Armageddon era in piedi sul letto, proprio davanti a lei, e vedendola piangere e disperarsi si era fatto avanti. Isadora emise un singhiozzo, lo prese fra le mani e se lo avvicinò al viso, cullandolo con un calore che non gli aveva mai dimostrato in tal modo: “Oh, Armageddon” mormorava con voce rotta di pianto: “È capitata una disgrazia. Mio padre ha fatto un patto con un orco, che pretende di avermi in moglie, e ci minaccia tutti di morte! Cosa posso fare?”
Armageddon non sapeva parlare, e continuava a fissarla intensamente. C’erano volte in cui Isadora lo trovava simile ad un essere umano, altre volte in cui invece lo riteneva vuoto e inespressivo. Si mise a sedere sul letto. Non piangeva più: non aveva più lacrime. Dondolò il topolino fra le braccia, gli occhi ancora umidi e rossi fissi nel vuoto. Le parole di Natalie le risuonarono in testa, cariche  di una terribile accusa: “Avrai sulla coscienza tutto Soledad!”
“Perché è tutto così complicato?” chiese Isadora al nulla o forse ad Armageddon: “Non ho chiesto io tutto questo. Io non volevo che accadesse nulla di simile”.
“Avrai sulla coscienza tutto Soledad!”
Pensò che suo padre rischiava di morire. Suo padre era tutto ciò che aveva. Ora era piena di risentimento per quello che le aveva fatto, ma continuava a volergli un gran bene. È strano quanto l’amore resiste alle offese. Non aveva paura per sé: morire o rinunciare alla felicità si equiparavano. Sentiva di poter fare quello contro cui aveva lottato fin dall’infanzia solo per suo padre.
“Forse anche mamma dovette fare una scelta simile” rifletté: “E lo abbandonò. Se anch’io lo abbandono, resterà solo e si distruggerà”.
Si asciugò rabbiosamente gli occhi, si sistemò i capelli e il vestito, poi porse la manica ad Armageddon, che ci si infilò prontamente. Preso un lungo respiro,  uscì dalla sua stanza.
 
Il marchese era ancora seduto al tavolo, insieme a Natalie. Entrambi tacevano, lui perché era disperato e sconvolto, lei perché rifletteva su quanto andava fatto a quel punto. Fu mentre evitavano di guardarsi che comparve Isadora. La ragazza si fermò sulla soglia e lì vi rimase immobile.  
“Isa!” bisbigliò il marchese. Natalie si accontentò di fissarla. Isadora li guardava con espressione seria e accigliata. Gli occhi erano ancora rossi e gonfi e il colorito era pallido, ma era la statua della decisione fatta persona. C’era in lei anche una rassegnazione senza confini. Fu con voce spenta e veemente che annunciò nel silenzio del palazzo: “Lo farò”.
 
“Lo farò” esclamò il cantastorie con enfasi. Seguirono diversi istanti di silenzio, durante i quali i suoi giovani ascoltatori lo fissarono con espressione attonita. Non sembravano capacitarsi dell’arrendevolezza di Isadora. Alla fine fu Josh a parlare: “E quindi accettò di sposare l’orco senza ribellarsi?”
“Non aveva altra scelta” ribatté Annie: “Se continuava a dire no, l’orco li avrebbe tutti uccisi”.
“Avrebbe potuto scappare con il marchese!” borbottò Alex. Stavolta fu il cantastorie a rispondere: “Ma così avrebbe condannato alla morte tutto il suo regno”.
“Fece una bruttissima fine, insomma” mugugnò Tom. Si ostinava a non lasciarsi trasportare sulla stessa linea d’onda dei suoi compagni. Effettivamente quella era una fiaba che non aveva mai sentito prima. Il cantastorie assunse il suo solito tono enigmatico: “Aspetta prima di saltare a conclusioni affrettate, Tom: non è detto”.
“Come sarebbe?” sbuffò il ragazzino: “Stai per dirci che andò a rinchiudersi in un maniero oscuro e a far la serva!”
“Sì, sembrerebbe così” replicò il cantastorie: “Ma in ogni storia c’è sempre un colpo di scena”.
“Oh, qual è, qual è?” strepitò Julie. Il cantastorie ridacchiò: “Ci arriverò tra un po’. Ora è tempo di continuare. Il giorno delle nozze Isadora era pronta a partire…”

 

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Arrivo al maniero ***


CAPITOLO 5

 
 
 
 
 
 
PER COLORO CHE LEGGONO, POSTERò DUE CAPITOLI OGNI DUE GIORNI, UN SALUTO A TUTTI :) Il giorno delle nozze, Isadora era pronta a partire. Si sentiva oppressa da un peso che le gravava addosso implacabilmente, mentre Natalie la costringeva ad indossare l’abito da sposa che aveva indossato lei a suo tempo. Pizzi ingialliti e un velo lunghissimo le frusciarono sulla pelle, facendola rabbrividire. Sarebbe stato meglio vestirsi a lutto. Stava per dire addio alla sua vita e ai suoi sogni.
Non avevano detto a nessuno chi sposava e dove andava a vivere. Era stata inventata una pietosa bugia: il figlio di un nobile di Borgofiorito era rimasto affascinato da Isadora e lei andava a vivere con lui in quel regno. Isadora aveva passato due giorni nella più completa apatia. Aveva detto addio a quella casa che tanto amava, all’allegria caotica di Soledad, alla libertà, alla sua vita agiata. Galleggiava in un mare di disperazione e di sconforto. E per di più nessuno le riconosceva quell’enorme sacrificio: Natalie la trattava come se avesse semplicemente fatto il suo dovere, e suo padre la evitava di continuo, vedendo in lei il rimorso più forte di tutti.
Osservandosi allo specchio, tutta vestita di bianco, represse a stento un singhiozzo. Si sentiva come un morto che cammina. Armageddon, al sicuro tra le pieghe dell’abito, la scrutava preoccupato. Lui, almeno, l’avrebbe accompagnata. Natalie la contemplò inespressiva, poi le fece un cenno brusco con la testa: “La carrozza ci aspetta”.
Isadora non riuscì a muoversi. Non voleva andare. Poteva restare solo un altro giorno? Natalie, già sulla porta, sbuffò, spazientita: “Ti ho detto che la carrozza ci aspetta!”
“Come fai ad essere così crudele?” bisbigliò Isadora, afferrando la gonna dell’abito e stringendo la presa. Natalie sospirò, tornò sui suoi passi e la prese con fermezza per il braccio. La tirò fuori dalla stanza da letto, e lei la seguì come un naufrago che si getta in mare. Si lasciò spingere rudemente fuori dalla magione, provò ad aggrapparsi a tutto ciò che le capitava tra le mani, ma Natalie riusciva sempre a trascinarla in avanti. Quando sbucarono all’esterno il sole le parve buio come la notte. La carrozza rossa bordata d’oro l’attendeva di fronte alla magione, con suo padre vestito da cerimonia già seduto, pallido e nervoso. Isadora era più pallida di lui, e da sotto il velo si guardava intorno con uno sguardo fisso e vuoto, lo sguardo di chi ha perso tutto.
Natalie la condusse accanto alla carrozza. Il popolo era tutt’intorno, accorso a salutarla. C’era anche Lord Fox e il suo ghigno astuto. Isadora lo guardò disperatamente. Perfino lui era meglio che quello a cui andava incontro. Poi però Natalie la costrinse ad entrare in carrozza e si accomodò sui sedili accanto al marchese. Lui la guardò, ma lei evitò il suo sguardo.
Durante il tragitto, nessuno dei tre disse una parola. Isadora era più morta che viva, così pure il marchese, Natalie semplicemente non sapeva cosa dire. Alla fine, quando erano nei pressi della foresta, si rivolse alla ragazza con asprezza: “Posso darti un consiglio?”
Isadora contemplava il vuoto e non rispose. Natalie andò avanti comunque: “So che sarà…difficile” le costava parlar così, andava fuori dai suoi schemi: “Ma non tutto è perduto. Non avrai una vita felice, questo è certo. Ma se ti comporti nel modo giusto al momento giusto, te la faciliterai alquanto. Sii brava e servizievole, accantona il tuo carattere ribelle e bizzoso, adattati alle nuove abitudini. Devi vedere positivo”.
La ragazza non sembrava neanche ascoltare, completamente inebetita. Con un sospiro, Natalie tornò a star zitta.
La foresta era minacciosa di giorno quanto lo era di notte. Isadora rabbrividì in tutto il corpo al pensiero di doverci passare la vita. Perfino Armageddon si rintanò tra le pieghe del suo abito da sposa, impaurito. La carrozza si infilava a fatica tra i rovi e i rami, immergendosi nella perenne penombra dell’oscura foresta. Il marchese impallidì nel ricordare la propria disavventura. Scrutò la figlia per studiarne la reazione: era pallida come una morta, con gli occhi spalancati e il lungo velo che le cadeva fino ai piedi. Sembrava aver perso tutto il suo ardore, tutte le sue speranze: era triste e spenta, e per merito suo. Aveva rovinato tutto in pochi istanti. Provò l’impulso di dirle che gli dispiaceva, che sapeva che lei stava facendo un sacrificio enorme per lui che non meritava assolutamente nulla. Ma a cosa sarebbe servito? Penava in silenzio.
Trovarono ad attenderli, nelle vicinanze del maniero, Katrina e il cane Bruto. La vecchia domestica fece un gran sorriso e agitò un braccio per farsi vedere. Doveva essere venuta per accompagnarli. Il marchese notò che aveva tentato di dare una ripulita al suo straccio, ma senza troppi risultati. Si era tolta il grembiule e raccolta in una crocchia gli stopposi capelli grigi, ma era ugualmente l’immagine della denutrizione fatta persona. Tuttavia mostrò una tale gioia nel vederli, e gli occhi strabici si illuminarono a tal punto da dar l’idea che avesse atteso a lungo quel momento.
I tre scesero dalla carrozza e le andarono incontro. Natalie storse il naso dal disgusto di fronte alla sudicia domestica, Isadora restò inebetita e barcollante. Il sorriso di Katrina si fece ancora più ampio. Il marchese notò inoltre che si era messa la dentiera. Le trotterellava accanto il cane Bruto, una massa informe del colore della notte, con il collare spinato scintillante al sole. Non appena li ebbe raggiunti, Katrina assalì Isadora nel senso letterale della parola. Fissandola con pura meraviglia, quasi non avesse mai visto una sposa in vita sua, le si fece incontro con un sorrisone ed esclamò, estasiata: “E così tu sei Isadora! Ti aspettavamo, ti aspettavamo eccome! Oh, ma sei bellissima, tesoro. Come ti dona questo vestito! Che meravigliosi capelli! Io sono Katrina la domestica, se non hai ancora sentito parlar di me. Benvenuta!”
Le afferrò le mani con goffo entusiasmo e gliele accarezzò con le lunghe dita adunche. Isadora si irrigidì, ma nonostante tutto, provò un moto di istintiva simpatia verso quella strana vecchietta. Il suo atteggiamento era amichevole, sebbene a modo suo. Tuttavia, non bastava l’entusiasmo di Katrina a rischiarare l’abisso della sua disperazione. La lasciò fare mentre la toccava da tutte le parti, ma rimase immobile come una statua. Intanto Bruto si era messo ad annusare il marchese, e lui aveva mormorato tristemente: “Ti ricordi di me, eh, bello?”
Alla fine Katrina smise di ammirare Isadora e si rivolse allegramente a tutti e tre: “Venite con me, il padrone ci sta aspettando”.
Sentendolo nominare, le gambe di Isadora si rifiutarono di nuovo di muovere un passo. Accorgendosene, Natalie intervenne prontamente e la afferrò per il solito braccio, spingendola a procedere dietro alla gongolante Katrina. Via via che si avvicinava alla sua fine, la ragazza si sentiva sempre più nauseata e terrorizzata. E se fosse fuggita? No. Non c’erano più speranze.
Katrina osservò anche Natalie: “Voi siete la madre?”
“La matrigna” disse lei con aria di superiorità, senza guardare in faccia la domestica. Katrina annuì con la massima serietà: “Lo immaginavo. Non vi assomigliate affatto”.
“E voi che ruolo avete in tutto questo?” fece Natalie, aristocratica. Katrina le rispose con la sua comica naturalezza: “Servo nel castello da quando avevo l’età di Isadora”.
“Come ci siete finita, nel castello?”
“Affari miei” sorrise Katrina. Benché disperata, Isadora non riuscì ad impedirsi di sorridere. Wow! La prima persona che osava rispondere a tono a Natalie! La matrigna avvampò e si erse impettita in tutta la sua modesta statura, ma preferì rimanere in silenzio. Katrina, invece, guardò la ragazza con tenerezza: “Ti ho fatta sorridere, Isa. Posso chiamarti Isa? Oh, ti voglio già bene senza quasi conoscerti. Diventeremo amiche, che ne dici? Ne avremo di tempo da passare assieme!”
Isadora rifletté con umorismo nero che, da vecchia, sarebbe stata uguale a Katrina. Una vecchietta mezza pazza, denutrita e sudicia che viveva segregata in un maniero nella foresta. Le uscì un rantolo soffocato.
Il corteo sbucò nella radura al cui centro si ergeva l’enorme e tetro maniero nero. Ad Isadora si mozzò il fiato di fronte a quello spettacolo. Quella era la sua nuova casa?! Quel castello orribile che sembrava una casa degli orrori? Katrina si accorse della sua espressione devastata e si mortificò: “Sì, ammetto che può sembrare un pochino macabro la prima volta che lo vedi, ma ti ci affezionerai, vedrai. Io ho dato un nome ad ogni tappeto che devo sbattere e ad ogni piatto che devo pulire!”
“Che cosa originale” commentò Natalie con la voce che sprizzava veleno da tutte le parti. Ma Katrina non era in grado di captare il sarcasmo: “Il padrone ci attende dentro. È pronto per la cerimonia”.
“Signora” sussurrò la povera, sconvolta Isadora. Katrina le sorrise gentilmente: “Chiamami per nome, gioia mia. Cosa c’è?”
“Che ruolo avrò io in tutto questo?” trovò infine la forza di chiedere lei. Katrina sollevò una delle rade sopracciglia e si grattò un orecchio: “Tu sarai sua moglie. Suppongo che dovrai aiutarmi a fare le pulizie, a mandare avanti la casa e cose simili…così ha detto il padrone. Non preoccuparti, nessuno pretende altro, da te”.
E chiamiamolo poco! Quel maniero aveva l’aria di essere pieno di sudiciume e di insetti orrendi, e Katrina probabilmente era soltanto convinta di occuparsene decentemente. Ma lei che poteva fare? Lei era la figlia di un marchese! Non era abituata a questo genere di cose!  A malapena sapeva rifare un letto!
“Ha chiesto una moglie” pensò: “Solo per non chiedere una sguattera”.
Katrina aprì faticosamente il pesante portone e l’oscurità minacciosa del maniero si presentò ai loro occhi. “Seguitemi” gongolò la domestica. Natalie affidò l’inebetita Isadora al padre perché l’accompagnasse “all’altare” e lui le strinse la mano con disperazione. Isadora, dal canto suo, fissava con crescente orrore le sale, i corridoi e le camere del tetro maniero, trovandole una più sporca e brutta dell’altra. Le ragnatele si rincorrevano lungo le pareti, la polvere si ammassava sui tappeti e sul pavimento senza trovar freno, e la sporcizia era rimasta incrostata così a fondo che sembrava impossibile mandarla via.
“Prigioniera per sempre in questo posto” pensò, inorridita.
Quello fu solo un assaggio di ciò che provò pochi istanti dopo. Katrina indicò, eccitata, una sagoma imponente che li aspettava immobile sulla soglia di una stanza. Il viso di Isadora si fece bianco dallo choc via via che si avvicinavano. L’orco era veramente spaventoso, imperturbabile come sempre, con le massicce braccia incrociate sul petto. Non si era dato neanche la pena di indossare abiti più decenti: portava i soliti indumenti di pelle, il solito cinturone pieno di coltellacci e i soliti stivaloni borchiati. Era torvo e spazientito, e i suoi occhi ardevano come fuoco.
Isadora ebbe un mancamento improvviso e fece per accasciarsi con un gemito. Natalie, fulminea come sempre, si lanciò e la sostenne prima che stramazzasse sul pavimento di pietra: “Dannazione, marchesina Isadora, mostra un minimo di dignità” le bisbigliò furiosa. Isadora, però, era diventata verde e a malapena si reggeva in piedi. Si sentiva prossima a cedere ai nervi. Era troppo. Pretendevano da lei un peso enorme. Non era in grado di sopportarlo. Il marchese la trascinò abbandonata come un fantoccio di fronte al torvo orco. Quando gli furono davanti, Isadora emise un flebile rantolo. 
Lui li guardò entrambi con una freddezza glaciale, poi indicò Isadora con un brusco cenno della testa: “È lei la ragazza?” grugnì, come se lei non sapesse parlare. La sua voce tonante fu l’ennesimo colpo al cuore. Il marchese annuì, ammutolito. L’orco scrutò Isadora come se stesse valutando una merce non particolarmente soddisfacente, poi osservò: “Piuttosto gracile, vedo”.
“Ma con doti nascoste” intervenne Natalie. L’orco fece una smorfia scettica: “È pallida come una morta. Spero che non mi avrete voluto rifilare una malata”.
Isadora provò un moto tra la rabbia e il dolore. Stavano parlando di lei come se fosse un oggetto. Ma a cosa serviva opporsi a quel bestione? Taceva, piena di sconforto. Natalie rispose ancora: “Isadora è in perfetta salute. In questo momento è solo colpita da tutte queste novità”.
“Farà bene ad abituarsi presto” disse l’orco, sempre senza rivolgersi direttamente a lei: “Non voglio problemi” voltandosi bruscamente, si introdusse nella stanza. Katrina, imbarazzata, soffiò loro: “Ora fa lo scontroso, ma non è poi così male. Andiamogli dietro!”
Isadora si mosse in trance. Vide un rozzo altare di pietra di fronte al quale era in piedi quel terribile orco che presto sarebbe stato suo marito, vide due anelli di legno appoggiati sopra, e vide se stessa ridotta a quel modo. Le venne da piangere, ma represse le lacrime, inghiottendole. Era giunta l’ora di mostrare coraggio. Era giunta l’ora di dire addio ai suoi bei sogni. Era giunta l’ora di diventare la moglie dell’orco.
 
Quella sera stessa, quando un tramonto mozzafiato tingeva di caldi colori il funereo maniero, il marchese e Natalie stavano per tornare in carrozza a Soledad, e Isadora si accomiatava da loro nella radura.
La cerimonia era stata semplice e rapida, anche se per Isadora era stato il momento peggiore della sua vita. Non c’erano stati né preti, né, baci, né giuramenti (e forse era meglio così) ma lei e l’orco si erano limitati ad infilarsi reciprocamente gli anelli di legno, come volevano le usanze degli orchi. L’avevano fatto entrambi senza la minima partecipazione, ed ora Isadora aveva quel cerchiaccio di legno intorno all’anulare. Le irradiava per il braccio una sensazione di gelo.
Natalie si infilò subito in carrozza, ansiosa di tornarsene nella rassicurante cittadina di Soledad, il marchese, invece, indugiò a lungo di fronte ad Isadora. Si guardarono intensamente negli occhi, ed ebbero il tempo di contemplare, lui tanto dolore, lei tanto rimorso. La ragazza provava un terrore profondo alla prospettiva di restare sola per sempre in quel maniero, con quell’orco. Il marchese sembrava cercare le parole. Alla fine mormorò: “Isadora…”
“Taci” singhiozzò lei. Gli buttò perdutamente le braccia al collo. Dopo un primo istante di stupore, il marchese la abbracciò a sua volta con tutte le forze. Si strinsero l’uno all’altra e rimasero così a lungo. Sulla soglia del maniero, l’orco aspettava spazientito, di fianco a Katrina.
Isadora percepiva le lacrime che, bollenti, le rotolavano sulle guance, e i singhiozzi che scuotevano il corpo del padre. Stringendolo ancor di più, premette le labbra sul suo orecchio: “Non lasciarmi…” bisbigliò. Lui la fissò con tutto lo straziante dolore di questo mondo: “Devo…ma tornerò. Te lo giuro, Isa, io tornerò”.
“Non lasciarmi” ripeté lei, aggrappandosi a lui: “Non lasciarmi qui…”
Il marchese si sentiva sul punto di perire per il dolore. Non riusciva a separarsi da Isadora. Come al solito, fu Natalie a richiamarlo seccamente: “Caro, andiamo prima che faccia buio!”
Isadora fissò la matrigna con odio. Era stata lei a portargli via suo padre, non l’orco, non quel castello, né il conte DeGuisky. Era stata solo colpa sua. Senza di lei avrebbero trovato il modo di scamparla comunque. Era tutta colpa sua. Tuttavia, il marchese si riscosse e lasciò andare la figlia: “Arrivo…”
“No!” gemette Isadora, facendosi avanti e fissandolo con gli occhi lucidi. Ma lui rispose con uno sguardo che voleva dire: devo andare. Si sentì svuotata, abbandonata completamente al suo destino. Restò immobile mentre suo padre entrava in carrozza, mentre il mezzo si metteva in moto e scompariva tra gli alberi fitti. Continuava a piangere senza rumore.
Katrina si era commossa e singhiozzava come una vite tagliata, ma l’orco rimase del tutto indifferente, come se la scena non lo toccasse nel minimo modo. Quando Isadora barcollò verso il maniero con le guance rigate di lacrime, la fissò freddamente. Non c’era alcun calore in quegli occhi roventi: “Seguimi” le disse con la stessa freddezza che ostentava. Dopodiché si voltò e scomparve tra le ombre del maniero. Isadora esitò un solo istante sulla soglia. Ma ormai era fatta. Suo padre se n’era andato e l’anello di legno le stringeva il dito. Così chiuse gli occhi, prese un gran respiro ed entrò a sua volta nel maniero.
Non era la prima volta che vi entrava, ma le apparve più minaccioso, perché ora vi era prigioniera. Le ombre la ghermivano da ogni parte e il pavimento era freddo e scivoloso sotto i piedi. L’orco la richiamò con impazienza: “Sbrigati”.
Isadora lo avvistò che procedeva a grandi passi lungo i corridoi. Dovette correre per tenergli dietro, ma lui non tenne conto dei suoi sforzi e mantenne la stessa andatura. Procedevano, lui davanti, lei dietro. Katrina si era eclissata non appena il marchese se n’era andato. Isadora fissò le statue mostruose che giacevano nelle nicchie nelle pareti. Draghi, bicefali, idra e chimere parevano sul punto di balzarle addosso con gli artigli sguainati. Spaventata, affrettò ulteriormente il passo e raggiunse la schiena massiccia dell’orco che le camminava davanti. Lui non disse nulla. Era un tipo di poche parole. D’altronde lei non aveva la minima intenzione di avviare un discorso.
Faceva freddo. Gli spifferi erano numerosi. Sui muri erano appese teste di animale, corna di cervo e altri trofei di caccia. Sembrava che gli occhi vitrei di quei cinghiali si muovessero per seguire il suo cammino e gli scoiattoli impagliati le gridassero di fare attenzione.
“Io non appartengo a questo posto. In nome di Dio, che cosa ho fatto?”
I passi dell’orco risuonavano, lugubri sul pavimento di pietra. Quelli di Isadora erano lievi e nervosi, quasi impercettibili. Rimase abbagliata dal fulgore delle lame dei coltellacci appesi alla cintura dell’orco. In quel bagliore rivide il pericolo. Quale di essi aveva usato per minacciare suo padre? Una rabbia tranquilla le empì il petto.
L’orco salì in fretta una rampa di scale e lei lo stesso, stando bene attenta a non inciampare nella gonna bianca dell’abito. Cercò di memorizzare quel percorso inutilmente. Chiaro che si sarebbe persa. Emise un sospiro tremulo. Era dura mantenersi lucidi in quella situazione. Tentava di non pensare a nulla e di tenere la mente impegnata a seguire quel percorso. Era tutto decisamente spaventoso, si disse, ma lei non doveva temere quei luoghi. Ora ne faceva parte a sua volta, per quanto sembrasse assurdo.
L’orco si fermò così di colpo che Isadora rischiò di andare a sbattergli contro. Gli rivolse uno sguardo interrogativo e timoroso. Poi notò che si erano fermati davanti ad una porticina di legno rimpiattata in una parete di pietra. L’orco prese dal cinturone un pesante mazzo di chiavi, ne selezionò rapidamente una e la infilò nella serratura dell’uscio. Lo aprì ed esso si spalancò su un pozzo di tenebra: “La tua stanza” disse gelido alla ragazza. Lei fece qualche timoroso passo avanti.
Era una stanzuccia di dimensioni ben misere. Era fatta di pietra e c’era una branda con lenzuola e coperte sporche ammonticchiate sopra con accanto un baule polveroso in un angolo. C’era un'unica, minuscola finestrella chiusa da sbarre che dava sulla notte di fuori. Una cella. Lo sconforto la assalì. Tutt’altra storia rispetto alla sua camera di Soledad.
Frattanto l’orco le tese la chiave: “Per oggi hai il permesso di andare a letto. Domani Katrina verrà a svegliarti alle cinque. Troverai il foglio con le cose che devi fare sotto la terza gamba del tavolo in sala da pranzo. Katrina ti istruirà su quello che è necessario per svolgere i tuoi compiti. Non perdo tempo a spiegarti che quello che scriverò sul foglio deve essere fatto entro domani sera, quando tornerò dalla caccia. Io esco tutti i giorni, per cui mi dovrai preparare solo la cena. I pasti li consumerai in cucina con Katrina. Tutto chiaro?”
Isadora si era sentita sempre più stanca via via che l’orco le spiegava quelli che sarebbero stati i suoi doveri con la solita freddezza. Non aveva sbagliato nel supporre che volesse fare di lei una sguattera. Ora però voleva solo andare a dormire, perfino in quella branda lurida, e dimenticare almeno per una notte quell’assurda situazione. Prese la chiave dalle mani dell’orco con un brivido, gli occhi bassi, e mormorò: “Sì”. Lui indicò frettolosamente il baule accanto alla branda: “Lì ci sono i tuoi vestiti. Indossali. E non uscire da questa stanza finché Katrina non sarà venuta a svegliarti”.
Senza aggiungere né un buona fortuna, né un buonanotte, e nemmeno un saluto, le voltò le spalle e tornò ai piani bassi coi suoi passi pesanti. Isadora, sull’orlo del pianto, disse al nulla con voce aspra: “Comunque mi chiamo Isadora”.
Rimase immobile per un istante sulla soglia di quella celletta, con la chiave stretta fra le mani e l’amaro in bocca, poi lanciò un gemito di sconforto, entrò in quel tugurio, si chiuse la porta alle spalle e rimase completamente al buio. Aveva paura, le mancava suo padre, e si sentiva più depressa che mai. Era andato tutto proprio come si aspettava, anzi, peggio.
Si buttò distesa sulla branda, che cigolò sotto il suo peso, si rintanò sotto le coperte che pungevano e crollò addormentata senza neanche svestirsi, sentendosi sola e sperduta in quell’immenso e freddo maniero.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Pulizie di casa ***


CAPITOLO 6

 
 
 
 
 
 
Isadora era ancora immersa nel mondo dei sogni quando si sentì scuotere delicatamente per una spalla. Aveva dormito così poco che ignorò chi la disturbava e si girò dall’altra parte con un mugugno. Tuttavia, la mano insistette a scuoterla e una voce roca e dispiaciuta disse: “Mi dispiace svegliarti a quest’ora, Isadora, ma sono le cinque e il padrone…”
Assonnata, la ragazza aprì gli occhi sulla penombra della misera cella in cui aveva dormito. Faticava a mettere assieme i pensieri. Di solito dormiva fino a tardi, e quella sveglia mostruosa le mise addosso un sonno insistente. Si vide raggomitolata sulla branda cigolante, con la pelle irritata dall’abito da sposa che non aveva tolto, poi scorse Katrina china su di lei nel suo sudicio straccio e con la cuffia sulla testa, rugosa e mortificata, e ricordò tutto osservandosi l’anello di legno. Una disperazione cieca l’assalì. Mettendosi seduta a fatica, mezza morta di sonno, tentò di ricordare le istruzioni dell’orco.
“Vestiti, cara” le disse Katrina frugando nel baule: “Il padrone vuole che svolgiamo tutti i nostri compiti entro stasera”.
“Dov’è ora?” chiese la ragazza con voce assonnata. Preferiva non incontrarlo. La vecchia domestica gettò un’occhiata rapida alla finestra: “Lui esce tutti i giorni per andare a caccia o incontrarsi con altri orchi. Sta tranquilla, tornerà solo stasera”.
Isadora emise un sospiro di sollievo. Poi Katrina mise alcuni vestiti sulla branda, mostrandoglieli: erano un vestitaccio rattoppato, un grembiule sporco e una bandana piena di macchie incrostate: “I tuoi vestiti, cara”.
Isadora li fissò inorridita. Erano vestiti che avrebbe indossato la più povera delle sguattere. Chiese a Katrina: “E i miei vestiti?”
“Il padrone vuole che indossi questi” replicò lei con gentilezza. La ragazza provò una scintilla di ribellione, soprattutto ora che l’orco non era in casa: “Devo fare tutto quello che mi dice? Perché?”
Katrina si fece pallida e la prese per un braccio con la solita, goffa sollecitudine, avvicinando il volto al suo: “Cerca di obbedire agli ordini, Isa, te lo dico col cuore. Eviteresti un sacco di guai”.
La ragazza rimase accigliata, ma afferrò gli abiti rattoppati con furia. Katrina sorrise sollevata e si ritirò: “Ti aspetto qui fuori!”
Rimasta sola nella celletta, Isadora emise un verso di sconforto. Aveva una voglia matta di rimettersi a dormire. Per di più non era quasi neanche l’alba e fuori il sole non era ancora sorto. Non si era mai svegliata così presto, e ne risentiva. Per fortuna l’orco sarebbe rimasto fuori fino a sera, e Katrina era gentile. Isadora sentì che era prossima ad attaccarsi alla vecchietta come una bambina si attacca al genitore. Osservò con una smorfia la sua nuova tenuta da serva che la aspettava sulla scomoda branda.
Con arrendevolezza, si sfilò l’abito da sposa e lo lasciò cadere sul freddo pavimento di pietra. Non aveva voglia di riporlo. Le ricordava troppo la sua rovina. Sbadigliando sonoramente, armeggiò con il vestito rattoppato. Le andava troppo largo e i piedi scomparivano sotto l’ampia gonna. Inoltre le maniche erano troppo lunghe e fu costretta a rimboccarsele. Si annodò sopra al vestito il grembiule sporco, poi raccolse i capelli biondi sotto il fazzolettaccio che, dal bianco originale, era passato ad un giallo spento. Quando ebbe finito, stentò a riconoscersi. Lei, la marchesina Isadora di Soledad, infagottata in un vestito da sguattera, con grembiule e bandana cenciosa sui capelli. Ringraziò il cielo che non ci fosse uno specchio. Non era vanitosa, anzi, non le importava nulla del proprio aspetto, ma le faceva male vedere quanto stava cambiando. Infilò i piedi nudi in un paio di zoccoli dall’aria ingombrante, tanto per completare l’effetto.
“Ora mi tocca lavorare. Con tutto il sonno che ho sarei capace solo di sbadigliare” disse rivolta ad Armageddon che faceva capolino tra la stoffa bianca dell’abito da sposa in terra. Il topolino la guardò con simpatia, i baffi frementi. Isadora gli sorrise disperata e gli fece un ironico cenno di saluto: “Tu resta qui, d’accordo? Ci vediamo presto!” buttarla sull’ironia la aiutava a non disperarsi troppo.
Aperta la porta della celletta, trovò Katrina ad attenderla. La vecchietta la guardò da capo a piedi e disse con una tale sincerità da indurre Isadora a credere che non stesse affatto scherzando: “Questo stile ti dona, Isa! Posso chiamarti Isa, vero?”
“Certo” disse lei, paziente. Quella domanda gliel’aveva già rivolta il giorno prima. Katrina scoprì la bocca sdentata in un sorriso festoso: “Sei davvero un tesoro, lo sai? Presto, andiamo in sala da pranzo. Hai poco tempo per far colazione, gli impegni che il padrone ci ha dato ci impegneranno tutto il giorno”.
Le fece strada ai piani bassi. Isadora si muoveva come una papera sugli zoccoli che le premevano sui piccoli piedi delicati da aristocratica, ed era certa che le avrebbero procurato un bel po’ di vesciche, la ciliegina sulla torta. Facevano toc, toc, toc sul pavimento di pietra, un rumore secco che la aiutava a restare sveglia. Come se non bastasse, la gonna troppo lunga la impicciava e la costringeva a tenersela sollevata.
Il maniero le apparve ancora minaccioso, ma meno del giorno prima. Si stava abituando all’idea di viverci, anche se questo non diminuiva affatto la sua depressione. Dato che Katrina era tanto buona e gentile, osò parlarle con tono lamentoso: “Dovrò svegliarmi a quest’ora tutte le mattine?”
“Purtroppo sì” fece la domestica, sinceramente dispiaciuta: “Così vuole il padrone. Ma vedrai, ti ci abituerai. Lui ti dà il permesso di andare a dormire non appena ha finito di mangiare, così guadagni qualche ora di sonno”.
Questo non la consolava affatto. Era una vera e propria purga per la sua abituale pigrizia. Mentre entravano in sala da pranzo, Katrina le si avvicinò e, tutta rossa di imbarazzo, le fece un’improvvisa confessione: “Non sai quanto sono felice che tu sia venuta qui. Sono stata sola per più di cinquant’anni e ho tanto pregato per avere una compagna di lavoro…e tu sei così gentile! Vedrai, ti aiuterò sempre e potrai contare su di me per ogni cosa”.
Isadora si sentì commossa da quello slancio di sincerità. Solo pochi giorni prima avrebbe squadrato quella povera vecchia dall’alto in basso, ma adesso la capiva e condivideva con lei quelle sventure. Era così bello essere con qualcuno di gentile!
“Qui mangia il padrone” disse Katrina indicandole il tavolo famoso: “Verso le cinque dovremo preparargli la cena. Noi abbiamo diritto a due pasti, colazione e cena. La colazione è alle cinque e un quarto, la cena alle sette. Potremo mangiare in cucina. Il padrone torna alle otto in punto, a parte quando esce di notte, ma lo fa di rado”.
“E quand’è che dorme?” chiese Isadora, stupita. Se se n’era andato addirittura prima della loro sveglia e tornava alle otto, quanto diavolo riusciva a dormire? Katrina sollevò le spalle ossute: “Ha bisogno di poche ore di sonno, lui. Ma quando dorme, non deve essere assolutamente disturbato”.
Quella dedizione verso un orco rude che non la chiamava per nome, che le dava ordini disumani e che la trattava da sguattera le parve ingiusta. Ma capiva che mettersi a far la ribelle non era raccomandabile, e aveva già fin troppe preoccupazioni. Così seguì Katrina in cucina. La cucina era minuscola e aveva sporcizia di cibo sparsa su tutte le pareti di pietra. C’erano un camino con sopra un pentolone opaco e diverse pentole e stoviglie disposte in ordine sparso. Katrina aveva aperto una piccola credenza e ne aveva tolto due pagnotte di dimensioni microscopiche. Ne porse una a Isadora: “Buon appetito”.
Isadora si rigirò tra le mani quello sputo di pagnotta con aria attonita. Come poteva farsi bastare fino alle sette una cosa del genere? Nella sua vecchia, splendida vita, pagnotte simili le usava per dare da mangiare agli uccellini! Rammentò con triste rimpianto le sue colazioni abituali: marmellata, toast, frittelle, riso soffiato, latte caldo, brioches e ogni genere di ben di dio…altro che quel pasto da canarino!
Katrina, che stava sbocconcellando la sua pagnotta con apparente soddisfazione, notò l’espressione della ragazza e si affrettò a dividerla a metà: “Se vuoi, prendi la mia”.
Intenerita, Isadora respinse il commovente dono con la mano e si sforzò di sorridere: “Mangiala tu, Katrina, davvero. Mi basterà” addentò la pagnotta con la morte nel cuore. Era orribile, durissima, doveva essere vecchia di secoli! La finì a stento, poi tornò in sala da pranzo con la compagna. Katrina le chiese: “Dove ti ha detto di prendere il foglio?”
Isadora corrugò la fronte nello sforzo di ricordare le quattro parole che le aveva detto l’orco: “Mi sembra…sotto alla terza gamba del tavolo…”
Katrina si chinò e, con un sorriso, estrasse un piccolo foglio ripiegato dalla terza gamba del massiccio tavolo da pranzo: “Infatti. Hai buona memoria, è una cosa positiva” si raddrizzò tenendosi l’anca e gemendo, poi le consegnò il foglio. Isadora lo prese e lo aprì lentamente. Sembrava piccolo? Beh, le apparenze ingannano! Non appena ebbe finito di dispiegarlo, si srotolò fino alle sue ginocchia. Era pieno di scritte. C’erano dei numeretti a cui corrispondeva una cosa da fare. I numeri erano otto. Con un presentimento di sciagura, la ragazza lesse la prima indicazione: “Pulire tutte le finestre…”
“Ah! Un bel lavoraccio!” commentò Katrina: “Impiegherà gran parte della mattinata! Se vogliamo farcela entro stasera, dobbiamo metterci al lavoro”.
“Non vedo l’ora” fece Isadora, sarcastica. Katrina come al solito non raccolse e le sorrise ampiamente: “Bene! Non preoccuparti, cercherò di fare io la maggior parte delle cose finché non ti abitui. Seguimi” caracollò fuori dalla sala da pranzo e Isadora le venne dietro accompagnata dallo sciagurato toc, toc, toc degli zoccoli tortura-piedi. Si sentiva sprofondare al solo pensiero di mettersi al lavoro. Ancora più terrorizzante era il pensiero che avrebbe passato il resto della sua vita a fare quelle cose.
“Basta piangersi addosso” si disse: “Anche se sembra impossibile, vediamo positivo!”
Più facile a dirsi che a farsi. Katrina aprì un ripostiglio sorvegliato dalla statua di un demone di pietra e glielo mostrò con orgoglio: era stipato di scope, stracci di vario genere, erbe puzzolenti e cartacce varie: “Qui teniamo tutto l’occorrente per le nostre mansioni” le spiegò. Era entusiasta come chi si appresta per la prima volta a fare una caccia al tesoro in squadra con qualcuno: “Se dovrai prendere qualcosa in particolare, ricordati: terzo ripostiglio, secondo piano”.
“Terzo ripostiglio, secondo piano” ripeté a mezza voce la ragazza. Katrina annuì: “Per pulire le finestre ci occorreranno questi” prelevò dal tugurio due stracci sudici e un’ampollina di vetro che conteneva una soluzione evanescente: “Imbevi questi strofinacci di questa soluzione pulente” le spiegò, impregnando della curiosa pozione tutti e due gli stracci. Isadora cercò di stamparsi in testa i particolari di quell’ampollina. Katrina le passò lo straccio meno sporco e lei, superando un istintivo moto di disgusto, lo prese. Le imbrattò le mani di bagnato e di luridume. Katrina si fece cupa in viso: “Per riuscire a fare tutto dovremo dividerci. Le finestre in tutto sono cinquantatre”.
“Cinquantatre?!” strepitò Isadora. Le era quasi preso un accidente. La sua vecchia amica annuì cupamente: “E anche belle sporche. Il padrone le vuole lucide al massimo, dovremo metterci olio di gomito. Facciamo così: io ne prendo trenta, tu ventitre”.
“Niente affatto, sarebbe ingiusto: dobbiamo dividerle equamente” disse Isadora con veemenza. Non poteva approfittarsi di una persona anziana, che per di più era così gentile con lei. Sul volto rugoso di Katrina tornò la tenerezza: “Sei proprio un tesoro, lo sai?” tendeva a ripetersi spesso: “Apprezzo la tua equità, ma per oggi facciamo come ho detto io. In fondo è la tua prima volta”.
La ragazza obiettò ancora, ma si vide sempre bloccata, così alla fine si arrese con un sospiro. Katrina assunse un’espressione decisa: “Le tue ventitre sono sul lato est del castello. Io mi occupo del lato ovest. Tieniti sempre dove il sole splende. Quando avremo finito ci ritroveremo in sala da pranzo. Non perdere il foglio, tesoro, è prezioso!”
Isadora avrebbe preferito restare al fianco della sua nume tutelare, ma Katrina aveva già fatto fin troppo per lei: doveva dimostrarle di essere meritevole della fiducia che le aveva concesso. “Altolà, sporco!” esclamò, battagliera: “Sta arrivando Isadora!”
Aveva sopravvalutato le proprie capacità. Quando incontrò la prima finestra, che era larga e dava sulla foresta, provò una fitta di sconforto: il vetro era così incrostato di sporcizia che non si vedeva niente del paesaggio esterno, e per di più vi passeggiavano diverse blatte non proprio gradevoli alla vista. “Un’impresa dura” mormorò: “Ma si può fare!”
Stretto con forza lo straccio imbevuto nella soluzione pulente, la ragazza puntò un pezzo di finestra particolarmente sporco e si preparò. Flessi i muscoli del braccio, appiccicò lo straccio al vetro e cominciò a strofinare. Passarono diversi minuti di tenace strofinamento senza che lo sporco se ne andasse. Spazientita, Isadora osservò lo straccio che si era notevolmente annerito: “Avrei dovuto chiedere a Katrina altra pozione”. Pensò di tornare nello sgabuzzino, terzo ripostiglio, secondo piano…ma con tutte e ventidue le finestre che le restavano, ci avrebbe messo una vita! “Mi farò bastare ciò che ho” pensò, meno convinta di prima.
Lo strofinamento riprese. Quella sola finestra riuscì a logorarla come se avesse lavorato tutta una giornata. La cosa che le dava più sui nervi era che per quanto strofinasse, lo sporco se ne andava solo dopo diversi minuti, e in minima parte. Che gioia vedere il vetro che tornava chiaro e limpido, e che dolore ritrovarsi con altri pezzi da ripulire.
Quando si disse che la finestra aveva un aspetto decente, il braccio era dolorante e sfinito, e lo straccio completamente nero. “Non ce la faccio più” pensò Isadora, ansimante. Era rimasta schiacciata. Il braccio chiedeva a gran voce riposo, e il corpo che non aveva dormito abbastanza si lamentava a gran voce. Per non parlare della fame che cominciava a farsi sentire. Cosa pretendevano? Che in un solo giorno ce la facesse subito? Era solo una ragazza!
“Non posso fare la pappamolle proprio ora”.
La seconda finestra fu un supplizio peggiore della prima, perché partiva già fiaccata dallo sforzo precedente. Era una sua impressione, o era ancora più sporca? In quella casa non si puliva da anni! Maledisse le maniche che la impicciavano, il grembiule che la accaldava e il fazzolettaccio che sistemava di continuo sui capelli sudati. Non era fatta per quelle cose.
Alla sesta finestra non ne poté più. E aveva di fronte ancora altre sette mansioni, più diciassette finestre che la aspettavano, sadiche! “Questo oltrepassa i limiti dell’umanità! Sottoporrò il caso ad esperti!” si diceva, infervorata. Ma poi ricordava che era prigioniera, che nessuno l’avrebbe salvata, che era la moglie dell’orco, e si rimetteva al lavoro.
Riuscì, non si sa come, a dare una pulita fiacca ad altre quattro finestre. Dovette anche tornare due volte al ripostiglio per prendere altra pozione. Era arrabbiata e disperata, e voleva piangere. Poi udì dei passi leggeri e scorse Bruto, l’imponente meticcio nero, che la fissava incuriosito dalla soglia. Quel suo atteggiamento di superiorità glielo rese subito antipatico: “Che vuoi, cagnaccio?” sbraitò: “Sei contento? Il tuo padrone mi sta ammazzando di lavoro, mentre tu fai una vita da pascià! Vattene, sono già abbastanza nervosa!”
Ma Bruto entrò nella stanza dove lei stava pulendo e si mise a curiosare in giro, annusando la finestra con aria perplessa. Isadora colpì l’aria con lo straccio per scacciarlo: “Ehi, mi senti? Vattene! Non crederai di potermi comandare anche tu!”
Bruto abbaiò e le afferrò tra i denti aguzzi un lembo della gonna. Isadora provò a liberarsi e stracciò il vestito, regalandone un pezzo al cane. A quel punto urlò: “Ma bravo! Guarda cosa hai fatto!”
“Che succede?” chiese Katrina allarmata, giungendo con l’altro straccio stretto fra le mani: “Ti senti male?”
“Quel cane ottuso mi ha strappato il vestito!” si lamentò a gran voce Isadora. Katrina guardò Bruto con severità: “Sii buono con la signorina Isa, Bruto. Isa, non badare a lui, gli estranei lo agitano. E non fargli del male, è il cane prediletto del padrone, perché apparteneva a suo padre, anche se è un po’ anzianotto, ora…”
“C’era da aspettarselo” sibilò lei, scambiando col cane un’occhiata di inimicizia. Katrina notò il modo fiacco con cui lei aveva pulito le finestre, la sua fronte sudata, il suo braccio tremante, e la guardò con comprensione: “Finisco io con le finestre. Và a leggere la seconda mansione”.
“Grazie, Katrina” disse Isadora con smodata gratitudine.
La seconda voce del foglio diceva: occuparsi della latrina. Bastò il pensiero a farle venire la nausea: “Bleah” pensò. Diede uno sguardo alla cartina che Katrina le aveva lasciato sul tavolo della sala da pranzo mentre puliva le finestre. La latrina era al terzo piano, accanto ad un’ampia camera con su scritto: stanza del padrone. Studiò il percorso da fare per giungervi, poi richiuse la cartina, la infilò in una tasca del grembiule e si preparò a svolgere quell’ingrato compito.
Prima però di andare dove le era stato indicato, passò un attimo in camera sua, e la trovò assurdamente confortante, nonostante fosse così simile ad una cella: “Ehi, Armageddon!” esclamò: “Ti và di affrontare un’impresa insieme?”
La testa bianca del topolino spuntò da sotto la coperta della branda. Isadora lo prese come un sì. Offerta la manica ad Armageddon, assicuratasi che ci fosse entrato, salì al terzo piano, trascinandosi stancamente su per le scale. Almeno avrebbe fronteggiato la latrina col suo amico.
La porta della latrina era minuscola e di un bianco sporco, percorsa da venature di sudiciume bene incrostato. “Ti pareva” pensò Isadora. Appoggiò la mano sulla maniglia, prese un bel respiro, poi aprì la porta.
Un tanfo nauseabondo la prese alla gola. Orrore! La latrina era ancora più sporca del resto del castello: la vasca era piena a metà di acqua marroncina e stagnante, le pareti erano ricoperte di una strana mucillagine biancastra, e l’unica finestrella presente era ermeticamente chiusa. Isadora si premette una mano sulla bocca per impedirsi di vomitare. Anche Armageddon, che aveva messo fuori la testa per un attimo, si rifugiò a precipizio nella manica della padroncina. Dopo un primo istante di disgusto, Isadora indietreggiò leggermente: “Ce n’è di lavoro da fare” ansimò.
Si allontanò dalla puzzolente latrina e tornò nello sgabuzzino che le aveva mostrato Katrina. Esitò un attimo di fronte a quell’armamentario. Cosa poteva servirle? Alla fine prese con sé una scopa, diversi stracci imbevuti nella soluzione pulente, una tinozza di ferro e un fazzolettaccio simile alla sua bandana, che si annodò sulla nuca in modo che le coprisse naso e bocca. Avrebbe avvertito meno la puzza.
Come una condannata diretta al patibolo, ritornò alla latrina. Le apparve ancora più disgustosa di prima. Entrandoci, avvertì comunque il tanfo, sebbene fosse attutito dal fazzoletto che le fungeva da mascherina. Aveva strappato un altro fazzolettaccio e con un pezzettino aveva costruito una mascherina anche per Armageddon. Si sentì umiliata per quello che stava per fare. “Se mi vedessero Anastasia e Genoveffa!” borbottò tra i denti. Sicuramente ora quelle due stavano sorseggiando tè e mangiando cioccolatini pralinati. Il pensiero di un cremoso cioccolatino con le praline che, infrangendosi tra i denti, rivelava il gustoso caramello interno, le fece venire l’acquolina in bocca nonostante la puzza.
Decise di cominciare dalla vasca. Nessuno si era dato peso di svuotarla. Isadora brandì la tinozza di ferro e la immerse in quello stagno marrone. Quando le mani si immersero nell’acqua sporca, le venne la pelle d’oca. “Che lavoraccio” sibilò ad Armageddon. Trasse la tinozza piena, la trascinò a fatica fino alla piccola finestrella, poi provò ad aprirla. Dovette fare forza, poi ce la fece. A quel punto, senza tanti preamboli, gettò una parte dell’acqua sporca all’esterno. Si deterse il sudore dalla fronte.
Continuò di quel passo fino a svuotare completamente la vasca. A volte l’acqua traboccava dalla tinozza e allagava il pavimento, a volte non riusciva a trasportare la pesante tinozza, fatto sta che aveva le braccia completamente indolenzite. Sarebbero stati dolori, l’indomani! Esausta e scoraggiata, contemplò la vasca vuota: era striata di sporco. “Oh, al diavolo” pensò. Lei almeno l’aveva svuotata.
Passò alle pareti ricoperte dalla mucillaggine biancastra. Impregnò uno straccio della pozione, mentre Armageddon usciva dalla sua manica e si avventurava sulle mensole annerite, infilandosi tra barattoli di dubbia origine e strane pomate. Isadora riprese lo stesso strofinamento delle finestre, che la fece sudare quanto e più di prima.
Mentre lavorava di buona lena, vide con la coda dell’occhio Armageddon far cadere sbadatamente un barattolo. “No!” gridò, gettandosi in avanti. Afferrò al volo l’oggetto e sospirò di sollievo. Se lo rigirò tra le mani, studiandolo. Vi era attaccata una targhetta con su scritto: amaranto.
“Mah” lo ripose dove stava prima, raccomandando ad Armageddon di fare attenzione.
Katrina la trovò che tentava con poco successo di lavare la vasca con una spugna schiumante. Povera ragazza! Era solo mezzogiorno, ed era del tutto esausta. Ciocche sudate dei suoi capelli biondi fuoriuscivano dalla bandana, sia grembiule che vestito si erano insudiciati quanto quelli della vecchia domestica, e il fazzoletto che le copriva naso e bocca non faceva che scivolare in basso. Accorgendosi di quella visita, Isadora rivolse alla sua compagna uno sguardo carico di disperazione. Era già l’ora di pranzo, e di otto mansioni ne avevano svolte due, pure alla buona.
“Amavi molto tuo padre, Isa?” le chiese Katrina. Doveva amarlo parecchio, se si era ridotta così per lui. La ragazza arrossì violentemente e non rispose, strofinando la vasca con furia. La vecchia domestica sospirò: “Anch’io finii qui per mio padre”.
Isadora si fece attenta a quanto diceva: “Venne catturato dal padre del padrone quando io ero molto giovane. Arrivai qui per implorarlo di liberare mio padre, ma il vecchio padrone era irremovibile. Allora offrii me stessa e i miei servigi in cambio della sua libertà”.
Katrina, dopo questo mesto racconto, tornò allegra: “Ma io mi sono affezionata a questa vita, sai?”
“A me non succederà mai” disse Isadora.
 
