Eppure resta

di Ginger_J
(/viewuser.php?uid=46280)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Ottobre 2008 ***
Capitolo 2: *** Ovunque andrà dovrà tornare. ***
Capitolo 3: *** Bentornata al Sud ***
Capitolo 4: *** Vecchie incomprensioni ***
Capitolo 5: *** Veleno per topi ***
Capitolo 6: *** Snow White ***



Capitolo 1
*** Ottobre 2008 ***



1. Ottobre 2008


Nel 2004 avevo tutto quello che una ragazza potesse desiderare: avevo degli amici fantastici, un ragazzo che mi amava ed una famiglia altrettanto amorevole, pensavo che nulla sarebbe cambiato, che la mia vita perfetta sarebbe rimasta intatta.
"
Ho sofferto tanto, un po' di felicità me la merito" continuavo a ripetermi, anche quando vi era un intoppo a quell'immacolata vita piena di gioie. Me lo ripetevo spesso quando andavo a trovare mio padre, o nei mesi in cui non potevo vedere il mio fidanzato.
Le cose belle, però, si sa che prima o poi finiscono, così dodici mesi dopo era successo l'impensabile. Ero stata lasciata, l'unica persona che pensavo non mi potesse mai abbandonare l'aveva fatto, senza spiegazioni. Senza un messaggio. Niente. Marco se n'era semplicemente andato e con lui me n'ero lentamente andata io. Per un lunghissimo anno sprofondai più giù dell'abisso. Io che ero logorroica dalla nascita caddi in un mutismo sconvolgente, mi chiusi in me stessa e nel mio dolore. Non uscivo più con i miei amici. Non uscivo più con la mia famiglia. Passavo le giornate chiusa in camera ad ascoltare musica deprimente e piangere, ero diventata lo stereotipo della donna in post-rottura, ma in genere queste si riprendono dopo un paio di mesi, a me ce ne vollero tredici. Alla fine un giorno di Marzo mi alzai dal letto con la consapevolezza di dover reagire, chiamai il mio migliore amico ed andai a fare shopping, poi mi tagliai tutti i capelli e li tinsi di rosso, un rosso acceso come la rabbia che sentivo in corpo. I due anni successivi mi servirono per stabilizzarmi. Iniziai a lavorare, ripresi ad uscire, passivamente, con gli uomini e tornai ad essere quella che ero un tempo. Ero perfino andata a vivere da sola, forse ero stata così dipendente dal dolore che quello che desideravo era solo essere totalmente indipendente. Passarono così quattro anni, ma al contrario di quella volta, nel 2008 sentivo che sarebbe successo qualcosa. Percepivo nell'aria il profumo del cambiamento, non riuscivo a capire se era una fragranza che mi piaceva oppure che mi avrebbe dato il volta stomaco, ma quando c'è un cambiamento la maggior parte delle volte non si può decidere se abbracciarlo o meno, lo si prende così come viene, pregando in qualcosa di migliore. Purtroppo però, per quel che mi riguarda, ancora sto cercando di capire se, quella volta, cambiare fu un bene...


L'Iphone vibrò sul comodino facendo quel rumore sordo che tanto detestavo, dopo qualche secondo partì "Rock off" degli Stones e quello fu l'irrimediabile segno che dovevo rispondere.
«Pronto?» avevo la la voce ancora impastata dal sonno.
«Stai dormendo» disse una voce che conoscevo molto bene all'altro capo del telefono, non era una domanda, ma una semplice constatazione accompagnata da uno sbuffo.
«Stavo dormendo» specificai sbuffando a mia volta e rigirandomi in posizione supina.
«Sai che giorno è?»
«Un freddo giovedì mattina di fine Ottobre»
«Rebecca tra circa due ore si laurea una delle nostre migliori amiche, ti consiglio di muovere il culo» mi suggerì il ragazzo, sempre con un tono di voce molto pacato.
«Cazzo!» gridai, invece, io. «E'
quel giovedì, vero?» chiesi conferma, sperando che mi stessi sbagliando.
«Sì. Sbrigati, ti passo a prendere tra quarantacinque minuti.»
«Ok, ce la posso fare» mormorai in preda al panico.
«Muoviti!» mi incitò lui con uno sbuffo. «Non capisco perché non ti decidi a comprare una sveglia» chiese, più a se stesso.
«Perché dopo una settimana la tiro contro il muro» risposi schioccando la lingua, «che dovevo mettermi?!» gli domandai alzandomi di scatto dal letto ed in preda al panico.
«Il vestito viola, con quell'orribile giacca nera» rispose lui con un altro sospiro. «Li avevi messi nella parte destra dell'armadio» aggiunse prevedendo già la mia futura domanda.
«Ok, ce la posso fare» mi dissi nuovamente cercando di auto-convincermi. «Fammi un favore, portami la colazione» lo implorai toccandomi di riflesso lo stomaco.
«Rebecca devi muoverti!» sbuffò il ragazzo, il suo tono pacato si stava trasformando in un tono palesemente irritato.
«Certo, certo» risposi sbrigativa mentre entravo in bagno,«ricordati il caffè e il cornetto al pistacchio.»
«Altro?»
«Ti voglio bene David!» gli dissi, poi mi specchiai e constatai che dovevo lavarmi anche i capelli, segno che non ce l'avrei mai fatta ad essere pronta in tempo.
«Si certo. Ci vediamo tra quaranta minuti.»
«Ma non erano quarantacinque?»
«Ne hai persi cinque al telefono, ciao» e David interruppe la chiamata.
Davide, o David, era il mio migliore amico. Ci eravamo conosciuti in quinta elementare, poi ci eravamo persi di vista e ritrovati al liceo; passammo un anno ad ignorarci, e poi tramite amici in comune iniziammo ad uscire in gruppo, da quel momento non ci dividemmo più. Sarebbe stato il ragazzo perfetto: avevamo gli stessi interessi, erano poche le cose che non condividevamo e questo ci portava a vivere in simbiosi, eravamo così attaccati che la mia cara nonna, molte volte, mi aveva fatto intendere che sapeva di una nostra fantomatica e nascosta storia d'amore, ma purtroppo per la povera vecchietta David era totalmente gay e molte volte ringraziai il cielo per il suo orientamento sessuale che in molte situazioni si era rivelato un vero toccasana. I suoi consigli, soprattutto in fatto di uomini, erano i più azzeccati perché vedeva con un occhio maschile e con uno femminile.
Sbuffai uscendo da quella doccia che era durata troppo poco, mi frizionai i capelli con l'asciugamano, e purtroppo non c'era tempo per la piastra, così presi le gocce liscianti e me ne misi una dose molto abbondante sulla chioma rossa, poi mi misi a testa in giù ed iniziai ad asciugarli con il phon.
Ero stanca morta, l'ultimo giorno di lavoro mi aveva ammazzata e mai come quella volta ringraziai la fine di un lavoro, tra tutte le produzioni che mi avrebbero potuto chiamare era stata proprio la peggiore a farlo; mi era ritrovata a curare l'edizione di un gruppo di misogini e superbi, diverse volte avevo pensato di licenziarmi, ma alla fine avevo continuato per non dargliela vinta, per una questione d'orgoglio; quell'orgoglio enorme che molte volte mi aveva salvato, ma che avevo anche perso e dovuto recuperare con il tempo.
L'Iphone squillò di nuovo e sul display apparve la foto di Carlotta, buttai indietro i capelli e spensi il phon poggiandolo sul ripiano.
«Sei sveglia!» constatò felice Carlotta.
«Mi ha svegliato David» risposi cercando i collant che erano magicamente spariti dal cassetto in cui ero convinta di trovarli.
«Ah. Effettivamente sarebbe stato un miracolo...» ridacchiò Carlotta. «Comunque tra cinque minuti sono a casa tua.»
«Perché?» le domandai mettendo il viva-voce ed iniziando a vestirmi.
«Non ti ricordi? Dovevi truccarmi!» trillò la ragazza, «ci vediamo tra pochi minuti» E anche lei interruppe la telefonata; respirai sommessamente e corsi a vestirmi, tra due minuti sarebbe salita Carlotta, tra quindici David e io dovevo ancora truccarmi e finire di aggiustarmi i capelli, quella giornata sarebbe stata faticosa, me lo sentivo.
Andai in bagno e iniziai a litigare con i capelli che non trovavano pace, nel momento esatto che avevano deciso di collaborare facendosi raccogliere in uno chignon morbido il trillo del citofono mi fece sobbalzare, sbuffai affranta e mi diressi verso la porta, senza chiedere chi fosse aprii il portone di sotto e la porta di casa; dopo qualche minuto le porte dell'ascensore si aprirono e Carlotta entrò dentro casa. «Ancora così?» mi chiese poggiando la borsa sulla poltrona.
«Eh per cortesia... non ti ci mettere pure tu» risposi in acidità mentre tornavo in bagno, «intanto mettiti il fondotinta» le ordinai, così mentre lei armeggiava con i trucchi io ebbi il tempo per sistemarmi per lo meno i capelli; feci sedere Carlotta ed iniziai a truccarla in modo molto leggero, aveva la pelle molto chiara quindi non potevo osare molto con i colori, anche perché ero negata a dosare gli ombretti scuri. Quando ebbi finito feci giusto in tempo a mettermi il fondotinta ed un filo d'ombretto prima che un messaggio mi avvertì che David ci stava aspettando sotto casa.
«Mettimi il mascara, la terra e la matita nera nella pochette che sta nel terzo cassetto, per favore» chiesi a Carlotta mente, nel panico, correvo in camera a spostare il contenuto della borsa rossa in quella nera. Presi i tacchi in mano per evitare di cadere e rompermi qualcosa, mi infilai velocemente la giacca, chiusi bene la porta e mi diressi velocemente in ascensore, quando le porte si aprirono mi misi finalmente le scarpe ed uscimmo dal portone; ma quando mettemmo piede nella macchina di David lui mi guardò in cagnesco, se avesse avuto qualche potere mi avrebbe sicuramente incenerito per bene.
«Cinque minuti di ritardo, ce ne vorranno altri dieci per cercare parcheggio. Questa volta Elisa ti ammazza» constatò lui, poi mi diede la bustina bianca che conteneva la mia tanto agognata colazione e partì a tutta velocità con la sua Mercedes nuova di zecca. «Buongiorno tesoro» disse poi guardando Carlotta dallo specchietto retrovisore.
Sbuffai poggiando il bicchiere del caffè nel portavivande, misi il cornetto sul cruscotto e cercai di finirmi di truccare chiedendomi, però, come mi venne in mente l'idea di armeggiare con il mascara mentre David sfrecciava per le vie di Roma incurante del traffico e del fatto che la grandezza della sua macchina non era proprio adatta a certi sorpassi.
«Il fatto che non mi sia finito il pennellino del mascara nell'occhio la dice lunga sulle mie abilità di trucco» dissi fiera mentre chiudevo lo specchietto.
«Al tuo prossimo compleanno ti regaleremo un set di quindici sveglie» scherzò Carlotta.
«Dovrete aspettare quasi un anno... però per il tuo ti regalerò, sicuramente, un corso di trucco» schioccai la lingua e poi mi apprestai finalmente a fare colazione.
«Ti avverto: una sola macchia di caffè e ti taglio i capelli nel sonno» mi minacciò David osservandomi con la coda dell'occhio.
«Non ho dieci anni» sbuffai sentendomi colpita nell'orgoglio e addentai tristemente un pezzo di cornetto.
«Ti ho solo avvisato amore» sorrise il ragazzo prima di iniziare ad urlare contro una macchina che, a suo avviso, era meglio se andasse allo sfascio assieme al suo guidatore.
«Ma tra i suoi mille optional questa macchina non ha uno stereo?» chiesi iniziando a spingere tasti a caso.
«Togli le tue manacce da lì!» urlò David. «Faccio io, tu non toccare nulla»
«Porca puttana David, non sono mica una deficiente!»
«No, ma quando dormi poco combini più danni del solito»
«Vaffanculo!» urlai, poi mi accoccolai meglio sul sedile ed inizia ad armeggiare con l'Iphone fino a quando non trovai e feci partire una canzone di Bob Dylan.
«E questo che sarebbe?» mi chiese con una smorfia disgustata sul viso.
«Musica» sorrisi tornando poi ad annuire con la testa a tempo di musica.
«Togli questa roba!» urlò David con disappunto; sentii Carlotta sbuffare dietro di me, sicuramente non era pronta a subirsi cinque minuti di grida su cosa fosse musica e su cosa no, infatti la vidi iniziare a giocare con una ciocca di capelli pronta ad essere spettatrice di quella guerra che andava avanti da anni, perché per quanto io e David potevamo essere uguali, la musica ci divideva quasi sempre: io amavo i Rolling Stone, i Beatles, Janis Joplin e tutto ciò che andava dagli anni sessanta alla metà degli ottanta; lui invece amava la musica commerciale e da discoteca.
Fortunatamente, o sfortunatamente, il telefono di David iniziò a suonare e la modalità "auto" attivò il viva-voce facendo spargere per tutto l'abitacolo le urla dell'altra nostra migliore amica, la laureanda.
«David! Dove diavolo sei?»
«Stiamo cercando parcheggio» mentì lui. «Sei in viva-voce» aggiunse poi.
«Ely come ti senti?» provai a chiedere addolcendo la voce.
«Se avessi i miei migliori amici accanto sarebbe meglio» rispose Elisa sbuffando.
«Luca è li?» le chiese Carlotta, cercando di distrarla.
«No, il mio ragazzo è andato a prendere i suoi genitori... circa due ore fa» rispose acida.
«Stiamo arrivando amore, un po' di pazienza» la rasserenò David, passando con il rosso e arrivando finalmente davanti La Sapienza.
«Sbrigatevi» sospirò Elisa, sbuffai interrompendo la chiamata.
«Lì a destra c'è un posto, corri!» trillò Carlotta, il ragazzo seguì il dito dell'amica e con pochissime manovre parcheggiò.
«E' tutto merito del park assist, non ti gasare» lo presi in giro spegnendo il suo entusiasmo, poi mi accesi una sigaretta e ci dirigemmo verso la facoltà di lettere classiche pronti a supportare, come facevamo da quasi sei anni, chi del gruppo aveva bisogno di una mano; forse era questo che ci aveva sempre tenuto uniti, la consapevolezza di esserci l'uno per l'altro, andando anche contro il resto del mondo.


