Ifigenia - Diario di una morte

di AliDiCeraBianca
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Atto I ***
Capitolo 2: *** Atto II ***



Capitolo 1
*** Atto I ***


Eccomi. L’ultimo atto.
Mi osservo attonita, riflessa nel bacile pieno d’acqua che l’ancella ha portato su mia richiesta.
Sta calando la sera. Le ultime ore di una giovane donna nel fiore della giovinezza.
Cerco di guardarmi con l’attenzione che non ho mai impiegato in tutti questi anni, provando a fissare nella mia memoria ogni particolare del mio volto, della mia persona. Quando sarò un’ombra voglio ricordarmi la mia bellezza. Oramai lo so, non vedrò mai più i miei capelli neri, i morbidi capelli profumati di aristocratica che pettino ogni notte con infinita pazienza, prima di chiudere gli occhi e lasciarmi andare alle visioni del sogno. Presto, molto presto, i miei occhi saranno chiusi per sempre.
Dimenticherò il mio profilo austero ed elegante, i miei occhi scuri, la mia pelle diafana, che mi sono sempre affaticata a mantenere candida. A cosa è servito curare il mio aspetto così, se ora lo vedo sfiorire in una notte? Nessun uomo vedrà mai i miei occhi neri da vicino, perché io non conoscerò mai mio marito.
Non indosserò più lunghi e bianchi pepli, né fermagli d’oro tra i capelli, o gioielli regali al collo.
Non vedrò più il tramonto, dall’alto della mia reggia imponente. Occhi, scorrete ancora una volta su queste lande e imprimete a fuoco ogni particolare!
Io, figlia di un re potente, ingiustamente sacrificata a un dio che ora dubito possa ascoltarmi. Domani sarò morta, sull’altare della guerriera Artemide, il mio sangue sarà versato perché un maledetto oracolo ha profetizzato così... il mio sangue è reclamato, su nell’Olimpo, in cambio del vento per far partire le navi di mio padre dal porto.
Elena di Sparta, mio zio Menelao, Troia tutta, che brucino all’inferno!
Oh Zeus, grande e onnipotente Zeus, cosa mai ho fatto per meritare questo? Qual è la mia colpa? Uccisa da chi mi ha dato la vita.
Davvero gli dèi sono così assetati di sangue? Davvero così crudeli da strapparmi la vita? Non voglio crederci. Non posso crederci. Gli dèi sono magnanimi.
La moira ha agito. Il tristo Fato ha emesso il suo verdetto.
Ora non posso nulla, non può nulla la madre addolorata che strilla e si strappa i capelli nella stanza a fianco. Povera madre mia... non voglio vederti soffrire.
Le ancelle mi stanno intorno e si disperano, cercando parole di conforto, abbracciandosi le une con le altre, accarezzandomi le braccia chiare con le dita bagnate dalle lacrime. Ma io non piango. Non ho lacrime da versare, solo l’angoscia di diventare una pallida ombra, l’angoscia della morte che mi preme sullo stomaco, mi spinge via l’aria dai polmoni, mi mozza il respiro e quasi mi fa svenire.
Non avrò mai dei figli, non li abbraccerò mai infanti, non li potrò mai allattare, teneri germogli di vita.
Non proverò mai l’amore, non rivedrò mai più quel giovane, Aristarco, alla vista del quale le mie guance si colorano, e sono costretta ad abbassare lo sguardo, intimidita.
Prima promessa sposa del grande guerriero acheo, del Pelide Achille, ora condannata alle nozze con la morte. Preda di uno sporco inganno! Ifigenia, la figlia di Agamennone, raggirata dal suo stesso padre! E mentre Clitemnestra preparava il corredo nuziale, mio padre affilava il pugnale del sacrificio e cospargeva di acqua lustrale il bianco altare che presto, molto presto, accoglierà il mio sangue.
Porpora. È di porpora il mio cammino. Ma non la porpora della gloria, o la porpora del talamo nuziale. E mentre la madre intonava i sacri imenèi mio padre preparava i riti funebri.
Sposa. Sposa dell’Ade.
È davvero il caro padre a strapparmi la vita, il padre per il quale verso lacrime ogni volta che si allontana per una nuova guerra, presa dal timore di non vederlo tornare, quel padre che amo pur non avendo mai ricevuto in cambio un segno d’affetto? Sono davvero meno importante di una sciocca guerra, io, sua figlia, meno importante del sangue versato e degli scudi frantumati in battaglia? Ora sì, ora sto piangendo anche io. Abbraccio forte mia sorella, Elettra, e sfogo tutto il mio dolore. La stringo e singhiozzo.
Vorrei urlare, sfogare la mia rabbia. Elettra...la mia sorellina...non ti vedrò più, cara sorella... di’ addio al piccolo Oreste da parte mia, abbraccialo una volta in più per me.
Elettra... quante cose perdiamo...non osserveremo più l’orizzonte insieme, dalle mura della bella Argo, non ci divertiremo più ad incipriarci le gote a vicenda, ridendo di gusto ed inseguendoci tra i dedali del palazzo mentre giochiamo i nostri giochi di fanciulle.
Cara sorellina, fratelli tutti, dolce madre, non piangete per me. Vi dico addio. Ricordatemi in questa vita, alleviate la mia solitudine nell’oltretomba.
Ho paura madre, ho paura dell’Ade. Il buio mi inghiottirà. La terra si richiuderà su di me. Bruciata sulla pira dalle alte fiamme che avvolgeranno il mio corpo, due dracme sugli occhi per pagare l’infernale traghettatore.
Caronte mi attende, col suo ghigno ripugnante nel volto avvizzito incorniciato dal bianco pelo, gli occhi rossi che luccicano nel buio, come lanterne di bragia ad indicarmi la strada, la cattiva strada dalla quale non riemergerò mai più.
Ho paura del vuoto. Ho paura di essere dimenticata. Per noi uomini, di fronte al tempo, c’è solo la memoria a salvarci. La gloria, le gesta, la vita. Ma se questa mi viene sottratta, che mi rimane? Siamo come le foglie. Solo ora lo comprendo. Non voglio morire. Non sono pronta ancora per lasciare questo mondo. Oh potente e giusta Atena, te ne prego ferma questa follia! Ferma la mano del padre!
Ma cosa dico...sto impazzendo...grido preghiere inverosimili...cosa può un dio contro il fato ineluttabile?
Nulla...non può nulla...e il nulla mi attende...lo sento premere sulla mia testa, dentro il mio cuore...lo sento squarciarmi l’anima...io sono niente. 