Il resto della giornata fu anche peggio di quella mattina. Dopo la latrina, Isadora fu costretta a spazzar via la polvere un po’ dappertutto, a sbattere la metà dei tappeti della casa, a rifare i letti, a lavare i piatti risalenti ai giorni prima, una piramide temibile che la aspettava. Per quanto si impegnasse, ogni lavoro le veniva male, ed era sempre più stanca e affamata.
Fatto sta che, mentre lei e Katrina stavano riattizzando il fuoco in cucina, la domestica si raddrizzò di colpo e gettò un’occhiata fuori dalla finestra: il sole stava incominciando la sua lenta discesa. “Dobbiamo preparare la cena per il padrone” annunciò. Isadora sollevò il capo, stupita: “Adesso?”
“Sì” Katrina si mise ad armeggiare con un pesante sacco che giaceva in un angolo: “Mangeremo solo dopo che la cena del padrone comincerà a cuocere. Quando torna dalla caccia è quasi sempre di cattivo umore, per cui è meglio fargli trovare pronta la cena”.
Isadora notò con un certo turbamento che Katrina parlava del padrone con l’affetto di una nonna, unito ad un chiaro timore. Come poteva essersi affezionata a quell’orco? A lei sembrava solo un despota senza scrupoli che tramava per ucciderle di lavoro e che le terrorizzava già tre ore prima del suo ritorno.
Katrina estrasse a fatica dal sacco la carcassa di un cinghiale. Di fronte a quello spettacolo, Isadora rabbrividì. La sua nume tutelare le spiegò: “Questa è la preda che il padrone ha ucciso ieri. Ogni sera torna con una preda che dovremo cucinargli il giorno dopo. Sai macellare la carne?”
La ragazza la fissò con occhi sperduti. Katrina sospirò: “Non fa niente. Ti insegno io”.
Katrina prese la carcassa da una parte, Isadora dovette farlo dall’altra. Le si rivoltò lo stomaco. Ogni volta che faceva qualcosa di ripugnante, pensava che niente avrebbe mai potuto equipararla, ma rimaneva sempre sorpresa. Insieme, la trascinarono fino ad un bancone sudicio e ce la caricarono sopra, gemendo dallo sforzo. Katrina fece scorrere le dita rinsecchite sui coltellacci appesi al muro, e alla fine ne scelse due, massicci e seghettati. Ne porse uno ad Isadora, che esitò a lungo prima di stringere la mano sul manico.
“Osserva attentamente ciò che faccio” le disse Katrina. Isadora si costrinse a guardare mentre incideva con mano tremante la carne del cinghiale e tirava giù la lama, disegnando sull’immenso corpo un complesso schema. Non riusciva a memorizzare quei movimenti, e francamente neanche ci teneva. Alla fine Katrina tirò via la pelle dal cinghiale come se stesse sollevando un foglio, scuoiandolo. Isadora divenne pallida come una morta, a malapena si resse in piedi. Katrina gettò la pelle nel fuoco del camino, poi incominciò a tagliare: “Aiutami, se ci riesci, cara”.
Isadora, che non voleva fare la svenevole, affondò goffamente il coltello. Fece quasi tutto Katrina, lei si limitò a tagliare di tanto in tanto qualche fettina che ammucchiavano su di un grande piatto opaco. Fuori dalle finestre, stava calando la sera sulla foresta oscura. Isadora vide distintamente che la compagna diventava sempre più irrequieta e frettolosa. Ad un certo punto depose il coltello e le disse: “Mettici tu le spezie, Isa, intanto preparo la cena per noi due. Basta che guardi nella credenza, poi mettilo in pentola”.
Ritrovandosi sola di fronte alla carne, Isadora restò qualche istante istupidita. Poi aprì la credenza. Era stipata di trecce di salsiccia, pagnotte dure, spezie di vario genere e salse succulente. La fame tornò, dolorosa. Isadora, improvvisando, scelse del sale e del rosmarino che sparse alla rinfusa sulla carne di cinghiale. Poi riempì il pesante pentolone di acqua calda, accese il fuoco e vi buttò dentro la carne. “Speriamo che mi sia venuta bene” pensò, dando qualche cauta mescolata con un cucchiaio di legno che aveva trovato appeso al muro con i coltelli. Non aveva mai cucinato, prima.
“Apparecchia la tavola!” le disse Katrina, frenetica. Le trasfuse quella fretta e Isadora si affrettò in sala da pranzo. Mise di fronte alla sedia dell’orco un piatto, le posate e un bicchiere di coccio, assieme ad una fiasca di vino che le indicò la vecchia compagna.
Katrina si calmò leggermente: “Ora possiamo mangiare”.
Isadora non aspettava altro. La cena consisteva in una misera scodella di zuppa di lenticchie, ma ci si avventò con foga, infilandosi in bocca grandi cucchiaiate. Non riusciva a credere di essere stata così schizzinosa a colazione. Ora si sentiva pronta a mangiare qualsiasi cosa. Era stremata. Le due erano così affamate che per diversi minuti si accontentarono di mangiare voracemente la zuppa, poi Katrina le parlò: “Sei fortunata che non ci sia il vecchio padrone. Lui mi permetteva solo di mangiare la cena, non c’era neanche la colazione”.
Isadora le credeva. Era davvero denutrita, le si vedevano le ossa che comparivano dalla pelle. Inasprita dal duro lavoro della giornata, si lamentò: “Perché mi ha presa in moglie, se qui io faccio solo la sguattera?!”
Un barlume di vaga comprensione accese lo sguardo di Katrina: “Penso che l’abbia fatto per addolcirti la pillola”.
“Addolcirmi la pillola!” esclamò Isadora, staccandosi un attimo dalla zuppa: “Ho perso i miei sogni, la mia casa, mio padre, tutto…” il cuore le si strinse in una morsa al pensiero del marchese. Katrina, intenerita, la toccò con la mano scarna: “Ti capisco. Credimi. Ma oggi ti sei comportata davvero bene. C’è in te un ardore che ammiro. Non lasciare che te lo portino via lo sconforto e la rabbia. È l’unica cosa in grado di sorreggerti”.
In quel momento, il botto del portone che si apriva le fece sobbalzare. Katrina impallidì e scattò in piedi: “Il padrone! È tornato!”
Isadora provò paura: si ricordò di colpo del modo abbozzato con cui aveva pulito la casa, della fretta con cui aveva cucinato il cinghiale, e sentì una fitta al cuore. Vedendo Katrina che si sistemava, fece lo stesso: si annodò meglio la bandana, lisciò il vestito e il grembiule, rimise i piedi doloranti negli zoccoli che si era tolta per cenare. Erano rossi e sanguinanti.
I passi pesanti che salivano le scale risuonarono lugubri nel silenzio, accompagnati dall’abbaiare festante di Bruto che accoglieva il padrone. Isadora e Katrina tolsero la carne dal fuoco e la misero sul grande piatto di prima, spargendovi sopra un altro pizzico di rosmarino.
Non appena entrarono in sala da pranzo, l’orco fece la sua comparsa, stagliandosi sulla soglia in tutta la sua altezza. Isadora non poté impedirsi di rabbrividire: alcuni dei coltellacci appesi alla cintura erano sporchi di sangue, sangue che aveva imbrattato anche i rozzi vestiti. Torvo e insoddisfatto come sempre, l’orco gettò a terra un sacco molto simile a quello da cui avevano tirato fuori il cinghiale e trapassò Isadora con occhi freddi e ombrosi: “Non mi sembra che tu abbia svolto bene i tuoi compiti”.
La ragazza arrossì e abbassò gli occhi. Fu Katrina a difenderla: “Suvvia, padrone, è la sua prima volta. Ci si è messa d’impegno”.
“Se questo è il risultato di tutto il suo impegno, allora dovrà cambiare, e anche in fretta” sibilò l’orco, carico di un freddo rimprovero. Quel modo di parlare di lei come se non fosse presente fece nascere in Isadora una grande rabbia, che represse a stento. Sempre a occhi bassi, attese che l’orco si fosse accomodato a tavola, poi, quando ordinò loro di portargli la cena, si avviò in cucina con andatura barcollante. Aveva un groppo che le occludeva la gola. Le faceva male che tutto il duro lavoro tanto faticosamente portato a termine venisse distrutto con quattro parole algide.
“Non abbatterti” le disse Katrina con un sorriso: “Tu ce l’hai messa tutta”.
“Bella consolazione” mormorò Isadora. Si caricò tra le braccia il piatto con sopra la carne di cinghiale, poi tornò in sala da pranzo. L’orco sedeva con aria impaziente, una mano appoggiata sul testone peloso di Bruto, che era andato ad accoccolarsi ai suoi piedi. Isadora digrignò i denti quando vide il cane e lo sguardo le corse all’ampio squarcio nel vestito. Senza dire una parola, appoggiò il piatto dinnanzi all’orco, poi indietreggiò accanto a Katrina, che gettò verso Bruto un osso ricavato dal cinghiale ucciso. Il cane lo addentò al volo e ci si concentrò con gioia.
L’orco si versò nel bicchiere il vino della fiasca, poi tagliò un pezzo di carne e se lo infilò in bocca. Immediatamente contrasse il viso in un’espressione di disgusto e balzò in piedi come una furia, sbattendo violentemente i pugni sul tavolo, che vibrò. Isadora sussultò e si spaventò ancor più quando vide l’orco che scagliava via la sedia e le si avvicinava con aria rabbiosa. Si appiattì al muro, tremante e spaventata.
“Quello cosa sarebbe?!” ruggì l’orco, indicando la carne. Urlava, rosso in viso. Isadora pensò che lo preferiva addirittura freddo e distaccato. Senza sapere cosa rispondere, aderì ancor di più al muro. Era terrorizzata. L’orco andò avanti con furia: “Ma a cosa diavolo servi, tu?! Non sai fare niente! Cucini da far vomitare e pulisci ancora peggio. Sapevo che tuo padre mi avrebbe rifilato una fregatura!”
“Io…mi dispiace…” balbettò Isadora, gli occhi grandi e lucidi di lacrime. L’orco le rise in faccia: “Ti dispiace? Non me ne faccio nulla del tuo dispiacere”.
“Cercherò…cercherò di far meglio…”
“Lo spero bene per te” sibilò lui. La guardò con sufficienza, poi si scostò e, indicando il piatto, aggiunse, di nuovo con voce glaciale: “Riportalo in cucina”.
Con un bolo di spavento e di umiliazione piantato in gola, Isadora riprese il piatto e tornò in cucina. Tremava tutta, il cuore gonfio di tutte le lacrime che inghiottiva. Si sentiva umiliata e offesa. Sentiva che aveva fatto tanti sacrifici per vedersi urlare contro. In uno scatto improvviso di rabbia, scagliò il piatto a terra e lo ruppe in mille pezzi, spargendo sul pavimento il resto della carne tanto faticosamente cucinata. Si abbandonò contro la parete fino a scivolare in ginocchio, si abbracciò le ginocchia e scoppiò a piangere disperatamente.
Katrina entrò in cucina e la trovò a piangere in mezzo ai cocci del piatto. “Oh, Isa” sussurrò, inginocchiandosi accanto a lei e prendendole il viso fra le mani: “Non piangere…”
“Io ho fatto tutto il possibile” singhiozzò la ragazza, gemendo dal profondo del cuore: “Ma cosa ci faccio qui? Cosa vuole da me?”
“Ti prego, calmati” le disse la domestica, asciugandole le lacrime col dorso della mano: “Certe cose devi accettarle. Il padrone…lui…è fatto così”.
“Lo odio! Odio tutto di questo castello! Non posso vivere così” gemette Isadora, abbandonandosi all’abbraccio di Katrina e appoggiando il capo sul suo petto rachitico. La vecchia le accarezzò la testa, cullandola fra le braccia come se fosse una bambina: “Tieni duro, Isa. Io sono con te”.
Pian piano i singhiozzi di Isadora si acquietarono. Le carezze e la gentilezza di Katrina la calmavano, scoprì di averne bisogno, soprattutto ora che era stata appena trattata male ingiustamente. Alla fine si fece forza e si asciugò le lacrime. Katrina sorrise: “Ecco, brava. Và a letto, hai bisogno di dormire. Penso io a pulire qui”.
Tornare nell’angusta celletta che le fungeva da camera da letto fu un sollievo. Là dentro si sentiva al sicuro. Tolse la sua tenuta da sguattera con furia, ammucchiandola nel baule, poi calciò via gli zoccoli. I suoi poveri piedi erano pieni di vesciche. Si buttò esausta sulla branda, prese Armageddon dalla tasca del grembiule e se lo strinse al petto come se fosse un peluche, coccolandolo a lungo per sfogare la sua mancanza di affetto. Cercò un rifugio impossibile nel mondo dei sogni, addormentandosi assieme al suo topolino.
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** La goccia che fa traboccare il vaso ***


CAPITOLO 7

 
 
 
 
 
 
Le settimane seguenti furono anche peggiori di quel primo giorno. Se Isadora aveva pensato che sarebbe cambiato qualcosa, nel tempo, beh si sbagliava.
Ogni mattina doveva alzarsi alle cinque, indossare i suoi vestiti sudici, consumare la ben magra colazione con Katrina e prendere da sotto la terza gamba del tavolo l’onnipresente foglio con su scritti gli ordini del giorno, ogni volta più faticosi e difficili. A quel punto si mettevano al lavoro nel disperato tentativo di dare una pulita a quel maniero in decadenza. Nessuna delle due poteva mai uscirne.
Isadora cominciò ben presto a odiare quel foglio che era costretta a leggere, quelle anguste camere che era costretta a pulire, quei compiti sadici. Ma soprattutto odiava l’orco. Non era che un’ombra che vedeva solo di sera, quando gli preparava la cena. Aveva sempre da lamentarsi di qualcosa e in più di un’occasione le urlò contro. Qualsiasi cosa lei facesse, le trovava sempre qualcosa da ridire. Se aveva pulito bene e aveva cucinato decentemente, non diceva nulla e non le riconosceva l’impegno. Se, nella maggior parte dei casi, aveva sbagliato qualcosa, andava su tutte le furie.
L’unica presenza amica rimase quella di Katrina, che divenne a tutti gli effetti la sua nume tutelare. Isadora si appoggiava a lei per qualunque cosa, e la sua compagna la aiutava come poteva.
Il marchese non tornò mai a salutarla. A volte si metteva alla finestra, la sera, e guardava fuori sperando di vederlo comparire. Ma lui non c’era mai. Finiva per tornarsene tristemente in camera sua. La sua vecchia vita le appariva di giorno in giorno più lontana: aveva dimenticato il sapore del cibo vero, il calore del sole, la soddisfazione di indossare un bel vestito. Era stata imprigionata in quel lugubre affresco e ora, volente o nolente, ne faceva parte. Ma non riusciva ad adattarsi. Sentiva che quello non era il suo posto: non era nata per fare la sguattera, per essere maltrattata e irrisa di continuo.
Un altro enorme problema era Bruto. Lui e Isadora si erano presi in antipatia, ma mentre lei lo evitava, lui le faceva mille dispetti, sentendosi disprezzato. Non c’era modo di scacciarlo, e Katrina non poteva aiutarla.
Una volta, per esempio, comparve mentre Isadora era china sul vasto pavimento dell’atrio, intenta a fregarlo con uno strofinaccio pieno di sapone. Era esausta e nervosa, con la bandana di traverso e il grembiule ben rimboccato sulle ginocchia. I piedi, dentro gli zoccoli, li aveva fasciati con bende ricavate da un qualche straccio, per proteggerli dalle vesciche. Mentre strofinava con furia quel pavimento sporco, logorandosi le ginocchia e le braccia, udì il solito abbaio che preannunciava la venuta di Bruto. “Oh, no” pensò.
Il grosso meticcio nero apparve sulla soglia e rimase lì a osservare la ragazza inginocchiata sul pavimento. Isadora si sforzò di ignorarlo e immerse lo strofinaccio nel secchio pieno di acqua insaponata che aveva posto lì vicino, poi lo strizzò, e ricominciò a pulire. Bruto, con aria dispettosa, entrò e lasciò impronte nere sul pulito. Al che Isadora, già abbastanza nervosa, depose a terra lo strofinaccio, si alzò e sbottò: “Và via, Bruto!”
Ma quello niente. La ragazza si rimboccò la gonna e gli venne incontro con aria minacciosa: “Ti ho detto di andar via, stupido cane!” fece la mossa di dargli un calcio, ma lui balzò all’indietro agilmente. Isadora strinse minacciosamente gli occhi azzurri: “Allora vuoi la guerra, eh?”
Provò ad acchiapparlo buttandosi in avanti, ma lui fu più lesto e le sgusciò fra le gambe, facendola inciampare. Con un grido, Isadora scivolò sul pavimento bagnato e crollò a terra con un tonfo, impigliandosi nel grembiule. Mentre ansimava per liberarsi, Bruto corse in direzione del secchio pieno. La ragazza sgranò gli occhi: “Bruto, no!”
Divertito, lui colpì con la coda il secchio e lo rovesciò sul pavimento. L’acqua schiumante si sparse a terra. Isadora rimase inorridita: ci aveva messo ore a fregare la saponetta nell’acqua…dopo un primo attimo di disperazione, sopraggiunse una collera mortale nei confronti dell’artefice di quel pasticcio. “Questa me la paghi, maledetto!” stavolta gli si lanciò addosso a sorpresa e avvinghiò le dita sulla sua folta pelliccia. Con un abbaio di sorpresa, Bruto si scosse per liberarsi. Isadora strinse la presa: lottavano, lei gridando, lui abbaiando, un mucchio confuso di pelo e stoffa che si dimenava sul pavimento. Isadora si infradiciò i vestiti rotolandosi nel punto in cui il secchio era caduto. Pensò a come si era ridotta: se la prendeva con un cane…ma questo non diminuì la sua rabbia.
Fatto sta che il portone d’ingresso si spalancò di colpo e l’orco apparve nell’atrio. Isadora rimase a bocca spalancata per la sorpresa: era solo primo pomeriggio, e lui tornava sempre la sera. Bruto, furbo, sgattaiolò via con aria innocente, lasciando la ragazza a terra, tutta scarmigliata e fradicia, in mezzo al lago d’acqua. Arrossendo violentemente, scattò in piedi e tentò senza risultati di ripulirsi un po’: “Posso spiegare…”
“Allora fallo” sibilò l’orco. La fissava glaciale, a braccia conserte, come ogni volta che ne combinava una. Lei provò disperatamente a giustificarsi: “Bruto mi ha…”
“Scaricare la propria inettitudine sugli altri non ti aiuterà” replicò l’orco, secco. Isadora trasalì, come ogni volta che veniva rimproverata. Avvertiva un potente senso di umiliazione, ma stavolta, con esso, c’era anche la rabbia. Lui storse le labbra in una smorfia di disgusto: “Ogni giorno che passa peggiori sempre di più. Speravo che si riuscisse a cavare qualcosa di buono da te, ma a quanto pare mi sbagliavo”.
Isadora taceva, paonazza. L’orco diede un calcio al secchio rovesciato, scagliandolo lontano: “Mi aspetto che tu ripulisca questo pasticcio da cima a fondo, chiaro?”
La fissò, ma lei non disse il solito “sì”. Si fece fosco in viso: “Chiaro?” ripeté alzando la voce. A quel punto, lei decise di buttarsi. Quel che è troppo è troppo: stavolta non era nemmeno colpa sua! Così alzò gli occhi, li fissò in quelli ardenti dell’orco, e superando la paura sbottò: “No. Ci sono molte cose che non mi sono chiare. Primo: perché non mi viene riconosciuto niente di quello che faccio. Secondo: perché non vengo mai creduta. Terzo, il più importante: una moglie non è una sguattera”.
Sentiva le guance in fiamme, e un curioso senso di esaltazione in petto. Ce l’aveva fatta! Si era ribellata! Però…lui cosa le avrebbe fatto?
L’orco era rimasto immobile durante tutto il discorso. Fremeva di rabbia, e parve quasi sul punto di alzare le mani su di lei, cosa che, meno male, finora non aveva mai fatto. Poi però si dominò, serrò i pugni e ringhiò: “Non devo giustificarmi con te, ragazza. Questa è casa mia, si fa come dico io”.
“Ora è anche casa mia!” dichiarò coraggiosamente Isadora. L’orco digrignò i denti: lei ne udì lo scricchiolio minaccioso: “Dovrei trascinarti in soffitta per i capelli e lasciarti lì tutto il giorno, così la smetteresti subito di fare l’impudente. Ma mi servi. Perciò dimenticherò quello che mi hai detto”.
Isadora lo fissava accigliata. Lui riacquistò quasi subito il suo contegno glaciale: “Domani sera ho invitato qui alcuni amici. Dovrai cucinare la cena per tutti noi, le indicazioni le troverai sul foglio”.
“Verranno qui altri…orchi?” Isadora dimenticò per un attimo la sua ribellione, stupita. Non c’erano mai stati ospiti, da quando era arrivata. Il pensiero che il maniero avrebbe presto pullulato di copie del marito la riempì di inquietudine. L’orco annuì seccamente: “Non ti scuserò incurie, domani sera. Dovrà essere tutto perfetto, e tu mi obbedirai. Ti concedo una grande fiducia, considerati i tuoi recenti insuccessi: vedi di meritartela, ragazza”.
Se ne andò di nuovo, lasciandola lì. Isadora gli gridò dietro: “Per tua informazione, mi chiamo Isadora!”
 