«Non ci avevi mai detto che il tuo professore era un figo da paura!» disse David bevendo un po' del suo cocktail, Elisa ridacchiò e si accoccolò ancora di più su Luca; stava dando finalmente la sua festa di laurea, si era laureata con il massimo dei voti e da oggi poteva finalmente iniziare a cercare un lavoro e a gettare le basi per crearsi una famiglia tutta sua, in fin dei conti ero felice per lei.
«Non credevo fosse il tuo tipo» gli rispose la neo-laureata.
«Ely, tutti sono il suo tipo» ridacchiai mangiando un altra manciata di noccioline.
«Da che pulpito!» rise David, additandomi.
«Il fatto che mi piacciono dei ragazzi non implica l'andarci per forza a letto» cercai di difendermi, «comunque, se qui c'è qualcuno che dovrebbe parlare di ragazzi non sono di certo io» aggiunsi guardando Carlotta, «allora, com'è andata ieri sera?»
La ragazza guardò Luca, e al suo sguardo si aggiunse quello di tutti i presenti; il ragazzo di Elisa era diventano da tempo parte integrante del gruppo, ma la regola è che davanti a lui certe cose non si dicevano, e se io e -soprattutto- David riuscivamo a fare qualche eccezione, Carlotta era intransigente.
«Ho capito» sbuffò il ragazzo alzandosi «vado a farmi un giro» annuì, guardando la sua fidanzata in cerca d'aiuto, ma anche Ely lo guardava con il nostro stesso sguardo.
«Grazie amore» gli disse lei, poi lo prese per la camicia e lo costrinse ad abbassarsi per farsi baciare; Luca sorrise e le passò una mano dietro la testa, stringendo Elisa ancora più a se e facendo durare quel bacio più del previsto.
«Vi prego, il diabete mi sta uccidendo» li interruppi con una delle mie solite battutine, la coppia si staccò e Luca prima di andarsene, mi fece la linguaccia, scompigliandomi poi i capelli al suo passaggio.
«Allora?» domandai guardando Carlotta che era già diventata paonazza in viso.
«Ci sei andata a letto?» le chiese David con la sua solita schiettezza.
«No!» gracchiò Carlotta spalancando gli occhi, «che diamine era solo il primo appuntamento!»
«E' solo un dettaglio, quello» sbuffò David alzando gli occhi al cielo.
«Vabè, raccontaci! Dove siete stati?» cercò di spronarla Elisa, con Carlotta era sempre così, quando doveva iniziare un discorso più o meno serio aveva sempre bisogno di una spintarella iniziale per poi prendere coraggio ed iniziare a parlare a macchinetta.
«Mi è venuto a prendere a casa, e poi mi ha portato in un ristorantino in centro, veramente carino...»
«Blà blà blà... arriviamo ai dettagli piccanti per favore?» la supplicò David versandosi un po' di champagne del bicchiere.
«Che palle che sei» borbottò Carlotta alzando gli occhi al cielo, «ci siamo baciati, a lungo»
«E basta?» fu la mia domanda, volevo sapere qualche dettaglio in più e magari anche ricordare cosa si provasse in certe situazioni, visto che era da tempo che non partecipavo ad un tradizionale primo appuntamento.
«Sì. E per il momento va più che bene» sentenziò Carlotta, poi lanciò uno sguardo ad Elisa sperando in un suo aiuto.
«Come bacia?» chiese quest'ultima abbozzando un sorriso.
«Alla nostra età la domanda più consona sarebbe "come scopa?"» ridacchiò David prima di ricevere una mia, non poco leggera, gomitata al fianco; Carlotta lo ignorò e rispose che era un discreto baciatore, ma che gli avrebbe dato una seconda chance per la galanteria che aveva dimostrato.
Quando Carlotta finì il suo racconto decidemmo che era arrivato il momento di animare la serata, troppa gente stava seduta sui divanetti e solo in pochi in pista a ballare, bevvi un lungo sorso del mio cocktail e sentii la gola pizzicare, scossi la testa e feci una smorfia mentre sentivo David prendermi per mano e portarmi al centro della pista pronto a coinvolgermi in qualche strano ballo dei suoi.


Il rumore incessante della pioggia mi svegliò definitivamente salvandomi dal finale di un terribile incubo. Mi passai una mano sulla fronte per togliermi i capelli che mi erano finiti davanti gli occhi, allungai la mano sul comodino e presi l'Iphone, me lo portai fino a pochi centimetri dagli occhi e tentai di mettere a fuoco constatando che la mia miopia stava peggiorando; mi resi conto che era appena mezzogiorno e che avevo dormito cinque ore scarse, mi voltai verso David che al contrario dormiva placidamente, ridacchiai ricordando che fino a qualche ora prima gli stavo tenendo la testa mentre vomitava.
Presi gli occhiali dal comodino e finalmente il mondo mi iniziava a sembrarmi un posto più bello e luminoso, mi alzai lentamente e, cercando di non svegliare il mio amico, anche se dubitavo che potesse succedere, mi trascinai fino alla cucina. La mia dipendenza dal caffè si faceva sentire.
Lo versai nella mia tazza preferita e mi sedetti sul divanetto sotto la finestra, guardai fuori dai vetri semi-appannati e mi incantai ad osservare la pioggia che ininterrottamente lavava ogni cosa, che rendeva tutto più pulito. Invidiai la natura provando -invece- pena per gli esseri umani, i loro sensi di colpa, i loro errori, non venivano mai veramente via dopo una doccia, e neanche dopo cento; tanti anni fa ci avevo provato anche io, stetti tre ore sotto la doccia e ripetei per una settimana quell'azione, ma non ci fu niente da fare, appena uscivo dal box i sensi di colpa, la malinconia e l'angoscia riaffioravano più prepotentemente di prima ed io stavo peggio.
Ripensare a quel periodo della mia vita mi fece venire la pelle d'oca, quei terribili mesi in cui ero diventata un vegetale umano sembravano così lontani, eppure tre anni non erano niente; tre anni in cui avevo toccato il fondo più volte prima di risalire con una dura corazza a farmi da scudo, da quel momento non avevo più permesso a nessuno di
distruggerla.
Mi asciugai un lacrima che era scesa al pensiero di quei momenti e tornai in camera da letto decisa a svegliare David, perché c'era solo un modo per scacciare quella malinconia che mi si era ammassata dentro...
«Dà» provai a chiamarlo dolcemente per tre volte, poi iniziai a scuoterlo
alzando di due toni la voce. «David svegliati!» sbuffai, avvicinandomi per constatare se, effettivamente, stesse ancora respirando e quando ne ebbi la conferma iniziai a tirargli una serie di cuscinate in faccia.
«Ma che problema ti assilla?» gracchiò lui nascondendosi sotto il piumone.
«Ho avuto un momento di pura depressione, devo fare shopping per dimenticare» cinguettai.
«I cervelli nuovi non sono in saldo» biascicò lui con uno sbuffo e girandosi dall'altro lato.
«Magari c'è la svendita dei migliori amici» pensai ad alta voce, poi poi mi alzai dal letto e presi dei vestiti dall'armadio, «alzati, lavati e vestiti»
«Che palle che sei» borbottò David togliendosi di dosso il pesante piumone, «ma dove vuoi andare con questo tempo?!» mi chiese, sconvolto, dopo essersi accorto dell'acquazzone che c'era di fuori.
«Centro commerciale» risposi scuotendo le spalle.
«Ti ho già detto che ti odio?»
«Sì, almeno un milione di volte da quando ci conosciamo»