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Capitolo 2
*** Atto II ***


II
 
Il sole cala. Continua a calare. Eccolo sparire, dietro le montagne. L’ultimo lembo di luce mi investe il viso, e io guardo fisso quel raggio accecante, fino a che la palla di fuoco scompare.
Gli occhi bruciano, fanno male. Vedo tutte macchie bianche quando volgo lo sguardo verso la mia stanza.
Macchie. Bianche. Di luce.
Una macchia. Ecco come mi sento. Una macchia da lavare via, una macchia di sporco sull’arazzo del Fato.
Cominciano a spuntare le stelle. Vedo chiaramente la prima stella della sera, Sirio.
La luna appare poco a poco, tra le nuvole che incupiscono il cielo, pallida sfera, Selene, regina della notte.
Il freddo della sera s’insinua nella pelle, mi entra nelle ossa, lo sento spingere e scavare, scavare, scavare.
A poco a poco mi divora, come freddo ghiaccio. Vuole ghiacciarmi il cuore.
Se avessi il cuore di ghiaccio almeno non soffrirei.
Eppure brucio. Brucio come fuoco, mi sento viva fiamma che arde troppo in fretta.
Io della mia vita che ne ho fatto in tutti questi anni?
L’ho disprezzata. Sì, l’ho disprezzata. Ho vissuto come una principessa, credendomi immortale, ma ho sbagliato. Solo gli dèi sono atànatoi.
Mi sento come invecchiata di colpo.
La clessidra sul lavabo segna implacabile lo scorrere del tempo.
Gli ultimi atti della mia vita scanditi da minuscoli, impercettibili granelli di sabbia. E man mano che il tempo passa mi sembra che vadano sempre più veloci, incalzanti, rapidissimi. Giù, giù nel gorgo.
Ogni granellino rappresenta un minuscolo frammento della mia esistenza, e mentre osservo la sabbia scendere giù veloce mi rivedo bambina, a giocare tra i veli della veste di mia madre, poi imparare a lavorare al telaio e a comandare ancelle. Quante volte ho passato le giornate valutando la qualità di una stoffa o di un’altra per la mia nuova veste, la bellezza di una collana invece di un’altra, le sontuosità dei bracciali giunti dall’oriente solo per me, le magnificenze di ogni nuova festa in onore di un mio compleanno? Che sciocca. Quale ingenuità, quale assurda ingratitudine nei confronti della vita!
Che senso c’è dietro tutto questo? Quale destino hanno in serbo per me gli dèi? Non posso credere che nel mio domani ci sia solo la nera Morte. Non sono pronta per stringere la mano a Persefone.
Mi rendo conto di aver bruciato attimi fondamentali nell’inerzia di una quotidianità di cui non sentivo il peso. Ma ora sì, ora capisco.
Prima ero cieca sul mondo. Ma non era una cecità che rende saggi, come il vecchio Tiresia. Quella cecità mi rendeva stolta.
Ora capisco il valore di una vita.
I miei occhi prima cuciti, li sento ora come strappati all’improvviso e lasciati affogare alla luce, una luce che mi acceca e mi uccide.
Giù. Giù nel gorgo.
Mi sento scivolare insieme a quei granelli, giù in un vortice impazzito, che mi trascina a fondo, e mi sommerge, mi fa soffocare.
La mia vita si avvolge su se stessa, come un serpente che si morde la coda, soffocato dalle sue stesse spire.
Giù. Giù nel gorgo.
  

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