“Ha invitato i suoi amici?” chiese Katrina allarmata, dopo che Isadora le ebbe raccontato della notizia. La ragazza annuì: “Una brutta notizia?”
“Il padrone pretenderà il massimo da noi” sospirò la vecchia domestica: “Dovrai impegnarti molto a cucinare quella cena”.
“Vorrà che mi sieda a tavola?”
“No, ma sei uno spuntino prelibato per quella gente” Katrina era davvero preoccupata: “Cerca di sembrare il meno attraente possibile. Mettiti i tuoi soliti vestiti e sporcati la faccia, poi indossa intorno al collo una treccia d’aglio”.
Isadora tremò al pensiero di rischiare d’essere mangiata. In effetti era meglio ubbidire all’orco per evitare che la consegnasse di sua volontà ai suoi amici. Così ripassò ciò che aveva imparato circa l’arte culinaria in quelle settimane e stette a pensarci a lungo, anche a letto.
Il giorno dopo l’orco se ne andò prima del solito e le due donne si videro sole ad affrontare quella cena da preparare. Il foglio che aveva lasciato loro era molto lapidario. Isadora lo lesse corrugando la fronte: “Apparecchiare per otto in sala da pranzo, cucinare carne arrosto, pane abbrustolito, spezzatino di cinghiale e patate arrostite”.
“Cominciamo” disse Katrina, prendendo l’occorrente dalla credenza. Isadora aprì tutti i cassetti alla ricerca del sacco delle patate. Trovò una tarantola e un ratto ben diverso dal suo Armageddon e si affrettò a chiudere i cassetti che li ospitavano. Ormai non si stupiva più di nulla. Alla fine trasse dal cassetto giusto il pesante sacco di tela e lo appoggiò con sforzo sul pavimento: “Quante ne dobbiamo fare?”
“Il più possibile” le rispose Katrina che stava già abbrustolendo il pane: “È raccomandabile che non rimangano affamati”.
Isadora annuì, prese dalla parete un coltello piuttosto piccolo e si inginocchiò sul pavimento per pelare le patate. Lo fece con molta attenzione, decisa stavolta a guadagnarsi una lode. Solo adesso ricordava le parole di Natalie, che per tutto quel tempo aveva tentato di scacciare: “Sii brava e servizievole, e ti faciliterai alquanto la vita”.
Passò diverso tempo a sbucciar patate che poi riponeva su di una teglia di metallo, resistendo alla tentazione di mangiarle anche crude. In quel periodo era diventata più magra, e le sue guance tonde si erano fatte scarne. Poi, dopo che ebbe pelato una gran quantità di patate, le raccolse in una pentola annerita e le tagliò in spicchi perfetti, che insaporiva con ciuffi di rosmarino e di altre erbe. Con un acciarino diede vita ad un fuocherello su cui mise a cuocere le patate.
Lo spezzatino fu più impegnativo. Prima dovette macellare la carne di un altro cinghiale, attenta a farlo bene, poi cucinò una salsa saporita che sparse in gran quantità sulla carne cotta. L’odore la fece mancare: aveva davvero un’aria appetitosa. Con la scusa di controllare se era caldo, ne prese una cucchiaiata e se la infilò in bocca. Un fuoco d’artificio le esplose sul palato. Era buonissimo, così buono che le salirono le lacrime agli occhi. Il suo stomaco faceva le fusa: erano giorni che consumava solo pane e zuppa di lenticchie.
“Che buon profumino!” commentò Katrina, di ritorno dalla sala da pranzo. Guardò con malcelato desiderio lo spezzatino fumante: “Ha un’aria appetitosa”.
“Prendine un pezzo” la incitò Isadora, porgendole il cucchiaio. Alla domestica prese un colpo come se le avesse appena chiesto di ascendere in paradiso: “Non posso! È per il padrone e i suoi ospiti!”
“Oh, andiamo, Katrina” borbottò Isadora, premendole la carne sulle labbra che già si schiudevano: “Un pezzo non fa differenza…” la osservò masticare la carne al rallentatore per godersi al massimo il piacere. I suoi tratti si distesero in un’espressione di pura beatitudine. Alla povera vecchia mancò il cuore e si appoggiò contro la parete. Una lacrima le sfuggì dall’occhio e si infilò in una ruga profonda. Alla fine parlò, con voce appena udibile: “Avevo dimenticato quanto era buono il cibo. Non mangiavo una cosa simile da quando…da quando avevo la tua età”.
Scoppiò in un pianto dirotto. Isadora la circondò con le braccia e le permise di sfogare la commozione. Infine Katrina tornò in sé, raccolse con la punta delle dita le ultime lacrime e le rivolse un sorriso tremante: “Grazie…”
“Prendiamone un altro pezzo” propose Isadora. Il secondo assaggio fu un altro colpo per entrambe. Alla fine, quando ripresero a cucinare, Katrina guardò adorante la giovane compagna: “Tu sei come una luce, Isa. Una luce che ha portato splendore in questo castello e nel mio cuore…ora il buio è ancora denso e non riesci a illuminarlo…ma accadrà molto, molto presto. Hai portato la bontà in un luogo di cattiveria. Io non sapevo nemmeno cosa fosse la vita, prima che tu arrivassi…l’avevo dimenticato”.
Isadora pensò di non meritare quelle lodi. Una luce? Si sentiva fin troppo al buio. Finì di cucinare il gustoso spezzatino, tentata di prenderne ancora un po’, mentre Katrina preparava la carne arrosto. Come due vecchie amiche, presero di nascosto una delle patate arrostite, la divisero e la mangiarono assaporandone la scorza croccante. Isadora fece rosicchiare un po’ della crosta del pane ad Armageddon.
Poi apparecchiarono la tavola. Mentre disponevano in bell’ordine piatti e bicchieri, completando il tutto con candele e centrotavola, Isadora chiese a Katrina se si era sistemata bene. Indossava i suoi soliti vestiti da sguattera, ma si era imbrattata viso e mani di sporco e coperta del tutto la chioma bionda col fazzolettaccio. Al collo le pendeva una collana d’aglio. Katrina la scrutò a lungo con evidente apprensione: “Hai fatto bene, anche se, a parer mio, resti comunque molto carina…speriamo bene”.
Avevano appena finito di apparecchiare, che scorsero, fuori nella foresta, un gruppo di massicce sagome che si avvicinava al maniero. Katrina deglutì: “È ora”.
Le due donne si misero in sala da pranzo, tutte in riga, immobili come baccalà, mentre un frastuono tremendo di passi infuriava da sotto. Isadora rabbrividì: “Mi chiedo come facciano ad avere tanto successo a caccia: con quel passo faranno scappare tutti gli animali”.
“Sanno essere molto silenziosi quando vogliono” le bisbigliò Katrina.
Insieme ai passi si sentì un brusio di voci cavernose che sghignazzavano e parlavano fra loro. Tra di esse, Isadora riconobbe quella del padrone. Katrina le soffiò: “Sei troppo tesa. Non devi mai mostrare paura, con loro, specialmente se sei giovane”.
Isadora si sforzò di tenere a bada il panico. La porta della sala da pranzo venne brutalmente aperta e un gruppo di orribili ceffi, uno più minaccioso dell’altro, comparve in sala da pranzo. A far strada al corteo c’era l’orco, già di per sé spaventoso, ma Isadora dovette ammettere che alcuni dei suoi amici lo superavano. Erano tutti vestiti rozzamente e avevano ghigni malvagi stampati sulle facce allegre. C’erano orchi col naso schiacciato e la bocca larga, orchi molto nerboruti, orchi tatuati e orchi che esibivano con orgoglio armi di vario tipo che portavano addosso come se niente fosse. C’erano anche due orchesse, ma erano così androgine che Isadora riconobbe loro un’effettiva femminilità solo grazie ai vestiti lunghi e ai seni formosi. Un lungo brivido le percorse la schiena, e sentì la mano di Katrina stringerle il braccio con aria confortante.
Gli orchi si azzittirono di colpo quando le giunsero di fronte. Si sentì fissata dai loro occhi famelici e abbassò prontamente i suoi, sull’orlo dello svenimento. Un orco con una lunga cicatrice bianca in fronte biascicò con voce rude: “Non ci avevi detto che questa piccola umana era così appetitosa”.
“Già” si aggiunse un altro orco, così alto da arrivare quasi ai tre metri: “Niente a che vedere con la tua vecchia e sciupata domestica. Proprio una bella cenetta, eh, ragazzi? Come la vogliamo cucinare?”
Isadora provò un nodo di terrore che le serrò il petto in una morsa. Tuttavia, a sorpresa, il padrone di casa si adombrò e borbottò: “Lei non è da mangiare” poi, rivolgendosi alla ragazza col solito tono di comando, le disse: “Porta la cena”.
Lei fu ben lieta di potersi eclissare in cucina. Una volta lì, fissò Katrina con uno sguardo stralunato: “Quei brutti ceffi vogliono mangiarmi!”
“Non oseranno” la rassicurò Katrina: “Non finché sei qui. Non provocherebbero mai chi li ha ospitati in casa sua”.
Questo non la rassicurava affatto. Forse, però, l’ottimo spezzatino li avrebbe distratti dalla loro fame di lei. Prese il vassoio che lo conteneva, mentre Katrina recava le patate abbrustolite e il pane caldo. In sala da pranzo, gli orchi si erano tutti accomodati a tavola e ridevano sguaiatamente. Erano più brutti del solito. Tremando convulsamente sotto l’abito da sguattera, Isadora portò loro lo spezzatino e si fece leggermente da parte. Il padrone di casa si sporse, afferrò il vassoio, lo trasse a sé e prese una forchettata di spezzatino. Isadora aspettò di sentire la solita sfuriata. L’orco masticò a lungo, come se si stesse concentrando per trovargli qualche difetto. Poi, però, si limitò a rivolgersi alla tavolata: “Possiamo incominciare”.
Eccitata, Katrina afferrò Isadora per le spalle e la fissò dritto negli occhi: “Complimenti, Isa!” le disse a bassa voce: “Il tuo spezzatino ha superato l’esame!”
Ma lei era troppo spaventata per gioire di quella conquista. Gli orchi, infatti, sebbene mangiassero avidamente lo spezzatino, la cercavano con gli occhi, riempiendola di un desiderio insistente. Si sentiva come un’enorme salsiccia. Mentre passava per togliere qualche piatto sporco, una delle due orchesse la agguantò per il braccio, facendola trasalire, e le rivolse uno sguardo aspro: “Ha paura, Mildred” biascicò rivolta alla vicina di posto: “È così spaventata che le posso contare le goccioline di sudore sulla fronte”.
Isadora, terrorizzata, tentò di liberare il braccio. Ma la mano dell’orchessa vi si serrò, implacabile. L’altra, Mildred, ghignò come una iena: “Guarda, sta provando a filarsela. Ehi, ragazzina, la sai una cosa? Ti sei cacciata in questa situazione per un padre che se ne frega alla grande di te”.
Isadora saltò su come se l’avesse punta. “Cosa stai dicendo?”
“Lui ci ha detto tutto di te” sibilò l’orchessa che la teneva per il braccio, indicando l’orco a capotavola: “Che storiella commovente la tua, eh, marchesina Isadora? Ehi Mildred, secondo me si sente malissimo a dover indossare quei vestiti che si ritrova”.
“Ti sei ridotta proprio male” proseguì Mildred con cattiveria: “E mentre tu languisci in questo castello, sai cosa fa tuo padre? Se la gode un mondo tra gli agi di Soledad, infischiandosene di te!”
“Non è vero!” senza rendersene conto, aveva urlato, ma quando ci fu silenzio ed ebbe l’attenzione generale, era troppo tardi. Rossa in viso, ripeté rivolta alle due orchesse: “Non è vero che mio padre se ne infischia di me!”
“E allora perché non è mai venuto a trovarti?” sibilò l’altra orchessa. Isadora, però, continuò a scuotere la testa e ripeté: “Non è vero!”
“Questa ha l’aria di piantare un sacco di grane” intervenne l’orco sfregiato. Isadora sussultò e si girò a fissarlo. L’orco più alto fece un sorriso astuto: “Secondo me è più utile arrostita che viva. Quanto vuoi per lei? Venti fiorini? Cinquanta? Ho una signora per cena domani, con lei come piatto forte farei una gran bella figura”.
“Naa, non li vale cinquanta fiorini” biascicò lo sfregiato: “Direi dieci al massimo. A parer mio è insipida”.
“Un pizzico di sale ed è fatta” rise Mildred.
Isadora ascoltava con orrore crescente quelle offerte mostruose sulla sua vita, sempre più sconvolta e furiosa. Guardò l’orco, aspettandosi che li mettesse a tacere: ma lui restava immobile a capotavola e le riservava uno sguardo scocciato, come se fosse colpa sua se gli altri si comportavano così.
Fu la goccia che fece traboccare il vaso. Di colpo tornarono a galla l’umiliazione di quei giorni, la fatica dei suoi compiti, i pasti esigui al massimo, i rimproveri sadici, e ora quella terribile trattativa. Una rabbia cieca l’assalì, meravigliandola per la sua potenza. Era diretta perfino contro suo padre.
“Ne ho abbastanza di questo posto!” pensò, uscendo di corsa dalla sala da pranzo. Non sapeva cosa stava per fare, non sapeva nemmeno cosa voleva: era mossa solo dall’istinto, e da quella rabbia esplosa all’improvviso. Corse con un’aria da insensata nella sua stanza, dove si liberò furiosamente degli abiti da sguattera, facendoci la lotta. Armageddon comparve da sotto il letto, stupito. “Ce ne andiamo di qui” ringhiò Isadora. Non importava dove sarebbe andata, cosa avrebbe fatto: bastava allontanarsi da quel maniero orribile. Tirò fuori dal baule uno dei suoi vecchi vestiti, che era di seta blu, e lo indossò in fretta. Poi si gettò un vecchio mantello sulle spalle, si mise il cappuccio e si fissò furiosamente la fede di legno al dito: se la tolse e la gettò a terra con violenza. Rimbalzò sulla pietra e finì lontano. Isadora gioì. Finalmente avrebbe riconquistato la libertà che le era stata tolta. Ne aveva davvero abbastanza.
“Vieni, Armageddon: torniamo a casa” prese lo stupefatto topolino e lo infilò al caldo sotto al mantello. Suo padre l’avrebbe riaccolta, volente o nolente. Al che spalancò la porta della camera e uscì con espressione furiosa, il mantello che le sbatteva sulle gambe.
A metà strada incontrò Katrina. La domestica era corsa a vedere come stava, preoccupata da quell’improvviso cedimento. Bastò un’occhiata agli abiti da viaggio, alla sua espressione, perché capisse. Una disperazione senza fine le contrasse il viso: “Non farlo, Isa” la implorò, correndole dietro mentre si dirigeva a grandi passi verso il portone d’ingresso: “Non prendere decisioni affrettate”.
“Questa è l’unica cosa giusta che faccio da quando sono arrivata qui” rispose la ragazza con furia. Gli occhi strabici di Katrina si fecero lucidi. La afferrò per il mantello: “Ma io ti voglio bene! Non lasciarmi sola di nuovo, ti prego! Ho bisogno di te!”
L’espressione di Isadora si ammorbidì leggermente, ma continuò a marciare verso il portone: “Mi dispiace, Katrina, ma non intendo restare qui un minuto di più. Si è passato ogni limite”.
“Ti prego, Isa…”
“No. Non mi farai cambiare idea. Addio” e aperto il portone, uscì dal maniero senza aggiungere altro. Katrina restò immobile, svuotata.
Il freddo della notte ghermì Isadora senza pietà, riempiendola di brividi. Si strinse nel mantello. Il vento soffiava con furia sulla foresta, facendo stormire le fronde degli alberi scuri e scompigliandole i capelli. Armageddon si avvolse più stretto nel mantello. Isadora non si fece scoraggiare da quel gelo e si allontanò in fretta dal maniero, infilandosi tra i rami. Battendo i denti, disse rivolta al topolino: “Non temere, Armageddon. Non sono questi spifferi a farci paura. Ora siamo liberi!”
Vagò alla cieca tra gli alberi. Il vento era così forte e così gelido che tremava convulsamente, le braccia serrate sul petto come per proteggersi. Le labbra e il naso le divennero rapidamente bluastri. Sebbene fosse così stanca, umiliata e intirizzita, provò a ragionare: “Soledad è a sud. Se solo fosse giorno, potrei orientarmi col sole!”
Sollevò il viso. La stella della sera scintillava sopra la sua testa, illuminando le torri appena visibili del maniero. Doveva soltanto andare nella direzione opposta, si disse. Mosse qualche passo rigido e debole. Il vento stavolta le soffiava proprio contro, scagliandole il mantello all’indietro per pungerle il corpo come mille spilli. Con il solito altruismo verso coloro che amava, prese Armageddon tra le mani e lo tenne al sicuro in quella piccola, rosea casetta: “Non avere paura” bisbigliò, ma più che a lui lo diceva a se stessa. Era stata troppo precipitosa.
No! No, aveva fatto la cosa giusta! Non poteva arrendersi proprio ora che era finalmente libera. Ma la foresta immensa in cui si stava aggirando era più che mai minacciosa: non si vedeva quasi niente, se non rami puntuti e cespugli che si muovevano. Un lembo del vestito le si impigliò in un ramo adunco, costringendola a liberarlo con uno strattone. Cominciava a venirle la paura, quella vera.
L’ululato di un lupo la fece trasalire. Si voltò di qua e di là, sperduta. Niente. Gli occhi le lacrimavano, per il freddo e per lo sconforto. Soledad le apparve come un miraggio impossibile da raggiungere. “È tutto un incubo” mormorò: “Nulla di tutto questo è davvero successo. Sono ancora a Soledad”.
All’improvviso udì dei passi che si avvicinavano. Il terrore la strinse nella sua gelida morsa. Strinse ancora più Armageddon e si raggomitolò su se stessa. I passi continuavano. Erano una marea. A quel punto prese ad urlare con la voce arrochita dal freddo e dallo sforzo: “Aiuto! Che qualcuno mi aiuti!”
Dagli alberi emersero i due orchi che avevano parlato di lei poco prima. Isadora spalancò gli occhi e si fece rapidamente pallidissima. Cercò di indietreggiare, anche se sapeva di non avere scampo. Loro erano in due, e molto più forti di lei. Non erano come i giovanotti che si divertiva a sconfiggere a Soledad. Armageddon, scrutando quei due brutti ceffi in rapido avvicinamento dalle fessure delle dita della ragazza, lanciò uno squittio disperato.
“Salve, bel bocconcino” grugnì l’orco sfregiato. Aveva un ghigno malefico stampato in faccia: “Ti abbiamo sentita urlare. Cosa c’è? Hai bisogno di aiuto?”
Isadora si sentiva soffocare dal terrore. Si fece piccola piccola, come se sperasse di poter scomparire: “State lontani da me!” farfugliò. L’orco altissimo scoppiò in una risata agghiacciante: “Ah no, ora siamo noi che dettiamo legge. Sei uscita dal maniero, giusto? Ora non sei sotto la protezione di nessuno. Possiamo fare di te ciò che vogliamo”.
Era vero! E Katrina gliel’aveva anche detto! Vedendoseli venire incontro sempre più voraci e pericolosi, Isadora premette la schiena contro un albero. La sua resistenza fu fievole: “Mio padre vi darà la caccia e ve la farà pagare”.
“Tuo padre?” sbuffò divertito l’orco sfregiato: “Quel patetico ometto non oserà neanche chiederci indietro ciò che resterà di te”.
Isadora capì, con fredda precisione, di non avere scampo. Poteva provare a scappare, ma loro l’avrebbero ripresa. Tentare di difendersi era altrettanto inutile. Era dunque destinata a far da spuntino a quei due orchi? Le lacrime presero a rigarle le guance. Trovò a malapena le forze per urlare: “Aiuto…” con più disperazione che veemenza.
“Sì, grida” sibilò l’orco alto: “Tanto non ti sentirà nessuno. Sei spacciata come una mosca nella tela del ragno!”
Armageddon assestò un morsetto alla mano della padroncina, incitandola a far qualcosa. Ma cosa avrebbe potuto fare, lei? Già si vedeva data in pasto a quei due Mister Incubo. L’orco sfregiato indicò il topolino con un cenno del capo: “Quello sarà il dessert, che ne dici?”
“Non osate toccare Armageddon!” strillò Isadora, serrandoselo al petto. L’orco alto le rise in faccia: “No, è meglio usarlo come antipasto: così potremo goderci la faccia della ragazzina mentre lo cuciniamo!”
“Aiuto!” ripeté Isadora, piangendo disperatamente. I due orchi erano ormai ad un passo da lei.
Di colpo, in un modo così inaspettato da far trasalire Isadora, Armageddon e perfino i due orchi, un lampo nero sfrecciò verso il centro dello scontro e si piazzò tra la ragazza in trappola e i suoi due aguzzini. Isadora rimase così stupefatta che non realizzò subito il miracolo che le era appena capitato.
Ma la vera sorpresa fu constatare che il suo salvatore intervenuto a sorpresa altri non era che l’orco che era stata costretta a sposare. Rimase a bocca spalancata. L’orco si ergeva in tutta la sua considerevole stazza davanti a lei, il volto alterato da una rabbia autentica. Ma stavolta quella rabbia non era diretta verso di lei, bensì sui due orchi stupefatti che si erano un attimo fermati di lì a due passi. Per qualche istante ognuno rimase nella propria posizione. Sembravano un affresco: la buia e fredda foresta da sfondo, la piangente Isadora appiattita al tronco dell’albero, i due orchi in atteggiamento minaccioso, e l’orco piantato tra le due fazioni.
Infine, l’orco parlò, con una voce ancora più tonante del solito: “Lasciate stare immediatamente questa ragazza”.
“Perché dovremmo?” chiese incollerito lo sfregiato. “Sì” aggiunse lo spilungone: “Non siamo tenuti a farlo. Ora ha superato il confine col tuo territorio, non è più di tua proprietà”.
“Vi dico che dovete lasciarla stare. Avete a disposizione un’intera popolazione mondiale per i vostri spuntini” disse l’orco con disprezzo. Isadora, dal canto suo, senza muoversi da dove stava, alternava lo sguardo dall’orco ai due ceffi. Non riusciva ancora a credere che fosse accorso a difenderla. Anche Armageddon scrutava perplesso la scena.
“Fatti da parte” sbraitò lo sfregiato: “Quella ragazza non è tua. Non ti appartiene in nessun modo”.
“Credi?” sibilò l’orco: “Forse hai dimenticato che è mia moglie” detto questo, si voltò verso Isadora, le afferrò il braccio sinistro e lo mostrò ai due orchi. Non c’era niente da vedere. Con un brutto presentimento che appariva chiaro dalla sua espressione, l’orco si rivolse alla ragazza bisbigliando per non farsi sentire dagli altri due: “Dov’è l’anello?”
Isadora impiegò alcuni minuti a capire a cosa si riferiva. Fissandolo con aria vergognosa, confessò: “L’ho gettato via”.
“Perfetto” commentò l’orco alzando gli occhi al cielo. Frattanto i due orchi avevano ripreso a sogghignare come iene: “Hai fatto male i tuoi calcoli” gongolò lo sfregiato: “Fatti da parte e lasciaci quello spuntino”.
L’orco corrugò la fronte. Isadora lo fissò implorante: era diventato la sua unica speranza. Strana la vita, a volte. Pensò che aveva tutte le ragioni per cederla a quei due ceffi: si era dimostrata una pessima padrona di casa e una potenziale ribelle. Come se non bastasse aveva pure provato a scappare.
Lui prese un brusco respiro: “Sta indietro, ragazza” le disse a bassa voce. Stupita, Isadora non ebbe neanche il tempo di comprendere il senso di quelle parole. Vide l’orco scagliarsi sui due energumeni con furia disumana, vide i due energumeni fare lo stesso, e le venne istintivo indietreggiare dallo scontro.
Era uno spettacolo dalla violenza inaudita: i tre orchi si azzuffavano senza una logica, vibrando pugni, calci, stoccate e graffi ogni volta che ne avevano l’occasione, rotolando sul fogliame che ricopriva il terreno. Lei osservava la scena con le mani premute sul petto, appoggiata al solito tronco, e sperava vivamente che l’orco avesse la meglio. Quasi non respirava. Com’era possibile che proprio quel rude orco che l’aveva comandata, umiliata e bistrattata le avesse salvato la vita? Com’era possibile che si stesse battendo per una massaia così scadente?
“Niente qui ha un senso” pensò.
Fortunatamente, l’orco sembrava avere la meglio. Anche se era più basso dello spilungone e meno nerboruto dello sfregiato, era più agile e forte di tutti e due e riusciva sempre a liberarsi da una presa e a colpire nei punti giusti. In poco tempo, riuscì a mettere fuori combattimento lo spilungone, facendolo crollare svenuto a terra. Restava solo lo sfregiato. Era tumefatto e ansimante, ma continuava a fissare Isadora con occhi famelici. Lui e l’orco si assalirono con nuova foga. Per un po’ si colpirono a vicenda senza che nessuno dei due avesse la meglio, poi l’orco, con un grido di rabbia, ferì l’avversario dandogli un violento calcio sulla tempia. Lo sfregiato stramazzò e non si mosse più.
Solo allora Isadora si ricordò di respirare. Attonita, vide l’orco alzarsi faticosamente in piedi. Ansimava. Aveva i vestiti a brandelli e un occhio vistosamente nero. Un sottile filo di sangue gli scendeva dalle labbra. Era una visione spaventosa, ma ora lei non aveva più paura. Si fissarono in silenzio. Isadora avrebbe voluto dire qualcosa, scusarsi della fuga, forse solo ringraziare. Ma la bocca si rifiutò di collaborare.
L’espressione dell’orco tornò dura all’istante, una maschera severa che bandiva ogni altra emozione: “Io torno al maniero” non riusciva ad impedirsi di avere la voce ansimante: “Tu fa come ti pare”.
Le voltò bruscamente le spalle e si avviò con andatura leggermente barcollante nella direzione da cui era venuto. Isadora esitò a lungo là dov’era, guardando ora verso sud, ora verso l’orco che stava scomparendo a passi pesanti. In cuor suo seppe di aver preso una decisione. Cercò di addolcirsela pensando che lo faceva perché c’era un freddo terribile e perché non conosceva la strada per Soledad, ma sapeva che era anche gratitudine, e desiderio di tornare al più presto in un luogo caldo.
Chinò il capo e accennò una corsetta per raggiungere l’orco. Lui le gettò una strana occhiata da dietro la spalla, poi tornò a guardare dritto davanti a sé. Tornarono lentamente al maniero.
 
Katrina li stava aspettando entrambi piena di ansia, e quando entrarono nell’atrio la sua gioia fu immensa: “Isa!” esclamò felice non appena la ragazza fu entrata con aria stanca: “Grazie al cielo sei tornata! Temevo che ti fosse accaduto qualcosa di terribile!” Isadora si lasciò abbracciare e mormorò: “Sto bene, Katrina, davvero” non sapeva perché, ma dopo aver sperimentato il gelo di fuori, era contenta di essere tornata nel maniero.
L’orco si era un attimo fermato a riprendere fiato. Le contemplava con aria esausta, logorato dalla lotta di poco prima. Alla fine si mise a salire le scale a fatica: “Fammi trovare del vino in cucina, Katrina” disse stancamente. Isadora si distrasse dall’abbraccio della vecchia domestica e guardò la scala dove lui era sparito. Katrina fece una smorfia: “Vediamo di obbedirgli”.
Mentre andavano in sala da pranzo, Isadora non riusciva a liberarsi dal ricordo di quanto era accaduto poco prima. Le era inconcepibile, al punto da impedirle di dire grazie, di chiedere. Aveva sempre creduto che l’orco fosse malvagio e senza scrupoli, che nel suo cuore non ci fosse la minima bontà. Tuttavia, era stato capace di salvarla. Dopo averla sfruttata per così tanto tempo. E probabilmente l’indomani sarebbe tornato tutto come prima…ma…
“Avevo tanta paura per te, Isa” le confidò Katrina. Isadora mormorò: “Ho rischiato di morire, ma lui mi ha salvata…”
“Il padrone?!” strepitò Katrina. Tutto il viso le si illuminò: “Che ti avevo detto? Non è poi così male!”
La lasciò per andare a prendere il vino in cucina. Isadora si fermò sulla soglia della sala da pranzo. L’orco era in ginocchio presso il tavolo, intento a calmare Bruto che l’aveva assalito festante, felice di rivederlo. Lo accarezzava con le grandi mani e si lasciava leccare e annusare senza innervosirsi. Ad un certo punto perfino sorrise, guardando il cane con affetto. Isadora li osservava senza rivelarsi, sempre più confusa. Non capiva. Non sapeva più neanche se il risentimento per quei lavori forzati viveva ancora in lei.
Katrina tornò con un vassoio con sopra la fiasca del vino e i resti dello spezzatino di Isadora. L’orco calmò Bruto con qualche carezza sulla testa e sedette al suo solito posto. Isadora guardò lo spezzatino con desiderio: era un po’ che non mangiava nulla.
Si avvicinò a passi esitanti, senza sapere bene cosa dire. L’orco non alzò gli occhi su di lei e bevve un lungo sorso di vino, accasciandosi esausto sulla sedia. La fievole parola pronunciata dalla ragazza spezzò il silenzio con la sua piccola eco: “Grazie”.
L’orco sussultò. La guardò fissamente: “Cosa?”
“Grazie per avermi salvata” sussurrò Isadora fissando il pavimento. Percepì chiaramente lo stupore dell’orco, poi lui fece una cosa commovente: arrossì e distolse lo sguardo. Sembrava a corto di parole. Toltasi quel peso dal cuore, Isadora tornò accanto a Katrina, che li osservava con l’espressione di chi ha avuto una piacevole sorpresa. Alla fine l’orco, sempre piuttosto rosso in faccia, tagliò qualche pezzo di spezzatino e le tese il piatto: “Mangia. Sarai affamata”.
Isadora fissò lo spezzatino con pura meraviglia. Non osava prendere il piatto: “Posso davvero?”
“Ti ho già detto che puoi” sospirò l’orco. Lei prese il piatto con una sorta di timore reverenziale. Mangiò il succulento spezzatino a piccoli morsi, medicina benefica per il suo stomaco vuoto. Era bellissimo averne un piatto tutto per sé. Intanto l’orco si era alzato in piedi, lasciando il restante spezzatino nel piatto, e si era avviato con Bruto che gli trotterellava al fianco all’uscio: “Io vado a letto. Katrina, se vuoi puoi finire lo spezzatino” parve voler aggiungere qualcos’altro, poi scosse la testa e si ritirò con una mano sulla fronte.
Stupefatta, Katrina chiese: “Ma che diavolo è accaduto al padrone?”
“Non…non lo so” rispose piano Isadora.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Racconti notturni ***


CAPITOLO 8

 
 
 
 
 
 
Da quella notte, Isadora percepì chiaramente che qualcosa era cambiato. Il giorno dopo Katrina venne a svegliarla un’ora dopo il solito coprifuoco e trovò la sua vecchia tenuta pulita di tutto punto. Il foglio sotto la terza gamba del tavolo conteneva soltanto quattro mansioni da svolgere, il che provocò uno svenimento di Katrina che costrinse Isadora a correre nello sgabuzzino a cercare i sali.
Comunque, la ragazza era decisa a svolgere i compiti che l’orco le aveva assegnato nel migliore dei modi per sdebitarsi. Così si rimboccò le maniche, e tolse la polvere fino all’ultimo granello dalle tende dell’ala est del castello, spazzò di buona lena l’atrio e la sala da pranzo, si arrampicò sulla finestra della sua camera da letto per disincastrare con un lungo bastone il nido di vespe che aveva trovato collocazione tra i rami di un albero che dava sul maniero e liberò le pareti dalle ragnatele. Katrina quasi non dovette far nulla, osservando la ragazza con evidente ammirazione: “Oggi ti ci sei messa proprio d’impegno, Isa”.
“Il lavoro tempra il carattere!” canticchiò Isadora, tutta intenta a spazzare l’atrio. Smise di tenere le tende accostate, così come le aveva trovate: perché farlo? Le tirò con decisione e inondò il maniero di potenti raggi di sole. Sembrava molto meno minaccioso, era quasi normale. Quando Bruto passò di lì, gli abbozzò perfino un sorriso, poi le venne un’idea: “Bruto si è mai fatto un bagno?”
Katrina impallidì: “Dio mio, Isa, non ci provare: mi ha quasi staccato una mano quando ci ho provato, diversi anni fa”.
Solo un quarto d’ora dopo, Isadora stava lottando con Bruto per trascinarlo di peso in bagno, dove aveva già riempito la vasca d’acqua pulita. Il grosso meticcio nero non faceva che ringhiare e dibattersi, ma lei lo teneva ben stretto: “Non fare storie” disse con sforzo, tirandolo in bagno: “Sarai bellissimo quando avrò finito con te”.
Il cane abbaiò disperatamente, piantando le unghie a terra. Armageddon uscì dalla manica di Isadora e lo morse su un orecchio. Il cane trasalì e allentò la presa. Scambiando col topolino un’occhiata complice, Isadora se ne approfittò e lo lanciò con forza dentro la vasca piena d’acqua. Bruto emise un verso carico di terrore e sollevò atterrando mille schizzi che inondarono la ragazza, ma lei si limitò a ridere vedendolo emergere con la pelliccia nera tutta fradicia e lo sguardo torvo: “Non è stato così difficile, vero?”
Bruto lanciò un ringhio di avvertimento, come a dire: “Questa me la paghi”.
“Tra poco mi ringrazierai” replicò lei. Prese del sapone e iniziò a strofinarlo. Bruto sobbalzò e si dimenò un po’, ma se lo lasciò fare.
Katrina assisteva sconvolta: “Bruto accetta di farsi lavare?!”
Bruto dovette ammettere che era piacevole essere strofinati in quel modo. Per di più il tocco di Isadora era delicato ed esperto: non a caso aveva lavato Armageddon sempre di persona. Alla fine, quando lo vide abbaiare di piacere, sogghignò: “Ti piace, eh?”
Bruto la schizzò un po’ per non dargliela vinta, ma aveva uno sguardo sonnacchioso. Finito di strofinarlo, Isadora lo aiutò ad uscire dalla vasca, poi prese un pettine da una mensola e incominciò a pettinargli la pelliccia. Quando ebbe finito, e lo mostrò a Katrina con un misto di orgoglio e stanchezza, faceva tutt’altro effetto col pelo liscio e lucente, tutto profumato e lucidato. Aveva un’aria fiera: capiva di essere un gran bel cagnone.
Isadora preparò una cena davvero appetitosa: pollo alla cacciatora, di cui trovò la ricetta in un vecchio libro di cucina che Katrina non usava mai, vino caldo e caldarroste abbrustolite. Assaggiare era una tentazione impellente, ma si costrinse a trangugiare la solita zuppa.
Quando, a sera, l’orco tornò dalla sua solita battuta di caccia, stentò a riconoscere la sua stessa casa. Le finestre erano tutte spalancate sul tramonto che inondava di luce le sale anguste, il pavimento era pulito, e il suo stesso cane era lindo e pinto come quello di un lord. Un profumo delizioso proveniva dalla cucina. Ma la più grande sorpresa gliela fece Isadora, che andò ad accoglierlo nell’atrio assieme a Katrina: “Bentornato” gli disse timidamente. Non era pronta a trattarlo con familiarità, ma gli riconosceva di averla salvata. Ora toccava a lui: se voleva che convivessero in pace, doveva fare la mossa giusta.
L’orco osservò stupito la casa in ordine, il sorriso delle due donne, e infine Bruto che dimenava allegro la coda lucente. Poi, con difficoltà ed evidente impaccio, disse: “Avete fatto un buon lavoro”.
Questo sciolse la tensione. Il sorriso tremulo di Isadora acquistò solidità, e Katrina sospirò di sollievo. Gli fecero strada in sala da pranzo, e durante tutto il tragitto lui non smise mai di contemplare le sale luminose e splendenti. C’era ancora tanto lavoro da fare, ma quel semplice miglioramento aveva già cambiato parecchie cose.
Isadora aveva già posato sul rozzo tavolo di legno il delizioso menu che aveva preparato ed ora faceva il suo figurone là sopra, spargendo il suo profumo prelibato per tutto il maniero. Nel notare una vaga ombra di desiderio sul volto torvo dell’orco, si sentì sollevata. Lo osservò sedere impacciato a tavola e restare in silenzio mentre gli tagliavano la carne. Poi buttò fuori con fare quasi aggressivo: “Che significa tutto questo?”
Temeva una trappola, temeva che ci fosse un inganno in quell’improvvisa gentilezza da parte di Isadora. Non concepiva l’altruismo, come lei non aveva concepito il suo salvataggio. Guardava il cibo quasi con sospetto, come se temesse che gliel’avesse avvelenato. La ragazza rispose senza guardarlo in faccia, mettendogli il pollo nel piatto: “Voglio sdebitarmi. Sono in debito con te, e a casa mia i debiti si ripagano”.
Al che l’orco rifece quella cosa commovente: arrossendo, voltò la faccia dall’altra parte. Il contegno torvo non aveva retto. Piluccò il cibo che aveva nel piatto mentre Isadora restava immobile a qualche metro di distanza….poi, Katrina gli vide fare una cosa che non gli aveva mai visto fare da quando era venuto al mondo: si sporse, batté qualche goffo colpetto sulla sedia accanto alla sua, quella sedia su cui non sedeva mai nessuno, e disse a bassa voce, rivolto ad Isadora: “Siedi qui”.
Isadora rimase stupita quanto lei: “Lì?”
“Sì. Mangia con me. Hai lavorato tanto, oggi. Te lo meriti” fece lui goffamente. In effetti, a stare in piedi Isadora ci pativa parecchio, e le gambe non chiedevano che un sollievo. Con un sorriso sollevato, si fece avanti timidamente e sedette sull’ampia sedia di legno. L’orco tornò alla sua cena in fretta. La ragazza si servì di quel ben di dio parcamente: già solo poterlo addentare le pareva un sogno. Ne conservò un po’ anche per Katrina. L’orco l’aveva osservata mentre, tutta timorosa, si riempiva il piatto, e gli era passato sul volto un barlume di senso di colpa: “Non è giusto che tu cucini solo per me” disse. Parlava a fatica, come ogni volta che diceva qualcosa che poco si confaceva al suo ruolo: “Da oggi in poi, avrai diritto ad una parte delle mie cene. Katrina potrà averne un quarto”.
“Davvero, padrone?” singhiozzò la povera Katrina, prossima all’infarto. Fu lei, in un certo senso, a rompere l’incantesimo. L’orco ritornò per un attimo alla sua espressione aspra: “Sì, ma non farti strane idee, tu”.
“Perfetto!” disse invece Isadora, che vedeva d’improvviso la sua vita lì meno buia di prima: “Avrò bisogno di lievito e creme dolci, così mi cimenterò in dolci di tutti i tipi!”
“Te li farò avere domani sera” le rispose l’orco. Isadora non stava nella pelle. Cucinare per tutti e tre era molto meglio che farlo solo per uno. L’orco sorvolò con lo sguardo la bandana che le copriva i capelli, il vestito sudicio e il grembiule macchiato: “Hai il permesso di indossare i tuoi vestiti, da domani”.
Isadora si sentiva travolta da tutte quelle buone novità. Doveva cucinare bene più spesso, pensò. “Sono certa che con un po’ d’impegno si vivrà più felici tutti” annunciò. Katrina annuì, convinta, l’orco la guardò con una luce strana negli occhi meno roventi del solito.
 
E così fu.
La mattina dopo, quando Isadora aprì gli occhi sulla sua piccola stanzetta, non la vide buia come ogni volta, ma piena di luce. Fuori dalla finestra il sole era già alto: doveva essere tarda mattinata. Terrorizzata, scattò a sedere sulla branda: ma quanto aveva dormito?! Perché Katrina non era venuta a svegliarla alla solita ora?!
Era così su di giri che non si era affatto accorta di quanto fosse carica e già del tutto sveglia: quel lungo sonno le aveva giovato. Frenetica, scostò la coperta e tolse dal baule un vestito color crema che le aveva portato suo padre da uno dei suoi innumerevoli viaggi. Nell’indossarlo, sospirò di sollievo: era comodo e morbido, ma soprattutto lo erano le scarpe in tinta che sostituirono i tremendi zoccoli. Si pettinò in fretta i lunghi capelli biondi, se li legò con un nastro e fu pronta.
Trovò Katrina in cucina. La vecchia domestica era stravaccata sul pavimento di pietra in atteggiamento di totale beatitudine e pescava fragoline di bosco da una terrina lì vicino, infilandosele in bocca con lento languore. Isadora la fissò stupita: “Katrina! Ma perché non mi hai svegliata? Che ore sono?”
“Le undici” biascicò lei tra un morso e l’altro, con la bocca sporca di succo rosso: “Ma tanto il padrone ha detto che potevi dormire quanto volevi. Ah, ti ha lasciato quelli per colazione” indicò il tavolo della sala da pranzo. Di fronte alla sedia sulla quale Isadora si era seduta la sera prima erano posati una piccola forma di formaggio, due uova e una fetta di pane e miele. La ragazza provò un balzo di gioia al cuore. Si gettò vorace sulla gustosa colazione e mangiò con foga. Si sentiva così bene, ben riposata e sazia.
Katrina, facendosi dondolare davanti agli occhi una fragola particolarmente grossa e succosa, le disse: “Sai, inizio a pensare che sia stato un miracolo che tuo padre sia capitato qui. Pensa se non l’avessi ospitato! Ah, ma è stato il cuore a suggerirmelo”.
Isadora non la pensava proprio allo stesso modo. Soledad e suo padre continuavano a mancarle moltissimo, ma era come se quell’Isadora fosse morta: era un’altra persona, una persona senza problemi che menava padellate ai corteggiatori insistenti, alzava gli occhi al cielo alle prediche di Natalie e faceva lunghissime conversazioni col marchese. Come ogni volta che pensava a lui, provò una fitta di risentimento e di nostalgia. Non si era fatto più vivo.
Per scacciare quei pensieri tristi, tolse il foglio dal suo solito posto. Aprendolo, vide stupita che c’erano solo due voci, che dicevano rispettivamente: raccogliere la legna nel bosco e preparare la cena.
“Vuole che usciamo” disse, porgendo il foglio a Katrina. Lei si illuminò: “Bene! Mettiti il mantello, Isa, io intanto vado a prendere la scure. Ehi, stai benissimo con questi vestiti, lo sai?”
Quando uscirono, la foresta aveva perso completamente il suo aspetto pericoloso, ora che c’era il sole e che il maniero vegliava su di loro. Katrina le spiegò quale punto non dovevano attraversare: “Più in là non è più terra del padrone, capisci? Si potrebbero fare brutti incontri. Hai un metodo infallibile per capire qual è il confine” inoltrandosi tra gli alberi, le mostrò un curiosissimo cespuglio a forma di cuore: “Ecco. Più in là di quello non devi andare”.
Isadora sorrise, divertita da quello strano gioco della natura. Katrina sollevò la pesante scure e provò ad abbattere un alberello contorto, ma le braccia magre non ce la facevano. Così la ragazza le prese la scure dalle mani, la impugnò con forza e la piantò nel tronco. In pochi colpi l’ebbe abbattuto, e fecero una catasta di legna da ardere che ammucchiarono in una carriola portata dal maniero. A quel punto, si fissarono un attimo: “Ce ne abbiamo di tempo a disposizione” propose Isadora: “Riposiamoci un po’. Si sta bene qui”.
Individuarono una piccola radura lasciata libera dagli alberi. Era quasi gradevole: certo, l’erba era molto alta e non c’erano fiori, ma aveva un aspetto pulito e riposante. Isadora si tolse le scarpe e si buttò distesa tra gli steli color smeraldo, col sole che le riscaldava il viso. Katrina fece lo stesso, e per un poco rimasero così, a riposarsi.
“Sai, il territorio del padrone non è piccolo come sembra” le disse Katrina ad un certo punto: “Oltre il maniero, a nord, si estende per un bel po’ di leghe. È qui sul lato sud che scarseggia. Il padrone và sempre a caccia sul lato nord, perché è più ricco di selvaggina. Pensa, c’è perfino un villaggio! Era lì che vivevo io, sotto la sua tutela”.
“Davvero?” chiese Isadora interessata, girandosi su un fianco: “Parlami un po’ di come hai passato la vita da quando hai offerto te stessa per tuo padre”.
“Sai che c’era il vecchio padrone, all’inizio. Sei fortunata a non avere beccato lui. Mi picchiava ogni volta che ne aveva l’occasione. Dava certi calci sui fianchi che ti costringeva a sputare sangue una volta sì e una no! Fossi stata vecchia e debole come adesso, sarei morta, ma ero giovane e riuscii a sopportarlo. Però deperivo sempre di più. Ero una bella ragazzona, ai tempi, forte e in salute, ma ne sono uscita completamente trasformata. A volte il padrone mi chiudeva in soffitta: era orribile! Era tutto buio, faceva un freddo terribile e il pavimento era ricoperto di balle di stoffa trafitte da spilli che mi pungevano dappertutto. Per non parlare della padrona!”
“C’era una padrona?” si interessò Isadora. Katrina annuì con un brivido: “Restò al maniero per pochissimo tempo, ma il padrone picchiava anche lei e le dava calci sulla pancia perfino quando era incinta. Lei però era un’orchessa, lei se le prendeva senza fare un fiato. Sembrava fatta di caucciù. Quando c’era il padrone era zitta e sottomessa, ma appena lui se ne andava, se la prendeva sempre con la povera Katrina. Si sfogava, capisci? Mi tirava i capelli e me li tagliava per farci vestitini per il nascituro. Io avevo i capelli rossi e forti, e lei diceva che erano proprio dei bei capelli e che su di me avrebbero solo sfigurato. Mi ritrovavo calva una volta al mese. Lei aspettava che mi ricrescessero appena appena”.
“Ma è orribile!” esclamò Isadora, raccapricciata. Fu costretta ad ammettere che a lei era andata fin troppo bene. Katrina aveva lo sguardo perso in lontananza: “Poi nacque il piccolo padrone, e il vecchio padrone scacciò la padrona. Le femmine perdono importanza non appena partoriscono un figlio. Per un po’ il vecchio padrone lasciò in pace la povera Katrina. Era troppo impegnato ad addestrare suo figlio. Ogni volta partivano per andare a visitare il lato nord e mi lasciavano qui. Io ero già vecchiotta, allora. Saranno stati vent’anni fa. Comunque, tempo dopo, il vecchio padrone tornava al maniero sempre ubriaco e di pessimo umore. Pensa che se la prendeva perfino con il figlio!
“Una volta, nel salire le scale per andare a letto, completamente ubriaco, inciampò e batté la testa. Lo trovammo la mattina dopo, ed era già troppo tardi. Poveretto, in fondo non se lo meritava. Così il padrone prese il suo posto. L’unica volta che lo vidi comportarsi davvero male fu quando si presentò al maniero un forestiero sperduto: decise di cucinarselo per cena. Ti risparmio i particolari. Poi siete arrivati voi”.
Isadora rifletté a lungo su quelle parole. Comprese perché Katrina fosse così deteriorata, strabica e pazzerella, perché potesse apparire così strana. Ne aveva passate tante. Ad un certo punto domandò: “Non ti hanno mai permesso di visitare questo lato nord?”
“Oh, no” disse Katrina: “Era la mia terra natale, temevano che potessi scappare. Non lo vedo da…bah, saranno cinquant’anni”.
Un’idea prese forma nella testa di Isadora. Il lato nord incuriosiva anche lei. E poi voleva fare qualcosa per Katrina, che l’aveva aiutata fin dal primo momento. Vedeva chiaramente che desiderava rivedere la sua terra natia.
 