Gli feci la linguaccia e mi andai a gettare sul divano. Per ingannare l'attesa accesi la televisione, fare zapping era un ottimo passatempo soprattutto quando in televisione non c'era un bel niente da vedere; passai in rassegna più di cinquanta canali e mi interruppi solo quando mi resi conto che era il mio telefono a squillare, lessi il nome sul display e risposi: «Buongiorno splendore!»
«Questa pioggia mi annoia» sbuffò Carlotta, «ti va di vedere un film?»
«Vieni tu da noi?» le chiesi lanciando uno sguardo al ripiano della libreria che avevo adibito a videoteca.
«Noi?»
«Sì, c'è David. Ieri sera era in condizioni pessime, l'ho obbligato a restare qui»
«Meno male» sentì sospirare Carlotta, «comunque ok, ci vediamo tra un pò»
«Tesoro, porta da mangiare; io non ho avuto il tempo di fare la spesa»
«Genuino o schifezza?»
«Schifezza, il genuino ce l'ho anche io» ridacchiai tirandomi su dal divano, «Luca ed Elisa staranno dormendo, chiamarli è inutile... vero?»
«Sì, sicuramente dormono. Siamo solo noi tre» constatò Carlotta.
«Soli e felici, a vita» scherzai alludendo anche alle nostre vite sentimentali.
«Oddio, felici è una parola grossa...»
«A me non manca niente» pensai ad alta voce mentre cercavo il pacchetto di sigarette nella borsa.
«Però se avessimo quella cosa in più sarebbe meglio, non trovi?» cercò di convincermi Carlotta.
«Parla per te» ribattei stizzita trovando finalmente anche l'accendino.
«Certo, certo» tagliò corto Carlotta che si rese conto che stava iniziando ad affrontare l'argomento taboo, «comunque ho preso tutto il cibo necessario, potremmo sfamare una squadra di rugby.»
«Mmh... i giocatori di rugby non sono niente male» mormorai andandomi a togliere le scarpe.
«Non avevo dubbi!» rise Carlotta, «ci vediamo tra un pochino»
«Ok. Intanto faccio le pop-corn; è l'unica cosa che ho» le dissi entrando in cucina, presi la padella e mentre versavo i chicchi di mais scoppiai a ridere da sola pensando alle urla che prossimamente si sarebbero sparse per casa, con quel pensiero mi diressi in camera da letto e cambiai jeans con un paio di vecchi leggins scoloriti, poi entrai in bagno e riposi le scarpe nell'enorme scarpiera.
«Ti sei cambiata per stare più comoda, vero?» mi domandò David mentre si passava una mano sui capelli bagnati.
«Certo amore mio» trillai sfarfallando le lunghe ciglia.
«Rebecca!» gracchiò lui, «cosa mi nascondi?!» mi chiese, assottigliando lo sguardo.
«Ma niente... mi ha chiamato Carlotta e... c'è stato un piccolissimo cambio di programmi» borbottai iniziando ad attorcigliarmi una ciocca di capelli attorno al dito, «nulla di grave eh. Solo che restiamo a casa a guardare un film» specificai, con un sorriso, prima di uscire in tutta fretta dal bagno e dirigermi velocemente verso la cucina, una volta arrivata ai fornelli spensi il gas sotto la padella scoppiettante di pop-corn e poi mi voltai alla ricerca di David, ma di lui e la sua ira non vi era neanche l'ombra; perplessa mi diressi di nuovo verso la camera, camminavo lentamente per paura che David potesse sbucare da dietro qualche mobile e mettermi paura, ma quando arrivai sulla porta lo trovai sdraiato a stella sul letto, con la faccia completamente schiacciata sul cuscino.
«Non avrai intenzione di...»
«Non ti azzardare a parlare!» mi zittì lui, «ora tu aspetti Carlotta e insieme vi vedete qualche film pietoso, io arriverò per i titoli di coda» ordinò.
«Uffa, che palle» borbottai, poi andai ad aprire a Carlotta che aveva già suonato il campanello tre volte.
«Ma David?» mi domandò poggiando il cappotto su una sedia.
«Dorme. Ci raggiunge per i titoli di coda» risposi alzando gli occhi al cielo, poi andai in cucina a prendere la ciotola delle pop-corn e mi sedetti sul divano con Carlotta, «tu che hai nella bustona?» le chiesi osservando il sacchetto di plastica ai piedi del divano.
«Tavolette di cioccolata e caramelle gommose... e anche qualche lattina di coca-cola» mi sorrise Carlotta svuotando il contenuto della busta sul divano.
«Io ho la birra» aggiunsi sorridendo, «direi che possiamo iniziare» proclamai aprendo una tavoletta di cioccolato bianco.
«Che film hai scelto?» mi domandò Carlotta prendendo una manciata di pop-corn dalla ciotola.
«Benjamin Button» risposi telegrafa.
«Ottima scelta!» asserì lei mentre il film iniziava, poi si zittì, ma l'iniziale silenzio durò per i primi cinque minuti, perché si trasformò in uno scambio assiduo di commenti sulle battute dei personaggi, sulla storia e su tutto ciò di cui si poteva parlare; adoravo vedere i film con Carlotta proprio per questo, durante le proiezioni non stavamo zitte un minuto, ci confrontavano subito, ridevamo, ma allo stesso tempo riuscivamo a seguire il film in modo impeccabile, e le cose -anche quel piovoso pomeriggio di Ottobre- andarono così.


David si era svegliato giusto in tempo per vedere l'ultima mezz'ora di film, avevo poggiato la testa sulle sue gambe lasciando che mi accarezzasse i lunghi capelli rossi mentre mi beavo dell'effetto calmante della nicotina.
«Vogliamo prendere la pizza?» ci chiese Carlotta mentre sul televisore scorrevano i titoli di coda.
«Io, sinceramente, sto scoppiando» le risposi toccandomi la pancia, «però possiamo ordinarne un paio, al massimo ve le portate a casa e ve le mangiate domani»
«Io ho una fame assurda, quindi per me va bene tutto» dichiarò David.
«E ci credo, tutto quello che avevi mangiato lo hai vomitato» gli ricordai contraendo il volto in una smorfia; lo squillare del cellulare mi fece sobbalzare, mi allungai a prenderlo e sorrise vedendo che finalmente i miei genitori mi stavano chiamando.
Mamma e papà si erano trasferiti in un piccolo paesino della Calabria due anni prima; quando mia nonna materna morì decisero che era venuto il momento di ritirarsi in campagna per una vita più tranquilla e per godersi, ancora, della compagnia di mio nonno, il padre di mio padre.
«Madre!» dissi alzandomi da terra, ma non feci in tempo a muovermi che sentii le gambe vacillare e mi accasciai di nuovo, «ma quando?» le chiesi con gli occhi sbarrati; ebbi come l'impressione di essere stata colpita in pieno stomaco da un pugile professionista.
«E' successo ieri notte, ma non volevamo rovinare la festa di Elisa; a proposito... falle i nostri auguri» mi spiegò mia madre, sospirando.
«Metto qualcosa in valigia e scendo in macchina»
«Rebecca, non è un viaggio che puoi affrontare con la smart» mi rammentò.
«Ok, allora...» cercai di pensare a qualcosa, guardai l'orologio che avevo al polso e sospirai cercando di trattenere le lacrime e trovare un' alternativa. «Qui ci sono David e Carlotta, mi faccio dare un passaggio in stazione, prendo il treno delle sei, così per le undici sono lì»
«Tuo padre dice di stare tranquilla e di prendere il primo treno domani mattina, oramai non c'è molto da fare qui...»
«Va bene» sospirai sconfitta, David e Carlotta mi guardavano senza fare domande, anche se avevano intuito che fosse successo qualcosa di grave. «Zio?» chiesi poi tirandomi indietro i capelli.
«Arriva tra un'ora, con tua cugina» mi rispose mia madre sospirando.
«Ci vediamo domani allora» la salutai con un filo di voce, poi poggiai il telefono sul tappetto e guardai i miei amici, «domani vado in Calabria, è morto mio nonno» dissi prima di scoppiare definitivamente a piangere.


***

Note finali:


Eppure resta nasce sette mesi fa. Eppure resta nasce dopo una storia finita male, nasce come una valvola di sfogo e si è trasformata in un'avventura. Il titolo... c'è chi dice che è una frase di Montale, c'è chi ne reclama la maternità, io non lo so, so solo che amo questa frase e che l'ho trovata mesi fa su una pagina di Facebook come, appunto, citazione di Montale xD
Racchiude un po' tutte le passioni della mia vita: il mare, gli amici, l'amore travolgente ecc.. ma c'è anche dell'altro; c'è la tematica dell'illegalità che, purtroppo, al giorno d'oggi nei paesini del sud è ancora fin troppo presente, c'è un piccolo paesino dove la vita non è sempre facile e ci sono i tradizionali scontri famigliari.
Spero che resterete a farmi compagnia in quest'avventura che per me significa veramente molto, forse troppo; finisco, quindi, col ringraziare chiunque si sia fermato a leggere questo primo capitolo e tutti quelli che lo commenteranno.
Infine un Grazie speciale va a Kate che c'è sempre stata, che non mi ha mai abbandonata e che molte volte mi ha spinto a proseguire questa storia e mi ha convinto a pubblicarla. Ti voglio bene patata! E grazie a Pind autrice della bellisima grafica.


Ho veramente terminato, un bacio e spero di “vedervi” al prossimo capitolo.

-J


Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Ovunque andrà dovrà tornare. ***



2. Ovunque andrà dovrà tornare.

L'ultima volta che ero stata in Calabria per più di un mese fu quattro anni prima; poi mi ero solo limitata ad aiutare i miei con il trasloco e quelle rare volte che li andavo a trovare non mi trattenevo più di un paio di giorni. Il motivo era chiaro a tutti e nessuno mi faceva domande, al contrario ringraziavano il cielo per quelle visite; io avevo mantenuto vivi tutti i rapporti con i miei amici più cari e fortunatamente a loro piaceva mettersi in macchina e viaggiare, così molte volte me li ero ritrovati a dormire sul divano di casa... ovviamente tutti tranne Lui che, per quel che ne sapevo, poteva essere latitante su qualche montagna limitrofa, oppure poteva essersi aperto un bar in qualche paese vicino; comunque combattevo la mancanza e la tentazione senza fare domande, anche perché quando ci avevo provato le risposte erano state poco esaustive.
«Bentornata» mi disse mio zio che, infreddolito, mi aspettava sul binario della stazione di Gioia marina, il piccolo paesino di cui era originaria la mia famiglia situato sulla parte jonica della Calabria.
«Grazie» l'abbracciai forte, poi abbassai lo sguardo e sorrisi alla mia cuginetta preferita. «Spiegami perché tu sei sempre più alta, e più bella» le dissi facendola ridacchiare; ci avviammo verso la macchina e dalla stazione a casa ci vollero una ventina di minuti, tempo in cui mi resi conto di quanto il paese sembrava cambiato, anche se -in realtà- era sempre lo stesso.
«Come l'ha presa?» domandai a mio zio guardando Yasmine che, seduta dietro, osservava il paesaggio fuori dal finestrino.
«Le ho detto che ora il nonno è felice perché finalmente si è ricongiunto alla nonna» mi rispose lui con quell'accento un po' torinese che nel corso degli anni aveva fatto suo e che io adoravo. Aprii un poco il finestrino e mi misi ad osservare quel paesaggio di campagna, l'unico che amavo sul serio; respirai a pieni polmoni quell'aria e mi sentii inebriata da quei
profumi così famigliari...
«Ok» sospirai scendendo dalla macchina, ero arrivata finalmente a
casa.
«Era ora» mi sorrise mio padre che mi aspettava sulla porta, sorrisi di rimando e corsi ad abbracciarlo fregandomene di tutte le persone che, sul pianerottolo, stavano andando a dare l'ultimo saluto a mio nonno; con il tempo avevo imparato a fregarmene delle persone del paese soprattutto quando avevo capito che l'unica cosa che gli importava sul serio era sparlare di quella ragazza -secondo loro- così cittadina.
«Mi sei mancato tanto» sussurrai all'orecchio di mio padre.
«Anche tu amore mio, anche tu» mi rispose accarezzandomi il volto con le sue mani ruvide.
«Giuseppe, mi lasci salutare nostra figlia?» la voce di mia madre ci fece sorridere entrambi, mi abbracciò stampandomi una serie di baci sulle guance, quando ci staccammo sorrisi a tutti quei parenti e amici che mi osservavano di sottecchi e mi avviai verso il feretro che era posto nell'inutilizzato soggiorno. Arrivata davanti la bara accarezzai le mani del nonno, gli toccai il volto gelido e sentii le lacrime iniziare a scendermi sul viso, mi chinai sulla bara e depositai un bacio sulla sua fronte, incapace di pensare che lui non fosse più tra noi, poi a testa bassa uscii e mi apprestai a salire le scale che portavano al mio appartamento.
«Te l'ho pulito, e ti ho cambiato le lenzuola» mi disse mia madre che mi aveva seguito.
«Grazie» le sorrisi, poi poggiai la valigia sul pavimento e diedi un veloce sguardo al letto.
«I funerali ci sono tra tre ore, fatti una doccia e riposati un po'» mi consigliò prima di tornare di sotto; sospirai e mi sedetti, avevo dimenticato quanto amassi quella casa che, con il primo stipendio, avevo arredato seguendo uno stile prettamente orientale.
Mi tolsi le scarpe e svuotai la valigia, sperando che nella fretta avessi preso i vestiti giusti, poi seguendo il consiglio di mamma andai a farmi una doccia, ma quando il getto d'acqua mi toccò la schiena riaffiorarono alla mia mente i ricordi, scocciata chiusi la manopola dell'acqua e mi avvolsi sospirando ad un asciugamano; tornai in camera e mi fiondai a peso morto sul letto, chiusi gli occhi e quei ricordi che avevo represso poco prima tornarono prepotentemente a galla.