Quella sera a cena, Isadora si accomodò a tavola con l’orco, perché ormai era stato deciso così, e divise con lui il pasto che aveva preparato: pasticcio di carne, pannocchie e fragoline di bosco.
L’orco, a sorpresa, era tornato prima del solito. Si era presentato alle sette e un quarto di sera, con il sacco mezzo vuoto, con l’aria di chi fino al giorno prima detestava tornare a casa, ma che adesso cominciava ad apprezzarne l’aspetto. In effetti, così luminoso e pulito, il maniero aveva un’aria molto più invitante, unito al pensiero che qualcuno lo stava aspettando.
Per un po’ l’orco ed Isadora mangiarono in silenzio. Il rumore era solo quello delle posate che urtavano il coccio dei piatti. Lei si stava chiedendo come affrontare l’argomento che si era prefissata nella radura. Decise di iniziare parlando d’altro. Posò la forchetta, incrociò le braccia sul tavolo e chiese all’orco: “Cosa hai fatto oggi?”
Lui si immobilizzò con la forchetta a mezz’aria. La abbassò e le rivolse uno sguardo perplesso: “Prego?”
“Cosa hai fatto oggi?” ripeté lei un po’ più forte. L’orco si guardò rapidamente intorno quasi comicamente, come se si stesse chiedendo se era a lui che si rivolgeva, poi rispose con un’altra domanda: “Vuoi sapere cosa ho fatto oggi?”
“Beh…sì” fece lei, perplessa. Non capiva dove fosse il problema. L’orco deglutì: “Di solito nessuno si interessa a quello che faccio”.
“Vuol dire che finora hai conosciuto solo maleducati” disse lei perentoria. L’orco arrossì violentemente, si ingobbì al suo posto, poi balbettò: “Sono andato a caccia”.
“Ah. E cosa hai cacciato di bello?”
“Due conigli”.
“Bello” commentò Isadora. Poi prese a parlare a raffica, sicura di avere rotto il ghiaccio: “La donna che ha sposato mio padre, Natalie, detesta la caccia, sai? Pensa che sia una cosa da barbari. Io però credo che sia un modo come un altro di svagarsi, se praticato con moderazione. Natalie non la pensa così. Lei rabbrividisce al solo pensiero di mangiare carne e ci propina degli insipidi ravanelli ogni volta, ma io sono convinta che sia una vegetariana del cavolo, perché voleva affogare il mio topolino, che è un animale come un altro. A parer mio, il concetto di “animale” lei lo limita a quegli orrendi gatti infiocchettati che si adottano Anastasia e Genoveffa, le befane più befane di Soledad!”
Prese fiato e addentò una pannocchia. L’orco l’aveva fissata attonito durante tutto il discorso, senza mangiare, seguendola con stupore. Isadora, accigliata, lo fissò e aggiunse: “Guardati sempre da soggetti come Anastasia e Genoveffa. Sono state loro a sparlare di me col figlio del Re, che non mi ha invitata il giorno del suo compleanno!”
L’orco aprì la bocca, ma non sapeva cosa dire. Isadora accennò un sorriso intimidito: “Oh, ma ti ho travolto di chiacchiere! Non temere, ora sto zitta”.
“No” intervenne lui a bassa voce. Soggiunse, sempre molto piano: “Continua pure a parlare. Che dicevi di quelle due ragazze?”
Isadora non aspettava altro che l’occasione per immergersi nell’antico piacere di spettegolare: “Però ho ottenuto la mia vendetta. Sta a sentire che figuraccia che hanno fatto al ballo del Principe: lui le ha snobbate per tutta la sera, perché sono davvero due befane, e ha corteggiato una ragazza scema come un’oca, che però almeno era carina e ben vestita. Insomma, te la faccio breve: scocca la mezzanotte, e la ragazza, che aveva una matrigna fissata con il coprifuoco a quell’ora, fugge a gambe levate dal palazzo e perde una scarpetta. Disperato, il Principe la raccoglie e chiede un po’ qua e un po’ là dove sia la proprietaria. Allora le due Befane con la b maiuscola architettano un piano e sostengono di essere loro le proprietarie della scarpetta.
“Il Principe non nota la minima somiglianza, ma dato che si proclama Gentiluomo con la G maiuscola, acconsente a far loro provare la scarpetta. Quelle due hanno dei piedoni da elefante, e anche poco puliti, per cui provano a infilarsi la scarpa, ma niente. E intanto tutti ridono loro dietro. Alla fine il Principe le invita cortesemente ad andarsene, e tornano in lacrime dalla loro madre, Befana pure lei. Ben gli sta! Io non ho mai fatto niente a nessuna di loro, mentre loro non fanno che farmi dispetti”.
Sorrise compiaciuta. A Natalie non l’aveva raccontata proprio così, perché lei adorava le due Befane e le trovava simpatiche e adorabili. Fin da quando Isadora era bambina, l’aveva obbligata ad andare da loro sperando in un’impossibile amicizia. Era così bello poter esprimere ad alta voce quello che pensava di loro!
L’orco, come poco prima, l’aveva ascoltata in silenzio, ma sembrava più colpito dal fatto che parlasse con tale animosità che da ciò che diceva. Katrina, al contrario, era piegata in due dalle risate, con la sua solita esagerazione: “Che racconto divertente!” disse alla fine, riprendendo fiato: “Dovresti essere così loquace più spesso, Isa. Finora parlavo quasi sempre io”.
Isadora accennò un piccolo sorriso. Poi l’orco attaccò a parlare con la stessa voce fievole di prima: “Racconta qualcos’altro” dopo un breve attimo aggiunse, arrossendo: “…per favore”.
“Vi racconterò di quel cugino di mio padre che una volta acquistò una strana pianta di fagioli…”
Finì che andò avanti tutta la notte. Raccontò mille avventure di mille conoscenti, gesticolando e parlando con enfasi. Per ogni racconto aveva un aneddoto divertente e un pizzico di critica e di ironia. Narrò di Giacomino e della sua pianta di fagioli, di quello zio che da ragazzo estrasse una spada imprigionata in una roccia in compagnia di uno strambo mago col cappello a punta, del nonno che si avventurò in una foresta di rovi e svegliò con un bacio una marchesa addormentata da un crudele maleficio, ereditandone il titolo, di quella cugina di terzo grado che aveva una matrigna che voleva avvelenarla con una mela, e della piccola sorella di Natalie che si era persa in un bosco minacciato da un lupo cattivo.
Alla fine, bevve un sorso d’acqua per placare la gola affaticata. Era notte fonda, quasi l’alba. Davanti a lei, l’orco e Katrina l’avevano ascoltata rapiti per tutto il tempo, silenziosi come tombe. Durante l’ultimo racconto, però, la domestica si era un po’ insonnolita (era davvero tardi) ma non l’orco, che restava attento e ben sveglio. Quando lei tacque, le chiese con tono sognante: “I tuoi parenti hanno davvero fatto tutte queste cose?”
“Parola di Isadora” rispose lei, mettendosi una mano sul cuore. Katrina, sbadigliando sonoramente, biascicò: “Ehi, allora sei famosa”.
“La mia famiglia, non me” replicò Isadora: “Io non ho fatto niente di esaltante”.
“Comunque è la prima volta che ci hai tenuti inchiodati in sala da pranzo ben oltre il coprifuoco. Brava!” esclamò Katrina battendo le mani. L’orco la guardava con occhi raddolciti: “Sì. È stato…gradevole” dopo una breve pausa, disse con una timidezza che la commosse: “Spero che ci racconterai storie spesso”.
“Ma certo” disse allegramente: “Ne ho giusto un paio pronte per domani sera!”
“Evviva!” gridò Katrina. Poi sbadigliò di nuovo. L’orco accennò soltanto un sorriso e si alzò in piedi: “Andate a letto. Sarete esauste. Dormite quanto vi pare. Non avete impegni per domani”.
Isadora, con uno sbadiglio, decise di posticipare il discorso del lato nord al giorno dopo. Era davvero stanca. Mentre l’orco si allontanava in direzione delle scale, Katrina esclamò: “Buonanotte, padrone”.
Lui rispose, scomparendo su per le scale: “Buonanotte, Katrina. Buonanotte, Isadora”.
La ragazza, tutta intenta a stiracchiarsi, si bloccò con le braccia alzate. L’aveva chiamata per nome.
 
“Che ne pensate finora?” domandò il cantastorie dopo aver ripreso fiato. Aveva raccontato per un bel pezzo senza interruzioni mentre sorgeva la luna e il villaggio diventava buio, e i bambini l’avevano ascoltato senza appisolarsi nemmeno un istante. C’erano stati colpi di scena, avventure e vicissitudini che avevano seguito con attenzione. Ora anche il volto di Tom era perso dietro alla storia.
“Penso che sia forte” disse Josh, prendendo la parola: “La situazione è stata ribaltata completamente!”
“Sono contenta per Isadora” esclamò Annie: “Ma come mai il marchese non è mai venuto a trovarla?”
“Non temere” le rispose il cantastorie incappucciato: “Ho ancora tante cose da raccontarvi”. In quel momento la madre della bambina uscì da una capanna, preoccupata che la figlia fosse fuori a quell’ora tarda: “Annie! È ora di andare a letto!”
“Oh, no, mamma, ancora cinque minuti!” la implorò Annie, disperata: “Il cantastorie ci deve ancora raccontare la storia!”
“Che carino” commentò la donna, rassicurata dal numero di bambini assiepato in piazza: “E che favola vi sta raccontando? Cappuccetto Rosso?”
“No, è banale” le rispose Julie perentoria: “È la moglie dell’orco”.
Sul volto della donna comparve un gran disappunto: “La moglie del cosa?”
“Non vi preoccupate, signora” disse calmo il cantastorie: “Vostra figlia è al sicuro qui con me. Ve la riporterò domani mattina!”
Poco convinta, la madre di Annie tornò nella capanna. Al che Alex scalpitò: “Continuate, ve ne prego!” un mormorio d’assenso seguì le sue parole. Il cantastorie sorrise, si accomodò meglio e ricominciò: “Allora. Dove eravamo rimasti? Ah, già. Dunque, il giorno seguente…”

 

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Una gita a tre ***


CAPITOLO 9

 
 
 
 
 
Il giorno seguente Isadora, svegliandosi nel maniero, per la prima volta si sentì bene. La tranquillità era un sentimento che non provava da tempo. Si vestì con calma, fischiettando, indossando un abito verde e lasciandosi i capelli sciolti, assaporando il dimenticato piacere di mettersi in tiro. Katrina le portò addirittura la colazione a letto, che era ancora più sostanziosa di quella del giorno prima, e comprendeva, meraviglia delle meraviglie, il suo piatto preferito: frittelle al cioccolato! Quella bella sorpresa la lasciò stupita, poi ricordò che la sera prima, parlando a raffica, doveva essersi lasciata sfuggire quella sua preferenza.
Sul vassoio c’era un biglietto lasciato dall’orco. Isadora si aspettò, con delusione, di trovarci almeno due mansioni da svolgere, ma scoprì che lui ci aveva scritto: prepara qualche storia da raccontare. Katrina le strizzò l’occhio: “Il padrone è rimasto molto colpito dai tuoi racconti. Spero che stasera ci diletterai ancora”.
“Con molto piacere” disse Isadora. Ma voleva anche parlare di quella questione. Si ripromise di affrontarla dopo aver narrato due storie. Durante la mattinata giocò con Armageddon, guardandolo che si arrampicava agilmente sulle assi della branda per raggiungere il pezzettino di formaggio che lei gli aveva messo sulla cima del letto. “Sei un bravo topino” gli disse quando lui raggiunse la meta agognata: “Ti piace il formaggio? Era da tempo che non lo mangiavi, eh?”
L’orco si presentò nel tardo pomeriggio. Non faceva che tornare sempre più in anticipo, e sembrava persino sollevato di essere tornato a casa. Isadora suppose che la vita nel maniero, prima del suo arrivo, doveva essere stata triste e soffocante, per questo Katrina era stata ancora più stramba di adesso e l’orco si assentava tutti i giorni. Lui non era poi così male, in effetti. Aveva un carattere difficile, ma si stava ammorbidendo.
“Spero che tu abbia in serbo qualche storia da raccontare” le disse gentilmente gettando con tutta l’indifferenza del mondo il suo prezioso sacco a terra. Aprendolo, Katrina vide con stupore che era vuoto. Stavolta non riuscirono neanche a raggiungere la sala da pranzo: l’orco e la vecchia domestica sedettero su un divano, in una sala dove il fuoco scoppiettava allegro nel camino, mentre Isadora prese posto su una poltrona di fronte, attaccando a raccontare. Stavolta li tenne inchiodati sul divano narrando loro di tre simpatici porcellini e dei tre capretti che si erano lasciati ingannare da un lupo.
Alla fine, Katrina era in visibilio e l’orco le sorrideva: “Sei davvero brava a raccontare storie”.
Con un pizzico di asprezza, poiché sapeva che ora poteva esprimersi, Isadora disse: “Allora non sono del tutto inutile, eh?”
Sul volto dell’orco apparve chiaro il senso di colpa: “Perdonami per quello che ti ho fatto” le disse timidamente, senza guardarla in faccia: “Non ti conoscevo, non potevo sapere che tu fossi così…così…”
“Fantastica? Gentile?” gli suggerì Katrina, infervorata. Isadora, però, si fece furba: “Saresti disposto a sdebitarti per quello che mi hai fatto?” vide chiaramente che lui non si aspettava una risposta simile, ma rispose ugualmente: “Credo…credo di sì”.
“Bene” sorrise lei: “Non temere, non pretendo nulla di impegnativo da te. Solo…domani potresti mettere da parte la tua caccia per accompagnare me e Katrina in giro per il lato nord del tuo territorio?”
L’orco trattenne il respiro, Katrina spalancò gli occhi. Isadora attese, calma, una risposta. Per far leva sul suo senso di colpa, lo fissò dritto negli occhi con aria accorata. Lui cercava di evitare il suo sguardo: “Perché vuoi visitare il lato nord?” le chiese infine, con un eco della vecchia rudezza. Lei alzò le spalle: “Per fare qualcosa tutti insieme. Cosa c’è di male?”
Lo sguardo dell’orco si ammorbidì di nuovo. Rimase combattuto per un bel pezzo, poi, correndo via come per sfuggire a quello che avrebbe detto, disse in un soffio: “Lo farò”.
Isadora sorrise, raggiante, e gridò alla sua schiena: “Grazie!” poi prese nelle sue le mani di una sconvolta Katrina e le disse: “Visto? Domani tornerai a casa!”
“A casa…” mormorò Katrina, immobile come una statua: “Domani rivedrò la mia casa…dopo tutti questi anni” si accasciò e Isadora la sostenne con dolcezza: “Su, fila a dormire, così sarai carica, domani!”
 
La mattina dopo era tutto pronto. Isadora si era messa il mantello da viaggio e aveva raccolto un po’ di cose in un tascapane che portava a tracolla, in cui si era infilato anche Armageddon. L’orco era fuori dal maniero, intento ad attaccare due stalloni ad un calesse di legno dall’aria sbilenca.
Katrina uscì dalla sua stanza con passo barcollante, incredula di quello che stavano per fare. Aveva sostituito i suoi sudici vestiti con un mantello liso e coperta i capelli grigi con uno scialle. Sembrava più normale. Quando, al braccio di Isadora, uscì nella foresta, le mancò il cuore e si bloccò: “Non ce la faccio”.
“Coraggio” la incitò Isadora: “Sarà una gita magica!” Katrina si lasciò scortare, tremante di spavento. L’orco le avvistò e finì di cingere i cavalli con le strisce di cuoio che li tenevano attaccati al calesse: “Sarà meglio sbrigarsi” disse loro cupamente: “Di solito non vado mai nel lato nord”.
“Beh, sarebbe ora di farlo, non credi?” gli disse Isadora. Era eccitata. Le piaceva visitare posti nuovi. L’orco fece salire Katrina sul calesse, poi si voltò verso di lei. Isadora gli porse la mano. Allora lui sussultò, e gliela prese quasi cautamente, aiutandola ad issarsi sopra all’alto calesse. Isadora si stupì di quanto il tocco fosse delicato. Si lasciò aiutare, poi lui le lasciò andare la mano con aria turbata. Per darsi un contegno, le voltò le spalle per sistemare meglio i cavalli, poi saltò a bordo e strinse le redini: “Siete proprio decise?”
“Al cento per cento. Non è vero, Katrina?” rispose Isadora abbracciando la frastornata domestica. Lei restò immobile. Allora l’orco emise un lungo sospiro, tirò le redini e fece muovere i cavalli.
Era una bella giornata. Il cielo era di un azzurro denso, privo di nuvole, e vi splendeva il sole d’oro. La foresta finì ben presto, aprendosi su un panorama dalla bellezza mozzafiato: una prateria punteggiata di fiori colorati ed erba smeraldina che si estendeva fino alla linea luminosa dell’orizzonte. Katrina lottava con le lacrime, Isadora osservava quella visione celestiale con stupore. Rivolgendosi al silenzioso orco, gli chiese: “Come mai hai scelto di sistemarti proprio nella foresta?”
“Non sono stato io a decidere” rispose lui goffamente: “Mio padre ha scelto la foresta. Pensava che si confacesse alla sua personalità. Lui amava la solitudine e l’oscurità. Qui ci veniva solo per rapire i suoi sudditi…per questo non amo tornarci. Sono tutti molto circospetti”.
Parlava del padre con la stessa timorosa sottomissione di Katrina. Isadora capì che era un brutto fantasma che li minacciava dall’alto. Con grande sincerità, disse osservando quella prateria lussureggiante: “È…bellissimo”.
“Ti…ti piace?” le chiese lui. Ogni volta che esprimeva un giudizio positivo, si stupiva, come se ciò fosse impossibile. Isadora annuì con convinzione: “Neanche Soledad è così verdeggiante”.
“Soledad ti manca molto?” domandò l’orco, e stranamente sembrava in difficoltà. L’espressione della ragazza divenne più triste: “A volte”.
“Parlami di Soledad”.
“C’è sempre il sole” mormorò Isadora: “Ed è piena di vita. Per le strade calde e affollate ci sono sempre bambini che giocano, vecchiette che spettegolano e coppie di innamorati. A Soledad ci conosciamo tutti, e sappiamo tutto di tutti. Bisogna fare attenzione a ciò che si dice: i muri hanno le orecchie!” ridacchiò: “Io vivo…vivevo in un palazzo bianco come il latte, con balconi fioriti ed eleganti sculture”.
“Deve essere bellissimo” commentò l’orco, guardando più lei che la strada. Isadora si strinse nelle spalle: “Sì…un po’ monotono, forse. Come per te, fu mio padre a scegliere. Io allora ero molto piccola. A Soledad ci viveva la mia matrigna, per questo papà volle andarci a vivere”.
“Quella donna, con tutto il rispetto, mi è sembrata sgradevole” disse l’orco. Isadora scoppiò a ridere: “Si vede subito, vero? Mi chiedo come gli sia venuta a papà l’idea peregrina di innamorarsi proprio di Natalie”.
“Il mio villaggio!” strillò Katrina, interrompendoli. Era balzata in piedi sul calesse, il viso rugoso illuminato da una luce potentissima, e puntava il dito freneticamente sul gruppo di casupole che si stagliava all’orizzonte. Isadora non l’aveva mai vista così agitata e felice. Sembrava tornata giovane. Le strinse calorosamente la mano: “Vivevi proprio in un bel posto, Katrina”.
“Oh, Isa, mi viene quasi da piangere…chissà se la casetta dove vivevo è ancora intatta. Ero io che la mandavo avanti, la mamma era sempre ammalata” disse Katrina commossa, gli occhi strabici puntati sul villaggio che andava facendosi sempre più nitido. Isadora partecipava a quella gioia, perché si rivedeva nella vecchia domestica che tornava a casa dopo cinquant’anni di prigionia. Come poteva suo padre averla definita pazza?
“Lui non la conosceva davvero. La vedeva da fuori”.
Guardò l’orco per vedere come reagiva alla gioia di Katrina. Anche lui studiava il villaggio, ma era diffidente e curvo e stringeva violentemente le redini. Il villaggio era davvero un luogo adorabile: molto più piccolo di Soledad, con casette dal tetto spiovente, ognuna di un colore diverso dall’altra, tutte attaccate come a sorreggersi a vicenda, i portoncini preceduti da zerbini con su scritto “benvenuto” e campanelli a forma di lecca lecca. Sembrava il paese delle favole. La gente che passeggiava sulle vie lastricate era vestita in modo semplice ma sgargiante, intenta a fare acquisti, a camminare e a svolgere faccende. C’era un pozzo coronato di rose e, in una piccola piazzetta colorata, una piccola orchestra suonava un motivo vivace ballato da alcune coppie.
Katrina, con la faccia rigata di lacrime, non resistette più, saltò giù dal calesse e si mise a correre qua e là come impazzita, agitando le braccia, ritrovando ogni cosa lasciata e perduta: “Il pozzo!” singhiozzava: “È ancora qui! E anche la bottega del maniscalco! Oh, ecco il calzolaio! Ancora ricordo quei calzari di palissandro che mi si rovinarono…”
La gente si teneva alla larga da quegli stranieri, soprattutto a causa della presenza dell’orco, ma doveva essere bene a conoscenza del fatto che lui fosse il padrone delle loro terre, perché non si scomponeva. Frattanto Katrina si era fermata di fronte ad una casupola di un rosa acceso, con due balconcini aggraziati e il tetto color arcobaleno. La porta era stata murata. Vi si gettò perdutamente, le lacrime che le scendevano copiose sul viso: “La mia casa! La mia casa c’è ancora! C’è ancora!!” baciò più volte con le labbra rinsecchite quei muri fucsia.
L’orco e Isadora l’osservavano in silenzio sopra al calesse che si era ancorato poco discosto dalla piazzetta dove si ballava. Lui aveva fatto una smorfia di dolore che la ragazza non seppe spiegarsi: “Che c’è?”
“Guardala” le rispose l’orco indicandole Katrina inginocchiata presso la casa murata: “Che piange e si scioglie su un edificio che non vede da cinquant’anni. Nessuna di voi penserà al castello come a una casa. Continuerete a desiderare quelle che avevate prima”.
Lo sguardo di Isadora si addolcì: “Non dire questo. Non è detto. È che tu… come dire? Ti ci sei messo d’impegno a farci odiare il castello”.
“Forse è così” mormorò l’orco tristemente: “Ma è nella mia natura. Io non mi fido di nessuno” e aggiunse aggrottando le folte sopracciglia: “E non ho bisogno di nessuno”. 
“Aver bisogno di qualcuno a volte è piacevole”.
“Al momento, forse, ma poi so che verrai tradito. Sono pochi attimi in cui ti illudi di aver raggiunto la felicità che vengono distrutti dall’immancabile pugnalata. Preferisco rinunciarvi”.
Il ragionamento profondo stupì Isadora. L’orco dunque aveva un cuore. E c’era una tale, lugubre amarezza in quelle parole, che si sentì in dovere di ribattere: “Perché devi pensare che arrivi la pugnalata? Perché devi pensare che verrai tradito?”
“La felicità non dura, Isadora” le disse lui. Lei allora gli prese le mani. Lo sentì sussultare e irrigidirsi, ma non le lasciò andare. Quando incontrò il suo sguardo, disse con decisione: “Io e Katrina non ti tradiremo. Credimi”.
Gli occhi aridi dell’orco divennero lucidi: “Perché dovrei crederti? Ti conosco appena”.
“Io voglio esserti amica” esclamò Isadora, sincera. L’orco parve trattenere spasmodicamente una lacrima. Lei gli sorrise, stringendogli le mani inerti: “Prova a lasciarti andare, anche se solo per un attimo. Io non ti tradirò. Fidati di me”.
Gli lesse negli occhi che era tentato, ma che non osava. Come quella volta che aveva guardato la carne che gli aveva cucinato con sospetto, ora temeva che volesse approfittarsi delle sue debolezze per ottenere la libertà, e questo l’avrebbe schiantato. Allora la giovane diede un’occhiata vivace alla piazzetta dove si stava ballando, si alzò in piedi e tirò le sue mani per tirarlo su: “Andiamo a ballare, ti và?”
“Ballare?” sperduto, oppose resistenza: “Io non so ballare, Isadora. Non fa per me”.
“Oh, per favore” insistette lei, tirandolo verso la piazzetta: “Chi ti impedisce di provarci?” poiché lui continuava a scuotere la testa, sporse il labbro inferiore in uno sbuffo: “Sarà divertente”.
Non si sa come, riuscì a trascinarlo in pista nonostante le sue mille proteste. Una volta lì, l’orco rimase piantato dov’era, con le braccia lungo i fianchi e il viso paonazzo. Le coppie che danzavano si ritirarono rapidamente dall’altra parte. Isadora prese un braccio inerte dell’orco, se lo piazzò sui fianchi e lo spinse a stringere la presa. Poi si chinò, sollevò un lembo della gonna e prese l’altra mano di lui: “Pronto?”
“Isadora, ti prego” la implorò lui, imbarazzato: “Ti farò solo sfigurare”.
“Non mi importa cosa penseranno di me” dichiarò lei. Poi ripeté: “Pronto?”
Lui emise un sospiro di esasperazione, ma annuì. Lei contò muovendo la testa: “Uno. Due. Tre” al che fece un cenno all’orco e, goffamente, con impaccio, si mossero. Al principio l’effetto era assai comico, tanto che tutti si fermarono a guardarli: mentre Isadora si muoveva a ritmo con la musica, lasciandosi trasportare, l’orco si muoveva il meno possibile, girando su se stesso col suo passo fragoroso, faticando ad andarle dietro. Per cui erano un incrocio tra leggiadria e goffaggine, tra grazia e imponenza. Notando come l’orco si imbarazzava e come tentava di sciogliersi dalla stretta, Isadora gli bisbigliò: “Stai andando alla grande. Cerca solo di seguire il ritmo. Lasciati trasportare”.
Lui era disperato. Lo fissò intensamente: “Smetti di pensare. Ti limita”.
L’orco ricambiò lo sguardo, prese un profondo respiro e chiuse gli occhi. Ora andava un po’ meglio. I loro movimenti erano più coordinati e quello che stavano facendo poteva quasi esser chiamato ballo. L’orco, come Isadora, cominciava a divertirsi. Aumentarono di velocità.
Katrina, dimentica della casa fucsia, li osservava allegramente ai margini della piazzetta. Si mise pure a battere le mani, e quando passarono volteggiando accanto a lei, scambiò una strizzata d’occhio con Isadora. L’orco, troppo preso a muovere bene i piedi, non se ne accorse. Ad un certo punto staccò gli occhi dal suolo e li fissò in quelli di Isadora: “Come vado?”
“Bene. Gli altri non ballano mica meglio di te, sai” rispose lei. Non specificò che aveva ballato solo con suo padre e con un paio di ragazzetti di Soledad, e che tutti e tre non brillavano certo per grazia. Suo padre, poi, con una moglie come Natalie, aveva completamente perso le sue doti di ballerino. Poiché, scoprì sorpresa, si stava davvero divertendo, scoppiò a ridere, e contagiò anche l’orco. Ben presto dovettero fermarsi per ridere fragorosamente. Katrina saltellò verso di loro con aria giuliva: “Padrone, non sapevo che ballavate!”
“Effettivamente non lo sapevo neanche io” commentò l’orco. Finalmente si era lasciato andare. Poi Isadora si mise le mani sui fianchi e sorrise: “Che ne dite di andare a mangiare qualcosa?”
Comprarono da un venditore ambulante degli spiedini di carne che mangiarono voracemente, seduti su un vecchio muricciolo di pietra. Isadora si scostò una ciocca di capelli dalla fronte: “Allora, Katrina: ti è piaciuta questa visita?”
“Se mi è piaciuta?” si infervorò lei: “È stato semplicemente fantastico! Grazie, Isa!”
“Non devi mica ringraziare me” ribatté la ragazza. Si volse, prese l’orco per un braccio e lo sospinse al suo fianco: “È lui che ci ha portate”.
“Grazie padrone!” esclamò Katrina grata. L’orco cercò di schermirsi: “Non è stato nulla, davvero…”
Più tardi, sulla via del ritorno, quando erano tornati nell’immensa prateria fiorita, Isadora, col vento che le soffiava gentilmente sul viso, riuscì a sentirsi pacificata, e avvertì di meno la nostalgia per Soledad e per suo padre. Certo, aveva ancora la sensazione di vivere nel maniero per costrizione e non per sua scelta, ma almeno si era instaurata una piacevole serenità.
“Fatemi fare una corsa in questa prateria, vi prego” li implorò Katrina ad un certo punto. L’orco ed Isadora si scambiarono una rapida occhiata. Lui fece sì con la testa. Allora la ragazza diede una pacca sulla spalla della domestica mentre il calesse si fermava: “Su, vai!” stette a guardarla placidamente che correva a braccia aperte per la prateria, piena di gioia. Allora, per assaporare appieno la frescura del tardo pomeriggio, Isadora si tolse il mantello e rimase con un bell’abito verde a maniche corte.
Mentre era intenta a piegare il mantello, l’orco le sedette più vicino, torcendosi le mani, come sul punto di dire qualcosa che però gli arrecava imbarazzo. Per un po’ restò in silenzio, poi trovò il coraggio e bisbigliò: “Isadora?”
“Sì?” chiese lei, alzando lo sguardo a guardarlo. Lui esitò ancora un istante, furioso per quell’improvvisa debolezza; alla fine ce la fece: “Io sono stato…io volevo ringraziarti”.
“Per cosa?”
“Per…per avermi chiesto di portarvi qui, oggi” confessò l’orco a fatica: “Era da tantissimo tempo che non mi sentivo così…bene”.
“Mi fa piacere” lei gli rivolse un gran sorriso: “Vale lo stesso per me”.
“Non mentirmi” balbettò l’orco abbassando gli occhi: “Probabilmente non ti sei divertita affatto…ma grazie per averci fatto stare così bene”.
“Ehi” Isadora gli prese il viso fra le mani e lo costrinse a guardarla negli occhi: “Non saltare a conclusioni affrettate. Io mi sono divertita davvero. È stato tutto molto bello”.
“Anche il ballo?”
“Soprattutto quello!” scoppiarono in una risata nervosa. L’orco adesso la guardava negli occhi, e lei vedeva che le fiamme che gli animavano lo sguardo se ne erano andate del tutto, lasciandolo limpido: “Io non volevo trattarti male. Non volevo darti quegli ordini disumani e urlarti contro…” serrò i pugni: “Non voglio che tu mi odi”.
“Io non ti odio” gli rispose Isadora: “Davvero”.
“Non ho mai osato concedermi né speranze, né svaghi” mormorò lui: “Mi sembrava di tradire la memoria di mio padre. Lui mi diceva sempre che un vero orco si distingue per sadismo e crudeltà…”
“Te lo dico per esperienza personale” borbottò la giovane: “Molte volte i padri dicono e fanno solo sciocchezze, e non sono meravigliosi come crediamo”.
L’orco pensò all’improvviso che gli occhi azzurri di Isadora erano più grandi e più dolci di quanto credeva. Quasi ci si perdeva dentro. Erano la cosa più bella che avesse mai visto. Avvicinandosi, provò il desiderio sempre più impellente di abbassare le proprie difese: “Isadora…”
“Sì?”
“Io vorrei…”
“Cosa?”
“Vorrei…”
“Sentita la mia mancanza?” si intromise bruscamente Katrina, che tornava dalla sua corsetta campestre. L’orco e Isadora si scostarono di scatto come se fossero stati sorpresi a rubare. Lei accennò un sorriso: “E come non sentirla, Katrina?”
Più tardi, quando furono tornati al maniero e Isadora si fu ritirata per farsi un bagno, Katrina si avvicinò all’orco chino sul calesse e gli disse: “Ci siamo divertiti molto, non credete, padrone?”
“È stato meglio del previsto” rispose lui bruscamente. Con Katrina era più scontroso. La vecchia domestica annuì compiaciuta: “Lei ci tiene davvero a noi”.
“Lo pensi davvero?” mormorò l’orco. Katrina tornò ad annuire: “Si vede. Non ci abbandonerà mai”.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** Il cacciatore e la sua preda ***


CAPITOLO 10

 
 
 
 
 
 
Nell’atmosfera afosa di Soledad, Lord Fox stava facendo toletta come suo solito. Infatti non usciva finché non si era sistemato anche la più piccola ciocca di capelli. In questo si distingueva un gentiluomo, no? E poi, cosa più importante, la gente la si ingannava meglio con una bella faccia.
Seduto comodamente su una poltrona di velluto rosso, nella sua sontuosissima magione, si contemplava compiaciuto in un grande specchio circondato di lucine colorate. Era semplicemente perfetto: indossava un completo turchino semplicemente irresistibile, mocassini lucidi come specchi e un fazzoletto rosso infilato nel taschino. Si era pettinato all’indietro i capelli rossi e curato basette e sopracciglia, applicato un neo finto sulla guancia e contornato di trucco gli occhi verdi per renderli più accattivanti. Fece un sorriso astuto che mise in risalto la sua dentatura bianchissima e si passò il pettine sulla chioma.
“Siete perfetto come sempre” disse Michael ruffiano, il suo secolare compare, un ometto laido col naso schiacciato e l’aria viscida. Lord Fox si sistemò la giacca senza smettere di sorridere furbescamente: “Lo so”.
Si chiamava Fox. Infatti era proprio una Volpe. Non era neanche tutta questa bellezza che credeva: ma aveva un carisma potentissimo.
Si girò con tutta la poltrona e, come ogni volta, si ritrovò a contemplare i quattro ritratti appesi al muro di marmo che aveva di fronte. Quattro ragazze giovani, carine e ben vestite che lo guardavano tristemente. Lord Fox rivolse loro un sorriso. Le sue quattro defunte consorti. Il suo dito anulare era zeppo di vere che non toglieva mai, dando l’idea del marito addolorato. Ma in realtà aveva un segreto che conosceva solo Michael.
La prima se la ricordava come un semi fallimento: d’altronde era ancora inesperto. Era la figlia di un visconte, una ricca ereditiera che gli aveva portato in tasca tanti bei fiorini. Chiaramente, quando era morta. Lord Fox non poteva certo aspettare che morisse di vecchiaia, rischiando di precederla nella tomba senza ereditare neanche un fiorino: la carina doveva togliersi di mezzo prima. Così aveva agito per la prima volta, a dir la verità con una più che giustificata goffaggine: quattro pugnalate mentre dormiva. Aveva detto che era stata sbranata dal loro cane di allora, gli aveva perfino sporcato di sangue la pelliccia per non lasciare dubbi. Il suo carisma non aveva fallito: tutti gli avevano creduto. Se era nato da una famiglia povera, era passato ad una vita onorevole. Ma voleva di più. Voleva la ricchezza smodata, l’ostentazione.
Così aveva puntato la seconda ereditiera, Maribella figlia di un funzionario del Re. Portarla all’altare era stato facile, era una ragazza timida pronta a cadergli fra le braccia. Non erano passati nemmeno due mesi, che cadde sventuratamente da un dirupo mentre erano in gita. Tutto premeditato, chiaro. Altri bei fiorini che gli avevano permesso di concedersi lussi.
Già pronto ad arricchirsi ulteriormente, era passato alla terza, una parente del conte DeGuisky. Con lei era stato più fantasioso: dato che lei adorava gli animali, le aveva proposto di andare a visitare il circo di Soledad. Chiaramente aveva accettato con gioia. Ecco, tutti i visitatori del circo ricordavano di essersi assiepati, premuti gli uni contro gli altri, intorno alla fossa dei leoni, e che di colpo lady Fox aveva perso l’equilibrio ed era crollata in mezzo alle belve con un urlo terrificante. Nessuno aveva notato, in quel caos, la spintarella che Lord Fox aveva dato alla consorte che si sporgeva per guardare. Ci aveva davvero goduto, quel giorno: apparentemente piangeva e si disperava, fingendo di volersi buttare nella fossa per difendere l’amata, ma in realtà gongolava alla grande.
Da Fox, il ragazzo ambizioso che voleva arricchirsi, era diventato Lord Fox, l’uomo celebre che possedeva, col marchese, la magione più fastosa di tutta Soledad. La sua avidità, però, era ben presto tornata reclamando il suo tributo di sangue per essere soddisfatta. Lord Fox non le diceva mai no. Così aveva diretto le sue ambizioni su un’ereditiera ancora più celebre: la sorella di un amico del Principe. Era carina e mite come un topino e si chiamava Lacey. Lo adorò fin dal primo giorno. Lo guardava con quei suoi occhioni grigi pieni di reverenza. Più lo adoravano, più era divertente farle fuori.
L’aveva portata in luna di miele alla palude melmosa, sostenendo di trovare il posto inusuale e interessante. La povera Lacey non aveva mosso la minima obiezione. Mentre passeggiavano mano nella mano sulla strada lastricata che dava sugli acquitrini, patria di coccodrilli dagli occhi gialli, lui le aveva detto di sporgersi un po’ per guardare meglio gli animali. Lei, servizievole, l’aveva fatto e…ah! Che goduria rifilarle quel calcio nel posteriore che l’aveva scagliata dentro l’acqua putrida. Lacey non sapeva nuotare: l’aveva contemplata felice mentre colava a picco, gravata dal peso di tutti i gioielli che le aveva regalato, mentre i coccodrilli facevano festa. Non si era mai più trovato il suo corpo.
Ora possedeva tanti fiorini da poterci riscattare Soledad in oro, ma già progettava di averne ancora di più. Non si accontentava mai. La gioia di un successo era sostituita ben presto dal desiderio di ottenerne un altro. Che poteva farci? Era ambizioso. E stavolta la cosa si rivelava più interessante del previsto: gli piaceva la caccia difficile.
“Sai cosa possiedo, Michael?” gli chiese compiaciuto. Il suo compare sospirò, perché gli faceva quella domanda ogni giorno: “Ma certo Fox. Possiedi due milioni e mezzo di fiorini. Come dimenticarlo?”
“E sai quanto possederò a breve?” soggiunse Lord Fox mentre un ghigno astuto gli increspava le labbra. Michael assunse un’espressione perplessa: “Cosa hai in mente?”
“Stavolta voglio superare me stesso” proseguì Lord Fox passandosi la lingua tra i denti bianchi: “Indovina un po’ chi sarà la mia prossima preda?”
“La figlia del giudice Jones!”
“Noo! Quella al massimo eredita cento fiorini”.
“La…la nipote del governatore di Borgofiorito!”
“No, no, no…è brutta come la fame…”
“Mi arrendo”.
“Logico. Non hai il mio genio” sogghignò Lord Fox: “Lo vuoi davvero sapere? Lei. Ecco chi sarà la mia prossima preda” e con un gesto teatrale tolse il drappo nero che aveva coperto un quinto ritratto da poco appeso al muro. Michael lo fissò con stupore: una ragazza pallida, con lunghi capelli biondi e tratti marcati, gli occhi chiari e limpidi. Spalancò la bocca: “La figlia del marchese?! Vuoi puntare la figlia del marchese?!”
“Proprio così, amico mio. Sarà Isadora la fortunata che porterò sull’altare e sulla tomba in un’unica traversata!” Lord Fox scoppiò in una risata agghiacciante. Michael batteva le palpebre, non capiva: “M-ma…ma non puoi…è sposata con quel giovane di Borgofiorito..”
“Credi?” disse l’altro sfregandosi le mani e fissando il ritratto della preda come il cacciatore che non vede l’ora di scoccar la freccia: “A me questa faccenda del giovane di Borgofiorito che nemmeno la vede e perde la testa per lei mi è sempre puzzata d’inganno. Quel marchese dei miei stivali ha solo coperto uno scandalo, me lo sento. Primo: la marchesina aveva una pessima reputazione, nessuno sano di cervello se la sarebbe sposata senza prima conoscerla. Secondo: perché da quando è partita il marchese è caduto in depressione e non esce mai dalla sua magione? Se lei fosse felicemente coniugata, che motivo ci sarebbe di disperarsi tanto?”
Michael lo ascoltò con la bocca semiaperta. In effetti, ora che Lord Fox svelava l’inganno con la sua solita furbizia, la cosa incominciava a puzzare pure a lui. “Ad ogni modo, come farai a ritrovarla?” gli chiese: “E soprattutto, come la sposerai?”
“Non temere, mio stupido amico” sibilò Lord Fox: “Il marchese mi darà tutte le risposte. È un idiota, anche se si dà tutte quelle arie da difensore del popolo, e ingenuo come una pecora. Non aspetta altro che qualcuno con cui sfogarsi, e io mi farò trovare lì al momento giusto. Una volta svelato l’arcano mistero, non avrai da preoccuparti: riuscirò ad avere la sua dote, con o senza il suo consenso”.
Raccolse una freccetta dalla ciotola lì accanto, prese la mira e la lanciò sul ritratto di Isadora. Mira infallibile: la freccetta si conficcò vibrando nel petto della ragazza, là dov’era il cuore. Lord Fox sogghignò e indossò il mantello da viaggio.
 