Scesi le scale di corsa rischiando di cadere un paio di volte, ma riuscii ad arrivare al primo piano indenne, sospirai profondamente e poi mi resi conto di essere osservata da tutti i presenti, sorrisi flebilmente a qualche parente e presa dal panico mi dileguai al piano di sotto dove trovai Yasmine intenta a guardare la televisione; la piccola mi lanciò uno sguardo domandandomi se mi servisse qualcosa.
«Sinceramente no» scrollai le spalle, in effetti non sapevo neanche io perché era scesa nell'appartamento di mio zio, «hai fatto merenda?» le domandai poi.
«Sì» sorrise Yasmine lanciando uno sguardo fiero al mucchietto di carte di merendine che troneggiava al suo fianco.
«Dov'è papà?» le chiesi, posandole un bacio sui capelli biondi.
«E' sopra» mi rispose la bambina, così feci un respiro profondo e tornai di sopra, entrando poi in quella che era stata la casa di mio nonno.
«Condoglianze» disse una voce alle mie spalle, mi voltai e intravidi un viso conosciuto al quale però non seppi dare un nome, così mi limitai ad annuire e sussurrare un ringraziamento a mezza bocca.
«Tesoro» la voce di mia madre mi fece voltare nuovamente, «non dovresti essere qui... stanno per chiudere il nonno» mi disse con fare apprensivo.
«Ah» sbiancai e mi sbrigai ad uscire di casa andandomi a sedere sulle scale dell'ingresso; feci dei respiri profondi, solo al pensiero di una cassa chiusa mi sentivo mancare l'aria e fortunatamente mia madre mi aveva avvertito in tempo prima che la mia claustrofobia prendesse il sopravvento, probabilmente voleva evitare che svenissi o mi prendesse un attacco di panico proprio in quel momento.
Mi accesi una sigaretta e chiusi gli occhi inspirando, ma quel momento di relax durò poco perché una voce fin troppo famigliare mi costrinse a riaprire gli occhi. Mi voltai a guardare verso la mia destra e diventai ancora più pallida di quanto non lo fossi qualche minuto prima sulle scale; cercai di fare dei respiri profondi mentre mi premevo una mano sul petto come se volessi fermare il cuore o, per lo meno, rallentare un po' i suoi battiti. Lo sentivo pulsare in gola e avevo l'impressione che da un momento all'altro mi sarebbe uscito dalla bocca e l'avrei dovuto raccogliere dal ciglio della strada.
Forse lui, che stava parlando con un paio di persone, si sentì osservato, forse fu incuriosito dagli sguardi dei suoi interlocutori, fatto sta che si voltò verso di me e che la sua espressione si tramutò; ci fissammo per una manciata di secondi che, però, mi sembrarono ore, poi distolse lo sguardo e io finii alla svelta la sigaretta cercando di non guardare più in
quella direzione, ma era difficile e per ingannare il tempo iniziai a tamburellare con la mano sulle ginocchia, poi fortunatamente venne a farmi compagnia mia cugina, poggiando la testa sulle mie gambe.
«Il nonno sta bene?» mi chiese Yasmine con un'aria visibilmente preoccupata; era sempre stata molto attaccata a nostro nonno. Eravamo due nipoti completamente diverse, se io non gli avevo mai dimostrato esplicitamente il mio affetto Yasmine lo faceva sempre, da piccola lo accompagnava nei campi o si divertiva a dare da mangiare alle galline, cosa che io non avevo mai fatto.
«Sì tesoro, sta benone» le risposi accarezzandole i lunghi capelli biondi.
«E sarà felice, perché è con la nonna, vero?» domandò sincera, come a volerne una conferma; feci una smorfia, da non credente convinta non trovavo giusto alimentare quella falsa speranza in mia cugina, pensavo che fosse meschino dirle cose che non pensavo, ma se le avessi detto qualcos'altro zio mi avrebbe linciata, per cui feci un respiro profondo e dissi: «Sì, starà con la nonna»
«Gli mancava molto» mi sorrise Yasmine, continuai ad accarezzarle i capelli e presa com'ero dal nostro discorso non mi ero resa conto che tutto il resto del parentado stava uscendo di casa, guardai verso la mia famiglia e vidi mia madre farmi gesto di alzarmi, così presi Yasmine per mano e ci spostammo dalle scale. Per un momento non seppi dove andare, tutta quella gente mi metteva ansia e mi faceva girare la testa, così mia cugina mi tirò verso destra e la seguii inerme, senza rendermi conto di dove stessi effettivamente andando.
«Becca, mi dispiace» sentii una mano toccarmi la spalla e mi irrigidii all'istante riconoscendo quella voce, quel soprannome. Il mio soprannome.
«Grazie» mormorai senza neanche voltarmi, sentivo le gambe vacillare a quel tocco, e forse Yasmine se ne rese conto, perché strinse la presa sulla mia mano e si mosse di nuovo trascinandomi, questa volta, dai rispettivi genitori; presi posto di fianco mio padre, gli strinsi la mano e poggia il mento sulla sua spalla, non stava piangendo, guardava inerme la bara che veniva posta in macchina e quando questa venne chiusa fece un lungo sospiro.
«Papà, vuoi che guido io?» gli domandai, lui annuì e mi passò le chiavi della macchina, poi spostò lo sguardo verso la piccola folla che si stava sparpagliando verso le auto parcheggiate davanti casa, fissò qualcuno alle mie spalle e poi tornò a guardarmi negli occhi; mi chiese se stessi bene e gli risposi con un' alzata di spalle, in fin dei conti avevo rivisto solo l'amore della mia vita di cui avevo perso le tracce quasi tre anni prima.


Avevo saltato, per ovvie ragioni, la parte tumulativa del funerale, avevo aspettato la mia famiglia fuori il cimitero ed eravamo tornati a casa; dopo aver mangiato io e mio padre ci eravamo messi ad ascoltare qualche suo vecchio vinile e poi nel tardo pomeriggio scesi in paese, feci un paio di giri in macchina, e alla fine decisi di andare sul lungo mare; parcheggiai e mi sedetti su una panchina che dava sulla spiaggia.
Il cielo era grigio come se da un momento all'altro si sarebbe dovuta abbattere una tempesta su quel piccolo paesino all'estremo sud della Calabria, mi accesi una sigaretta e tornai a fissare le onde scure che si disperdevano nel mare, in quel mare che nei bei giorni di sole diventava uno specchio cristallino dove ci si poteva facilmente specchiare; lo squillo del cellulare mi destò dai miei pensieri sempre più contorti, frugai in borsa e vedendo chi era mi affrettai a rispondere.
«Com'è andata?» mi chiese David.
«Da schifo» sbuffai buttando fuori un po' di fumo della sigaretta.
«E tu come stai?»
«Da schifo»
«Ottimo direi» rispose sarcastico David, «siccome conosco questo tono di voce neanche ti chiedo se hai visto qualcuno» blaterò cogliendo il punto.
«Esatto... ho visto chi non dovevo vedere» sospirai, chiudendo gli occhi e beandomi per un momento del ricordo di lui con tanto di giacca e camicia.
«Rè, come ti senti?» mi chiese di nuovo, con la voce più dolce che potesse avere.
«Mi sento strana. Mi ha fatto le condoglianze, ma sentire la sua voce dopo tre anni mi ha scombussolata in modo assurdo» ammisi riaprendo gli occhi e facendo un altro tiro dalla sigaretta, come se la nicotina potesse effettivamente cancellare quelle sensazioni che si stavano agglomerando nella mia testa.
«Ora dove sei?» David sembrava in ansia per me e questo mi fece sorridere, l'avrei voluto al mio fianco perché era l'unico che riusciva a capirmi anche quando mi ostinavo a stare in silenzio per ore.
«Sul lungomare.»
«A parte lui, hai visto qualcun' altro?» mi domandò David cercando palesemente di cambiare discorso.
«Altri amici... mi erano mancati» sorrisi, poi guardai l'orologio e mi resi conto che sarebbe stato meglio sbrigarsi a tornare a casa. «Amore scusa, ti devo salutare; se non rientro in tempo per cena mia madre mi decapita»
«Salutami Marina» trillò lui, «anche Giuseppe» aggiunse.
«Sarà fatto»
«Torna presto Rè» mi sussurrò David prima di riagganciare; sospirai apprestandomi a finire la sigaretta, fissai ancora per qualche minuto il mare e poi mi incamminai a testa bassa verso la macchina, ma il rumore di una moto mi fece sobbalzare e quando questa si fermò davanti la mia auto riuscii solo a fissare la carrozzeria di quella Ducati nera, timorosa di guardare negli occhi il suo possessore.
«Chissà perché, ma ero certo di trovarti qui...» mi disse togliendosi il casco integrale, ed io ingoiai aria a vuoto.
«Marco. Ciao» dissi cercando di rimanere il più lucida possibile, anche se pronunciare quel nome mi fece tremare un po' la voce.
«Ciao» mi sorrise lui, «volevo solo dirti che questa sera siamo tutti insieme all'Havana... i ragazzi vorrebbero che tu venissi»
«E hanno mandato te come messaggero?» gli domandai con una punta di acidità nella voce.
«Mi hanno chiesto di dirtelo se ti avessi vista, ma penso che Matteo ti avrebbe mandato a breve un messaggio» spiegò lui scrollando le spalle,
«non ci sembrava una buona idea dirtelo dopo il funerale» aggiunse sarcastico.
«Allora ogni tanto pensi in modo decente» schioccai la lingua saccente, Marco mi guardò aggrottando la fronte e io gli sorrisi, beffarda. «Comunque ok... dopo chiamerò Matteo» gli dissi aprendo lo sportello della macchina, ero ansiosa di andarmene a casa. Ma la verità è che avevo paura di continuare a parlare con lui perché fin da quando si era tolto il casco avevo sentito un enorme masso depositarsi sul mio stomaco.
«Ti passo a prendere per le undici e mezza» dichiarò Marco, alzai un sopracciglio spostando più volte lo sguardo dalla moto al ragazzo e lui ridacchiò, «tranquilla, verrò su quattro ruote» cercò di rasserenarmi, ma non avevo bisogno di rassicurazioni, io avevo bisogno di capire a cosa stesse architettando la sua mente malata; anche se la prospettiva di andare in moto con lui non mi allettava particolarmente.
«Ma non è quello il problema... ho la mia macchina» ribattei tenendo lo sportello con una mano.
«Alle undici e mezza» ribadì lui mentre si rimetteva il casco, mi fece un segno con la mano e ripartì a tutta velocità.
Mi misi finalmente a sedere in macchina sospirando, tentando invano di tranquillizzarmi e due minuti dopo mi ritrovai con la testa sul volante a fare dei respiri profondi; tutto quello era troppo, mi sentivo come un eroinomane che, dopo un lungo periodo di disintossicazione, provava di nuovo il suo tipo preferito di eroina, cinque minuti di parole ed ero già assuefatta dalla sua presenza. Non potevo sopportarlo a lungo e forse in quel momento fu l'unica volta che desiderai di tornare al più presto Roma.