Il marchese di Soledad, rinchiuso nella sua magione, non faceva che piangere e consumarsi dal rimorso da quando Isadora se n’era andata. Aveva rifiutato le cure di Natalie per chiudersi in se stesso. Sentiva di meritarsi tutto il dolore di quel mondo. Ora che aveva condannato la sua pupilla, la sua bambina dagli occhi dolci, ora che l’aveva consegnata a quell’orribile orco e a quella domestica pazza in quel maniero oscuro, solo ora capiva quanto era stato egoista e cattivo. Il rimorso che provava non aveva confini. Avrebbe dato qualsiasi cosa per poter liberare Isadora.
“Cosa ho fatto?” pensò, accasciato sul divano di velluto di un salottino che aveva lasciato in penombra: “Cosa ho fatto?”
Chissà cosa stava patendo il suo tesoro nel maniero oscuro. La immaginava emaciata e scheletrica che languiva in una cella sudicia, incatenata alla parete, senza cibo né acqua. La vedeva lamentarsi e gemere, mentre l’orco e la domestica se ne stavano davanti alla porta e sogghignavano malignamente, godendosi la sua sofferenza. Immaginava quell’orco terribile rosicchiarle il fegato ogni giorno di più, e quell’inquietante domestica tirarle addosso secchiate d’acqua putrida. La vedeva, ridotta all’ombra di se stessa, che muoveva appena le labbra, maledicendolo per quello che le aveva fatto. Cose simili se le sognava ogni notte.
Il suo dolore si accresceva ogni giorno di più. Vedeva Isadora, sentiva Isadora, toccava Isadora, e aveva allontanato da sé tutto il resto, perfino Natalie. Ma l’unica versione di Isadora che evocava era quella dello scheletro umano infuriato con lui. Se solo avesse potuto liberarla…ma come? Lui non era buono in niente. Sarebbe stato meglio morire, così avrebbe risparmiato quella tortura alla sua pupilla.
Trudy, la raffinata domestica che lavorava per lui, entrò cautamente nel salottino: “Scusatemi, milord…”
“Ho detto di non voler essere disturbato!” ringhiò lui, fissandola con gli occhi rossi dal pianto. La giovane domestica abbassò gli occhi, intimidita: “C’è Lord Fox per voi, signore”.
Lord Fox? Cosa voleva? La curiosità lo solleticò (si diceva che quell’uomo risolvesse tutti i problemi): “Fallo accomodare”.
Mentre lei si ritirava, il marchese si sistemò gli abiti sporchi e sbiaditi che aveva messo quel giorno e si asciugò gli occhi. Cosa poteva volere da lui un personaggio in vista come Lord Fox?
Si presentò sulla soglia con un sorriso affabile dipinto sulle labbra, vestito come se fosse in procinto di recarsi a un ballo. Il marchese andò a stringergli la mano e gli lesse negli occhi che non gli voleva male. Si sentì subito ben disposto: “Accomodatevi”.
Sedettero entrambi sul divanetto e per un po’ rimasero in silenzio. Lord Fox considerò l’aspetto dimesso del marchese con un’occhiata di una squisita discrezione: “Non vi sentite bene, caro amico?”
Lo trattava come se si conoscessero da sempre. Il marchese sentiva di potersi fidare di lui: “Non molto. Grazie per l’interessamento, caro…amico. Come mai questa visita improvvisa?”
“Ero venuto solo per tenervi compagnia” disse dolcemente Lord Fox: “Vi avevo visto così giù e ho pensato di farvi un’improvvisata, sempre che non abbiate nulla in contrario, sia chiaro! Sapete” aggiunse in uno slancio di sincerità: “Vi ho sempre ammirato”.
“Davvero?” chiese il marchese stupefatto. Lord Fox annuì con veemenza: “Vi vedo come un maestro. Voi siete l’eleganza fatta persona, caro marchese! Forse non lo sapete, ma vi muovete con la solennità di un Re e parlate come un dotto studioso”.
Al marchese non pareva vero. Aveva sempre pensato di muoversi con rara goffaggine e di balbettare quando parlava, ma Lord Fox era davvero sincero. Si sentiva davvero conquistato: “Grazie” farfugliò infine. L’altro sorrise cortese: “Vostra moglie sta bene?”
“Abbastanza”.
“E la vostra adorabile figlia?” Lord Fox trasfuse un fremito ad effetto nella propria voce, come se fosse turbato. Ma col marchese certe sottigliezze non servivano: nel sentir nominare la figlia, aveva emesso un gemito e giaceva pallidissimo sul divanetto. Preoccupato, Lord Fox lo sostenne premurosamente: “Che vi prende, caro amico? State male?”
“Io…io…” balbettava l’eleganza fatta persona, completamente atterrata. La Volpe intanto si lisciava i baffi, astuta: “Forse è successo qualcosa alla cara marchesina?”
Sembrava così preoccupato per Isadora, che il marchese fu lì lì per sputare il rospo. Scosse la testa per impedirselo. Lord Fox però insistette con foga: “Vi prego, ditemelo, buon signore! Non lasciatemi sulle spine! Di me vi potete fidare” aggiunse persuasivo. Il marchese incominciò a singhiozzare come una vite tagliata: “Non posso dirvelo…è troppo orribile…”
“Sarò muto come la più muta delle tombe, fidatevi” insistette Lord Fox, con un luccichio sinistro negli occhi verdi. Il marchese si era portato dentro quel peso troppo a lungo. Gli premeva sulle labbra, aprendogliele a forza. Di fronte al viso comprensivo dell’ospite, si sbottonò senza pudore e, singhiozzandogli sulla giacca turchina, gli raccontò dell’orco e di tutto il resto. Lord Fox lo ascoltò attentamente per tutto il tempo, il luccichio sinistro che andava intensificandosi fino a farsi abbagliante. Alla fine il pover’uomo gemette, desolato: “La mia povera Isadora…”
Lord Fox rifletté per qualche istante, il viso teso dalla concentrazione. Poi tornò ai soliti modi comprensivi: “Non disperatevi, mio buon amico: non tutto è perduto”.
“Invece sì!” ululò il marchese: “L’ho imprigionata in quel maniero con quell’orco terrificante! Sono un mostro!”
“No, non è così” insistette Lord Fox, battendogli una mano sulla spalla: “State a sentire: cosa direste se vi dicessi che c’è la possibilità di liberare Isadora dalla sua prigione?”
“Sarebbe possibile farlo?” chiese il marchese, con una tenue speranza che gli illuminava gli occhi. Lord Fox sorrise astuto: “Certo. La toglieremo dalle grinfie di quell’orco facendole sposare una persona molto più meritevole della sua mano…”
“Ossia?”
“Il sottoscritto” commentò Lord Fox osservandosi un’unghia. Il marchese lo fissò attonito, senza capire. Poi una luce di comprensione gli accese il viso: “Voi?!” strepitò: “Voi sposare…Isadora?!”
“Siete sorpreso, vero?” Lord Fox mise su una faccia da povero derelitto e si ingobbì in se stesso, arrossendo a comando: “Ora sono io a dovervi fare una confessione, mio buon amico: dal primo giorno in cui vidi vostra figlia, orgogliosa come Artemide in quella cucina piena dei cadaveri degli sventurati mortali che erano morti per amor suo, mi penetrò nelle ossa e non se ne andò più. Io amo Isadora!”
Il marchese rimase sotto choc. La sua piccola era davvero diventata grande… alla fine gli uscì un mezzo gracidio: “Dite sul serio?”
“Purtroppo sì” singhiozzò Lord Fox: “Vostra figlia è la mia rovina! Ah, come rimasi abbagliato dalla sua bellezza quel giorno, ma lei, divinità crudele, mi chiuse la porta in faccia, rigettandomi in faccia il mio amore. Penai come un povero prigioniero dell’Inferno. Sapevo di non avere speranze, che lei era così bella e irraggiungibile e che io ero solo fango sulle sue scarpe…la osservavo da lontano, beandomi della sua immagine. E poi, l’ennesima pugnalata: se ne andò, lasciandomi qui a baciare il suo ritratto che tanto faticosamente avevo acquistato. Immaginavo che fosse infelice, e che dolore apprendere da voi il suo triste destino. Ebbene sì: sono perdutamente innamorato di Isadora!”
Mentre parlava gesticolava come un pazzo, alzava la voce, sospirava in una perfetta pantomima da innamorato perso. Alla fine finse di asciugarsi con discrezione una lacrima che gli era spuntata all’angolo dell’occhio.
Il marchese, davanti a lui, lo fissava a bocca aperta. Povero ragazzo! Soffriva di certo quanto lui, e che mestizia nel suo racconto. Alla fine Lord Fox lo fissò con occhi febbrili: “Libereremo Isadora. Aiutatemi, marchese, vi prego: permettetemi almeno di mettermi in ginocchio ai suoi piedi per farle la proposta. Mi basterebbe poterle parlare”.
“Ecco…io…” cincischiò il marchese. Lord Fox si accigliò: “Io sarei pronto a morire per Isadora. E voi?”
“Certo, ma…”
“Allora perché esitate?”
“Va bene, verrò” si arrese il marchese: “Ma come faremo con l’orco?”
“Non temete” replicò Lord Fox, col solito sogghigno astuto: “Ho un piano”.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** La felicità non dura ***


CAPITOLO 11

 
 
 
 
 
 
Isadora era alla finestra del terzo piano e si sporgeva nel vuoto fino alla vita, godendosi il fresco del mattino. Il tempo era nuvoloso, ma la foresta era piena di profumi che non aveva colto subito: muschio, aghi di pino e qualche fiore raro. Teneva gli occhi chiusi, un sorriso sereno dipinto sulle labbra, i capelli che le si riversavano sul vestito viola. La si sarebbe quasi detta felice.
Quando udì un rumore di passi pesanti dietro di sé, fece un sorriso e si girò prontamente verso il corridoio luminoso del maniero. L’orco uscì dalla sua stanza sbadigliando, e si bloccò con espressione piacevolmente sorpresa quando la trovò lì. Lei incrociò le mani dietro la schiena, amichevole: “Buongiorno”.
“Buongiorno” rispose lui gentilmente. Si chiuse la porta alle spalle: “Non pensavo che fossi sveglia”.
“Sono le otto” disse lei: “Stavolta sei stato tu a dormire di più”.
L’orco arrossì: “In effetti sì…”
“Mi fa piacere. Ieri è stata proprio una bella giornata, vero?”
“Infatti”.
Rimasero un istante in piedi l’uno di fronte all’altra, entrambi indecisi sul da farsi. Alla fine l’orco disse, con evidente svogliatezza: “Dovrei andare a caccia…”
“Oh, no, ti prego” Isadora fece una smorfia: “Non voglio rimanere sola tutto il giorno. Perché non rimani qui? Potremo fare tante cose! E poi ci tenevo proprio a presentarti un mio piccolo amico…”
Capì che l’orco aveva già accettato, anche se cincischiò un po’: “Gli altri orchi diranno che mi sono rammollito…”
“Che te ne importa degli altri orchi? Che parlino pure! Tu cosa vuoi?”
L’orco si morse il labbro. Però non resistette a lungo: “E va bene” disse infine con un mezzo sorriso. Isadora rispose con un altro abbagliante: “Che bello! Presto, seguimi” lo prese per mano e lo tirò in direzione della sua stanza. Lui la seguì senza più la minima esitazione.
Nella camera di Isadora c’era una confusione indescrivibile: vestiti sparsi a terra, la branda sfatta, briciole sul pavimento e fogli scritti. La ragazza arrossì quando arrivarono sulla soglia, ma l’orco non commentò. Puntò dritta l’enorme groviera che aveva lasciato sopra alla branda, al cui interno si intravedevano movimenti vari e rumori di denti che rosicchiano. Fece segno all’orco di inginocchiarsi presso il formaggio, poi fece la voce grossa e chiamò: “Armageddon! Vieni fuori, devo presentarti una persona”.
I movimenti cessarono, ma nessuno uscì dalla groviera. Isadora, rossa in faccia, ripeté: “Armageddon! Non farmi sfigurare proprio adesso! Vieni fuori!” ancora niente. Allora, con un sorrisetto furbo, Isadora continuò: “Che peccato. Per cena quella fonduta che ti avevo promesso te la potrai scordare…”
Uno squittio di protesta risuonò chiaro da dentro la groviera rosicchiata a metà, poi Armageddon ne balzò fuori indignato, con la pelliccia bianca unta di giallo. Isadora sorrise trionfante. Non l’aveva mostrato nemmeno a Katrina: era sempre rimasto nascosto. Lo prese fra le mani, e, rivolgendosi all’orco: “Questo è Armageddon, il mio fratellino. Armageddon, questo è un mio nuovo amico”.
Armageddon scrutò coi suoi occhietti neri e brillanti l’orco. Lui gli restituì lo sguardo e rispose impacciato: “Che carino…”
Il topolino camminò sulle mani rosee di Isadora e si spostò su quelle dell’orco, intento a studiarlo con attenzione. L’orco sobbalzò e se lo rigirò tra le mani goffamente, temendo di schiacciarlo: era davvero minuscolo! Armageddon gli si appoggiò contro e chiuse gli occhi, rannicchiandosi contro il suo petto. Isadora sorrideva come un genitore: “Gli piaci. È sorprendente: di solito è sospettoso con tutti. Da mio padre non si è mai lasciato tenere”.
“Ho paura di farlo cadere” disse l’orco, che teneva Armageddon con la massima precauzione nelle mani tremanti. Isadora ridacchiò e gli si avvicinò, protendendo le sue per riprendersi il topolino: “Aspetta, lascia fare a me…” gli tolse delicatamente l’animaletto dalle mani e lo posò dove stava prima. Armageddon squittì di delusione. Isadora rise ancora: “Volevi rimanere col tuo nuovo amico, eh? Dovrei essere gelosa!”
“Come mai l’hai chiamato Armageddon?” le chiese l’orco, lanciando al topolino un’occhiata di apprezzamento. Isadora sorrise al ricordo: “Una storia divertente. Mia madre me lo portò che avevo poco più di un anno, e non sapevo parlare. Allora lo guardo e, non so perché, gli grido in faccia “Armageddon”! Forse non volevo fargli un complimento, ma da allora l’abbiamo sempre chiamato così”.
Risero entrambi. Poi fu l’orco ad alzarsi in piedi: “Forse è ora che tu conosca meglio un’altra persona…”
“Non sono sicura di volerlo” sorrise Isadora. Ma l’orco la tirò su: “Devi”.
Si misero a correre fianco a fianco, ridendo, ai piani bassi. Ad un certo punto si imbatterono in Katrina che veniva verso di loro con aria perplessa: “Padrone, scusatemi, volevo sapere se oggi devo fare…” si interruppe quando li vide passare. Non l’avevano neanche vista. Allora sorrise e si ritirò di nuovo: “Non vi disturbo” decise improvvisamente di eclissarsi in camera sua.
Bruto era fuori e si era appisolato sull’erba, il testone appoggiato sulle zampe anteriori. Quando l’orco e Isadora uscirono, si svegliò con un sussulto e li scrutò attraverso le palpebre socchiuse. Non aveva un’aria socievole, e la ragazza ebbe un tentennamento. Ma l’orco le sorrise e la spinse delicatamente in avanti: “Non avere paura”.   
 Così si avvicinarono ancora. Bruto balzò sulle quattro zampe, fissandoli. Con Isadora aveva avuto solo confronti, uno dei quali l’aveva anche fatta finire col sedere per terra in un pavimento bagnato, nei tempi che adesso erano come lontani. Allora non si era fatta problemi a trattare col cane, ma adesso che era venuta per farsi accettare, esitava.
L’orco protese le braccia e Bruto gli si slanciò addosso festante. Isadora li osservò mentre facevano la lotta, ferma dov’era, senza osare intromettersi. Alla fine l’orco rise, si liberò dalla presa del cane, lo grattò sulla testa e si volse ad Isadora rivolgendole un sorriso che conteneva un’ombra di dolcezza: “Non devi fargli vedere che hai paura, né che vuoi sfidarlo. Con Bruto devi essere ferma. Decisa, ma neanche troppo impudente”.
Prese il meticcio nero per il collare e lo spostò ai piedi della fanciulla. Un’offerta. Lei però esitava: “E se poi mi morde?”
“Non lo farà” l’orco esitò, poi disse timidamente: “Dammi la mano”.
Isadora gliela porse. Lui gliela prese con delicatezza e la guidò verso il testone di Bruto. Lei si irrigidì e provò a ritrarre il braccio, ma l’orco la tenne ferma con gentile fermezza. Quando le sue dita incontrarono la ruvida pelliccia del cane, sobbalzò. In breve l’orco poté lasciarle la mano, e indietreggiò con aria soddisfatta: lo stava accarezzando da sé. Per un po’ lo fece rigidamente, e rigido rimase Bruto, ma, via via che andavano avanti, ci prese gusto e si inginocchiò accanto a lui. Gli prese il testone fra le mani e lo grattò con vigore: “Ehi, cagnaccio, non sei poi così male come pensavo, lo sai?”
Bruto fece il prezioso per un po’, poi lo sguardo fiero dei suoi occhi scuri si ammorbidì, balzò sulla ragazza e le rifilò una bella linguata sulla faccia. Lei si ritrasse di scatto, crollando nell’erba alta: “Bleah!” ma subito dopo scoppiò a ridere fragorosamente. L’orco, ridendo con forza a sua volta, si chinò su di lei, cercando di aiutarla a rimettersi in piedi: “Tutto bene?”
“Sì…io…” per un attimo, i loro sguardi si incontrarono come quella volta nella prateria, e rimasero entrambi a corto di parole…ma Bruto, indignato, che aveva notato che lo stavano tagliando fuori, cacciò il testone tra i loro volti, lanciando un abbaio di stizza. Isadora si scostò con una risatina nervosa: “Non sarà geloso, vero?”
“Non vuoi che abbia altri amici, Bruto?” gli chiese l’orco grattandolo sulle orecchie. Ma il cane abbaiò ancora, con più sdegno di prima. Isadora gli strizzò l’occhio: “Mi sa proprio di no, eh, Bruto?”
Ma poiché lei e l’orco avevano ripreso a stare tra loro, il cagnone comprese l’antifona e si ritirò stizzito sulla soglia del maniero dov’era in piedi Katrina, abbandonata contro il portone con espressione sognante. Non aveva mai visto il padrone così felice: lo vedeva ridere con Isadora, parlare animatamente assieme a lei, fissarla con gli occhi che brillavano, sedersi accanto a lei sull’erba, mentre si sorridevano. Era una cosa che Katrina non vedeva da cinquant’anni, una cosa che non avrebbe mai creduto di veder crescere in un posto da incubo come il maniero, e che la riempiva di gioia. Una cosa che, purtroppo, lei non aveva mai conosciuto. Una cosa che aveva illuminato il maniero come una luce, trasformandolo completamente.
“Non è meraviglioso, Bruto?” chiese trasognata, senza staccare gli occhi dall’orco e la ragazza che sedevano sorridenti in mezzo agli alberi: “Il padrone si è innamorato!”
Bruto, cupo, lanciò un basso ringhio. A lui la cosa non andava affatto bene. Immaginava che da ora in poi quei due si sarebbero sempre eclissati per conto loro, lasciandolo solo. Katrina rise, lo prese per il collare e lo trascinò all’interno del maniero: “Su, non facciamo i guardoni: io e te ce ne andiamo a giocare nel maniero!”
Nel frattempo, l’orco ed Isadora stavano mezzi distesi sull’erba, senza accorgersi di loro. Timidi boccioli di fiore incominciavano appena a colorare l’erba. Isadora ne prese uno e se lo portò al naso. L’orco la fissava, stentando a credere che fosse lì con lui. Ad un certo punto, allungò timidamente una mano e la posò su quella della giovane: “Sai” disse a fatica: “Sono felice di aver ascoltato tuo padre, quella notte. Di aver fatto un accordo con lui”.
Isadora sorrise, lasciò cadere il piccolo fiore e gli strinse a sua volta la mano: “Anch’io ne sono felice”.
L’orco sussultò. La scrutò attentamente in viso, come per vedere se gli mentiva: “Dici sul serio?”
“Dico sul serio” disse lei, senza smettere di sorridere. Al che vide le ultime resistenze dell’orco cedere di colpo, lo vide concedersi il terribile lusso della speranza. Le strinse con forza le mani: “Isadora” mormorò: “Pensi di essere… felice qui?”
“Sì”.
“Devi dirmi la verità”.
“Fidati di ciò che dico. Guarda” Isadora frugò nell’abito viola, poi ne trasse qualcosa che mostrò all’orco. Lui vi posò sopra uno sguardo trepidante: era l’anello di legno che le aveva consegnato il giorno in cui lei era venuta a vivere lì, quando si erano accolti con freddezza glaciale. Lui ne portava uno uguale, che non aveva mai tolto, neanche quando le dava ordini e le urlava contro. Isadora sorrise, tenendolo ben stretto tra le dita: “Te lo ricordi?”
“Certo!”
“Ho sbagliato a gettarlo via. Ma allora era diverso, non credi?”
“Sì. Era diverso”.
Rimasero un istante in silenzio. L’orco sembrava pieno di speranza e pieno di timore: “Ricordi…ricordi quando ti dissi che la felicità non dura, Isadora?” lei annuì. L’orco osò sorriderle teneramente: “Tu mi hai dimostrato che mi sbagliavo”.
La ragazza non ebbe il tempo di dire o fare qualcosa. Di colpo un rumore turbò il loro raccoglimento: zoccoli di cavalli che percuotevano il terreno poco lontano dal maniero, voci di uomini che parlavano tra di loro. Isadora sobbalzò, tirandosi su di scatto, l’orco riacquistò immediatamente la propria espressione minacciosa mentre si voltava verso la foresta. I rumori erano sempre più vicini: chiunque fosse, si stava avvicinando.
“Che succede?” bisbigliò Isadora. Girandosi a guardarla, per un attimo il volto dell’orco tornò gentile: “Resta sempre dietro di me” poi serrò i pugni e si mise a gambe larghe. Katrina, attirata a sua volta dai rumori, ricomparve sulla soglia assieme al cane Bruto. Perfino Armageddon zampettò fino a raggiungere la padroncina, che gli offrì prontamente la manica. Si raggomitolò dietro l’orco, che, mosso dal desiderio di difenderla, sembrava ancora più minaccioso del solito.
Qualcosa smosse la boscaglia, poi due uomini a cavallo comparvero nel breve prato che circondava il maniero. Fermarono le cavalcature con parole sussurrate. Uno di loro era un uomo vestito in modo impeccabile, con occhi verdi luccicanti e un sogghigno astuto, che Isadora riconobbe con un senso di inquietudine come Lord Fox, mentre l’altro…
“Papà?” mormorò Isadora, incredula. Katrina e l’orco spalancarono gli occhi: sì, l’altro uomo era proprio il pacioso marchese di Soledad, insudiciato e scomposto dalla cavalcata, che gettò un grido acuto non appena vide la figlia viva e vegeta: “Isa! Grazie a Dio!”
Isadora restò immobile, pietrificata. Avrebbe dovuto essere felice…ma c’era qualcosa di sbagliato in quell’arrivo improvviso, nell’accompagnatore di suo padre. Il quale scese precipitosamente dal cavallo. Inciampò nella staffa e finì col sedere per terra…ma si rialzò con foga e le corse incontro incespicando: “Isa! Isa!”
La strinse in un abbraccio soffocante. Lei rimase inerte. “Che ci fai qui, papà?”
Nel frattempo Lord Fox era sceso elegantemente dal suo destriero e aveva gettato un’occhiata schifata al maniero, all’orco e a Katrina, che non avevano ancora accennato una mossa. Infine sorrise ad Isadora: “Siete salva, marchesina, non temete”.
“Salva?” fece lei: “Ma che significa tutto questo?”
“Io e Lord Fox siamo venuti a liberarti, Isa” le disse il marchese, felice come una pasqua. Le sopracciglia di Isadora erano sempre più inarcate: “Liberarmi?”
Una voce lugubre disse all’improvviso: “Cosa ci fate nel mio territorio?”
L’orco era comparso accanto ad Isadora, e ora li fissava con fredda minaccia. Non aveva gradito il loro arrivo, si capiva bene. Isadora si voltò verso di lui, per spiegargli, per avvertirlo che qualcosa non andava…ma si sentì agguantare per il braccio da Lord Fox, che la trasse a sé con aria protettiva: “Rozza bestia, come osi rivolgerti così a due salvatori? Tu, che hai tenuto sadicamente prigioniera la mia fidanzata, come osi intrometterti ora che l’ho finalmente liberata?”
“La tua fidanzata?” esclamò Isadora stupefatta. Ma il suo stupore non era neanche lontanamente paragonabile a quello dell’orco: nell’udire quelle parole impallidì e indietreggiò leggermente, fissandola ad occhi spalancati. Lord Fox sogghignò, le circondò la vita con entrambe le braccia e la premette contro di sé: “Sei davvero splendida, mia cara. Hai agito esattamente secondo i piani”.
“Di che piani parli?” sibilò Isadora, tentando senza successo di liberarsi dalla stretta. Cosa stava succedendo? Perché Lord Fox parlava in quel modo, e perché suo padre non diceva nulla, ma annuiva? Provò un presentimento di terrore.
“Ma di che cosa state parlando?!” ruggì l’orco all’improvviso. Tremava in modo spaventoso, i pugni serrati con tanta forza che le unghie vi avevano aperto piccoli segni a forma di mezzaluna. Anche Katrina, lì accanto, fissava Lord Fox e la ragazza con aria spaesata. Isadora lottò contro la stretta di Lord Fox per dir loro che neanche lei capiva, che era tutto sbagliato…ma Lord Fox non gliene lasciò il tempo, perché le insinuò una manaccia tra i capelli e si rivolse all’orco con occhi brillanti: “Della meravigliosa interpretazione della mia promessa. Non speravo in un risultato così positivo”.
“Cosa significa?!” urlò l’orco. Diventava sempre più paonazzo e minaccioso. Il ghigno malefico non abbandonava le labbra di Lord Fox: “Credevi davvero che sarebbe venuta qui di sua spontanea volontà, orco? Quando il marchese portò la notizia, noi dovevamo sposarci. Sposarci, capisci? Perché ci amiamo. Non avremmo rinunciato per nulla al mondo al nostro amore”.
“No! Non è vero!” disse Isadora, disperata. Fu allora che intervenne il marchese: “Cara, Lord Fox sta dicendo la verità, e tu lo sai”.
Lei lo fissò inorridita. Non era possibile. Non poteva essere: “Papà…” lui però sostenne il suo sguardo, anzi, strizzò leggermente gli occhi, come per comunicarle di non smentire l’uomo. Che le intrappolò il volto in una mano. Il modo in cui la toccava era orribile, sembrava che stesse tastando una statua carica d’oro: “Per cui, escogitammo un piano: la mia Isa avrebbe dovuto conquistarsi la tua fiducia e quella della tua sguattera per passarsela alla grande finché io e suo padre non fossimo venuti a liberarla”.
L’orco si era fatto immobile. Li fissava tutti con occhi vuoti. Pieno di orrore. Col petto stretto in una morsa, Isadora cercò di scrollarsi di dosso Lord Fox: “No, non è così…”
“I miei complimenti, mia cara. Ti amo” disse Lord Fox. Al che la attirò a sé e la baciò impetuosamente sulla bocca. Isadora spalancò gli occhi. L’aveva colta alla sprovvista, rubandole il suo primo bacio. Era un momento che non aveva affatto immaginato così. E il fortunato non doveva essere certo lui. Con le labbra incollate alle sue, gli affondò le dita tra i capelli e lottò per separarsi da lui…ma Lord Fox la teneva stretta fin quasi a farle male, e le sue mani che si stringevano sulla chioma rossa davano l’impressione che ricambiasse quell’effusione. Alla fine lui la lasciò andare di colpo, strofinandosi la bocca come per ripulirsela. Sconvolta, Isadora barcollò all’indietro.
L’orco accusò il colpo barcollando. Sul viso di Katrina, invece, comparve il puro sconvolgimento. Per un attimo appena, Isadora vide sul volto dell’orco tutto il dolore di questo mondo. Poi venne la rabbia, che gli sconvolse i tratti in una smorfia. La guardava pieno di furia e di delusione disperata. Al che lei si sentì sommergere da cieca disperazione. Tutto stava andando in pezzi nel giro di pochi istanti.
Allungando le mani verso l’orco, gli si avvicinò, senza che Lord Fox la trattenesse. Lo guardò con occhi pieni di sincerità: “Non è così, credimi…io non ho mai architettato nessun piano…è una bugia…”
“Credevo che tu fossi diversa” ringhiò l’orco con voce rabbiosa: “Credevo che tutte le tue belle frasi fossero vere. Dovevo aspettarmi che tu fossi come tutti gli altri. Falsa ed egoista”.
Il disprezzo nella sua voce le spezzò il cuore, che era il secondo ad andare in frantumi nel giro di un quarto d’ora: “Non dire così, ti prego…io ero sincera…lo ero davvero…”
“Risparmiami queste pietose bugie!” stavolta l’orco alzò la voce, costringendola a bloccarsi con le mani ancora tese. Era tornato quello di un tempo: torreggiava su di lei, il viso stravolto dal furore, gli occhi gli ardevano, e la bruciavano: “Mi hai ingannato. E io lo sapevo, me lo immaginavo…mi hai costretto a diventare qualcosa che disprezzo, che mio padre disprezzava… che tu sia maledetta! Che io sia maledetto per non aver sgozzato tuo padre, per avergli dato ascolto!”
“Ti prego…” la voce di Isadora era ormai ridotta ad un bisbiglio. Gli occhi le divennero lucidi. L’orco digrignò i denti, ma per quanto la sua rabbia fosse immensa, non era più in grado di fare del male né a lei né ai due che stavano con lei. Così si allontanò, gli occhi che la riempivano di disgusto e di dolore rabbioso: “Vattene via, e non farti rivedere mai più” si tolse l’anello di legno con furia e glielo gettò addosso, colpendola sulla spalla. Isadora però non poteva, non voleva permettere che finisse così: “Ma io…”
“Vattene”.
“Io non…”
“VATTENE, HO DETTO!” gridò lui con tutte le forze. Gli occhi di Isadora si riempirono di lacrime che le rotolarono copiose sulle guance pallide. Il marchese la prese delicatamente per un braccio e cercò di sospingerla verso i cavalli (Lord Fox era già in sella, compiaciuto): “Andiamo via, Isa”.
“No…” ansimò lei con voce impercettibile, pallidissima, mentre il padre la portava via: “Non posso…” fece per accasciarsi, ma lui la sostenne: “Andiamo via”.
Passarono accanto a Katrina, immobile là dov’era col cane Bruto. Isadora la fissò disperatamente, le guance rigate di lacrime: “Katrina…almeno tu…” ma gli occhi della domestica avevano perso la loro solita gentilezza, ed erano vuoti e increduli. Bruto fissò Isadora digrignando i denti e le ringhiò contro, acquattandosi come per attaccarla.
Lei si sentiva crollare il mondo addosso. “Non può finire così…” pensò. Si voltò verso l’orco, ma lui non incontrò il suo sguardo. Armageddon scrutava il tutto con aria perplessa dalla manica della padroncina. Era l’unico che le era rimasto…
Il marchese la sollevò fra le braccia. Isadora lo lasciò fare, completamente inebetita. La caricò sul cavallo di Lord Fox, che le passò le braccia intorno alla vita, stringendo la presa. La ragazza sentì il suo fiato caldo sul collo: “Ti ho appena salvata da una prigione. In cambio chiedo solo la tua mano”.
Isadora non riuscì a rispondere nulla. Continuò a piangere anche quando si allontanarono al galoppo dal maniero.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** Come tutte le altre ***


CAPITOLO 12

 
 
 
 
 
 
Ad Isadora Soledad parve un luogo che sapeva di passato. Osservò la cittadina della sua infanzia farsi sempre più vicina via via che i cavalli si avvicinavano al galoppo e provò una morsa di senso di colpa e di dolore.
“Perché mi hanno fatto questo? Io stavo così bene…” l’unica cosa che le impediva di ribellarsi era che probabilmente suo padre credeva di aver fatto il suo bene. Ma che c’entrava Lord Fox? Perché voleva sposarla? E perché aveva escogitato quel piano? Il suo bacio le bruciava ancora sulle labbra.
La magione del marchese era sontuosa come ricordava, un mosaico di marmo bianco che brillava al sole. Tuttavia, con sua grande sorpresa, Isadora non provò alcuna gioia nel rivederla. Non poteva accettare di aver involontariamente pugnalato dritto al cuore Katrina, ma soprattutto l’orco. La sua espressione piena di una rabbia disperata, la delusione con cui l’aveva guardata, le straziavano il cuore con sadismo, e doveva lottare con le lacrime. Era insopportabile. Capì che, a dispetto di quanto aveva anelato a tornare a Soledad, ora considerava il maniero la sua vera casa, e l’orco…
“Ho sempre saputo di essere diversa da tutte le altre” pensò tristemente: “Ho sempre saputo di non essere come Anastasia, Genoveffa e la ragazza della scarpetta…”
L’allegria obbligata di Soledad le diede fastidio. Quel maledetto sole che non se ne andava mai, quella gente vestita sontuosamente che sorrideva sempre, quei bambini che non piangevano mai, ma soprattutto quelle case costruite in modo da sfiorare l’ostentazione, con porte che sembravano una bocca sorridente e finestre che somigliavano ad occhi. Sembrava tutto così finto, così poco reale…un quadro fisso in cui ognuno recitava il suo ruolo. Lei, Isadora, non ne aveva mai davvero fatto parte, proprio come sua madre, che era fuggita prima che Soledad l’inglobasse nella sua allegria forzata. Il mondo non era così. Con quel viso pallido, quell’espressione triste, stonava in quel quadro di gioia.
Osservando Lord Fox, capì che abbandonarsi a simili pensieri non serviva a nulla: era finito tutto. Il marchese e Lord Fox fermarono i cavalli di fronte alla magione, poi aiutarono la ragazza a scendere. Il marchese, con un largo sorriso stampato sul faccione, si tese per abbracciarla: “Bentornata a casa, Isa…”
Ma lei si scostò di scatto, lasciandolo ad abbracciare l’aria. Perplesso e mortificato insieme, lui la fissò, interrogativo. Il volto addolorato di Isadora era scuro di rabbia: “Che bisogno c’era di inscenare quella pantomima?”
Il marchese rimase a bocca spalancata. Per un po’ la guardò battendo le palpebre, poi balbettò: “Non…non sei felice di essere finalmente libera?”
“Certo che lo è” ghignò Lord Fox agguantandola per la vita. Isadora digrignò i denti: perché suo padre permetteva a quell’uomo di metterle le mani addosso? Le dita di Lord Fox le affondavano nella carne fin quasi a farle male: “Era necessario fingere, marchesina. Altrimenti quell’orco orribile non ti avrebbe mai lasciata andare”.
“Non è affatto orribile!” urlò Isadora, ritraendosi con uno strattone e fissandolo con gli occhi accesi da fiamme di rabbia. Lei stessa fu stupita da quella furia violenta: il marchese la osservava attonito, perché non l’aveva mai vista così furibonda. Ma Lord Fox non rimase affatto impressionato. Con il suo solito sogghigno, le sfiorò la linea della mandibola con le lunghe dita curate: “Suppongo che tu sia un po’…confusa, Isadora”.
“Siete uno spregevole…” sibilò lei. Per tutta risposta, Lord Fox scoppiò a ridere: “Sono il tuo salvatore. In ogni storia raccontata, è dovere di una dama darsi al suo salvatore. Io ti ho liberata con l’astuzia dal maniero dell’orco cattivo, e ora, beh…ci vuole il lieto fine sull’altare”.
“Non vi sposerò mai!” replicò lei beffarda. Lord Fox ampliò il sogghigno: “Oh, invece lo farai: non hai altra scelta. Questa è la nostra favola, tu sei la principessa…e, che tu lo voglia o no, io sono il principe. Vedrai, saremo molto felici insieme, tu e io…finché durerà”.
Quelle parole le misero addosso un terrore profondo, perché scoprì che erano vere. In qualche modo, doveva sposare Lord Fox. Gliel’avrebbe imposto suo padre, o lo stesso pretendente…se avesse continuato a opporsi, l’avrebbero distrutta. Sentì gli occhi pizzicarle: “Perché mi hai fatto questo?”
“Per liberarti, tesoro” replicò spavaldo Lord Fox: “Saresti ancora a languire in quella casa degli orrori, se non l’avessi fatto”.
Le labbra della giovane tremarono. Rimase un istante ancora in piedi davanti a Lord Fox, poi emise un singulto, gli voltò le spalle e corse dentro alla magione.
Ritrovare la strada per la sua camera da letto fu straordinariamente facile, ma quando si fu chiusa dentro, non provò il solito senso di sollievo. Osservò con occhi vuoti il gran letto a baldacchino con sopra tutti i suoi vecchi pupazzi, l’armadio colorato stipato di vestiti, il comodino con sopra la spazzola d’argento e i gioielli, i quadri lussureggianti appesi alla parete, uniti a disegni e fogli di diario che aveva completato negli anni. Li osservò come se non li riconoscesse. Ora avrebbe dovuto buttarsi a peso morto sul letto, abbracciare uno dei pupazzi e affondare la faccia sul cuscino. Ma non lo fece.
Si accasciò con la schiena contro la porta a cui era attaccato un messaggio di avvertimento a chi si intrometteva, e si lasciò scivolare fino a rimanervi seduta contro. Al che appoggiò le braccia sulle ginocchia, ci premette il viso e prese a piangere disperatamente. Ma stavolta non era il pianto capriccioso di una ragazzina: stavolta era davvero addolorata. Il cuore le faceva male.
Armageddon le scivolò fuori dalla manica e si arrampicò goffamente sulla sua spalla, guardandola con aria dispiaciuta. Non poteva consolarla, non più. Isadora, senza smettere di piangere, sollevò il viso e guardò il topolino: “È andato tutto storto, Armageddon” singhiozzò: “Tutto storto…” gli fece posto nell’ansa del braccio, su cui il topolino si accoccolò docilmente: “Vedrai” mormorò: “Andrà tutto…andrà…”
Ma non sarebbe andato tutto bene. Non stavolta. Mai più. Armageddon le sfiorò la guancia bagnata con il musetto fremente. Allora Isadora accennò un sorriso tremulo: “Tu lo sai che non ho mai finto, vero, Armageddon?” sussurrò: “Io e te ci conosciamo da quando siamo nati, non possiamo mentirci l’un l’altra. Se ci fosse anche il più minimo fondo di verità in ciò che ha detto Lord Fox te ne accorgeresti…sì, forse all’inizio non vedevo l’ora di tornare a Soledad, ma poi è cambiato tutto…io detesto chi finge, se fosse andata come diceva quello spregevole, allora l’avrei messo in chiaro da subito, senza mentire…”
“Isadora?” disse il marchese aprendo delicatamente la porta. La ragazza sobbalzò, si scansò da dov’era e si rannicchiò su se stessa. Il padre entrò nella stanza e, quando la vide che piangeva, un’ombra di dispiacere gli passò sul volto: “Oh, Isa, perché fai così? Io pensavo che tu volessi essere liberata…”
“Tu non puoi capire” replicò lei guardando da un’altra parte: “Non puoi e non potrai mai capire”.
“Cosa c’è da capire? Ti lasciai disperata in quel maniero orribile, nelle grinfie di quei due aguzzini…”
“Tu non capisci. Tu, che vivi con quella strega…” sibilò la figlia. Il marchese si inginocchiò accanto a lei, tolse un fazzoletto dal taschino e le asciugò le lacrime. Lei sobbalzò, ma lo lasciò fare senza opporsi. Poi lui la prese per il mento, contemplandola affettuosamente: “La sola cosa che capisco è che sono davvero felice di riaverti, Isa. Perché non vuoi sposare Lord Fox? È ricco, attraente, e con una bella parlantina…”
“Non lo amo. Ed è viscido come un serpente” rispose lei. Il marchese emise uno sbuffo divertito: “Secondo me, se ci metti un po’ d’impegno, te lo farai piacere. E poi scusa, non lo ami, ma sei addirittura andata in sposa a un orco!”
Sul viso di Isadora passò di nuovo quell’ombra: “Tu non puoi capire”.
“Invece capisco. Sta a sentire: l’unica cosa che desidero è la tua felicità. E so che, se sposi Lord Fox, la otterrai. Io sento che sarete una coppia perfetta. Dammi ascolto. Fallo per me”.
“È quello che dici sempre” rispose lei aspra: “Fallo per me. Ecco come mi sono ridotta pur di darti ascolto. Ma perché lo faccio? Perché mi sforzo sempre di ottenere la tua approvazione? Io non sono come te. Tu sbagli e non impari mai, io imparo fin troppo. Tu non conosci il dolore, io sì. Non voglio essere come te, buttarmi da ogni dirupo attraente sperando poi che arrivi qualcuno a darmi la mano per tirarmi su”.
“Però mi vuoi bene” disse lui. Isadora lo fissò con una smorfia. Già. Era questa la sua rovina. Gli voleva bene. Lei aveva bisogno di quel goffo marchese ciccione. La sua felicità per lei era motivo di gioia. Il suo silenzio fu una risposta sufficiente per il marchese: “Isa, sono tuo padre, voglio il tuo bene. Lord Fox ti ama davvero”.
“Ha uno strano modo di dimostrarlo” borbottò Isadora. Il marchese scosse la testa: “Pensaci: si è scomodato per te, è venuto qui per te, tutto quanto per te. Sei stata scortese con lui. Avrebbe potuto mollarti, ma non l’ha fatto”.
Quelle parole fecero scattare qualcosa nella testa di Isadora. Odiava Lord Fox e la sua opinione su di lui restava invariata…pensava all’orco. Lui non si era fidato. Si era lasciato ingannare da Lord Fox, e non le aveva creduto. Provò all’improvviso un guizzo di rabbia, quasi un desiderio di ripicca. Esitò sull’orlo del precipizio…ma tanto ora non aveva più nulla da perdere. Decise di buttarsi, anche se sapeva che si sarebbe sfracellata. Disse con infinita rassegnazione: “E sia. Lo sposerò”.
 