Erano dieci minuti che fissavo una serie di maglie posate sul letto, mi ero fatta la doccia, lisciata i capelli e mi ero messa un filo di trucco, mi mancava solo da scegliere cosa mettere; mia madre aveva consigliato la canotta verde con la giacca nera, alla fine -nell'incertezza- decisi di seguire il suo consiglio.
Mentre mi stavo infilando la canotta suonarono alla porta, andai ad aprire sperando che non fosse Marco e mi ritrovai mia madre davanti che mi sorpassò e si diresse in camera da letto; si mise a sistemare le maglie che erano state scartate, in silenzio.
«Ti serve qualcosa?» le domandai mentre mi mettevo gli orecchini.
«Quella canotta è molto scollata» constatò lei sedendosi sul letto.
«Ma se me l'hai detto tu di metterla...» le ricordai, perplessa, poi scrollai le spalle e presi a spruzzarmi il mio profumo preferito.
«Con chi hai detto che esci sta sera?»
«Con i soliti mamma» sbuffai, mi sembrò, per un attimo, di essere tornata indietro nel tempo quando lei le faceva il terzo grado prima di farmi uscire in santa pace.
«Perché Marco ti è venuto a prendere?» mi chiese d'un tratto, «siete tornati insieme?» aggiunse con un profondo cipiglio.
«Cosa? No!» risposi forse un po' troppo agitata, «non siamo... non siamo tornati insieme» misi in chiaro calmandomi e infilandomi gli stivali, «e non so perché mi sia venuto a prendere; i ragazzi mi hanno invitato al Havana e lui si è offerto per venirmi a prendere a casa, punto.»
«Hai la tua macchina»
«Cazzo mamma, gliel'ho detto!» gridai spazientita, «ma cosa pensi?» sbuffai, odiavo quando mia madre dava per scontato che la causa di qualche problema fossi io, era come se non credesse mai in me.
«Niente, non penso niente» mi rispose, «non penso che tu sia così stupida da ripetere gli stessi errori; tuo padre lo potrà trovare accettabile, potranno essere legati da questioni di rispetto, onore e altre stronzate, ma io non lo accetto» disse accarezzandomi la mano, «non voglio che anche tu fai quel genere di vita; non lo volevo quando avevi diciannove anni, non lo voglio adesso»
«Tranquilla mamma» le feci un sorriso tirato e finii di prepararmi, poi scendemmo al piano di sotto dove trovammo mio padre e Marco a giocare tranquillamente a carte; sorrisi ricordando quando, in passato, quella scena era di ordinaria quotidianità.
«Spero che stai vincendo» dissi a mio padre, abbracciandolo.
«Certo tesoro» mi sorrise lui gettando l'ultima carta, «dai Marco, magari la prossima volta andrà meglio» lo prese in giro, «si vede che sei fortunato in amore» aggiunse papà, Marco abbozzò un sorriso guardandomi di sfuggita, poi si alzò e sistemò la sedia vicino al tavolo; io salutai i miei genitori e seguita da Marco mi diressi verso il portone.
«Mi raccomando» disse mio padre guardando prima me e poi lui, che annuì e salì in macchina.
«Allora?» mi chiese Marco con lo sguardo fisso sulla strada buia.
«Cosa?»
«Come stai?»
«Non c'è male» risposi, poi tornai a guardare fuori dal finestrino giocando distrattamente con una ciocca di capelli; non so perché, ma volevo urlare. Volevo urlargli in faccia tutto quello che mi ero tenuta dentro in quegli anni, volevo dargli un cazzotto in pieno viso, e magari anche un calcio negli stichi, sentivo le mani prudere e dovetti incrociarle in grembo per evitare qualche gesto avventato.
«Cos'hai fatto in questi anni?» quella domanda mi sembrò la domandona finale di qualche quiz, deglutii cercando una risposta, provando a creare una qualche storia dove non ero la ragazza depressa che passava i giorni chiusa in casa a piangere...
«Mi sono diplomata ed ho iniziato a lavorare» risposi rimanendo sul vago, anche se pensai che a lui non importasse un gran che di quel lato della mia vita.
«E ti trovi bene?»
«Abbastanza, sì» sospirai, poi gli porsi la domanda la cui risposta mi spaventava di più: «Tu invece che hai fatto?»
«In giro» scrollò le spalle lui continuando a guardare la strada.
«Che vuol dire in giro? Dove sei stato? Ti sei trasferito?»
«Più o meno sì, per un anno» rispose lui vago, guardandomi con la coda dell'occhio; sbuffai, e a mio malgrado capì che non sembrava cambiato affatto, «come mai hai cambiato colore?» mi chiese poi guardandomi i capelli.
«Sono rossi da tre anni» mi limitai a dire inizialmente, poi aggiunsi saccente: «Sai si dice che una donna che cambia pettinatura è una donna che vuole cambiare vita»; lui ridacchiò e continuò a guidare in silenzio.
Tornai a guardare fuori dal finestrino, Gioia marina era deserta ed ebbi l'impressione di trovarmi in qualche città fantasma capitale degli horror più trash, però alla fine amavo anche quello: il fatto che quando volevo farmi una camminata solitaria lo potevo fare, potevo camminare per il paese alle undici di sera senza che nessuno mi rompesse le palle, potevo stare sola con i miei pensieri, ed ovviamente quello a Roma era impossibile.
Quando arrivammo davanti l'Havana, però, i miei pensieri cambiarono drasticamente: non avevo mai visto tante persone davanti un locale, e soprattutto non avevo mai visto un locale del genere in paese; Marco parcheggiò, ed entrammo dalla porta sul retro e la mia perplessità non fece che aumentare.
L'Havana era un locale insolito, al primo piano sembrava un tranquillissimo pub, ma scendendo le larghe scale in ferro battuto ti ritrovavi catapultato in un altro mondo: vi erano due enormi piste da ballo e la musica pompava dalle casse in modo esagerato, le persone sia accalcavano in pista, ma sembrava si divertissero un mondo, al contrario di me che al solo pensiero di dover passare in mezzo a quella massa di gente mi sentivo male.
«Era ora!» gridò Matteo, «iniziavamo a pensare al peggio» aggiunse abbracciandomi talmente forte da farmi male, «cosa vuoi da bere?» mi chiese retoricamente versando in un bicchiere una quantità sproporzionata di alcool.
«Lei prende una vodka lemon» gli fece eco un vocione alle mie spalle, mi girai ed allargai le labbra in un enorme sorriso.
«Zio Vincent!» urlai abbracciando l'uomo; Vincenzo -zio Vincent per tutti noi- era il più grande, quarant'anni e passa e ne dimostrava almeno dieci di meno. A quanto avevo capito era lui il proprietario del locale e non potevo che esserne felice, Vincent era il classico amicone, quello con gli agganci giusti che faceva entrare sempre tutti in ogni posto senza far sborsare un soldo a nessuno.
«Ma mangi?» mi chiese sciogliendo l'abbraccio, «ti vedo un po' sciupata» disse squadrandomi.
«Macché, è la giacca nera che sfina!» ridacchiai aprendomi l'indumento, «la pancia c'è ancora» aggiunsi dandomi degli schiaffetti sul ventre, poi iniziai a salutare gli altri, c'era Francesco, c'era Stefano ed alcuni volti a me poco famigliari; quand'ebbi finito mi tolsi la giacca e mi sedetti vicino a Matteo.
«Allora, che ci racconti? Oramai sei diventata una cittadina a tutti gli effetti» scherzò il ragazzo che era visibilmente ubriaco.
«Oramai lei è nel mondo del cinema, è una importante» gli fece eco Francesco.
«Tra un po' la vedremo agli Oscar!» rincarò Stefano.
«La smettete di parlare come se io non ci fossi?!» borbottai, facendoli ridere, «comunque non sono una cittadina, lavoro solo dieci ore al giorno... quando mi va bene, ma non mi posso lamentare»
«E le ferie non ce l'hai? Ogni tanto potresti anche venirci a trovare» brontolò Francesco bevendo un sorso del suo cocktail.
«Bé, ogni tanto voi potreste anche fare una visita in città, è un anno che non vi fate vedere...» risposi facendogli la linguaccia, i ragazzi non mi diedero tutti i torti e io gli sorrisi saccente; ad un certo punto Marco, che era rimasto in silenzio tutto il tempo, si alzò e si allontanò dal tavolo, involontariamente lo seguii con lo sguardo fino a che una ragazza non mi si parò davanti.
«Non ci credo!» disse la voce di questa, «lei è qui e nessuno mi avverte!» alzai lo sguardo e mi si illuminarono gli occhi, scattai in piedi ed andai a salutare Francesca, l'unica vera amica che avevo lì.
«Dico, almeno tu potevi avvisarmi della sua presenza!» urlò puntando il dito contro Francesco, che era il suo fratello minore, «e tu potevi mandarmi un messaggio e dirmi che saresti venuta, avrei chiesto la serata libera a Vincent» sbuffò iniziando a mettere i bicchieri vuoti su un vassoio circolare.
«E' successo tutto all'improvviso Frà» mi giustificai, «come stai?» le domandai dopo, sorridendole.
«Bene, bene. Tu piuttosto?» mie chiese.
«Nonno a parte non c'è male» risposi, la biondina mi sorrise di rimando e poi si allontanò verso un altro privè dicendo che sarebbe tornata al più presto; intanto, senza un perché, tornai a guardare tra la folla cercando di scorgere la figura di Marco, ma di lui neanche l'ombra, mi spostai i capelli sulla spalla destra e finì il drink che avevo in mano. Guardai i miei amici e sorrisi, in fin dei conti era bello stare con loro, mi sembrava di tornare un'adolescente, quei ragazzi mi facevano sempre ridere e star bene, avevano il potere di far sparire ogni mia preoccupazione, ogni mia ansia.
«Buona sera» la voce melensa di una ragazza interruppe un'animata discussione su quanto potesse essere bella la nuova moto verde acido di Matteo, sorrisi a quella mora e cercai di ricordare il suo nome, ma non mi sovvenne almeno fino a quando Marco non spuntò dietro di lei.
«Ah, sei qui» disse la ragazza fingendosi sorpresa.
«Carmen...» la salutò lui con un cenno del capo, «non pensavo saresti venuta» aggiunse alzando un sopracciglio.
«Non riesce a starti lontana» ridacchiò Francesco che però si beccò una gomitata da Stefano, scrollai le spalle constatando che, comunque, il suo nome non mi diceva niente e tornai a bere il mio secondo drink.
«A casa mi annoiavo... e non sapevo se saresti passato a farmi compagnia, così sono venuta io» piagnucolò Carmen avvinghiandosi al collo di Marco, il ragazzo la scansò con poca delicatezza e la liquidò in un'istante dicendole che quella sera voleva stare semplicemente in compagnia dei suoi amici e in quel momento mi sentii irrimediabilmente e stranamente sollevata.
«Ah, c'è la romana anche...» constatò la mora guardandomi, mi voltai e la guardai come per chiederle se ci conoscevamo, «abbiamo fatto qualche serata insieme, niente di che» specificò Carmen leggendo il mio sguardo; sfogliai velocemente i miei ricordi fino a quando il volto di quella ragazza non mi passò davanti prepotentemente: era Agosto, durante una serata in discoteca mi ero allontanata dal gruppo per salutare alcuni cugini, ma quando ero tornata lo spettacolo di Carmen che ballava avvinghiata a Marco mi si era parato davanti e solo Francesca era riuscita a reprimere la mia la voglia di spaccare la faccia prima a lei e poi a lui; era stata una di quelle tante volte in cui avevo evitato di essere me stessa per amore di lui.
«Ah sì, mi ricordo...» sorrisi, «come stai?» le domandai gentilmente.
«Potrei stare meglio» rispose la mora guardando Marco, «ma alla fine non mi lamento; c'è chi sta peggio» aggiunse con un ghigno rivolto palesemente a me, scrollai le spalle fingendomi indifferenti e mi scolai le ultime gocce del cocktail, «è vero, sicuramente c'è chi è
stato peggio» le diedi man forte lanciando un'occhiata a Marco che sbuffò spazientito. «Non ci sono le tue amichette?» chiese rivolgendosi alla mora.
«Sì, sono al bar»
«E perché non le raggiungi?» suggerì ironico.
«Stavo parlando con Rebecca, veramente...»
«Appunto» replicò il ragazzo a denti stretti, «raggiungi le tue amiche» aggiunse di nuovo, lo guardai aggrottando la fronte.
«Ciao ragazzi, ciao Rebecca» disse sbuffando Carmen e riservandomi un'occhiataccia, le feci un sorriso sincero e poi tornai a parlare con Matteo della sua moto come se niente fosse; la mora sbuffò nuovamente e girò i tacchi, Marco alzò gli occhi al cielo come per ringraziare qualche divinità superiore e per tutto il resto della serata restò seduto davanti a me.