Natalie era in visibilio: “Domani è il grande giorno, Isadora”.
Erano nella camera della ragazza, due giorni dopo che lei aveva accettato di sposare Lord Fox. Lui le aveva fatto doni preziosissimi: la camera era stipata di gioielli, scatole di cioccolatini pregiati, nastri colorati e diademi. Isadora stava facendo le prove del suo nuovo abito da sposa, quello che lui le aveva scelto senza consultarla: era fatto completamente di paillette argentate che luccicavano come scaglie di un pesce, col bustino incastonato di pietre preziose. Isadora sembrava un astronauta. Il velo era fissato sulla testa da un cerchietto di paillette con delle strane lucine a intermittenza. Il bouquet era di orchidee bianche. Si sentiva a disagio in quell’armatura luccicante, e per di più aveva il cuore gravato da un grande sconforto.
Natalie si era vantata con tutte le amiche della fortuna capitata alla figliastra: “Lord Fox, capite? Ah, ma io lo sapevo che Isadora avrebbe fatto strada” e le rivolgeva la prima occhiata affettuosa da quando era arrivata in famiglia. Anastasia e Genoveffa erano diventate verdi di invidia, ma lei avrebbe volentieri fatto cambio con una di loro.
Si muoveva come in trance. Si era lasciata prendere le misure, vestire, pettinare e toccare completamente inerte. Inerte si sarebbe fatta mettere l’anello da Lord Fox. Lui non voleva delle volgari fedi: aveva preso due anelloni con incastonati diamanti grossi come meloni.
“Stai d’incanto” disse Natalie, ammirandola con chiara approvazione. Isadora si fissò tristemente allo specchio, scrutandosi rinchiusa in quella trappola di paillette. Obiettò mogiamente: “Non è un po’ troppo esagerato?”
“Ma cosa dici! Magari l’avessi potuto indossare io!” disse Natalie scandalizzata. Le si avvicinò, le scostò il velo e le prese tra le mani una ciocca di capelli biondi: “Più tardi andremo da Madame Cheveaux. Li dobbiamo arricciare. Hai presente la pettinatura di Riccioli d’Oro il giorno del compleanno dei tre orsi? Ecco, li facciamo così, che ne dici?”
Isadora non disse nulla. Natalie passò al viso, prendendoglielo fra le mani: “Cielo, sei troppo pallida! Non osare ammalarti! Dopo Madame Cheveaux, domani passiamo di volata dalla Signora Ombretta per farti il trucco. Ci andremo duri col fard, così avrai un colorito decente…magari un bel rossetto rosso fuoco sulle labbra…no, forse meglio rosa shocking, non voglio che la gente si faccia idee sbagliate…e per gli occhi…uhm…ehi! Te la ricordi la Bella Addormentata alla fiera di Soledad? No? Comunque, aveva gli occhi truccati di turchino, noi ce li facciamo uguali…” fece una piccola smorfia: “Peccato che tu non abbia il viso di Rosaspina. Hai questi maledetti tratti marcati…è obbligatorio addolcirli. Sì, un bel po’ di color turchino, e una spolverata d’insieme di quella soluzione ai brillantini che rende la pelle brillante”.
“Non è che alla fine sembrerò un pagliaccio?” mormorò Isadora. Natalie scosse decisamente il capo: “Ci si sposa una sola volta, Isadora”.
“Credi?” pensò la ragazza. Natalie annuì, finalmente soddisfatta: “Perfetto. Capelli alla Riccioli d’Oro, trucco alla Bella Addormentata, vestito alla Principessa sul Pisello. Un miscuglio ottimo”.
“Qualcosa alla Isadora no, eh?” pensò la sposina. Natalie era quasi commossa: “Sarai come tutte le altre, finalmente. La smetterò di vergognarmi di te”.
“Grazie” disse Isadora, aspra. Natalie però non captò il sarcasmo: “Di niente. Scusami un attimo, cara, vado a fissare un appuntamento da Madame Cheveaux” si ritirò in fretta.
Rimasta sola, Isadora sospirò e tornò a guardarsi allo specchio. Luccicava come un faro, ma solo all’apparenza. Si toccò la chioma: “Capelli alla Riccioli d’Oro” il viso: “Trucco alla Bella Addormentata” le paillette: “Vestito alla Principessa sul Pisello”. Era la sua favola. Come l’avrebbero ricordata? Come si sarebbe chiamata? Marchesa Fox? Lady Volpe?
Mentre andava alla finestra, accompagnata dal fruscio delle paillette, incontrò lo sguardo di Armageddon, appollaiato sul comodino. La guardava severamente. Isadora si sentì punta sul vivo: “Cosa c’è adesso?! Cosa vuoi che faccia?! È questo il mio destino. Non colpevolizzarmi!”
Ma Armageddon continuava a rivolgerle uno sguardo severo. Allora gli voltò le spalle, e si incamminò alla finestra: “Natalie aveva ragione. Natalie aveva ragione su tutto. Sono stanca di cercare di essere qualcosa di diverso” abbassò gli occhi: “È questo il mio ruolo in fondo”.
Già. Appoggiò una mano sul vetro: fuori, erano stati appesi striscioni e ghirlande con la sua iniziale e quella di Lord Fox. La coppia del mese. Tutti i cantastorie stavano già raccontando le gesta dell’intrepido Fox, e di come, con un astuto piano, avesse sottratto la sua bella al suo carcere. Tutti si sarebbero ricordati di lei come della  fanciulla prigioniera che non vedeva l’ora di esser liberata dal suo cavaliere.
“Chi sono io per impedirglielo?”
Tuttavia, non poté impedirsi di provare un senso di terrore al pensiero che l’indomani avrebbe sposato l’ambiguo Fox.
 
“Siete stato a dir poco eroico!”
Michael si sperticava in lodi, saltellando intorno ad un compiaciuto Lord Fox che si sistemava il completo di paillette allo specchio con le lucine. Aveva i capelli pettinati all’indietro con una lozione che glieli appiattiva e un orecchino con un diamante al lobo destro. Brillava tutto nella giacca e nei calzoni di paillette. Sorrise appena, con sufficienza.
“Dico sul serio” proseguì Michael: “Tutti parlano di voi e di come avete liberato la marchesina. Contro un orco! Ma come avete fatto?”
“Segreto del mestiere” rispose tronfio Lord Fox: “Sai, finora non ero mai entrato in una favola. Devo ammettere che è divertente. Domani, tutti crederanno che quello sarà il tanto atteso happy end. Non sanno che in realtà…”
“Non sanno che in realtà tra una settimana voi porterete la vostra neo consorte in un bosco immenso, a Borgofiorito, e che con la scusa di cercare legna da ardere la abbandonerete lì al suo destino!” gongolò Michael. Lord Fox sorrise e annuì: “Esatto. Per una storia fiabesca ci vuole una conclusione fiabesca. Nessuna mollica di pane o sassolino la salverà! In quel bosco vive un gigante che sarà ben lieto di spiaccicarla”.
“E voi erediterete i suoi cinquecento fiorini!” esclamò Michael. Lord Fox, però, fece una piccola smorfia: “Stavolta non si tratta solo dei soldi, Mike. Stavolta ci tengo davvero a vederla morire. È in assoluto la preda più interessante che mi sia capitato di accalappiare” fece una piccola pausa: “Domani sarà un grande giorno. Assisterà tutta Soledad. Niente al mondo potrà rovinarlo”.
Guardando fuori dalla finestra, sogghignò, perché sapeva che anche la sua vittima lo stava facendo.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** Alla locanda ***


CAPITOLO 13

 
 
 
 
 
 
L’ennesima sedia volò da una parte all’altra della stanza e si schiantò con un tonfo sordo sulla parete di pietra, scivolando al suolo senza una gamba. Katrina, disperata, che non osava farsi avanti per timore di essere colpita, disse con la voce ormai arrochita: “Padrone, vi prego, calmatevi!”
Lui rispose con un mezzo ruggito. Era al centro della sua stanza da letto, completamente devastata: il letto polveroso aveva le coperte a brandelli e il cuscino che aveva sparso piume tutt’intorno, frammenti di legno giacevano sul pavimento, gli arazzi pendevano dai muri stracciati, e c’erano sedie rovesciate, oggetti rotti e ciotole spezzate. Katrina, ferma sulla soglia, con le mani premute sul volto pallido, fissava disperatamente l’orco che fracassava tutto con furia cieca. Per la prima volta ne aveva paura: non l’aveva mai visto così infuriato, così fuori di sé. Ansimava, il petto che si sollevava ed abbassava rapidamente, la faccia contorta in una smorfia terribile, e gli occhi gettavano bagliori infuocati dappertutto, dandogli un’aria folle. I vestiti erano a brandelli. A volte gridava, altre urlava parole contorte.
Si scagliò contro un ripiano di legno, lo afferrò, lo sollevò sopra la testa come se pesasse meno di una piuma, gli fece fare un mezzo giro e lo lanciò con un grido contro il letto. Urtandolo, andò in pezzi, spargendo scaglie tutt’intorno. Katrina emise un gemito quando il botto riempì l’aria: “Padrone, smettetela!”
L’orco non la ascoltava. Se fosse stata invisibile avrebbe ottenuto lo stesso effetto. Cercò insistentemente qualcos’altro da distruggere. Tolse dalla parete un quadro antichissimo che raffigurava la foresta nei minimi dettagli. La vecchia domestica spalancò gli occhi: “No! Non il quadro di vostro padre!”
Non ci fu nulla da fare: l’orco scagliò il quadro a terra, e continuò a infrangerlo fino ad averlo distrutto completamente. A Katrina sembrò di udire il grido indignato del vecchio padrone. Erano giorni che lui fracassava il maniero con quell’aria folle, e non erano valse a nulla le sue preghiere, le sue parole, i suoi gesti. Aveva perfino rifiutato il cibo. Il peggio era che lei non sapeva più come fare.
L’orco colpì con una manata le corna di cervo infisse sopra al camino e le gettò nel fuoco. Prese a calci la ringhiera di ferro che lo separava da esso. Bruto, che era rimasto accanto a Katrina, perplesso dall’atteggiamento del padrone, si fece avanti cautamente e provò a tirarlo per l’orlo della casacca. L’orco si voltò, gli piantò addosso uno sguardo rovente, e rovesciò per terra un tavolino. Cadendo, questo sfiorò la coda di Bruto, che si ritrasse di scatto con un guaito. Tornò da Katrina con la coda tra le gambe. Lei tentò ancora: “Padrone, non è questo il modo di comportarsi. Dimostrate un’immaturità che non mi aspettavo da voi”.
“Tu non capisci niente, Katrina” urlò l’orco, uscendo di colpo dall’abisso del suo furore. La bruciò con le fiamme del suo sguardo: “Non capisci nemmeno lontanamente come mi sento…”
“So che soffrite…”
“NON È VERO!” gridò l’orco furibondo, scagliando contro il muro un vaso di vetro e rompendolo. Affermazione azzardata, dato che si vedeva lontano un miglio. Katrina gli parlò dolcemente: “Io vi capisco”.
“No, invece” replicò lui affannosamente: “Non puoi capire. Mi ha ingannato. Sapevo che sarebbe arrivata la pugnalata, ma ho lasciato che mi illudesse, ho lasciato che mi mentisse, ho lasciato che…”
“Io ancora non riesco a crederci” sussurrò Katrina. Era vero. Non riusciva a credere che Isadora li avesse ingannati. Sentiva che era stata sincera, l’aveva visto, l’aveva letto nei suoi occhi…l’affetto che provava per lei era ricambiato, ne era convinta. Non poteva credere a quanto aveva detto l’uomo dai capelli rossi. Non era da Isadora un simile comportamento. Ma d’altronde che altre spiegazioni c’erano?
“Se penso alle mie patetiche speranze…” gridò intanto l’orco, ancora intento a distruggere. Katrina lo guardò con pietà, ed era la prima volta. Sotto alla smorfia di rabbia, alle fiamme nei suoi occhi, c’era una sofferenza inaudita. Povero padrone. Se lei soffriva, poteva a malapena immaginare come si sentiva lui.
“Sarebbe stato meglio che non fosse venuta affatto” si sorprese a pensare.
No. Cosa le saltava in mente?! Isa, il tesoro che le aveva permesso di rivedere il suo villaggio, che le aveva tenuto compagnia nei giorni di duro lavoro…com’era possibile che fosse in realtà una serpe astuta? Mai, neppure una volta aveva intravisto la malignità nei suoi occhi azzurri.
“I sogni sono per gli stupidi” ringhiò l’orco, dando un calcio ad una lampada: “Mio padre lo diceva sempre”.
Katrina lo guardò tristemente: “Voi l’amate, vero, padrone? Siete innamorato di Isadora?”
Lo vide bloccarsi di colpo, come se l’avesse appena colpito un fulmine. La fissò ad occhi spalancati. La rabbia se n’era andata di colpo. Poi il suo volto si distese in una semplice smorfia di dolore, corse con uno strano sussulto alle spalle in direzione della tenda, vi si aggrappò, ci affondò dentro la faccia e prese a singhiozzare disperato. Era la prima volta che piangeva in tutta la sua vita. Katrina rimase stupefatta: “Padrone…”
“Lasciami solo” disse lui con voce tremante. Staccò un attimo il viso rigato di lacrime dalla tenda e la fissò, umiliato e furioso: “Vattene!”
Katrina obbedì senza discutere, tirandosi dietro Bruto. Capiva che l’orco non voleva farsi vedere in lacrime nemmeno da lei, e francamente quello spettacolo l’aveva riempita di una tristezza immensa.
Uscì dal maniero col cane alle costole e si diresse stancamente verso il calesse. Non sapeva perché, ma voleva allontanarsi da lì almeno per un po’. Salì a bordo, fece sedere accanto a sé Bruto, poi tirò le redini, i cavalli si mossero e si infilò nella foresta. Pensò al pianto del padrone. E un altro pianto le tornò alla mente: quello di Isadora prima che suo padre la portasse via.
“Come può averci ingannato? Isa?” disse rivolta al cane. Ebbe in risposta uno sguardo desolato. Forse non lo sapeva neanche lui. “E poi” proseguì la domestica: “Come può amare quell’uomo orribile? Aveva uno sguardo…assai poco raccomandabile. Non fa per Isa. Assolutamente!”
Il calesse stava uscendo dalla foresta, per i campi battuti dalla luna piena di Soledad. Lo sguardo strabico di Katrina si perse nel profilo color oro di quei campi sconfinati. Le parve di tornare giovane. Lei aveva avuto assai poco tempo per dedicarsi alle cose belle della vita: la tortura era arrivata fin troppo presto. Fino a poco tempo prima, era ridotta ad una povera derelitta che a malapena era conscia d’essere viva. Era stata Isadora ad illuminarle la vita, a darle un senso. Ora che se n’era andata, Katrina si sentiva di nuovo vuota.
“Non saremo mai felici senza di lei”.
Con aria abbattuta, accarezzò il testone di Bruto. Anche lui era triste: aveva le orecchie abbassate e stava tutto raggomitolato su se stesso. A Katrina uscì un singhiozzo: “Mi sento così sola, Bruto…”
Una luce soffusa catturò la sua attenzione, facendole sollevare lo sguardo: si era imbattuta in una vecchia locanda, un baraccone di legno con le finestre illuminate. Stupita, frugò nella gonna sudicia e ci trovò due fiorini risalenti ai tempi in cui Isadora era ancora con loro. Si diceva che un bel boccale di sidro attenuasse la depressione, a volte…
“Perché no?” fece Katrina. Saltò giù dal calesse e, con Bruto al fianco, si avviò decisa verso la locanda, che era preceduta da una trave con su scritto: L’AQUILA NERA.
Spinse la porta di legno e un calore soffocante la travolse. La locanda era uno stanzone ampio, di legno: in un angolo c’era un camino in cui ardeva il fuoco, accanto ad un largo bancone al quale un oste era intento a pulire un boccale con un fazzolettaccio. Per il resto era occupato da tavoli di legno a cui sedevano clienti intenti a bere, a ridere e a far battute. Katrina si fece avanti timidamente, stringendo tra le mani un lembo della gonna. Bruto procedeva guardingo, le orecchie tese.
Fu stupita da quanto la gente di Soledad fosse allegra: ovunque guardasse, c’erano solo facce sorridenti, risate e brindisi. Si sentiva quasi indegna di partecipare a quel quadro da favola.
Arrivò al bancone e richiamò timidamente l’attenzione dell’oste con un colpetto di tosse. Lui, un omaccione coperto di sudore, con un largo sorriso stampato in faccia, posò il boccale che stava pulendo e le rifilò un’occhiata sospettosa: “Ehi, nonna, ce li hai i soldi?”
Katrina arrossì fino alla radice dei capelli. D’accordo, non era molto pulita, d’accordo, indossava abiti cenciosi, e d’accordo, era denutrita e malsana, ma non era una poveraccia! Appoggiò i due fiorini sul bancone e l’oste sorrise: “Bene. Cosa ti porto, nonna?”
“Del sidro” balbettò Katrina. Lui annuì: “Vatti a sedere. Col sidro ti porto anche una ciotola di zuppa. Hai l’aria di averne bisogno. Offre la casa!”
Katrina arrossì ancora di più quando l’oste le strizzò l’occhio. Si sedette a un tavolo libero quasi di corsa, trascinandosi Bruto dietro. Essere in mezzo a tutta quella vitalità la stordiva: non era abituata. Scrutò placidamente la varia clientela della locanda. Poi l’oste tornò con il boccale di sidro per lei e una fumante ciotola di zuppa di carne: “Ecco a te, nonna. A buon rendere!” le sbatté davanti il pasto e poi andò al bancone. Katrina lo ringraziò con un cenno, poi bevve un lungo sorso di sidro. Il liquore le bruciò la gola e la costrinse a sputacchiare e tossire convulsamente. Bruto, allarmato, la tirò per la gonna. Katrina si riprese un poco, afferrò di nuovo il boccale e bevve un altro lungo sorso: “Non farmi da balia, Bruto. Stasera voglio ubriacarmi!”
Fu mentre era sul punto di ingollare il resto del sidro in un colpo solo che udì una voce compiaciuta esclamare: “Un po’ di pazienza, amici miei”.
Si girò di scatto, e anche Bruto lo fece, con un ringhio sommesso: due tavoli più in là, seduto in mezzo a una folla adorante, c’era l’uomo dai capelli rossi e gli occhi verdi che si proclamava fidanzato di Isa. Sedeva accanto a un ometto laido e placava con sorrisi e occhiatine la gente che si era assiepata intorno al suo tavolo.
Katrina saltò sulla sedia per la sorpresa. Frenetica, afferrò il cartoncino del menu appoggiato al suo tavolo e ci si nascose dietro per non farsi riconoscere. Sbirciò in direzione dell’uomo. Ahia. Non ci voleva. La iella l’aveva seguita fin lì. Era capitata nella locanda dove oziava l’ultima persona al mondo che desiderava vedere. Da dietro il menu, si rivolse a Bruto bisbigliando: “Iella nera, Bruto. Guarda un po’ chi c’è là”.
Il tizio, che doveva chiamarsi Lord Fox, se non ricordava male, era contornato da loschi figuri assai poco rassicuranti, che lo guardavano come se fosse il loro capo. Lui aveva stampato sulle labbra un sogghigno furbo. Katrina udì la folla esclamare: “Ti prego, raccontaci di domani!”
“Sì, raccontaci!”
“Presto detto” sorrise Lord Fox: “Siete tutti invitati al mio matrimonio con la marchesina Isadora, che si terrà domani mattina alle dieci, nella cattedrale di Soledad”.
Katrina provò una stretta al cuore: “Allora fanno sul serio” disse tra i denti. Non aveva voglia di torturarsi gratis. Era meglio andarsene al più presto. Uno dei brutti ceffi che contornavano il Lord fece un ghigno abominevole: “Ehi, Fox, a noi non la dai a bere: com’è che l’hai liberata dal maniero, veramente?”
Suo malgrado, Katrina si fece attenta. Lord Fox, dopo averci girato intorno per un po’, si chinò in avanti con atteggiamento cospiratore. Lei lo udì a malapena: “Un gioco da ragazzi. Sapete, a dir la verità la ragazzina non se la passava poi così male. Ma ho usato questo fatto a mio favore: ho finto di essere il suo fidanzato, ho mentito per quanto riguarda il piano, e ho messo l’orco contro di lei. Una messinscena perfetta. In realtà non c’è mai stato alcun piano: Isadora nemmeno mi conosceva”.
Katrina rimase a bocca aperta dallo choc, immobile al tavolo. Le parve che il cuore le si fermasse in petto. Era senza fiato. Un altro ceffo intervenne: “E così l’hai riportata a Soledad e convinta a sposarti?”
“Esatto” si vantò Lord Fox: “Isadora era disperata e triste, ma alla fine il padre l’ha convinta ad accettare la mia proposta. Ah, quell’idiota del marchese è diventato, senza saperlo, il mio complice più prezioso!”
Katrina aprì la bocca, ma ne uscì solo un mugolio incomprensibile. Non era possibile. Fissò Bruto esterrefatta, ma lui non poteva capire. L’ometto alla destra di Lord Fox bevve un sorso dal suo boccale: “E sapete come la ucciderà questa?”
“Una cosa divertente” disse Lord Fox: “La sposerò, poi, quando mi sarò assicurato il suo patrimonio, la lascerò sola in un bosco minacciato da un gigante pericolosissimo”.
Katrina lasciò cadere il foglio del menu. Era diventata pallidissima, e tremava come una pentola a pressione. Era inorridita. Quell’uomo orribile voleva uccidere Isadora per il suo patrimonio, e loro gliel’avevano consegnata senza obiettare, lasciandosi ingannare dal suo subdolo piano! Ah, ma lei se lo sentiva che c’era qualcosa che non andava. La povera Isa era sempre stata sincera, e, come loro, si era ritrovata coinvolta contro la sua volontà.
Piena di una comica rabbia, la vecchia domestica scattò in piedi, fissò minacciosa il tavolo a cui sedeva Lord Fox e si lanciò in avanti per dargliele di santa ragione. Bruto, però, che era un tipo poco impulsivo, la trattenne afferrandole la gonna tra i denti, ma Katrina, che non se n’era accorta, continuò per un bel pezzo a muovere passi che non faceva e a gesticolare nell’aria: “Brutto mascalzone, villano, assassino, cafone, se osi toccare Isa te la faccio vedere io!”
Fu solo quando si fu ripresa un po’ che ricominciò a ragionare. No. Non poteva agire adesso, lei era da sola, mentre loro erano in tanti. Cosa poteva fare una vecchia domestica? C’era bisogno di un piano d’azione. Ma cosa potevano fare? Il matrimonio era appena l’indomani! Isadora era in grave pericolo, e non sospettava nulla!!
“Calma, Katrina” si disse a mezza voce: “La prima cosa da fare è avvertire il padrone. Una cosa è certa: Isadora ha bisogno di noi!”   
Di colpo, Lord Fox voltò la testa verso di lei. Katrina si girò di scatto, afferrò un ventaglio da un altro tavolo e se lo piazzò sulla faccia per nasconderla. Il mascalzone non doveva accorgersi che l’aveva smascherato. Si avviò alla porta assieme a Bruto continuando a sventagliarsi col ventaglio. Fissò accigliata Lord Fox. “Gongola pure” borbottò: “Ma presto la pagherai! I crudeli vengono sempre puniti!”
“Che fai, nonna?” le chiese l’oste allegramente quando gli passò accanto: “Parli da sola?”
“Prendo un po’ d’aria” rispose lei. Uscì dalla locanda scoccando un’altra occhiataccia al mascalzone che li aveva ingannati tutti e che voleva uccidere Isa.
 
Quando tornò al maniero, dopo una corsa forsennata in calesse, la notte stava già lasciando il posto ad una pallida alba rosata. Katrina fissò angosciata la strisciolina di sole adagiata sull’orizzonte: il tempo scorreva. Era come se la vita di Isadora fosse appesa ad un orologio pronto a suonare le dieci.
Una volta di fronte al maniero, Katrina non attese nemmeno di fermare il calesse e già correva forsennatamente dentro alla costruzione. Passò in mezzo a cocci infranti, sedie rotte e mobili a pezzi senza fermarsi mai. Il cuore le batteva forte dentro alla gracile cassa toracica.
“Padrone!” chiamò. Non le rispose nessuno, così insistette: “Padrone!”
Superò la stanza da letto del padrone correndo, ma si bloccò di colpo e tornò sui suoi passi: l’orco era dentro, ma non distruggeva né fracassava più. Era una figura solitaria in mezzo ad un catafascio di mobili fatti a pezzi. Sedeva sul letto rovinato e le dava le spalle, la schiena curva. Non sembrava neanche essersi accorto di lei. Ansimando, Katrina si appoggiò allo stipite della porta: “Padrone…”
“Lasciami in pace” disse lui lugubre, senza voltarsi. Katrina, però, entrò nella stanza buia: “No, padrone, dovete ascoltarmi. Ho scoperto una cosa terribile che riguarda Isadora”.
A quel nome, l’orco serrò convulsamente i pugni: “Smettila di parlarne, Katrina”.
“Padrone, state a sentire…”
“Và via”.
“Insomma, padrone, state zitto un attimo!” Katrina alzò la voce, spazientita. Va bene, soffriva, ma la stava facendo troppo lunga. Per fortuna l’orco si azzittì, così poté andare avanti: “Non è come credevamo noi. Isadora non ci ha affatto mentito. L’uomo che la vuole sposare, Lord Fox, e che la sposerà domani, ha architettato un piano per spingerci a consegnargliela, e ora vuole ucciderla subito dopo le nozze per accaparrarsi il suo patrimonio!”
Prese fiato. Vide che l’orco si era fatto completamente immobile. Ad un certo punto, si voltò, l’espressione stranita: “Ma che cosa stai dicendo?”
“È la verità, padrone, ve lo giuro!” disse Katrina disperata, fissando il sole che saliva fuori dalla finestra: “So che è difficile da credere, ma dovete fidarvi di me. Isadora era sincera. Lei ci teneva a noi. È quel Lord Fox che l’ha incastrata. Ha inscenato quella pantomima per averla per sé. Non appena sarà sua moglie, potrà liberarsi di lei”.
Colse un barlume di speranza sul volto dell’orco, che morì subito. Lui scosse la testa brutalmente: “Perché mi tormenti così, Katrina? Sono ancora troppo debole per non ricominciare a sperare, e tu giochi con me”.
“Vi sembro in vena di giocare? Stiamo perdendo tempo. Isadora è in pericolo. E forse parlo solo per intuito, ma ho visto come si comportava durante il suo soggiorno qui…io penso che ci tenesse a me, ma soprattutto a voi”.
L’orco la guardava fissamente. Il dolore, la rabbia svanivano lentamente, lasciando il posto alla solita speranza, ma anche alla preoccupazione. Alla fine chiese piano: “Mi stai dicendo la verità?”
“Sì”.
“Lo giuri?”
“Lo giuro!”
L’orco si accigliò un attimo, poi: “Raccontami tutto di nuovo”.
Katrina lo fece, stando attenta a non tralasciare il minimo dettaglio. Durante il racconto, l’orco prima si alzò dal letto, poi assunse un’espressione carica di apprensione e di terrore. Alla fine, queste due cose stemperarono in una certa decisione. Prese un coltello dal muro e lo infilò alla cintura: “Dobbiamo impedire quel matrimonio” disse, deciso e furioso insieme: “Non permetterò che quell’uomo faccia del male a Isadora”.
“Ooh!” esclamò Katrina, sospirando di sollievo: “Finalmente vi è tornato il senno!”
“Dobbiamo sbrigarci” disse freddo l’orco. Allo stesso tempo, alla freddezza che usava quando doveva agire si univa il desiderio eroico di salvare Isadora: “Finché non sono sposati possiamo sperare di avvertire Isadora e suo padre”.
“Ma come facciamo?” chiese Katrina disperata: “Il matrimonio è solo alle dieci, e Soledad dista parecchio da qui!”
“Prenderemo il calesse, andremo alla massima velocità” sbottò l’orco. Gli occhi gli ardevano, ma stavolta dall’amore che provava per la ragazza: “Non chiedermi di fermarmi, non chiedermi di rallentare: non potrei. Quell’uomo mi ha ingannato per far del male a Isadora, e questo basta a firmare la sua condanna. Ma se osa torcerle anche un solo capello…”
“Così vi voglio!” disse Katrina. L’orco la prese per un braccio: “Andiamo”.  

 

Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** Lo voglio ***


CAPITOLO 14

 
 
 
 
 
 
Erano le nove. Isadora lo sapeva perché le campane della chiesa avevano suonato tre volte, facendola sobbalzare. Tra un’ora avrebbe sposato Lord Fox. Provava quasi repulsione per quel pensiero.
Si era lasciata preparare da Natalie come se fosse un pupazzo. Nel suo vestito di paillette, con i capelli arricciati in boccoli morbidi sotto al velo e il volto pesantemente truccato, tremava leggermente. Aveva paura. Era inutile illudersi. Non era pronta per quello che stava per fare. Anzi, si chiedeva addirittura perché aveva acconsentito tanto docilmente. Ma ormai era troppo tardi. Tutta Soledad stava andando ad assistere alle nozze, non poteva tirarsi indietro. Eppure sapeva, sentiva che lei e Lord Fox non avrebbero avuto una vita felice insieme.
Armageddon faceva lo sdegnato. Si rifiutava di infilarsi nella sua manica e ogni volta che lei provava a far pace, la guardava severamente. Il che era terribile: Isadora aveva bisogno di qualcuno che fosse dalla sua parte.
“Isa, dobbiamo cominciare ad avviarci” suo padre entrò nella camera dove l’avevano vestita e si bloccò sulla soglia, ammirandola con aria perplessa: “Stai…benissimo”.
“Magari” lei, come al solito, come rifugio dallo sconforto usava l’ironia: “Sembro un maialino parato a festa”.
Il marchese emise una risatina. Isadora si passò il dorso della mano sugli occhi ricoperti di trucco azzurro, che si erano irritati. Natalie l’aveva riempita di chili di trucco: rossetto rosa aggressivo che le faceva la bocca a forma di cuore, brillantini sparsi sulle tempie, una tonnellata di fard che faceva delle sue guance due cuscinetti rossi. Il pallore era ben nascosto. Per non parlare dei capelli, che erano stati trasformati in una montagna di boccoli che le dondolavano sulle spalle ad ogni passo: “Aspetta, ho cambiato idea” continuò con tono aspro: “Somiglio più a un faro. Farò fermare il traffico di carrozze”.
“Non essere così modesta” le disse il marchese gentilmente: “A me sembri… originale”.
Si scambiarono un sorriso, come ai vecchi tempi. Poi lei si lasciò sfuggire un gemito: “Oh, papà…ho tanta paura”.
“Di cosa?”
Ma Isadora non rispose, perché non lo sapeva nemmeno lei. Era più che altro un presentimento, un vago malessere. Si limitò ad abbassare gli occhi. Il marchese la prese per mano: “Gli invitati ci aspettano”.
“Di già?”
“Isa, sarà questione di mezz’ora. Abbiamo anticipato l’orario. Poi sarà tutto finito”.
Aveva terribilmente ragione.
 
“Presto, presto…” ansimò l’orco. Il calesse guidato da due cavalli correva a rotta di collo per i campi assolati di Soledad. Il profilo della cittadina era poco più di una macchia nera all’orizzonte. Katrina sedeva sul mezzo e vi si teneva aggrappata per quanto era veloce. Accanto a lei, l’orco aveva il viso stravolto dalla preoccupazione: era tardi, e loro non avevano ancora raggiunto la città. Fece sibilare il frustino sui corpi madidi di sudore dei due cavalli: “Di questo passo non arriveremo mai in tempo…”
“Non disperiamo” disse Katrina: “Non tutto è perduto”.
Ma anche lei aveva paura. Era una lotta contro il tempo, un nemico subdolo e invincibile.
 
Dentro alla cattedrale di Soledad era assiepata tutta la cittadina. Le panche di legno erano tutte occupate da invitati vestiti a festa che ridevano, chiacchieravano e facevano commenti sul matrimonio. Natalie, vestita di una lunga tunica rosa con un motivo di pietre luccicanti sul bustino, era seduta in prima fila accanto ad Anastasia e Genoveffa, gli occhi fissi sull’enorme orologio a pendolo piazzato accanto all’altare candido. Oltre l’altare c’erano due cuscini di velluto rosso su cui erano appoggiati gli anelli di Lord Fox, i cui diamanti brillavano nella penombra. Suonarono le nove e mezza, e la matrigna mormorò: “Ormai dovrebbe essere quasi l’ora”.
Accanto all’altare, Lord Fox attendeva con chiara impazienza nel suo completo luccicante. Michael, che gli avrebbe fatto da testimone, era proprio lì accanto, e faceva una ben misera figura accanto al compare. Lord Fox l’aveva piazzato lì anche per un altro motivo: doveva assicurarsi che tutto filasse liscio. Michael infatti era un vero ceffo, pronto a menar le mani al minimo accenno di guaio. Aveva radunato tutta la sua compagnia di criminali in terza fila, ed ora quegli omaccioni facevano crocchiare le dita minacciosamente, agitandosi sui loro seggi.
Lord Fox vide che ormai la chiesa era del tutto piena, e che tutti avevano preso posto. Il sacerdote che avrebbe officiato alla cerimonia comparve da una porticina nascosta che portava al monastero lì accanto nella sua tonaca bianca e si avvicinò all’altare. Fox pestò i piedi: “Ma quanto diavolo dovremmo aspettare ancora? Quella mocciosa mi sta dando fin troppi guai”.
“Abbiate pazienza, signore” disse Michael impacciato: “Sapete come sono le donne: quando devono prepararsi, i loro dieci minuti equivalgono a due ore”.
Lord Fox sbuffò: “Voglio concludere questo matrimonio in fretta e furia, Michael. Ho uno strano presentimento. Tieni i tuoi uomini pronti a intervenire”.
“Ma certo” sulle labbra di Michael si disegnò un ghigno malefico: “I ragazzi sono irrequieti come stalloni in calore. Sono rimasti inoperosi troppo a lungo. Nel caso si presentassero problemi, saranno delle furie umane”.
Lord Fox si limitò a guardare nervosamente l’orologio. In quell’attimo, uno dei suoi uomini che era stato messo a sorvegliare il portone della cattedrale, gridò: “Ecco la sposa!”
Lord Fox fece un sogghigno.
 
Il calesse si era finalmente immesso nella larga strada di terra battuta che portava alla capitale di Soledad. Il profilo della cittadina era più nitido, ma restava ancora abbastanza lontano, e i cavalli erano stremati. Schiumavano saliva dalla bocca.
L’orco era sempre più teso, Katrina più impaurita. I loro volti erano insolitamente pallidi. Avrebbero voluto poter volare, ma non era possibile. L’orco lanciò un grido per sfogare l’ansia: “Dannazione! Siamo partiti troppo tardi! Se avessimo scoperto tutto prima…”
“Calma, padrone” balbettò Katrina: “Arriveremo in tempo. È un matrimonio, non una maratona!” ma intanto si torceva le mani nodose: “Perché Soledad è così grande?”
 
Quando Isadora entrò nella cattedrale, tutti gli invitati si alzarono in piedi e applaudirono. Si sentì immediatamente frastornata da quella moltitudine, da quelle ghirlande che, al posto di fiori, avevano pietre preziose di inestimabile valore, da quell’organo che suonava la marcia nuziale. Anche suo padre, che la teneva a braccetto, batté le palpebre, a disagio.
L’energumeno piazzato davanti alle porte le rivolse un ghigno untuoso che la fece rabbrividire, poi le sbatté l’uscio alle spalle con un botto. La ragazza ebbe la sensazione di essere in trappola. Fu il marchese a doverla sospingere delicatamente tra le panche dense di gente festante. Camminò come in un sogno. L’abito di paillette la impicciava, e la gonna le dava fastidio. Quasi tutti i volti presenti in chiesa le erano estranei, tanto che si chiese perché fossero venuti.
Via via che si avvicinava, distingueva sempre meglio l’altare, il sacerdote, gli anelli e Lord Fox, che la attendeva col solito ghigno. Impallidì sotto gli strati di cipria. Aveva paura. Una paura folle. Si osservava agire dall’esterno, e avrebbe voluto gridare a quella ragazza conciata come una lampadina: “Ferma!” ma era incatenata da qualcosa che non capiva. Alla fine, quando fu a un passo dal Lord e dall’altare, fissò il marchese. Lui le rivolse uno sguardo di incoraggiamento, le strinse il braccio, poi si allontanò per andare a sedersi in prima fila accanto a Natalie. Lei si tese e gli bisbigliò: “Ci siamo”.
“Ci siamo” rispose il marchese. Anche lui si sentiva in difficoltà, anche se non sapeva perché.
Isadora, tremando in modo impercettibile, si affiancò a Lord Fox di fronte all’altare. Lui le sorrise: “Sei uno splendore, mia cara”.
“Questo vestito è perfetto per il suo funerale” pensò nel frattempo.
Si inginocchiarono sull’altare dove il sacerdote aveva sollevato le braccia in un gesto benedicente. Tutti gli invitati tacquero. Poi il religioso esclamò: “Cominciamo”.
Recitarono una preghiera cui Isadora partecipò passivamente. Si sentiva svuotata. Si calò il velo sul viso con discrezione per nascondere la paura che vi si leggeva. Sbirciò verso Lord Fox. Pregava con grande fervore, ma aveva negli occhi il solito luccichio sinistro.
Poi poterono alzarsi in piedi. Il silenzio era densissimo. Il sacerdote aprì la bocca: “Siamo qui riuniti quest’oggi per unire quest’uomo e questa donna nel sacro vincolo del matrimonio. Il matrimonio…”
“Ehm, ehm” tossicchiò Lord Fox. Il sacerdote lo fissò, stupito. Lui fece un sorriso carismatico: “Perdonate, sarebbe possibile saltare tutti i convenevoli e andare subito al sodo? Io e la marchesina siamo ansiosi di concludere la faccenda in fretta”.
Isadora lo fissò sperduta. Perché accelerare i tempi? Non correva loro dietro nessuno. Dopo un primo momento di sbalordimento, il sacerdote scrollò le spalle: “Beh, sì…sì, si potrebbe fare. È poco ortodosso, ma si può fare. Bene, passiamo direttamente allo scambio degli anelli!”
 