Come al solito il nostro gruppo fu l'ultimo ad uscire dal locale. Alle quattro passate del mattino ci eravamo salutati rimanendo d'accordo per vederci tutti a cena il lunedì sera, visto che quello era il giorno libero di Francesca.
«Poi noi due ci sentiamo domani ed organizziamo per vederci da sole... dobbiamo parlare di molte cose!» mi disse la bionda abbracciandomi.
«Sì, ma non prima delle quattro del pomeriggio; ho bisogno di minimo dodici ore di sonno!» sbadigliai stanca morta.
«Dovresti essere abituata a questi ritmi, a Roma si fa la bella vita il sabato, no?» mi punzecchiò Francesco.
«Certo, peccato che io in genere il sabato non lavoro... e che oggi invece ho affrontato un viaggio in treno ed un funerale» risposi stizzita, lui mi abbracciò ridendo, era talmente ubriaco che fece ridere anche me; mentre ci stavamo avviando alle macchine non riuscii a fare a meno di notare che Francesca stava salendo in macchina con Stefano e non con suo fratello, e per andare a casa sua, Stefano, non passava per niente vicino casa di Francesca.
«Frà» la chiamai sorridendo, «dobbiamo parlare di molte cose!» urlai calcando sulle parole, lei rise e mi strizzò l'occhio, alzai gli occhi al cielo e quando finalmente salii in macchina Marco partì a tutta velocità verso casa. All'inizio nessuno dei due parlò per buoni dieci minuti, replicando in parte il viaggio d'andata, io giocavo con i capelli e Marco guidava, poi decise di aprire il discorso: «Tuo padre mi ha chiesto se domani lo potevo aiutare a pitturare il garage...» disse guardandomi di sottecchi.
«Mmh, ok» risposi, «non che mi interessi particolarmente eh» aggiunsi in tutta sincerità.
«Era per parlare di qualcosa...» si giustificò lui sbuffando, «non fare l'acida»
«Io non faccio l'acida» risposi seccata, «è che non vedo il motivo per cui tu debba rendermi partecipe della tua vita»
«Infatti non lo sto facendo, stavo solo cercando di fare conversazione»
«Risparmiatela» lo ammonii, stizzita; il ragazzo borbottò qualcosa e poi tornò a guidare in silenzio
«Poi, quando ne hai voglia, mi spiegherai il perché di tanto risentimento nei miei confronti...» mi disse Marco fermando l'auto davanti casa mia; lo guardai di sbieco, non credevo alle mie orecchie, in fin dei conti perché dovevo avercela con lui? Certo, le persone normali fanno finta di niente davanti il proprio ex che è sparito dalla sera alla mattina, non una chiamata, non un messaggio, zero; ero certa che quello fosse il momento giusto per sputargli in faccia tutte le serie di insulti che avevo in mente, tutta la rabbia ed il dolore che mi portavo dietro da tre anni, ma non ce la feci, lo guardai senza riuscire ad emettere un suono, sapevo di avere gli occhi lucidi così mi voltai a prendere la borsa nel sedile posteriore della Jeep, ma Marco mi bloccò il braccio costringendomi a guardarlo negli occhi, lo sentii scrutarmi come se volesse cercare dentro di me una serie di motivazioni valide, una scusa obbiettiva per quella Rebecca così diversa da quella che conosceva e che aveva amato anni prima... «Quando ne avrò voglia...» sussurrai, lui lasciò la presa sospirando ed io mi affrettai a prendere le mie cose e uscire da quella macchina che non mi era mai sembrata così opprimente prima di quella sera.
Corsi per le scale e appena arrivai in casa mi andai a gettare sul letto, non riuscivo a capire con chi ero più adirata, se con lui, oppure con me stessa per avergli quasi permesso di leggermi dentro.


***


Note Finali:

Eccoci qui, anche il secondo capitolo è andato. Ci tengo a ringraziare tutti quelli che si sono fermati a leggere il primo e a commentarlo, e ringrazio chi ha seguito anche il secondo. Questo è un capitolo abbastanza di passaggio. Vediamo Rebecca tornare in paese e conosciamo i suoi amici “estivi”, le sue abitudini quand'è lontano dalla frenetica vita della capitale; questo sarà comunque un aspetto che verrà ampliato nella storia, così come scopriremo un po' di più del suo passato con Marco.
L' I-phone di Rebecca è il primo i-phone uscito sul mercato, quindi è il mattoncino della Apple ;)
Tra l'altro ci tengo a dire che il clichè della ragazza abbattuta post-rottura è stato solo di passaggio, mi è servito per introdurre proprio il personaggio della protagonista e basta... Rebecca è più di questo.
Il titolo del capitolo è preso da una strofa di “Mezz'ora” degli Zero Assoluto e modificato da me, cambiando la parola “comunque” con “ovunque”.
Vi ringrazio infinitamente per essere arrivati fin qui e per aver letto anche questo capitolo, invito chiunque a lasciar un commento senza farsi scrupoli.
Il capitolo è stato betato da Kate che non finirò mai di ringraziare. E betato una seconda volta da Pind che ha amorevolmente corretto tutti i miei errori di battitura :)
A presto.

-J

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Bentornata al Sud ***



3. Bentornata al Sud


Avevo dimenticato cosa volesse dire dormire tutto il giorno, per cui quando mi alzai -alle quattro del pomeriggio- ero più rincoglionita del solito. Mi trascinai fino in cucina e mi preparai un caffè, poi iniziai ad aprire tutti gli sportelli della credenza alla ricerca di qualcosa di commestibile, ma presto constatai che non c'era niente che potesse riempire il mio stomaco; sbuffai e tornai in camera a recuperare l'Iphone, quando lo sbloccai mi resi conto di avere sette chiamate perse ed un messaggio: due erano le chiamate di Carlotta, una di Elisa, una di David e tre di Francesca che, tra l'altro, era anche il mittente del messaggio dove mi chiedeva se fossi morta.
Chiamai subito Francesca e ci accordammo per vederci due ore dopo, così mi avrebbe accompagnato a fare la spesa, andai ad accendere i termosifoni e poi mi defilai in bagno per farmi una doccia veloce; quando uscii corsi a vestirmi prima di sfiorare l'ibernazione, mi accesi la prima sigaretta del giorno e decisi di chiamare Carlotta.
«Hai visto Marco?» mi chiese senza darmi neanche il tempo di salutarla o di chiederle come se la passasse; sospirai scuotendo la testa con rassegnazione e mi apprestai a risponderle con un si. «E che ti ha detto?» domandò ancora lei.
«Anche io sto bene amore, grazie per avermelo chiesto» le dissi sarcastica.
«Sarebbe stata la mia prossima domanda, te lo giuro» ridacchiò Carlotta, «e, per la cronaca, le due cose erano collegate... tutto dipende da quello che ti ha detto lui» aggiunse saccente.
«Sicuramente!» asserii io, «comunque sia... siamo andati al locale di un nostro amico, perché i ragazzi mi avevano invitata e...»
«Siete usciti insieme?!» urlò Carlotta perforandomi un timpano, «quando me lo volevi dire, tra due anni?!» strillò di nuovo e fui costretta ad allontanare l'iphone dall'orecchio per evitare di perdere del tutto l'udito.
«Magari se mi fai finire...» sbuffai, «mi è venuto a prendere a casa, non so per quale motivo. Siamo stati tutti insieme in questo locale, poi è venuta una vecchia conoscenza che, a quanto ho capito, è la sua amica di letto, ma lui l'ha cacciata...» e calcai la voce sulle ultime parole provando uno strano senso di beatitudine, «poi siamo tornati a casa e lui mi ha detto che, quando ne avrò voglia, dovrò spiegargli perché sono così acida con lui; fine»
«Ok, è pazzo. Sei stata con un pazzo, l'abbiamo appurato!» disse Carlotta e dal torno di voce mi sembrava abbastanza sconvolta; «quindi è fidanzato con quella tizia?» mi chiese poi.
«No!» risposi subito con troppa enfasi, «se la porta a letto e finisce li... a quanto ho capito lei gli sbava dietro, ma lui oltre la scopata abituale non va» le spiegai sospirando come se, alla fine, ero felice di quella situazione; e a distanza di settimane capii che lo ero, al contrario della mia amica che lo capì subito.
«Quindi rivederlo non è stato così brutto... potreste andare d'accordo di nuovo...» ipotizzò, e me la immaginai mentre ridacchiava.
«Non lo so tesoro mio, non lo so. So che non voglio tornare con lui, questo è poco ma sicuro. Non posso stare, a ventiquattro anni, con una persona celebrolesa!» scherzai, e mentre Carlotta rideva io sentii il mio stomaco ruggire segno che non potevo più ignorare la fame, così mentre ero ancora al telefono presi la borsa e scesi a casa dei miei, pronta a mangiare la prima cosa che avrei trovato.
«Ma tu con quello ci sei uscita di nuovo?» chiesi a Carlotta mentre aprivo il frigo e con gioia adocchiavo un budino al caramello.
«Guarda, lasciamo perdere... un cretino!» sbuffò lei, «la galanteria della prima sera si è trasformata nell'enorme voglia di entrarmi nelle mutande»
«Amore... vogliono sempre entrarci nelle mutande!» risi mentre divoravo quella squisitezza, «ragionano con quello che hanno in mezzo alle gambe, sono uomini... non c'entra niente nemmeno l'orientamento sessuale, vedi David; il loro scopo è sempre quello: scopare!» gracchiai infilando con cattiveria il cucchiaino nel budino.
«Si ma non te la prendere con quel povero dolce, non ti ha fatto nulla» rise una voce dietro di me, alzai gli occhi al cielo sbuffando, ma infondo mi aveva avvertita che sarebbe stato in giro per casa.
«Uh, salutami tuo padre!» disse Carlotta sentendo quella voce maschile.
«Non è mio padre» risposi con un altro sonoro sbuffo, Marco si sedette davanti a me e si accese una sigaretta continuando a fissarmi, sapeva che una delle cose che mi dava più fastidio era quando una persona mi fissava e lui lo faceva, ne ero certa, per puro gusto di provocarmi.
«Dicevamo... quindi nessun terzo appuntamento?» cercai di ignorarlo tornando a parlare con la mia amica, ma la sensazione di sentirmi i suoi occhi addosso mi rendeva irrequieta, quindi presi a giocherellare con le unghie, battendole sul tavolo.
«No, ne ha avuto uno e mezzo» rispose Carlotta sbrigativa, «ma se non era tuo padre, chi era?» mi chiese con troppa curiosità.
«Nessuno Carlotta, nessuno!»
«Oddio! Oddio! Marco è a casa tua! Lo sapevo, stronza!» riprese a gridare e dovetti di nuovo allontanare l'iphone dall'orecchio, ma questa volta urlò talmente forte che perfino Marco la sentì.
«No, sono a casa dei miei» mi affrettai a dire, «comunque ora ti devo lasciare, se non mi sbrigo ad andare a fare la spesa è la fine!» aggiunsi, «ci sentiamo domani, un bacio. Ciao.» dissi prima di attaccarle in telefono in faccia mentre continuava a protestare; Marco continuava a guardarmi imperterrito, poi tentò di offrirmi una sigaretta, ma io scossi la testa sfilandone una dal mio pacchetto.
«Mio padre?» gli chiesi alzandomi dalla sedia e sistemandomi la tuta decisa a non rimanere altri cinque minuti sotto il suo occhio critico.
«E' andato a comprare la vernice» scrollò le spalle lui, «e tua madre è sotto con tua cugina» aggiunse.
«Ok, è stato un piacere; ci vediamo domani sera» tagliai corto prendendo la borsa, «ah, e non c'è bisogno che mi passi a prendere!» aggiunsi con il sorriso più odioso che potessi fare sperando di far nascere in lui qualche punta d'odio nei miei confronti, ma fu il sorriso che fece lui a far accrescere in me quello che, in un primo momento, pensai fosse odio. Me ne andai sbattendo la porta. Mi stavo comportando come una ragazzina mandando all'aria tutto ciò che avevo sopportato negli anni prima, era come se le lacrime che avevo speso per lui non mi avessero insegnato nulla: lui mi faceva annullare, da sempre; per lui avevo messo da parte orgoglio e testardaggine, avevo sopportato cose che non avrei mai pensato di poter sopportare, non tornavo a casa più tardi dell'una di notte, limitavo le uscite in discoteca e mi ero imbarcata in una relazione a distanza solo perché lo amavo così tanto da accontentarmi di vederlo due volte al mese, ma quando venne il momento di abbandonarmi senza un reale motivo fu come se tutto quello che avevo fatto per lui -per noi- non era servito a niente, forse era questo il motivo per cui pensavo di odiarlo, perché non trovavo una spiegazione logica al suo abbandono, niente di plausibile; ed ancora oggi quando non sento qualcuno per più di due ore vivo nell'incubo di essere rimasta sola, di nuovo.


Il centro commerciale appena fuori il paese non era niente in confronto a quelli che potevi trovare in ogni angolo della capitale, ma era proprio il suo essere così raro che lo rendeva speciale ai miei occhi. Avevo passato lì dentro ogni giorno di pioggia estiva, quando gli acquazzoni arrivavano all'improvviso e noi dalla spiaggia ci spostavamo lì, con i piedi ancora sporchi di sabbia.
«Allora?» chiesi a Francesca mentre spingevo il carrello tra la corsia dei detersivi.
«Allora tu... come va la vita a Roma?» mi domandò di rimando lei cercando di spostare il discorso su di me.
«La solita vita: lavoro, qualche serata, casa...» scrollai le spalle, «ma non sono io quella che ieri sera è tornata a casa con l'amore della sua adolescenza» le dissi dandole una leggera spinta.
«Ah no?» rise lei, «mi sembra che eri in macchina con Marco, o sbaglio?» aggiunse schioccando la lingua, io alzai gli occhi al cielo e scossi la testa. «Non è...» provai a dire, ma lasciai perdere, era inutile negare il fatto che fosse l'amore della mia adolescenza, «Marco è un coglione» mi limitai a dire con uno sbuffo.
«Sì, ma resta comunque l'amore della tua vita» osservò Francesca, «l'ammorbidente lo prendo piccolo?» mi chiese poi fermandosi davanti uno scaffale.
«Sì, piccolo» annuii, «non è l'amore della mia vita, solo della mia adolescenza» specificai.
«Certo, certo» ridacchiò, «ed io non ho un fratello più piccolo»
«Sul serio Frà, non sei simpatica» sbuffai continuando a camminare, «e poi i nostri discorsi dovevano essere incentrati tutti su di te e Stefano, non mi smontare i piani!» protestai mettendo una cassa d'acqua nel carrello.
«Non c'è niente da dire... Francesco doveva accompagnare Matteo a casa ed io ero stanca morta, così ha chiesto a Stefano di riportarmi; fine della storia» mormorò guardandosi la punta delle scarpe.
«Capisci anche tu che il discorso non rende?» le chiesi poggiandole una mano sulla spalla, «santa pace Frà, poteva portarlo a casa Stefano, Matteo...»
«Sì, ma Francesco gliel'ha detto per primo» m'interruppe cercando di giustificare quel comportamento.
«Ho capito, ma Stefano gli poteva dire "no Frà, vai tranquillo a casa con tua sorella, ci penso io a Matteo." visto che, tra l'altro, casa sua gli era pure di strada» provai a farla ragionare come facevo in passato, ma Francesca era più testarda di suo fratello, e, soprattutto quando si trattava di Stefano, si ostinava a non credere in se stessa.
«Magari l'ha fatto per gentilezza, figurati!» disse facendo un gesto della mano.
«Sì certo e gli asini volano, ma falla finita!» risi dandole una pacca sulla schiena, «Stefano ha sempre avuto un debole per te, e non ha mai fatto nulla per paura di qualcosa... ancora non so cosa, ma lo scoprirò» le spiegai serafica, «ora andiamo a pagare tutta questa roba e poi andiamo a mangiare qualcosa di ipocalorico al Mc Donalds!» ordinai, lei scosse la testa e rise abbracciandomi. «E' bello riaverti qui!» mi sussurrò all'orecchio facendomi quasi commuovere; ci sbrigammo a caricare la spesa nelle buste e le andammo a mettere in macchina, mentre metteva l'ultimo sacchetto sul sedile Francesca mi chiese: «Ma quanto tempo hai intenzione di rimanere?»
Quella domanda mi spiazzò, diedi una rapida occhiata ai sacchetti accatastati nella mia auto e mi resi conto che quella non era una spesa fatta da qualcuno che voleva trattenersi solo una manciata di giorni, al contrario era una spesa di chi voleva restare; un brivido mi percorse la schiena, che il mio inconscio avesse espresso il desiderio di rimanere a tempo indeterminato lì?
«Non lo so» ammisi sbuffando e chiusi forse con troppa forza la portiera della macchina, «non lo so» ripetei sull'orlo di una crisi di pianto. Mi poggiai con la schiena sull'auto e mi accesi una sigaretta, «il piano era di rimanere quattro, sette giorni al massimo...» mormorai a testa bassa.
«Ma adesso non ce la fai a lasciare tutto e tornare nell'altra tua vita» concluse Francesca guardandomi con apprensione; odiavo quando mi dicevano che avevo due vite, ma era vero: c'era la Rebecca di Roma, quella solare, che passava le serate in discoteca ad ubriacarsi e divertirsi con i suoi amici e che non voleva legarsi a nessun ragazzo, e poi c'era la Rebecca della Calabria, quella romantica, quella che si divertiva anche con poco, quella che amava e che era disposta a sacrificare tutta se stessa per amore; purtroppo queste due realtà erano parallele e si erano incrociate solo un paio di volte con risultati disastrosi.
«Forse è così...» risposi facendo un altro tiro di nicotina, «seriamente Frà, non lo so...»
«C'entra mio cugino...»
«No! Oppure sì... non ne ho idea. Sapevo che l'avrei rivisto, e per il momento sto bene; però ci sono attimi in cui rivivo tutta la nostra storia, i ricordi riaffiorano nella mia mente e sento un calore famigliare dentro di me» feci un respiro profondo, «quando lo ricordo a Roma sono cupa per le seguenti tre ore, mentre invece se ricordo qui mi sento felice, perché?» le chiesi con gli occhi lucidi, lei mi guardò negli occhi e sospirò.
«Non lo so tesoro, forse perché quando stai qui rivivi al massimo i ricordi visto che è qui che è successo tutto...» ipotizzò lei, ma vide che le sue parole, che erano lo specchio della realtà, non fecero che dare una spinta a quelle lacrime così cercò di tirarmi su di morale, «e comunque io pensavo che mi rispondessi "no Marco non c'entra, voglio rimanere qui per sempre perché ci sei tu unico amore della mia vita!" ma come al solito non conto un cazzo» gracchiò, e scoppiai a ridere così forte che due vecchiette si girarono per guardarmi male.
«Sicuramente è per questo!» le dissi abbracciandola, «ed ora cibo, o tra cinque minuti sarò morta di fame» aggiunsi trascinandola dentro il fast food.