Il calesse giunse finalmente nella periferia della cittadina di Soledad. L’orco e Katrina trassero un unanime sospiro di sollievo. Ma l’ansia non se n’era andata: cosa stava succedendo in chiesa?
Il calesse si infilò a tempo di record nelle vie vuote di Soledad. Non c’era nessuno: le case erano sgombre, le vie spoglie, i sobborghi vuoti. Sembrava una città addormentata. Katrina commentò a bassa voce: “Saranno tutti al matrimonio…”
L’orco, accanto a lei, era pieno di ansia e pieno di timore. Scosse le redini con forza, facendo un paio di manovre. Strinse gli occhi: “Dove diavolo è questa cattedrale?”
“Non c’è nemmeno qualcuno a cui chiedere indicazioni” disse desolata la domestica. L’orco le fece cenno di star zitta. Restò qualche attimo in silenzio, poi sussurrò: “Lo senti?”
Lei tese l’orecchio. Si udiva nell’aria, appena percettibile, il suono di una marcia nuziale. Annuì. Gli occhi dell’orco si riempirono di disperazione: “È già cominciata”.
“Muoviamoci!” gridò Katrina. L’orco spinse di nuovo alla corsa i due cavalli. Presero una larga via contornata da statue di marmo, poi lui fece per girare a destra, ma Katrina urlò: “No, a sinistra!”
“È a destra” sbraitò l’orco. La domestica scosse il capo: “No, padrone, a sinistra”.
“Ti dico che è a destra”.
“A destra c’è l’eco, ma la musica viene da sinistra!”
“Mi stai facendo perdere tempo!” urlò l’orco esasperato. Ma andò a sinistra. Katrina ansimava per l’ansia: “In fretta, in fretta…”
 
“Fox, figlio di Gerald, vuoi tu prendere questa donna come tua legittima sposa, e amarla e onorarla finché morte non vi separi?” chiese il sacerdote con voce solenne. Gli invitati, emozionati, rivolsero la loro attenzione a Lord Fox, che teneva fra le mani uno dei due anelli. Sorrise e disse con sicurezza: “Ma certo che lo voglio!”
Prese la mano inerte di Isadora e le infilò l’anello all’anulare con forza. Lei sussultò. Era sempre più pallida e terrorizzata. Le sembrava che la sua vita si stesse consumando in quei pochi attimi. Era rimasta inerte per tutto il tempo, ma dovette affrontare il momento tanto temuto quando il sacerdote, sorridendole, si rivolse a lei: “E tu, Isadora, figlia di Marian, vuoi prendere quest’uomo come tuo legittimo sposo, e amarlo e onorarlo finché morte non vi separi?”
Gli occhi di Isadora si fecero grandi di terrore. Strinse convulsamente l’altro anello. Guardò verso suo padre sperando in un po’ di conforto, ma lui era rivolto a Natalie. Allora tornò a fissare l’impaziente Lord Fox e il perplesso sacerdote: “Io…” bisbigliò con un fil di voce: “Io…”
Spazientito, Lord Fox le mise la mano sinistra davanti alla faccia e fece un colpo di tosse. Isadora uscì dalla trance, chiuse lentamente gli occhi e, infilandogli l’anello, mormorò, rassegnata: “Lo voglio” non vide il sogghigno da vincitore che gli si stampò sulle labbra. Chinò il capo, e capì di essere sconfitta. Il sacerdote sollevò in alto le braccia: “Io vi dichiaro marito e mogl…”
Il rumore della porta che veniva spalancata risuonò secco su quelle parole. Tutti, con un mormorio perplesso, si girarono verso l’entrata della cattedrale. Isadora e Lord Fox si voltarono con un sussulto. L’energumeno alla porta giaceva per terra svenuto, mentre due sagome, una imponente e l’altra scheletrica, correvano frenetiche verso l’altare. Lord Fox non si scompose, ma sbuffò: “Inutili complicazioni”.
Le due sagome andarono definendosi sempre più. Un grido d’orrore serpeggiò tra la folla: un orco! C’era un orco nella cattedrale, ansimante e minaccioso, e accanto a lui una specie di caso umano. In molti si alzarono, alcuni svennero. Gli scagnozzi di Lord Fox si mossero irrequieti sulle panche, ma Michael li trattenne con un cenno.
Quando Isadora riconobbe l’orco, il viso per un attimo le si illuminò, e le labbra parvero accennare un sorriso. Poi però si vide l’anello al dito, e si oscurò di nuovo. Era la moglie di Lord Fox, ora. Si rimproverò per quel fremito che l’aveva scossa. In prima fila, il marchese stava tentando di rianimare Anastasia e Genoveffa che avevano perso i sensi.
L’orco, un’espressione decisa sul viso, corse verso l’altare con Katrina alle calcagna. Lord Fox lo attese con espressione sprezzante, poi, quando fu lì accanto, disse a voce alta: “Cosa ci fai qui, orco? Questo non è il tuo territorio”.
L’orco digrignò i denti e lo fissò con furore: “Mi hai ingannato, maledetto!”
“Ah” rise Lord Fox. Si rivolse alla folla: “L’orco viene qui a lamentarsi della mia eroica impresa!”
“Smettila di fingere” sibilò l’orco. Sembrava tentato di balzargli addosso e di distruggere il suo ghigno compiaciuto: “Loro non conoscono la tua vera natura, giusto? Non sanno cosa hai intenzione di fare”.
“Stai farneticando” disse noncurante Lord Fox: “Rovini un giorno felice”.
“Sei tu che hai rovinato tutto. Ti sei preso quattro vite, e ora ne pretendi un’altra!”
Vi fu un mormorio concitato. Lord Fox, per risposta, scoppiò in una risata sguaiata: “Secondo te do peso ai vaneggiamenti di un orco?”
“Brutto mascalzone!” strepitò Katrina, furibonda quanto l’orco: “Ti abbiamo smascherato. Vuoi uccidere Isadora per ottenere il suo patrimonio!”
“Cosa?” Isadora bisbigliò quelle parole con voce appena udibile, spalancando gli occhi. Un gelo intenso le ghiacciò le membra. L’orco allora fece qualche passo avanti e, rivolgendosi a lei, lo fece con la vecchia espressione gentile: “Isadora, ascoltami” le disse: “Quest’uomo ci ha ingannati entrambi. Devi andar via di qui al più presto. Sei in grave pericolo!”
Lei lo fissò ad occhi spalancati, ma non si mosse: “Io non capisco…”
“Isa, è la verità!” intervenne Katrina: “L’ha già fatto con quattro mogli!”
“Vi proibisco di parlare a mia moglie” disse Lord Fox, interrompendoli. Afferrò un polso di Isadora, che emise un piccolo gemito, e indicò il diamante che le brillava all’anulare: “Già, perché è mia moglie, ed è sotto la mia responsabilità. Ora andatevene e lasciateci continuare la festa. Non ve lo chiederò un’altra volta”.
“Stammi a sentire!” l’orco alzò la voce, avanzò ancora e gli puntò contro l’indice: “Non ti permetterò di farle del male!”
La folla bisbigliava, eccitata e perplessa da quelle rivelazioni. Lord Fox, senza perdere il contegno, la chiamò in causa: “A chi credete, signore e signori? Al buon Lord Fox che vi ha sempre aiutati, o a quest’orco e questa vecchia pazza che spuntano da chissà dove?”
Isadora fissò prima lui, poi l’orco e Katrina. Era confusa. Non capiva più dov’era la verità e dove la bugia. E quegli avvenimenti frenetici le mettevano paura. L’orco salì alcuni dei gradini che conducevano all’altezza dell’altare: “Isadora, anche per me è stato facile credere ai suoi inganni, ma credimi, ti scongiuro: vuole farti del male!”
Sembrava così disperato, che Isadora iniziò a chiedersi se le cose orribili che sosteneva di aver scoperto erano vere. Lord Fox le rivolse un sorriso rilassato: “Non dargli ascolto, moglie mia. Io non ti farei mai del male. Ti ha forse creduto quando eri sincera? No, ti ha ributtato la tua sincerità in faccia. Perché dovresti credergli?”
Isadora fece una smorfia di dolore. Era sempre più confusa. L’orco, disperato, le allungò una mano: “Non lasciarti raggirare, Isadora, non commettere il mio stesso errore!”
“Vuole solo vendicarsi per quello che crede che tu gli abbia fatto” le bisbigliò in un orecchio Lord Fox: “Vuole privarti di questa felicità, vuole distruggerti. Lui è il cattivo della storia, Isadora. Non lasciare che ti trascini alla rovina”.
“Io…” disse lei sperduta, prendendosi la testa fra le mani: “Io…”
Stavolta a prendere la parola fu Katrina, facendosi coraggiosamente avanti: “Stammi a sentire, Isa: io sarò assolutamente sincera. Quell’uomo è pericoloso. Vuole abbandonarti in una foresta e lasciarti lì a morire. Se gli credi, sarai spacciata”. 
Isadora si sentiva sempre più sperduta. Da una parte c’erano l’orco e Katrina e tutte le cose belle che aveva passato con loro…dall’altra il suo attuale marito, colui che le prometteva agi e gioielli. A chi doveva credere?
Frattanto l’orco e Katrina erano sempre più vicini all’altare. Lui la fissò, e lei gli vide in viso quella dolcezza che sembrava aver abbandonato per sempre: “Qualunque sia la tua scelta, Isadora, io non lascerò che ti uccida”.
Lei ebbe un fremito. In fondo, che motivo avevano di mentirle, lui e Katrina? Erano venuti fin lì, avevano viaggiato così tanto per lei, e solo per dirle bugie? Non era da loro. Lord Fox invece? Non sapeva nulla di lui, e aveva già mentito una volta. Voleva davvero ucciderla?
Accennò un passo verso l’orco. Lui sorrise, pieno di un incauto sollievo, e lentamente anche lei sorrise, e si sentì ingenuamente felice che tutto fosse sul punto di tornare a posto.
Non appena si accorse che la bilancia pendeva a favore del rivale, Lord Fox lanciò un’occhiata a Michael. Bastò questo: il suo compare schioccò le dita, un suono secco e terribile.
Gli scagnozzi seduti in terza fila non aspettavano altro. Al segnale scattarono in piedi tutti insieme, formidabili nella loro furia, e si scagliarono in contemporanea verso l’orco e Katrina. Isadora si bloccò, piena di una terribile sorpresa, e lo stesso fece l’orco. Poi venne travolto con la sua domestica dai quindici energumeni.
Su Katrina ne bastarono due: per quanto urlasse indignata e si dibattesse, era vecchia e debole, e, afferrandola per le spalle, la immobilizzarono, evitando facilmente i morsi e i calci che dava all’aria.
Il numero restante si occupò dell’orco. Lui li fissò e si mise in posizione d’attacco, guardandoli ferocemente. Non si fecero impressionare: gli arrivarono addosso da ogni parte, allungando le mani per immobilizzarlo. La furia che gli animava il viso si mescolò alla sorpresa e alla paura.
Nel vedere la scena, gli occhi azzurri di Isadora si fecero grandi dall’orrore: “No!” gridò disperata.
I tredici scagnozzi accorsi ad assalire l’orco lo afferrarono per le braccia. Lui lanciò un ringhio e scosse le spalle per scrollarseli di dosso. Ottenne soltanto che si allontanassero leggermente. Subito tornarono alla carica. Riuscì ad abbatterne uno polverizzandogli i connotati con un pugno e a metterne fuori combattimento un altro con una testata, ma si ritrovò di nuovo immobilizzato da tutte quelle mani. Lottò per liberarsi dalla presa, dibattendosi in modo impressionante. Gli energumeni strinsero la presa, torcendogli i polsi. Si lasciò sfuggire un gemito.
“Fermi!” urlò Isadora, le lacrime che le scorrevano sulle guance che le lasciavano strisce pallide sul fard. L’orco si liberò di un avversario scagliandolo lontano con una scrollata di spalle. Si dibatteva con sempre maggior foga. Sul volto restava impressa una rabbia mista a profondo sconforto. I suoi movimenti si fecero più deboli mentre la presa su di lui raddoppiava.
“Lasciatelo andare!” gridò Isadora. Con una smorfia di disperata ansia in faccia, fece per lanciarsi in avanti ad aiutarlo, ma Michael scattò, veloce come una serpe, e l’afferrò per la vita, premendole una mano sulla bocca: “Tu non vai da nessuna parte, dolcezza”.
Fu solo la vista della figlia che giaceva nelle grinfie dello scagnozzo a scuotere il marchese. Acquistò un coraggio raro e corse verso di lei con aria accigliata. Fissò Lord Fox che assisteva alla scena compiaciuto: “Ma cosa diavolo state facendo? Ordinate al vostro bravaccio di liberare immediatamente mia figlia!”
“Caro marchese” sogghignò Lord Fox: “Vostra figlia non vi appartiene più. È mia moglie, ora”.
Il marchese lo fissò a bocca aperta. Poi gli puntò contro un dito accusatore: “Brutto furfante! Vi siete approfittato di me!”
“La verità fa male, eh?” disse Lord Fox. Fece un cenno allo scagnozzo della porta, che si era ripreso. Lui agguantò il marchese senza una parola. Il poveretto diede un paio di scossoni: “Toglimi le mani di dosso!”
Isadora, intanto, si dibatteva disperata nella stretta ferrea di Michael, nel tentativo di difendere l’orco, che era sempre più in difficoltà. Ma era tutto inutile, e le dita che le soffocavano la bocca le impedivano anche di attirare la sua attenzione. Lord Fox la contemplò, poi contemplò il furioso marchese che si dimenava lì accanto: “Michael, Gervase, chiudeteli nella sala della preghiera al secondo piano. Mi occuperò in seguito di loro” poi, avvicinandosi ad Isadora, le sfiorò il viso: “Per i tuoi amici ho pronta una cella nei sotterranei”.
Gli occhi di lei sprizzarono scintille. Si sforzò fino allo spasimo per liberarsi, ma perse ancora. Si vide trascinata contro la sua volontà verso la piccola porticina che conduceva al monastero, accanto a lei suo padre, anche lui impotente. Natalie, vigliacca, si era confusa tra la folla. Isadora levò gli occhi verso l’orco, ormai immobilizzato dal numero esorbitante di avversari. Doveva salvare almeno lui…quando Michael la stava tirando oltre la porta, assestandogli un morso sulla mano riuscì per un attimo a liberarsi dalla sua presa sulla bocca e ne approfittò per gridare più forte che poté: “Fuggite! Mettetevi in salvo!”
Nell’udire la voce l’orco sussultò e sollevò la testa, accorgendosi di Michael che trascinava via Isadora. Allora per un attimo parve riacquistare tutta la sua immensa forza: “Isadora!” urlò disperato. Forzandosi al limite, liberò un braccio e abbatté uno scagnozzo colpendolo allo stomaco: “Isadora!” ripeté. Cercò di avvicinarsi a lei, ma era circondato. Il marchese era già stato trascinato fuori dalla porta, e Isadora e Michael erano sulla soglia. Lei sapeva che se l’orco avesse continuato a ribellarsi, Lord Fox gli avrebbe fatto qualcosa di terribile: “Scappa! Non pensare a me, torna al man…” ma prima che potesse concludere la frase, Michael tornò a premerle la mano sulla bocca: “Taci, brutta serpe”.
“Lasciala andare!” continuò a urlare l’orco, cui la disperazione sostituiva la rabbia. Era di nuovo immobilizzato dalla moltitudine, e tendeva la mano verso la coppia sulla porta: “Isadoraa!” fu un grido di puro sconforto.
Michael superò la porta. Isadora fissò l’orco con occhi disperati, sperando, pregando che se ne andasse…ma il suo aguzzino la trascinò con sé, e non riuscì più a vedere niente.
Il braccio che l’orco era riuscito a liberare venne di nuovo immobilizzato. Isadora era stata portata via col marchese. La disperazione lo assalì, e gli occhi gli si offuscarono. Rimase a dibattersi inutilmente accanto a Katrina.
Lord Fox avanzò lentamente verso di loro, godendosi la loro impotenza. Osava andargli vicino solo ora che erano disarmati e immobilizzati. Si fermò di lì a un passo. L’orco lo fissò con occhi così fiammeggianti che, se avessero potuto, l’avrebbero incenerito all’istante: “Maledetto!” gli urlò in faccia. Lord Fox si limitò a sorridere: “Pensavi davvero di potermi battere? Io vinco sempre, orco. Io sono pieno di risorse, tu invece che cos’hai dalla tua?” lo scrutò sprezzante: “Una domestica fuori di testa e l’amore. Due ben misere risorse”.
L’orco gli restituì uno sguardo pieno di collera disperata. Lord Fox sbuffò e si rivolse ai suoi scagnozzi: “Imprigionateli nei sotterranei”.
“La pagherai, assassino” sibilò Katrina. Lei e l’orco furono trascinati via senza che potessero opporsi.
 
“Non può finire così!” gridò Tom disperato, interrompendo bruscamente il cantastorie: “Isadora e l’orco non possono perdere!”
Tutti lo fissarono stupefatti. Aveva lentamente abbandonato la sua aria sostenuta e si era fatto coinvolgere al punto da intervenire con tale foga. Accorgendosene, arrossì e borbottò: “Beh?”
“Lieto di vederti così partecipe, Tom” commentò il cantastorie. Il ragazzino arrossì ancora di più: “Voglio solo dire che non può finire in questo modo”.
“Questo lo pensiamo tutti” disse Annie: “Quel Lord Fox è troppo cattivo per vincere”.
“Lo penso anch’io” rispose il cantastorie. Tom lo accusò: “E allora perché avete raccontato che riusciva a imprigionarli tutti?”
“Calmati un attimo” replicò lui: “Io riferisco quanto è accaduto con fedeltà. E poi è divertente creare un po’ di pathos, non credete?”
“Andate avanti!” gli intimò Tom. Il cantastorie sorrise: “Ai tuoi ordini”.
Il ragazzino arrossì, capendo di essere stato scortese: “Per favore” aggiunse.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 16
*** L'utilità di un topo di campagna ***


CAPITOLO 15

 
 
 
 
 
 
Michael e Gervase, l’altro scagnozzo, trascinarono Isadora e il marchese all’interno del monastero che comunicava con la cattedrale. Senza tante cerimonie, li condussero ad una piccola porta di legno al secondo piano, che aprirono brutalmente. Si aprì su una stanzetta di pietra, con un inginocchiatoio in un angolo e una finestrella nel muro. Il pavimento era coperto da uno stinto tappeto rosso. Un crocefisso era appeso da un chiodo accanto all’inginocchiatoio.
“Benvenuti nella vostra nuova tana, Vostre Eccellenze” biascicò Michael. Lui e il suo compare spinsero padre e figlia dentro la stanzetta. Il marchese rotolò sul tappeto, ma Isadora si rialzò immediatamente e si gettò verso la porta con furia. Michael si ritrasse, li chiuse dentro e girò la chiave nella serratura. Quando la ragazza raggiunse la soglia, era troppo tardi. Al culmine della disperazione, batté i pugni sul legno inutilmente: “Fateci uscire!”
Continuò così per un bel pezzo mentre il marchese la osservava abbattuto dal pavimento. Lentamente, i colpi di Isadora si fecero sempre più deboli, e alla fine lei si lasciò scivolare a terra piangendo: “È tutto inutile…”
Il marchese la abbracciò stretta: “Non piangere, Isa. Ce la caveremo, vedrai” le accarezzava i capelli, che da boccoluti si stavano ammosciando. Lei scosse la testa e si strappò di dosso il velo: “È tutta colpa mia. Sono io che ho accettato di sposarlo”.
“No, Isadora. È colpa sua. Lui ci ha ingannati tutti, si è preso gioco di noi” la consolò il marchese, stringendola. Isadora continuava a piangere con forza: “Farà del male ai miei amici, papà. Io non posso permetterlo, non posso…” le parole le morirono in gola. Il marchese si separò da lei e la guardò stupito: “Isa!” esclamò: “Perché non me l’hai detto subito? Tu ti sei affezionata a…”
“È così, papà. E ora vi ho condannati tutti. L’ho condannato per una decisione affrettata. Se siamo chiusi qui è soprattutto merito mio” singhiozzò lei. Non si era mai sentita così priva di speranza. Era chiusa in quella stanza, e non poteva far nulla per uscire. Ma non poteva arrendersi! Doveva andare avanti per Katrina e suo padre, ma soprattutto per l’orco.
Si alzò e, barcollando, si diresse verso la finestra. Forse potevano fuggire da lì…ma quando si sporse, vide sotto di sé solo il vuoto, una voragine oscura di morte. Era impossibile a ognuno di loro di arrampicarsi sulle asperità delle mura della cattedrale. Si ritirò dalla finestra con crescente sconforto. Si passò la mano sul viso per toglierne con furia gli ultimi rimasugli di trucco. Il marchese giaceva accanto all’inginocchiatoio respirando appena. Anche lui non aveva idea di cosa fare.
Il rumore della chiave che girava nella serratura li fece sobbalzare. Si strinsero l’uno all’altra, appiattendosi contro la parete. Lord Fox entrò nella stanzetta seguito da Michael, che si piazzò a difesa della porta. Si avvicinò alla coppia tremante col ghigno da vincitore stampato in faccia. Isadora provò per lui un odio profondo. Suo marito. L’essere abominevole che li aveva chiusi lì dentro. La contemplò sornione: “Che peccato, cara. Ti si è sciupato il vestito, che è di gran lunga più prezioso di te”.
Lei digrignò i denti, ma non disse nulla. Lord Fox si inginocchiò alla loro altezza: “Sai, sei l’unica delle mie cinque mogli a cui mi sia mostrato per quello che sono. Dovresti ritenerti fortunata”.
Isadora gli sputò un fiotto di saliva al centro degli occhi. Lo fissò con un evidente sguardo di sfida. Lord Fox si ritrasse bruscamente. Senza fare una piega, si asciugò lo sputo dal viso, poi, altrettanto pacatamente, colpì la ragazza con uno schiaffo violentissimo. Lei accusò il colpo gemendo debolmente. Al marchese prese un colpo e strinse a sé la figlia: “Come osate?”
“Oso” disse Lord Fox con molta calma: “Ora è mia moglie e non deve permettersi di sfidarmi. Sono stato chiaro, sgualdrinella?”
Isadora aveva la mano appoggiata sulla guancia colpita e gli occhi lucidi. Non annuì, ma lo fissò con terrore. Lord Fox accostò il volto al suo: “Ho cambiato idea. Non ti porterò in nessuna foresta. Sarebbe una morte troppo elegante per una come te” fece una pausa, godendosi l’effetto delle sue parole: “Ti lascerò qui a marcire con tuo padre. Farò murare la porta e rimarrete in questa stanza senza né cibo né acqua”.
Isadora impallidì: “Sei un mostro…”
“Grazie, mi lusinghi” commentò Lord Fox: “Ma in realtà la cosa ha un significato poetico: un tempo le adultere venivano murate vive. Tu in un certo senso lo sei. Avanti, non guardarmi così: ti permetto di morire con tuo padre. Speriamo che sia tu la prima a soccombere. Poi, dopo molti anni, quando mi starò godendo gli ultimi fiorini del tuo patrimonio, farò abbattere il muro e mi gusterò la gradevole visione dei vostri scheletri abbracciati!” scoppiò in una risata folle e crudele. Isadora venne scossa da un fremito di terrore, ma con coraggio lo guardò negli occhi: “Che ne è dei miei amici?”
“Ah, loro” ghignò Lord Fox: “Li ho fatti rinchiudere nei sotterranei. Sai, ci sono molti sudditi di quell’orco i cui parenti erano stati rapiti e uccisi dal padre. Sono un pochino vendicativi. Saranno contenti di potersi sfogare su due prigionieri inermi”.
Gli occhi della ragazza divennero grandi di terrore: “Lasciali andare” disse con un fil di voce: “Loro non c’entrano niente. Farò qualunque cosa…”
“Ah, ma tu mi hai già ceduto il tuo patrimonio” sorrise Lord Fox: “Non voglio nient’altro da te. Non mi servi più”.
“Ho sempre saputo che eri una canaglia, fin da quando mi sorridesti in cucina” gridò Isadora. Lord Fox rise e si alzò: “Eppure mi hai sposato, mogliettina mia” la vide accasciarsi, annientata: “Sogni d’oro!”
Si ritirò e uscì dalla stanza. Michael scoccò un’occhiata divertita ai due prigionieri, poi uscì a sua volta, chiudendosi la porta alle spalle. Qualcosa cadde dalla sua casacca, ma Isadora non la notò subito. Era disperata, e le sembrava che tutt’intorno a lei ci fosse buio. Voltandosi, vide che il padre giaceva supino sul pavimento, semisvenuto: “Papà!” si inginocchiò accanto a lui e gli diede qualche schiaffo: “Reagisci, papà!”
Lui aprì debolmente gli occhi e fissò il soffitto spoglio della stanzetta con uno sguardo stralunato: “Murare la porta…niente acqua…scheletri…” balbettò.
“Stai su” gli disse Isadora. La porta venne aperta di nuovo e lei si voltò con un sussulto. Era di nuovo Lord Fox, che stavolta rimase sulla soglia: “Dimenticavo!” esclamò: “Voglio farvi un favore” gettò un pugnale sul pavimento: “Un regalo. Lo si concede sempre a chi è spacciato. Sapete, dopo alcuni giorni che passerete senza cibo né acqua, quel pugnale assumerà un’aria molto interessante. Addio!” scomparve ancora.
Isadora fissò la porta con aria accigliata, poi si alzò e si chinò a raccogliere il pugnale. Il marchese la fissò ad occhi sbarrati: “Non lo troverai già interessante, Isa!”
“Ma che dici? È solo che potrebbe tornare utile” rispose lei. Se lo infilò nel corpetto dell’abito rovinato. Poi attese. Sarebbe davvero finita così? Suo padre non le era di nessun aiuto, e neanche il pugnale che aveva infilato nelle vesti. Non c’era la possibilità di aiutare l’orco e Katrina? Ah, se solo il cielo le avesse mandato un miracolo!
All’improvviso una cosina minuscola sfrecciò attraverso la serratura e piombò stordita sul pavimento. Isadora sobbalzò, il marchese uscì un attimo dalla sua apatia. La cosina bianca sollevò la testolina e la fissò affettuosamente. Isadora lo riconobbe: “Armageddon!”
“Perfetto. Lui sì che ci aiuterà” commentò sarcastico il marchese. La ragazza prese il topolino fra le mani: “Armageddon! Pensavo che fossi arrabbiato con me!” lui le sfiorò la guancia col musetto. L’aveva perdonata. Commossa, Isadora se lo accostò al viso e si sfregarono naso contro naso. Il marchese emise un colpo di tosse: “Non per interrompere l’idillio, ma il tempo stringe, e io ho già fame!”
Isadora si riscosse e si portò Armageddon al petto, preoccupata. Era contenta di averlo ritrovato, ma effettivamente non poteva far nulla per loro…fu solo allora che si accorse dell’oggetto che Michael aveva perso. “Ehi!” si chinò a raccoglierlo, perplessa. Se lo rigirò tra le mani: “Una chiave?”
“Forse la nostra chiave?” chiese il marchese speranzoso. Isadora la infilò nella serratura, ma non riuscì a girarla: “No” sentenziò infine. In effetti la chiave usata da Michael per rinchiuderli era diversa: grande e d’ottone. Questa qui era piccola e argentata. Aveva un’aria familiare…all’improvviso ricordò dove l’aveva già vista e il viso le si illuminò: “Ma certo! Ce l’aveva Michael alla cintura quando mi ha trascinata via! Dev’essere la chiave che apre la cella dei miei amici”.
Il marchese sbuffò: “E cosa ce ne facciamo noi?”
Isadora si accigliò. Doveva riflettere. Intensamente. A passi lenti tornò alla finestra, si sporse giù. Sì, era impossibile scavalcarla per un essere umano, però il muro di cinta della cattedrale correva giù fino ai sotterranei…e c’erano uno o due stretti cornicioni collegati tra loro, senza contare le larghe finestre ogivali e le statue di marmo di sant’uomini che pendevano dalle mura. Calcolò velocemente le possibilità di giungere ai livelli inferiori calandosi dalla finestra…nessuna per un essere umano, ma per qualcuno di piccolo e agile…
“Armageddon” decise infine, fissando il topolino in piedi sulla sua mano destra: “Te la senti di affrontare un’impresa?” lui le rispose con un brillio negli occhietti. Il marchese sollevò un sopracciglio: “Che?”
“La vedi questa?” mostrò la chiave al topolino, che fece un cenno della piccola testa: “Bene. Devi portarla dall’orco. Ti ricordi di lui, vero?” Armageddon rispose con un altro cenno della testa. Ricordava. Gliel’aveva presentato l’ultimo giorno che era stata al maniero. Isadora sorrise: “Portala da lui, Armageddon. Lo aiuterà. Poi verrete a liberarci”.
“Perfetto!” esclamò il marchese, esasperato: “Affidiamoci al topo! Ci salverà!”
Isadora non si prese la briga di ascoltare i suoi borbottii. Prese il pugnale e recise un lembo della gonna di paillette. Tanto era già rovinato, il vestito. Passò il nastro attorno al piccolo collo di Armageddon e ci legò insieme la chiave, che per fortuna era di piccole dimensioni. Il suo peso gravava un po’ il topolino, ma gli permetteva di muoversi agilmente. Isadora strinse bene il laccio che teneva avvinta la chiave al topino, poi fissò Armageddon dritto negli occhi. Era la loro ultima speranza: “Dovrai essere bravo e veloce, Armageddon. Ricorda che conto su di te” a lui scintillarono di nuovo gli occhi. Allora Isadora gli diede un bacio sulla testa, andò alla finestra e lo depositò dolcemente sul cornicione lì vicino. Ci entrava a malapena. Armageddon la guardò, e lei lo salutò con la mano, poi disse la frase caratteristica che gli faceva effetto: “Tocca a te, Armageddon!”
Il topolino assunse un’aria decisa, poi saltò giù dal cornicione e Isadora lo perse di vista. Era preoccupata per lui. Sperava davvero che ce la facesse. Il marchese era più scettico al riguardo: “Hai affidato la nostra sorte a quel ratto”.
“Topo di campagna” sottolineò lei: “Fidati, papà: Armageddon è magico. Tutti dicevano che la mamma era una specie di strega”.
Fuori dalla porta, Lord Fox ordinò ai suoi scagnozzi: “Murate la porta”.
E quando il primo colpo dei martelli che inchiodavano i mattoni risuonò nella stanzetta, il marchese e Isadora si strinsero l’uno all’altra. Lei guardò la finestra: “Ti prego, Armageddon…faccela…”
 
La cella in cui erano stati rinchiusi l’orco e Katrina era piccola e sudicia. Nient’altro che un cubicolo di pietra che puzzava di chiuso, con un pagliericcio in un angolo e una finestrella con le sbarre infossata nella parete. Era chiusa da una parete irta di sbarre di metallo che dava sul complesso di corridoi bui dei sotterranei. L’unica luce era quella delle torce appese ai muri.
Katrina, raggomitolata sul pagliericcio, guardava piena di sconforto l’orco che, furioso, tempestava di pugni e calci la parete di sbarre senza smuoverla di un millimetro. Erano ore che ci si accaniva contro inutilmente, a volte piangendo, a volte gridando. La serratura incastrata tra le sbarre non dava il minimo segno di cedimento. E per di più nella cella accanto alla loro c’era lo scheletro di un malcapitato incatenato alla parete, con un cartello di legno appeso al collo che diceva: eretico. L’eretico incuteva a Katrina un senso di gelo tremendo. Immaginava il proprio scheletro abbandonato in quella cella per anni, con un cartello che recitava: domestica pazza.
“Dannazione!” imprecò l’orco, dando una scossa violenta alle sbarre. Sconfortato, cadde bocconi sul pavimento di pietra e vi affondò le mani: “È inutile. Non cede”.
“Forse dovremmo chiedere aiuto all’eretico” disse Katrina con tono sognante. Nonostante fosse visibilmente disperato, l’orco la guardò in modo strano: “Che?”
“Scusatemi, padrone” scosse la testa, confusa: “Mi sento impazzire. Sto delirando”.
L’orco si abbandonò pesantemente contro una delle pareti di pietra: “È andato tutto storto, Katrina. Se solo Isadora non fosse in pericolo, chissà dove…” chiuse gli occhi, gli si contrasse il viso, poi balzò di nuovo in piedi, esplose in un urlo e riprese a colpire la parete di sbarre che li teneva imprigionati. Katrina lo osservò spassionatamente. Perfino lei aveva perso le speranze. Erano tutti spacciati. “Padrone, è inutile che vi accanite su quelle sbarre” disse stancamente: “Abbiamo perso”.
“Non possiamo lasciare Isadora nelle mani di quell’uomo!” gridò lui. Era esausto e sconfortato, ma non riusciva ad arrendersi, a differenza della compagna di cella. La quale guardò tristemente l’eretico: “Come ti capisco” sospirò.
Fu mentre lei cercava di prendere sonno che l’orco, voltandosi un attimo per riprendere fiato, vide una figurina bianca che lo scrutava dalla finestrella. Ricambiò con uno sguardo vuoto, non riconoscendolo. Poi guardò meglio: “Katrina!” esclamò. La domestica, che aveva già cominciato a russare, si riprese con un sussulto e inghiottì il filo di bavetta che le era colato dalle labbra: “Che? È successo qualcosa?”
L’orco, con la speranza che gli illuminava il viso, corse verso la finestrella. Allora non ebbe più dubbi: “Armageddon!” gridò, sorridendo al topolino bianco che entrava soddisfatto nella cella: “Sei grande!” aveva infatti una piccola chiave argentata legata al collo da un laccio. Katrina spalancò gli occhi: “Ma quella non è..”
L’orco sciolse la chiave dal nastro e la brandì con aria trionfante. Ma Armageddon non aveva finito. Allungò una zampetta e lo toccò sul braccio, poi, quando ebbe la sua attenzione, prese a fare una serie di cenni frenetici, squittendo. L’orco li seguiva perplesso, cercando di raccapezzarci qualcosa: “Su? Che cosa è su?”
Armageddon alzò gli occhi al cielo. Si spostò dalla finestra, scivolò fino al pavimento, poi prese da terra un bastoncino. Lo piazzò sul pavimento e tracciò una serie di abbozzati disegni, che denotavano un animo sorprendentemente sviluppato. L’orco e Katrina si inginocchiarono lì accanto, perplessi. Armageddon disegnò un teschio con gli occhi simili a quelli di Lord Fox. Katrina scoppiò a ridere: “L’eretico! Parla dell’eretico!”
Il topolino scosse la testa. L’orco fece lo stesso: “No, è qualcos’altro” scrutò il disegno stilizzato accarezzandosi il mento, poi fece un tentativo: “Pericolo?” Armageddon annuì freneticamente e passò al secondo disegno. Fece due file di punte aguzze in salita. Katrina si accigliò: “Un uccello con quaranta becchi?”
“No” disse l’orco, gli occhi stretti dalla concentrazione: “Sembrano più…due rampe di scale?” il topolino annuì, e allora l’orco ragionò: “Pericolo…due scale…pericolo al secondo piano…”
Armageddon disegnò due sagome che somigliavano vagamente a due esseri umani. Uno lo fece ciccione, tanto che sembrava una palla, l’altro esile, con gli occhioni e una montagna di capelli. Katrina rise: “Che divertente! Un budino coi capelli e una gattina con gli occhioni!”
Armageddon si spiaccicò una zampa sulla faccia, senza speranza. Fissò l’orco sperando che lui capisse. Questi sfiorò l’ultimo disegno, confuso: “Sembrerebbero…” impallidì: “Il marchese e Isadora!”
Armageddon collegò le due sagome al teschio e alle due rampe di scale. Katrina emise un gemito: “Cielo, gli hanno scagliato contro due frecce?”
“No” l’orco era pallido: “Il marchese e Isadora…in pericolo…al secondo piano!” scattò in piedi come una molla, la chiave stretta in mano, e corse verso le sbarre: “Presto!” Katrina lo raggiunse prendendo tra le mani Armageddon e borbottando: “Io resto dell’idea che erano un budino e una gattina!”
L’orco fece passare la mano attraverso le sbarre, infilò la chiave nella serratura e aprì la cella. Al che fece un cenno agli altri due e si mise a correre in direzione delle scale che portavano ai piani alti. A metà strada si imbatterono in uno degli scagnozzi di Fox, che si allarmò subito: “Che ci fate fuori dalla cella?”
“Non sono affari tuoi” ringhiò l’orco. Un pugno bastò a spedirlo tra le stelle. Lo superarono correndo e presero a salire le scale a rotta di collo, l’orco sempre in testa. Mentre attraversavano il primo piano, incominciarono a sentire il rumore di varie piccozze che inchiodavano mattoni. L’orco divenne ancora più pallido: “In fretta, in fretta…”
Katrina, tornata di colpo presente a se stessa, strinse Armageddon: “Cosa sta succedendo là sopra?”
Il rumore diventava sempre più forte via via che si avvicinavano. Ad un certo punto sentirono uno scagnozzo esclamare: “Scendo un attimo a prendere un altro carico di mattoni”.
L’orco si appiattì al muro e intimò agli altri due di fare lo stesso, poi si posò un dito sulle labbra. Attese che il ceffo fosse arrivato, poi stese la gamba e gli fece lo sgambetto. Con un urlo strozzato, l’energumeno crollò a terra. L’orco gli fu sopra in un attimo, immobilizzandolo quando gli piantò il ginocchio sul petto. Lo sollevò afferrandolo per la casacca a lo fissò minaccioso: “Che sta succedendo?”
Lui, pallido in viso, balbettò: “Stanno murando la porta…”
All’orco si mozzò il fiato. Lo lasciò lì e riprese a salire con Katrina subito dietro. Percorsero un breve tratto di corridoio, poi avvistarono il resto degli scagnozzi di Lord Fox raccolto intorno ad una porta di legno murata a metà da una parete di mattoni rossi che prendevano da una carriola lì accanto, ricoprivano di colla e assicuravano con martelli e piccozze. Katrina trasalì: “Ma è orribile!”
Furioso, l’orco si gettò su di loro con un urlo. Stavolta aveva dalla sua l’elemento sorpresa, e si immise nella mischia con forza, pronto a prendersi la sua rivincita.
 
Lord Fox si stava godendo il suo trionfo con Michael al primo piano, spaparanzato su un divano di velluto, pescando cioccolatini al caramello da una ciotolina che lo scagnozzo gli porgeva. Il suono delle piccozze era dolce musica per le sue orecchie.
Però, la dolce musica venne turbata da una nota stonata. Di colpo le piccozze si interruppero per lasciare il posto a grida, imprecazioni e colpi. Si tirò su di scatto: “Che succede?”
Michael assunse un’aria sperduta: “Non saprei…”
Arrivò correndo uno dei suoi scagnozzi, pesto e malconcio, che gridò terrorizzato: “Signore! L’orco e la domestica si sono liberati e stanno cercando di salvare gli altri due prigionieri!”
Per la prima volta, il viso di Lord Fox venne incrinato da una smorfia di fastidio: “Non hanno ancora capito chi è che comanda!” si alzò in piedi e si assicurò una spada al fianco: “Stavolta me ne occuperò di persona”.
 
L’orco ebbe la meglio sugli avversari. Riuscì ad abbatterli quasi tutti, i pochi rimasti fuggirono. Katrina e Armageddon sospirarono di sollievo. Una volta liberatosi degli avversari, l’orco si voltò in direzione della porta murata a metà. Si rivolse seccamente agli altri due: “State indietro” al che prese una piccola rincorsa, si mise in verticale rispetto alla porta, trasse un lieve sospiro e vi si buttò contro. La colpì con una spallata. La porta tremò, ma non cedette. L’orco fece una smorfia, ripartì e la colpì ancora. Si udì il suono secco di un cardine che saltava. Katrina lo incitò, fremente: “Non mollate, padrone, non mollate!”
L’orco lanciò un grido e partì alla carica per la terza volta, avendo l’accortezza di colpire il legno e non i mattoni. Finalmente, con un botto, la porta cedette e si aprì di colpo. L’orco sarebbe caduto, non ci fosse stato il muro a metà che lo tratteneva dov’era. Aprendosi, la porta rivelò una stanzetta semibuia, sgombra. In un angolo, due sagome erano strette l’una all’altra, tremanti, e da loro proveniva il suono di un pianto sommesso. All’orco si illuminarono gli occhi: “Isadora!”
Nell’udire la voce tonante ma gioiosa, la sagoma più esile si riscosse, si sciolse dall’abbraccio dell’altra e sollevò la testa di scatto. I capelli biondi si scostarono dal viso. Isadora fissò con gli occhi spalancati l’orco sulla soglia, poi una luce le aprì il volto e sorrise gioiosamente: “Sei tu!”
“Che cosa credete di fare?” sibilò la voce astuta di Lord Fox. Lo videro che li fissava malevolo dall’entrata del corridoio. L’orco fece cenno a Isadora e al marchese di raggiungerlo: “Al calesse, presto!”
La ragazza si alzò subito in piedi, aiutò il padre a fare lo stesso e corse con lui fuori dalla stanzetta, scavalcando la metà di muro costruita. Al che corsero, Isadora, il marchese, l’orco e Katrina con Armageddon in grembo in direzione dell’uscita della cattedrale. “Non potete fuggire!” gridò Lord Fox, mettendosi a inseguirli con Michael alle calcagna.
Il gruppo che fuggiva udiva i passi veloci dei due furfanti che risuonavano secchi alle loro spalle. Tornato al primo piano, corse fuori dalla cattedrale, dirigendosi verso il calesse fermo lì di fronte. La folla di invitati, tra cui c’era anche Natalie, che si era assiepata proprio lì, perplessa da quanto stava succedendo, decise di seguire il bizzarro gruppo di inseguiti e inseguitori.
L’orco fu il primo a raggiungere il calesse. In un solo istante vi saltò sopra, afferrò le redini e le tirò. I cavalli, che si erano assopiti, si ripresero con un nitrito e si misero a trottare sulla via. Subito dopo l’orco ad issarsi al volo fu Katrina. Non potevano perdere tempo a salirci uno per volta perché Lord Fox li avrebbe raggiunti. Isadora e il marchese correvano dietro al calesse in corsa. Katrina allungò loro una mano, dato che l’orco era concentrato nella guida: “Non mollate! Aggrappatevi alla mia mano!”
Lord Fox digrignò i denti quando vide il calesse allontanarsi. Michael, ansimante, chiese: “Li lasciamo andare, signore?”
“Se mollo la mocciosa, posso scordarmi il patrimonio” sibilò Lord Fox. Saltò in groppa al suo cavallo nero e partì al galoppo dietro al calesse, seguito subito dopo da un esausto Michael, che preferì cavalcare su un corsiero rossiccio.
Il marchese si aggrappò ai bordi di legno del calesse, sudato come una fontana. Katrina lo afferrò per la casacca e lo tirò su a fatica, trascinandosi dietro la sua enorme mole. Il marchese rotolò goffamente dentro al calesse che usciva in fretta da Soledad, diretto al maniero. I due cavalli di Fox e Michael erano troppo vicini, troppo! Percuotevano furiosamente il terreno con gli zoccoli, scagliando via zolle di terra.
Restava solo Isadora fuori dal calesse. La ragazza gli correva dietro, sempre più affaticata e ansimante. La gonna dell’abito da sposa la impicciava, e il mezzo acquistava velocità! Katrina si sporse fino allo spasimo: “Prendi la mia mano, Isa!”
Isadora allungò la sua, stringendola nel vuoto a pochi centimetri da quella della vecchia domestica. Sul viso le si dipinse un’espressione disperata: “Non ce la faccio!”
Katrina fissò terrorizzata i due cavalli in avvicinamento: “Non arrenderti. Ci sei quasi” la vide sforzarsi disperatamente di acquistare velocità, ma anziché accelerare, la sua corsa rallentava. Continuava a stringere il vuoto: “Non ce la faccio!” ripeté, gli occhi lucidi.
L’orco si accorse di quella difficoltà gettando un rapido sguardo da dietro la spalla. Fu fulmineo come sempre: afferrò Katrina per la spalla ossuta e la trasse al posto del guidatore, consegnandole le redini: “Guida tu” lei, ritrovandosi le due strisce di pelle tra le mani, le fissò sperduta: “Guidare?”
L’orco scansò un terrorizzato marchese e si mise verso Isadora che continuava a correre, perdendo rapidamente velocità. Aveva le braccia più lunghe di Katrina e le allungò la mano sporgendosi nel vuoto fino alla cintola: “Afferrami la mano, Isadora!”
Lei ansimò disperatamente, ma poi si fece forza. Prese alcuni forti respiri, accelerò leggermente il passo e tornò a tendere la mano. Con un ultimo sforzo, l’orco riuscì ad afferrargliela. Gliela strinse: “Tieniti!” le gridò. Lei continuava a correre. L’orco, digrignando i denti dallo sforzo, la trasse a sé stringendole la mano. Isadora gettò un fugace sguardo dietro di sé e impallidì: Lord Fox era vicino. Rivolgendosi di nuovo all’orco, gli gridò: “Non mi lasciare!” sapeva che il Lord voleva lei. L’orco continuava a tenerle la mano: “Non ti lascio” d’improvviso la afferrò per le ascelle e la tirò verso di sé. Il corpo della ragazza scivolò dentro al calesse in corsa. Un lembo di vestito si lacerò e rimase impigliato tra le ruote. Il marchese sospirò di sollievo.
Isadora si liberò della gonna che le si era attorcigliata addosso con alcuni strattoni. L’orco le si avvicinò carponi: “Stai bene?” le chiese preoccupato. Lei a malapena riuscì ad annuire: “Sì…sì, io…”
“Perdonami per non averti creduto” le disse lui con disperazione. Isadora accennò un sorriso amaro: “Non preoccuparti: ti capisco. Ora ti capisco. Perdona me per non aver creduto a te subito”.
“Ti capisco” sorrise l’orco.
“Non per interrompervi” farfugliò il marchese: “Ma quei due si stanno avvicinando!” indicò i cavalli che inseguivano forsennatamente il calesse. L’orco si rivolse accigliato a Katrina: “Vai più veloce! Dobbiamo raggiungere il maniero prima di loro!”
“Io faccio del mio meglio!” si lamentò Katrina, che veniva sbalzata in aria ad ogni scossone del calesse. Armageddon scivolò via da lei, zampettò fino alla padroncina e le diede un colpo di muso sulla mano. Isadora gli sorrise: “E bravo il mio topino. Sono davvero fiera di te”.
“Sì” disse il marchese: “Non sei così male come pensavo, ratto”.
“Topo di campagna!” insorse la figlia.
Il calesse si infilò nella foresta oscura e lo stesso fecero i due cavalli. Lord Fox, sempre più furioso, gridò a Michael che cavalcava subito dietro di lui: “Non perdiamoli di vista!” strinse le mani sulle redini: “Avrò i tuoi soldi, mocciosa” pensò: “Dovessi affrontare di tutto pur di ucciderti!”
La sagoma del maniero apparve ai loro occhi, inaspettato baluardo di salvezza. Katrina non attese nemmeno di fermare il calesse: come la sera prima, saltò giù direttamente, imitata dal resto della compagnia. L’orco corse verso il portone con le mani protese a spalancarlo. Isadora sorrise e sentì di essere finalmente tornata a casa: “Salve, vecchio mio” pensò guardando affettuosamente il castello nero: “Non pensavo che ti avrei rivisto”.
L’orco spalancò il portone e vi appoggiò la schiena: “Dentro, presto!” gridò loro. Lasciò entrare tutti e tre, poi, quando si fu assicurato che erano al sicuro, entrò a sua volta e fece per chiudere il portone…ma un piede coperto da uno stivale luccicante si interpose tra lo stipite e l’uscio, bloccandolo.
“Non credo proprio che tu lo farai” sibilò Lord Fox.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 17
*** Sogni d'oro! ***


CAPITOLO 16

 
 
 
 
 
 
Allo stivale seguirono un paio di calzoni candidi, una giacca di paillette, piuttosto sgualcita, e un’inconfondibile massa di capelli rossi. Lord Fox entrò nel salone d’ingresso del maniero con espressione furibonda. Il che non lasciava presagire niente di buono: “Non credo proprio che vi chiuderete qui dentro credendo di essere salvi” continuò. Michael apparve dietro di lui, a dir la verità completamente esausto.
Isadora emise un gemito e si strinse a Katrina e al marchese, che la circondarono protettivi. L’orco era ancora sulla porta, immobile come una statua. Lord Fox si fece avanti con aria spavalda: “E ora” scandì lentamente le parole: “Facciamola finita con questo teatrino. Consegnatemi la ragazza!”
“Scordatelo!” gli gridò Katrina. Il cane Bruto, accorso nell’atrio, gli ringhiò contro, minaccioso, parandosi a sua volta davanti a Isadora. Katrina aggiunse beffarda: “Se la vuoi, prima dovrai passare sopra a tutti i nostri insignificanti cadaveri!”
“Parla per te” bisbigliò il marchese, che insignificante non ci si sentiva.
“Lo farei con grande piacere” commentò Lord Fox: “Ma non ho tempo da perdere. Quella è mia moglie. È mia. Non è legata a voi da alcun vincolo. Come tale, dovete consegnarmela!”
Isadora pensò con terrore che aveva ragione. Era sua moglie, almeno finché morte non li avrebbe separati. Dato che tutti tacevano, Fox fece un passo verso di lei: “Volete che venga a prendermela da solo?”
“Aspetta!” intervenne l’orco all’improvviso. Lord Fox lo guardò sprezzante: “Cosa vuoi adesso?”
L’orco parve pensare a ciò che stava per fare per alcuni attimi, poi tornò a sollevare lo sguardo su Lord Fox: “Non è del tutto tua moglie”.
“Che intendi dire?” fece l’altro irritato. L’orco insistette: “È tua moglie perché io l’ho sciolta dal nostro matrimonio, ma non c’è stato niente di ufficiale. In un certo senso, è moglie di entrambi”.
Isadora lo ascoltava senza capire. Dove voleva arrivare? Anche Lord Fox doveva pensarla allo stesso modo: “E quindi? La pretendi anche tu?”
“In un certo senso” rispose l’orco. Fox perse la pazienza: “Vieni al sodo!”
“Ti propongo un duello” disse infine l’orco: “Sarebbe onesto. Chi vince, avrà Isadora come moglie. È quello che fate voi gentiluomini in questi casi, giusto? Se vincerai, sarai libero di tornare a Soledad con lei” Isadora gli vedeva la disperazione scritta in faccia, la sua era l’ultima speranza che avevano: “Ma se perdi, sparirai dalla sua vita. Io la scioglierò definitivamente da ogni legame che ha con tutti e due e sarà libera di scegliersi il futuro che vorrà”.
Lord Fox era tentato, si vedeva lontano un miglio. Non aveva mai rifiutato una sfida: “E sia” decise: “Ma ho una condizione: io combatterò armato, tu no. Sei un orco, parti già avvantaggiato. E sarà un duello all’ultimo sangue: il perdente morirà”.
Isadora divenne pallida come un cencio e fece per correre verso di loro: “No!” ma il marchese la trattenne: “È la nostra ultima speranza, Isa”.
“Ma non può farlo! Morirà!” gridò lei disperata.
“Abbiamo un accordo?” chiese Lord Fox tendendo una mano. L’orco si morse il labbro. Non era la prima volta che aveva a che fare con situazioni di quel genere. Combattere disarmato, all’ultimo sangue, era una mossa avventata. Si voltò verso Isadora, che era ferma ai margini del salone d’ingresso accanto al padre e a Katrina. Lei gli mimò con le labbra un: non farlo, ma l’orco sembrò invece trovare coraggio in quella vista, perché si voltò, prese un respiro e strinse la mano di Lord Fox: “Abbiamo un accordo”.
“Perfetto” sogghignò lui.
La folla composta dal popolo di Soledad arrivò in quel momento. Aveva corso dietro al gruppo per tutto il tempo. Non potevano perdersi quella storia: avrebbero avuto qualcosa da raccontare. La folla ama queste prodezze. Si accalcò sulla soglia, incuriosita. Lord Fox fece cenno ad un uomo magro vestito poveramente: “Signor maniscalco, venite qui! Sì, proprio voi!”
Quando quello fu uscito dalla moltitudine, Fox gli sorrise: “Arbitrerete questo duello. Sarà all’ultimo sangue. Io armato di spada, lui con le sue mani. Badate: chi bara, verrà eliminato”.
Il maniscalco annuì: “Volete cominciare subito?”
“Ma certo” rispose Lord Fox.
I due duellanti andarono uno all’angolo opposto della sala rispetto all’altro. Katrina e Isadora fecero cerchio intorno all’orco: “Padrone, è pericoloso!”
“Non farlo” lo implorò Isadora, stringendogli convulsamente il braccio: “Ti ucciderà”.
L’orco la guardò tristemente negli occhi: “È la nostra ultima speranza, Isadora”.
“Ma sarai spacciato! Nessun’arma…senti, andrò con lui, sarò sua moglie, ma ti prego…”
“Stiamo per cominciare!” disse secco il maniscalco. L’orco si riscosse: “Addio, Isadora” liberandosi dalla sua presa, andò lentamente incontro al suo avversario. La ragazza fece di nuovo per lanciarsi, ma il marchese tornò a trattenerla. “Lasciami” disse, angosciata: “Devo dirgli che…devo dirgli che..”
L’orco e Lord Fox si posizionarono l’uno davanti all’altro nel silenzio della folla. L’uomo sguainò la spada, che uscì con un sibilo dal fodero. L’orco aprì e chiuse i pugni diverse volte. Si inchinarono in segno di cortesia. Il maniscalco esclamò: “Via!”
Con un sussulto, Isadora li vide scagliarsi uno contro l’altro. L’orco provò ad afferrare Lord Fox, ma lui schivò e vibrò un fendente di spada. L’orco lo evitò buttandosi di lato. Rotolò e balzò di nuovo in piedi. Ansimava leggermente. Bisognava mettere in conto che ne aveva affrontate tante, prima, e che invece Lord Fox si era solo riposato, a parte la cavalcata. Era riuscito a ingannarli di nuovo.
Si studiarono per alcuni minuti, piegati su se stessi. Poi fu sempre l’orco a scattare, vibrando un pugno diretto al petto di Lord Fox. L’uomo scattò indietro e calò la spada. L’orco fece appena in tempo a sollevare il braccio a cui era legato un bracciale di cuoio: la lama ci si infranse sopra. Si udì un terribile rumore di ossa che scricchiolavano. L’orco fece una smorfia di dolore.
“No!” si lamentò Isadora. Lottava con sempre maggior forza alla presa del padre: “Non posso permetterlo!”
Lord Fox vibrò un altro fendente. L’orco parò di nuovo col bracciale: stavolta il cuoio si incrinò, le ossa gemettero più forte. Ripiegò di alcuni passi col fiato corto. Era in difficoltà. Lord Fox stava facendo il suo solito sorriso da vincitore. Si sentiva già padrone della situazione.
Accelerò le mosse, martellando l’avversario con una combinazione di affondi, tondi e fendenti. L’orco un po’ schivava, un po’ parava col bracciale. Al quarto colpo il cuoio andò in pezzi, e l’orco riuscì a malapena a ritrarre il braccio prima che glielo mozzasse. Si difendeva soltanto, non riusciva ad attaccare. All’ennesimo tondo, non fu abbastanza veloce: la lama gli aprì un taglio sul braccio, da cui uscì subito un velo di sangue.
“No! Basta!” gridò Isadora senza risultato: “Smettetela…” sentì il sapore salato delle lacrime. Non riusciva a sopportarlo.
“Arrenditi: hai già perso” rise Lord Fox. Ferì l’orco una seconda volta, prendendolo di striscio sulla spalla: “Ti sei lasciato ingannare di nuovo. Tu eri stanco e io no, eravamo già pari. Ti sei fatto disarmare come un idiota, e solo per salvare quella mocciosa. Il tuo ruolo è quello del cattivo: è inutile che ti sforzi di essere qualcosa di diverso”.
L’orco si buttò sulle sue gambe per fargli lo sgambetto. Lord Fox si scostò troppo lentamente e barcollò. Furioso, disegnò un lungo taglio rosso sulla guancia dell’avversario: “Appena ti avrò ucciso” esclamò: “Appenderò la tua testa sulla porta di casa mia, così che tutti vedranno cosa sono stato capace di fare. Uccidere un orco non è da tutti”.
La folla mormorò tra sé. Non sembrava un discorso da eroe, quello. Piuttosto era l’orco, con la sua disperata resistenza, con quell’ammirevole perseveranza anche nelle ferite e nella fatica, a suscitare la sua approvazione.
L’orco si rialzò, sfinito. Lord Fox, con un affondo, lo ributtò a terra. Rise sguaiatamente, girandogli intorno e tenendolo sotto tiro di spada. Sembrava davvero che l’orco fosse spacciato.
Isadora, che non respirava più da diversi istanti, tornò in sé di colpo. Non poteva mettersi a frignare come una bimbetta quando l’orco era in pericolo! C’era bisogno del suo aiuto! Piena di una fretta disperata, lasciò vagare lo sguardo per il largo salone d’ingresso. Niente. Sollevò gli occhi al soffitto. Esattamente sopra al pavimento su cui si muovevano i due duellanti, pendeva minaccioso un enorme lampadario arrugginito pieno di bracci che ospitavano candele accese. Lo ricordava perché una volta aveva dovuto accendere le candele, quando faceva ancora la sguattera. Katrina le aveva detto che era di una mole impressionante.
Le venne un’idea. Ripensò a quando, nelle cucine di Soledad, prima che tutto cominciasse, aveva abbattuto il pretendente nerboruto lanciandosi ridendo sulla corda che teneva il prosciutto appeso al soffitto e recidendola. Sulle labbra le si disegnò un sorriso di speranza. Forse non tutto era perduto.
Quando provò ad allontanarsi da dov’era, suo padre la trattenne: “Isa, no”.
“Papà, ti prego” lo fissò negli occhi con aria accorata: “È l’unico modo di aiutarlo”.
“È troppo pericoloso”.
“Per me è importante! Devi fidarti!”
“Ma io…”
“Non sono più una bambina, papà”.
Lui la fissò a lungo, poi fece un sospiro e la lasciò andare: “Sapevo che prima o poi l’avresti detto” disse rassegnato. Isadora gli sorrise e lo baciò rapidamente sulla fronte: “Grazie” l’attimo dopo era già corsa via. Fissò trepidante il grande lampadario: era tenuto sollevato sul soffitto da una pesante corda di canapa avvolta ad un gancio su un podio sopraelevato a cui si accedeva tramite una scaletta a pioli. Doveva raggiungerlo prima che fosse troppo tardi, prima che…
Ad un passo dalla scala, le si piazzò di fronte Michael: “Dove credi di andare?”
Isadora si sentì disperata solo per un istante. Poi si vide affiancata da Katrina e da Bruto, entrambi parecchio minacciosi. La domestica fissò con la fronte aggrottata il ceffo e chiese rabbiosa: “Dicevi?”
Il viso di Michael si fece pallido quando guardò Bruto. Era acquattato in posizione d’attacco, moccoli di bava che gli ballavano dalle fauci spalancate, gli occhi fiammanti. Katrina esclamò, galvanizzata: “Ora, Bruto!”
Il cane si lanciò con le unghie sfoderate su un terrorizzato Michael, che ebbe solo il tempo di urlare. Crollò a terra col cane sopra e per un po’ lottarono furiosamente. Poi Bruto, senza un solo pelo fuori posto, emerse dalla mischia con tranquillità, calpestando un esanime Michael. Isadora sorrise e gli prese il testone fra le mani: “Grazie, cagnaccio!”
Lui la guardò benevolo e le diede un’altra bella linguata sulla faccia. Katrina esclamò: “Ora vai, Isa! Ti copriamo noi!”
La ragazza si riscosse prontamente e corse verso la scala. Sollevò lo sguardo: il podio sopraelevato su cui era infisso il gancio con la corda era parecchio in alto. Appoggiò le mani su due delle assi di legno, poi si issò sulla scala traballante e incominciò a salire. La folla mandò un boato di sorpresa guardando quella ragazza minuta che si arrampicava sull’instabile scala a pioli. Natalie si ricordò bene di commentare ad alta voce: “Quella è la mia figliastra”.
Isadora salì freneticamente. Doveva fare più in fretta, più in fretta! Era arruffata e aveva il vestito tutto rovinato, ma nessuno ci faceva caso. In quel momento contava soltanto la sua audacia.
Giunse a fatica all’altezza del podio. Vi si arrampicò stentatamente. Solo allora osò guardare giù: Lord Fox si stava divertendo a torturare l’orco a terra, facendo sibilare la spada ad un soffio dalla sua carne. Isadora guardò poi il lampadario. Splendido. Era proprio sopra Fox. Almeno un po’ di fortuna.
Si diresse spedita verso il gancio a cui era avvolta la corda. La toccò: era ruvida e resistente. “Ti risarcirò i danni, Katrina” pensò.
Lord Fox sentiva di avere la vittoria in pugno. Osservava l’orco sfinito e sanguinante che giaceva ai suoi piedi, e si divertiva a punzecchiarlo con la spada: “Guardati” lo prese in giro: “Sai cosa farò quando sarai morto? Ucciderò quella mocciosa e…”
“Ehi!” esclamò una voce femminile. Perplesso, Fox sollevò lo sguardo. Rimase pietrificato per la prima e ultima volta della sua vita: sopra di lui, in piedi su un podio sopraelevato, sua moglie lo fissava battagliera, coi capelli al vento e gli occhi animati da una luce decisa. Stringeva nella mano il pugnale che lui stesso le aveva dato, e l’aveva appoggiato alla corda che teneva l’enorme lampadario sopra di lui appeso al soffitto. Lord Fox provò un terrore soffocante che gli immobilizzò il corpo come una folata di vento gelido. L’orco, sollevando la testa dal pavimento, vide a sua volta e sorrise stremato.
“I-Isadora” balbettò Lord Fox, che era diventato pallidissimo: “Non farlo”.
“Oh, io credo proprio che lo farò” disse lei, fredda e terribile. Guardandolo con aria combattiva, aggiunse sprezzante: “Sogni d’oro, caro!” Fox tese una mano terrorizzato: “No!”
Troppo tardi. Isadora recise la corda con un colpo secco, senza smettere di fissarlo con quegli implacabili occhi azzurri. Il pezzo di corda scivolò con un sibilo verso l’alto, mentre il lampadario gigantesco, con un fragore infernale, crollava verso il basso. L’orco si spostò ai lati del salone, ma Lord Fox non ebbe scampo: fissando la mole che lo oscurava con la sua ombra, lanciò un urlo terrificante, che si interruppe di colpo non appena il lampadario si infranse sul pavimento con un tonfo ancor più tremendo di quello di prima. Per un attimo appena, la folla vide solo polvere, che oscurò tutto. Poi si diradò lentamente: nel salone c’erano solo il marchese, Katrina, l’orco in piedi e Isadora, che sorrideva da là sopra.
Ci fu un attimo appena di silenzio stupefatto. Poi la folla proruppe in un’ovazione di gioia, inneggiando gioiosamente l’eroica impresa compiuta. La Volpe cattiva era morta! Evviva! Evviva!
Bruto spiccò un salto verso l’alto, con Armageddon in groppa. Katrina, al culmine della gioia, strinse il marchese in un abbraccio soffocante e gli stampò un bel bacio sulla guancia. Arrossirono entrambi, mentre Natalie, tra la folla festante, diventava verde.
Isadora discese lentamente dalla scala. Era stanca, stanca davvero. Ma era anche felice, perché li aveva salvati tutti, lei, la ragazza stramba che viveva a Soledad. Non appena mise piede a terra, Katrina e il marchese le corsero incontro assieme a Bruto e Armageddon, travolgendola. La vecchia domestica aveva gli occhi brillanti di gioia: “Sei stata veramente fantastica, Isa!”
“Una vera bomba, piccola” si aggiunse il marchese: “Quando hai detto: sogni d’oro, caro! Ah! Ero in visibilio!”
Bruto lanciò un abbaio festoso, Armageddon batté le piccole zampette. Isadora scoppiò a ridere, cercando di calmarli. Il marchese insistette: “Ma come ti è venuta in mente la trovata del lampadario?”
“Per questo devo ringraziare un vecchio prosciutto stagionato e…” ma le parole le morirono in gola. Infatti aveva visto all’improvviso, oltre il suo piccolo gruppo di ammiratori, l’orco che la fissava, rigirandosi goffamente tra le mani un lembo di casacca. Persero importanza le chiacchiere di suo padre e di Katrina, le ovazioni della folla, le feste dei due animali. Le sembrò che il mondo si fosse improvvisamente ridotto a loro due, ai loro occhi che si incontravano timidamente. Katrina se ne accorse, fece un sorriso furbo e agguantò il marchese per un braccio: “Noi vecchi ci ritiriamo dal palcoscenico”.
“Ehi!” borbottò deluso il marchese, che non aveva finito. Katrina strizzò l’occhio all’orco che si avvicinava timidamente: “Forza e coraggio, padrone!”
Isadora rimase ferma dov’era mentre l’orco le si avvicinava con gli occhi bassi. Sembrava timido e in difficoltà, le stesse cose che provò lei quando furono uno davanti all’altra. Ora era tutto finito. Ma doveva ancora cominciare tutto. L’orco per un po’ rimase in silenzio, così fu lei, le guance rosse ma non per il trucco, a parlare: “Comunque non mi merito tutti questi complimenti. Il vero eroe sei stato tu. Hai rischiato di morire”.
“Isadora…” disse infine lui. Sollevò lo sguardo e la guardò negli occhi, facendosi coraggio: “Non…non sono molto bravo in queste cose. Però volevo dirti che…”
“Sì?”
“Volevo dirti che ho sbagliato a costringerti a sposarmi” confessò infine l’orco: “Non ho tenuto conto dei tuoi desideri e ti ho forzata a qualcosa che non volevi. Ti chiedo perdono, ma ti chiedo anche di capirmi: io non…non ti conoscevo. Ti chiedo perdono anche di averti schiavizzata ingiustamente”.
“Io non…”
“Lasciami finire, per favore” prese fiato: “Ora è cambiato tutto. Forse per te questo è stato solo un incubo, ma io sono contento di aver accettato l’offerta di tuo padre, perché mi ha portato te, e tu sei la cosa più bella che mi sia mai capitata” arrossì violentemente: “È per questo che ora ti chiedo di scegliere. Non voglio forzarti a far nulla: sarà una tua decisione. Io vorrei…mi farebbe tanto piacere che tu…insomma…”
“Ma perché non và al sodo?” bisbigliò il marchese. Katrina guardava l’orco con aria materna: “Il padrone non è abituato a far questi discorsi”.
L’orco, dopo aver balbettato un po’, trovò il coraggio: “Sarei felice che tu restassi sempre qui con me. Perché io…io ti amo” Isadora sussultò quando udì quelle parole. L’orco guardò in fretta da un’altra parte: “Ma se non vuoi, sarai libera di tornare a Soledad da tuo padre, e questo maniero sparirà per sempre dalla tua vita. La scelta è tua”.
Isadora rimase a lungo in silenzio di fronte all’orco paonazzo. Gli occhi le brillavano. Guardò il salone, il lampadario distrutto che giaceva a terra. Poi si girò verso il padre con aria speranzosa. Lui scrollò le spalle, come a dire: Se proprio devi. Allora lei tornò a rivolgersi all’orco: “Sai” disse con voce tremante: “All’inizio ciò che bramavo di più era la libertà”.
La faccia di lui andò in pezzi: “Capisco” bisbigliò, abbassando gli occhi lucidi. Ma Isadora sorrise: “All’inizio” sottolineò: “Non tutte le ragazze che conosco si sono ritrovate di fronte a una scelta simile. Loro trovavano marito ai balli e alle feste. Loro perdevano scarpette, si addormentavano, mangiavano mele avvelenate. Ma non io” il sorriso si fece più largo: “Io sono Isadora. E so qual è il mio ruolo: io sono la moglie dell’orco”.
Lo vide sobbalzare e alzare gli occhi di scatto a guardarla. Gli sorrise e gli prese le mani, stringendole: “E lo sarò per sempre”.
Il marchese si soffiò il naso rumorosamente: “La mia bambina si è innamorata” singhiozzò. Katrina gli fece l’occhiolino: “Tutto bene quel che finisce bene”.
“Sei…sei sicura che è quello che vuoi?” le chiese l’orco, sopraffatto dalla gioia e dall’emozione. Senza smettere di sorridere, Isadora annuì: “Sì”.
“Lo giuri?”
“Lo giuro. La felicità può durare. Basta volerlo”.
Il viso dell’orco si illuminò di una luce potentissima, e così quello di Isadora. Era come se fossero in un loro piccolo mondo a parte, come se intorno a loro non ci fosse la folla, il marchese e Katrina. Si avvicinarono l’uno all’altra lentamente, con le mani che si cercavano e gli occhi che si chiudevano. Era tutto magico e bello, in quel momento. Giunti a pochi millimetri, si baciarono con foga, stringendosi l’uno all’altra.
La folla esplose in una serie di acclamazioni festanti. Katrina, in lacrime, abbracciò il marchese, che provò goffamente a liberarsi. Bruto e Armageddon, felici, si batterono le teste l’una contro l’altra in un motto d’intesa. Perfino Natalie, dopo un primo momento di acidità, si arrese e batté le mani a sua volta.
L’orco sollevò Isadora in braccio, senza smettere di baciarla, e la fece volteggiare, girando nella sala in festa. Lei si sentiva scoppiare di felicità. Era quello il suo primo bacio. Quello ingannevole di Lord Fox non contava niente, era come se non fosse mai esistito. Era quello il suo momento. Forse loro non erano i soliti eroe ed eroina, ma almeno erano felici.
Le acclamazioni della folla continuarono a risuonare nel salone distrutto dove l’orco e Isadora continuavano a baciarsi, girando su loro stessi.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 18
*** Epilogo ***


CAPITOLO 17

 
 
 
 
 
 
Era la terza volta che Isadora si sposava, ma di certo la più felice. Era tutta ansiosa e frenetica, e Katrina, che la stava vestendo, continuava a ripetere: “Isa, guarda che ci aspettano!”
Erano nella stanza dove aveva dormito durante il suo primo periodo nel maniero. Gli altri la aspettavano al primo piano, dove si sarebbero tenute le nozze. Indossava un abito molto semplice, bianco come il latte, col velo aggiustato sui capelli da una coroncina di papaveri. Niente trucco né gioielli, a lei andava bene così. Si sistemò la gonna freneticamente: “Sono a posto?”
“Sei bellissima” le rispose Katrina perentoria. Aveva finalmente abbandonato la sua divisa da domestica e portava un vestito blu scuro, semplice ma dignitoso, e aveva i capelli grigi coperti da un velo azzurro. Contemplava la sposa con aria commossa: “Oggi sarà un grande giorno” prese dal baule lì vicino il bouquet di fiori di campo che aveva raccolto con le sue mani, porgendoglielo. Isadora lo accettò e se lo posò sul seno: “Infatti”.
“Pronta?” il marchese fece capolino dalla porta. Isadora sorrise e lo raggiunse: “Prontissima, papà” si avviarono con Katrina dietro. Stavolta lui le fece un sincero complimento: “Stai proprio bene. Tu stai bene semplice, Isa”.
Andarono alla sala dove Isadora era andata a sposarsi settimane prima, pallida come un cencio e prossima al collasso. Ora avanzava a testa alta, gli occhi brillanti, un sorriso sulle labbra, con la radiosità delle spose. Entrò al braccio di un padre piuttosto commosso anche lui.
C’erano pochissimi invitati, volevano fare una cosa in famiglia. Tre file di panche di legno. In prima fila, su due cuscini morbidissimi, erano accomodati Bruto e Armageddon, lavati e pettinati per la cerimonia. Il topolino aveva un fiocchetto azzurro al collo, il cane nero un collare di cuoio con appesa la chiave argentata che li aveva salvati. Katrina andò ad accomodarsi lì accanto, asciugandosi le lacrime con discrezione. Poi c’era un posto per il marchese, e basta. La loro piccola, allegra comunità. Natalie non era stata invitata.
Ah, era stato chiamato un sacerdote dal territorio dell’orco, che aveva accettato di buon grado. Gli era giunta voce della loro impresa. Era dietro ad un altare di legno con appoggiate sopra le fedi di legno di prima, e lì davanti c’era l’orco, vestito in modo elegante per l’occasione. Anche a lui brillavano gli occhi. All’ingresso di Isadora, si scambiarono un sorriso.
Se durante la prima cerimonia avevano agito senza la minima partecipazione, ora lo fecero con grande sentimento, guardandosi negli occhi con aria rapita. In un certo senso era quello il loro primo matrimonio. Si scambiarono le fedi con un sorriso, pronunciando due decisi “lo voglio”. Quando si scambiarono il bacio rituale, gli invitati balzarono in piedi e, gridando di gioia, gettarono loro addosso chicchi di riso a volontà. Bruto teneva il pacco con i chicchi tra i denti e Armageddon li prendeva.
I due sposini, ridendo, si fecero scudo con le braccia. Poi Isadora si girò, radiosa, e lanciò il mazzo di fiori verso le panche. Bruto saltò verso l’alto, Armageddon fece lo stesso, ma fu Katrina che lo afferrò al volo. Arrossì violentemente, stringendoselo al petto. Isadora, sorridendole, le mandò un bacio.
Da quel giorno in poi, conobbero solo felicità. Il marchese veniva in visita al maniero ogni volta che poteva, e veniva accolto con allegria. A Katrina il bouquet portò due cose: del tenero con il nobile ciccione, che le ispirava un sentimento materno, e un inaspettato pollice verde. Si dedicò esclusivamente al piccolo orto che creò accanto al maniero, e diede vita a patate, pomodori, piante rare e fiori splendidi.
Bruto trovò una meticcia nera che gli assomigliava moltissimo e che gli portò il marchese in regalo, con un gran fiocco rosa intorno al collo. All’inizio fu sospettoso come suo solito, ma ben presto smise di fare storie ed ebbero una numerosa cucciolata di cagnetti neri e vivaci. Bruto e Isa (così venne chiamata la sua compagna) si dimostrarono due bravi genitori.
Armageddon si fece pittore. Infatti il marchese aveva intravisto nei suoi disegni una nuova forma d’arte e lo spinse (per così dire) a coltivare la sua passione. Armageddon si fece prendere dall’entusiasmo. Potete trovarlo chiuso al terzo piano, intento a tracciare strani segni con un pennello fatto su misura.
Il marchese faceva avanti e indietro dal maniero e Soledad di continuo. Natalie finì per stufarsi e se ne andò via, tornando nel monastero dove aveva trascorso l’adolescenza e dove si fece suora. Lì, con ravanelli ad ogni ora e preghiere continue, trovò il suo posto, assieme a due curiose novizie che si chiamavano Anastasia e Genoveffa, le quali si erano rifugiate lì dopo non aver trovato un cane disposto a sposarle.
E l’orco e Isadora? Continuarono ad amarsi per sempre e a vivere felici insieme. Abbandonarono uno la caccia e gli altri orchi, l’altra le riunioni tra ragazze nubili o coniugate. Vissero in tranquillità la loro serena vita nel maniero, insieme alla loro piccola grande famiglia di cani, topi, marchesi e domestiche. Ricostruirono insieme il lampadario distrutto, creandolo a forma di un’enorme volpe con luci negli occhi, e chiamarono il salone che lo ospitava Sala Fox. Stavano per conto loro quasi sempre, a parte quando il marchese arrivava. Allora organizzavano fantastiche gite.
Una volta fecero un picnic nel prato fiorito di fronte al maniero, e il marchese insegnò all’orco a giocare a scacchi mentre Isadora e Katrina giocavano coi cuccioli di Bruto e Isa e Armageddon dipingeva paesaggi. Un’altra l’orco li portò tutti ad una polla d’acqua nella foresta alimentata da una cascatella e si fecero il bagno. Isadora insegnò a Katrina a nuotare. Un’altra ancora fecero volare gli aquiloni costruiti da Armageddon, e il marchese e Katrina trovarono il coraggio di abbracciarsi.
Ora l’orco e Isadora sono seduti nel prato di fronte ad una gran luna piena, stretti l’uno all’altra. Lei tiene fra le braccia un fagottino urlante, metà orco, metà umano, atipico come l’arcobaleno. Katrina vuole già farsi babysitter. Come lo chiamarono? Non ve lo dico. È un segreto. Ma una cosa ve la rivelo: vissero per sempre felici e contenti.
 
Il cantastorie tacque sorridendo. I bambini rimasero per un istante in silenzio. Poi esplose un vigoroso battito di mani.
“Bravo!”
“Splendida storia!”
“Non l’avevo mai sentita!”
Lui chinò modestamente il capo: “Troppo buoni. Spero che questa storia resterà nei vostri cuori”.
“Ma certo!” esclamò Tom con veemenza: “Devo ricredermi. Avevate ragione, questa storia è cento volte meglio di Pollicino!”
“Tornerete per raccontarcene un’altra?” gli chiese Annie. Ma il cantastorie scosse la testa: “Io il mio dovere l’ho fatto. Ora tocca a voi diffondere questa storia in giro”.
“Lo faremo!”
“Fidatevi!”
“Mi fido” sorrise lui. Stette a guardare i bambini che tornavano eccitati ognuno alla sua casa. Aveva raccontato per tutta la notte: il cielo si era già tinto dei caldi colori dell’alba. Ora era stanco, ma soddisfatto. I bambini avrebbero svolto bene il loro compito.
Con un pof, una figura di donna si materializzò davanti a lui. In tutta tranquillità, le si rivolse sorridendo: “Contenta del mio operato, Marian?”
“Sei stato bravo” disse lei. Era una donna dall’aspetto giovanile, vestita di abiti di pelle piuttosto mascolini. I capelli neri e lisci erano raccolti in due trecce spesse, il volto dai tratti marcati era dominato da due occhi azzurri. Dal collo le pendevano amuleti di ogni genere: “Ma non gli hai rivelato che tu c’eri, quando accaddero quelle cose” aggiunse sorridendo furbescamente. Il cantastorie scrollò le spalle: “Non serve. E poi sei stata tu a mandarmi qui, come mi avevi mandato da Isadora per proteggerla con le sembianze di topolino”.
“Già” commentò Marian, la strega immortale: “Ma ora quei bambini non dovranno più sentir parlare di te”.
“Non mi vedranno più” disse deciso il cantastorie. Era accaduta la stessa cosa con Isadora: un bel giorno, dopo tanti anni, il suo caro amico, il suo topolino adorato, il suo Armageddon, era sparito, e nessuno ne aveva saputo più nulla. Lei ne aveva sofferto tantissimo, ma alla fine si era rassegnata a lasciar andare il suo angelo custode. Come poteva immaginare che era l’apprendista di sua madre, tramutato in topo per proteggerla? Questo spiegava la sua straordinaria longevità e la sua intelligenza.
“È tempo di andare” disse Marian perentoria: “Ci aspetta un altro regno, un’altra storia, altri bambini a cui raccontarla”.
Il cantastorie si alzò, si spolverò il mantello, e svanì insieme a lei in una nuvola di fumo.
Stretta è la foglia, larga è la via, dite la vostra che ho detto la mia.
 
FINE

 






 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=962824