C'era una strana maledizione che mi impediva di essere puntuale, più crescevo e più me ne rendevo conto: ogni volta che credevo di essere in orario o addirittura in anticipo succedeva qualcosa che ribaltava totalmente la situazione; quella sera non trovavo gli orecchini e dopo averli cercati in largo e lungo mi resi conto di averli lasciati sul tavolinetto del salone.
Scesi le scale a due a due, infilandomi il cappotto e arrotolandomi la sciarpa al collo, mi misi la borsa in spalla ed entrai a casa dei miei per fare un saluto generale: «E' tardi. Ci vediamo domani mattina. Vi voglio bene. Ciao», dissi rubando una fetta di pane dal tavolo.
«Vai piano!» sentii mia madre urlare prima di chiudere con troppa foga il portoncino bianco della palazzina di famiglia; quando scesi in strada per poco non mi sfracellai contro l'asfalto.
«Era ora!» gridò Marco poggiato alla sua Jeep, lo guardai sospirando, per quanto volessi fare la sostenuta non riusci fare a meno di sorridere sotto i baffi: se ne stava a braccia conserte, con un giubbotto bianco ed un sorrisetto sulle labbra: era bello da mozzare il fiato; mi ripresi e scossi la testa, «quale parte di "non mi venire a prendere" non ti è chiara?» gli chiesi storcendo le labbra in una smorfia.
«Quella dove ti ascolto» mi rispose lui, serafico. Alzai gli occhi al cielo dandomi della stupida per aver pensato che, almeno una volta, avrebbe eseguito un mio ordine. Marco doveva fare di testa sua, sempre; era uno dei tratti che avevamo in comune, ma che io sopprimevo quando stavo con lui per evitare inutili spargimenti di sangue.
«Potevi almeno entrare invece di stare qui fuori come un cretino» borbottai aprendo lo sportello della sua macchina, lui mi guardò stupito, sicuramente non si aspettava che cedessi subito, ma alla fine non aveva senso discutere e ritardare ulteriormente, senza contare che se avesse guidato lui io avrei potuto bere qualche bicchiere di vino in più.
«Credo che Marina non ami molto la mia presenza quando in casa ci sei anche tu» mi rispose stringendosi nelle spalle, io ridacchiai mentre addentavo il pezzo di pane che avevo preso in casa, «e ci credo». Gli dissi dopo aver ingoiato.
«Cos'hai fatto oggi?» mi domandò guardandomi con la coda dell'occhio.
«Ho dormito fino a tardi e poi ho aiutato Yasmine con i compiti di storia»
«Quando tornano a Torino?»
«Credo domenica; zio voleva trovare qualche offerta con l'aereo» risposi certa che poi sarebbe arrivata la stessa domanda rivolta a me, invece rimase in silenzio, arricciò le labbra ma poi non disse nulla.
«Tu cos'hai fatto?» gli chiesi gentilmente, non so perché addolcii la voce, ma quelle brevi chiacchierate mi ricordavano com'eravamo un tempo e com'era bello parlare con lui, ed i ricordi erano talmente dolci che mi ci aggrappavo sperando -a tratti- di recuperare almeno un minimo di quello che avevamo.
«Niente, sono stato a casa tutta la mattina e poi sono andato a pranzo da mia sorella»
«Come sta?»
«Bene» mi sorrise, «anche il piccolino» aggiunse prevedendo la mia domanda successiva.
«Piccolino... ora avrà quanto, cinque anni?» sorrisi ricordandomi quando ci portavamo in giro con noi mia cugina e suo nipote che mi chiamava zia e voleva stare solo in braccio a me ,mentre lui teneva per mano Yasmine, e in quei momenti sembravamo quasi una famiglia allargata, quella famiglia che io ero sempre stata restia a volere fino a quando non conobbi lui.
«Quattro»
«Dio, come passa il tempo» sospirai, «Yasmine ne ha compiuti sette quest'anno»
«E' bellissima» mormorò Marco, «somiglia molto a tua nonna» disse sorridendomi appena.
«Già, anche delle espressioni...» risposi sorridendogli di rimando, rimanemmo in silenzio per tutto il resto del viaggio, di sottecchi lo osservavo mentre guidava e neanche mi degnavo di abbassare lo sguardo quando lui mi guardava con la coda dell'occhio. Non provavo vergogna perché osservarlo era sempre stato uno dei miei passatempi preferiti; lo osservavo da sempre, mentre scherzava, mentre giocava a carte, lo osservavo cambiare quando parlava con qualcuno che non faceva parte della nostra cerchia di amici, ammiravo quel sorriso che mi regalava quando si accorgeva dei miei occhi su di lui, ammiravo ogni suo gesto, soprattutto quelli più piccoli e intimi che rivolgeva solo a me.
Arrivammo nella pizza del paese con un quarto d'ora di ritardo, nessuno sembrò stupito di vedermi scendere dalla Jeep di Marco, neanche Francesca che -invece- rideva sotto i baffi, assottigliai lo sguardo e lei mi strizzò l'occhio, sbuffai in segno di arresa; Vincent aveva prenotato in un ristorante di pesce, qualche paesino più in la, così ci avviammo subito con le macchine, stremati dalla fame.
«Ma sbaglio, o Francesco non c'era?» chiesi a Marco arricciando le labbra.
«Ha la febbre» mi rispose lui, poi accese lo schermo digitale e la musica della radio si espanse per tutto l'abitacolo.
«Insomma ti tratti bene eh» dissi sarcastica facendolo ridere, poi presi a pigiare a caso sui tasti fino a che non trovai il menù dei CD, scelsi a caso ed iniziarono le note di una famosa canzone dance, sorrisi pensando a quanto Marco e David sarebbero andati d'accordo musicalmente parlando e in quel momento mi ricordai che non chiamavo il mio migliore amico da due giorni; imprecai a denti stretti, presi l'iphone e lo chiamai, pregando che non rifiutasse la chiamata.
«Amore della mia vita perdonami!» urlai al telefono dopo aver sentito la sua voce.
«No grazie, non mi serve il forno nuovo» rispose lui sarcastico, «magari il set di coltelli sì... sa, dovrei uccidere una rossa malefica!»
«Lo so, chiedo venia; ma sono stata occupata»
«A fare le porcate con quel coglione di Marco?»
«Cosa? No! Questa è Carlotta che come al solito non capisce un cazzo!» gracchiai sbuffando, Marco mi guardò alzando un sopracciglio ed io sorrisi imbarazzata; «non c'è stato niente e non ci sarà, credo» ripresi, cercando di essere criptica il più possibile; l'ultima cosa che volevo era che Marco capisse di essere il soggetto della conversazione.
«Ed ora dove sei?» mi domandò.
«In macchina, sto andando a cena fuori»
«Ed hai gli auricolari? Il viva-voce?»
«No... smettila di fare il cretino!» sbuffai per l'ennesima volta, «sto gestendo il lavoro con estrema ansia, non ti ci mettere anche tu» gli dissi.
«Ho capito, ti sei fottuta di nuovo» arrivò alla sua conclusione, io deglutii sonoramente e il mio sguardo volò subito su Marco; non avevo l'impressione di essermi fottuta, ma non potevo negare che l'astio che avevo avuto il primo giorno nei suoi riguardi ora si stava lentamente rimpicciolendo; «no...» mormorai balbettando, non capivo se quella risposta la stavo dando a lui, o stavo solo cercando un modo per auto-convincermi.
«Va bene; quando torni?»
«Non lo so» risposi con un groppo alla gola perché sapevo che quella era la famosa goccia che avrebbe fatto traboccare il vaso.
«Ok Rebecca, ci sentiamo quando decidi di riprendere in mano la tua vita», me lo disse con il suo solito tono tranquillo e con la consapevolezza che quella patina di pacatezza mi avrebbe fatto scoppiare.
«Falla finita!» berciai, «non puoi giudicarmi proprio tu!» aggiunsi fregandomene di non essere sola in macchina.
«Invece sì, sono l'unico che può farlo, perché sono l'unico che ti conosce veramente a fondo. Sono l'unico che sa il vero motivo per cui tua madre non voleva, e non vuole, questa relazione... e a proposito, che dice di queste uscite?»
«Smettila di farmi sentire una merda!» gli risposi con gli occhi lucidi.
«Ora devo andare, ci sentiamo.»
«Aspetta...» dissi, ma aveva già attaccato; presi una sigaretta e me l'accesi, senza neanche chiedere se in quella dannatissima macchina si potesse fumare. Aprii un poco il finestrino e lasciai che il vento mi scompigliasse i capelli, una sola lacrima uscì dai miei occhi e decisi di reprimere le altre perché piangere per una litigata del genere era da sciocchi, perché non volevo che Marco iniziasse a fare domande, o peggio, mi consolasse; non ero ancora pronta a riabbracciare quell'intimità, a spogliarmi nuovamente del mio orgoglio.
«Tutto bene?» si limitò a chiedere, io annuii abbozzando un sorriso e finii la mia sigaretta rimanendo in silenzio per i restanti venti minuti di viaggio.


In Calabria come in tutto il sud Italia ogni cosa era abbondante, a partire dai pasti, ed io avevo dimenticato cosa volesse dire andare a mangiare in un ristorante e alzarsi dal tavolo con, minimo, una taglia in più; non era una questione di quanti piatti si erano ordinati, il segreto stava nella quantità di cibo in ogni piatto. Se al nord un normale primo di ravioli consisteva in quindici ravioli sparpagliati nel piatto, qui i ravioli erano non meno di venticinque, conditi da sughi ipocalorici che dopo ti invogliavano, per forza, a fare la tradizionale scarpetta con il pane.
«Sto scoppiando» reclamai dopo aver bevuto il secondo bicchiere di amaro, «non riesco più neanche a mandare giù un bicchiere d'acqua» aggiunsi teatralmente.
«Ma l'amaro scende che è una meraviglia, vero?» mi prese in giro Matteo, «però ancora non hai assaggiato questo alla liquirizia, è divino!» aggiunse versando in un bicchierino un liquido nero, denso.
«Oddio basta» dissi di nuovo, facendo ridere Francesca seduta al mio fianco; Matteo mi porse il bicchiere ed io lo squadrai per bene con una smorfia contrariata sul viso.
«Non ti costringe nessuno a berlo...» brontolò Marco, ebbi la sensazione di trovarmi nuovamente indietro nel tempo, quando anche bere una birra era diventato un motivo per litigare; lui non aveva mai visto di buon occhio il fatto che io bevessi di tanto in tanto, forse anche perché la prima volta che ci lasciammo la colpa fu proprio dell'alcool che io avevo in corpo.
«Chiamala curiosità» gli risposi schioccando la lingua prima di bere tutto d'un sorso quel liquore amarognolo ed un brivido mi percorse la schiena. Marco mi guardò scuotendo la testa, aveva capito che avevo preso le sue parole come una sfida al mio orgoglio così io lo guardai con un sorrisetto di vittoria stampato sulle labbra, lui per tutta risposta si alzò dal tavolo ed andò a fumare una sigaretta.
«Dopo che vogliamo fare?» ci chiese Vincent guardandolo allontanarsi dal tavolo, alzammo tutti le spalle e lui propose di andare all'Havana e starcene un po' per conto nostro.
«Col cavolo!» berciò Francesca, «per favore, almeno oggi che è chiuso evitiamo quel posto» aggiunse con un broncio, Stefano ridacchiò accarezzandole una guancia, lei mi lanciò uno sguardo ed io le feci l'occhiolino.
«Dai, ci divertiremo» le disse Vincent provando ad incoraggiarla, «sennò potremmo andare al bowling» aggiunse pensieroso.
«C'è anche la pista di pattinaggio sul ghiaccio qui» disse Matteo scrollando le spalle.
«Ogni tanto il tuo cervello mi stupisce, sul serio» gli disse Stefano beccandosi, però, un sonoro vaffanculo da Matteo; aspettammo il rientro di Marco e poi i ragazzi pagarono il conto, pronti a dirigersi verso la pista di pattinaggio dove si prevedevano un milione di figure di merda.

Quando arrivammo alla pista la trovammo piena, così ci sedemmo sulle panchine sotto i gazebo riscaldati e cercammo di passare il tempo iniziando a cazzeggiare come facevamo da sempre. Marco armeggiava con il cellulare ed io avevo voglia di strapparglielo dalle mani e vedere chi fosse il mittente di tutti quei messaggi che gli arrivano e di dirgli che non era molto educato isolarsi con il cellulare in quel modo quando si era in compagnia; forse stanco dei miei continui sbuffi ci pensò zio Vincent a dirgli qualcosa, «ma non ce l'ha il silenzioso quel coso?» gli chiese.
«Sì, ma tanto ho finito» rispose Marco mettendo il cellulare nella tasca interna del giubbotto, «tra quanto entrate in pista?»
«Tu non vieni?» gracchiò Francesca, «non puoi non venire!» lo additò sbuffando.
«Non mi va» disse semplicemente lui scrollando le spalle, «poi forse ho da fare» aggiunse, io aggrottai le sopracciglia guardandomi la punta delle scarpe, reprimendo l'istinto di chiedergli cosa diamine avesse da fare, ma poi pensai che forse quello era collegato ai continui messaggini così mi prese il panico e sentii lo stomaco attorcigliarsi su se stesso.
«Madonna, sei triste!» affermò Matteo dandogli una pacca sulla spalla, lui rise e i due continuarono a battibeccare per altri dieci minuti buoni; cercai di distrarmi chiacchierando con Vincent e Stefano e Francesca, ma era impossibile scacciare del tutto quel senso di paura che avevo, non ci riuscii neanche quando entrai in pista con i pattini ai piedi.
«Frà, vieni qui!»
«No tranquilla, è bello girare per il bordo» mi rispose lei restando aggrappata alla sbarra, io risi e la raggiunsi urtandola un po' durante la frenata, «ma sei scema?» urlò spalancando gli occhi.
«Esagerata!» risposi, «visto che stai li senza fare niente, prendi la macchina fotografica nella mia borsa e renditi utile!» dissi rivolgendomi a Marco, lui mi sorrise e fece quello che gli avevo detto; chiamai il resto dei ragazzi e ci sistemammo per farci fare qualche foto di gruppo, poi quando ebbe finito mi bastò uno sguardo di intesa con Stefano ed entrambi prendemmo Francesca e la trascinammo con noi al centro della pista.
«Lasciatemi!» urlò lei agitandosi e, se non fosse stato per i riflessi di Stefano sarebbe finita sicuramente a terra, «Vincent, aiuto!» gracchiò, ma lui non se la filò continuando a pattinarci intorno insieme a Matteo; dopo qualche minuto si assestò ed io abbandonai la presa sul suo braccio lasciandola stretta a Stefano.
«Dici che prima o poi si sveglieranno?» mi domandò Matteo una volta che mi avvicinai a loro.
«Sono cinque anni che ci spero!» sbuffai, «o questa volta si svegliano loro, oppure li svegliamo noi a suon di testate» aggiunsi annuendo, Vincent scoppiò a ridere e disse che avremmo fatto in modo di svegliare la bella addormentata; dopo un altro paio di giri io e Francesca decidemmo di uscire dalla pista, stanche ed infreddolite camminavamo come due pinguini verso il gazebo dove eravamo prima pronte a toglierci quei pattini e rimetterci nuovamente le nostre scarpe asciutte.
«Dillo che la tua era tutta una scusa per stare attaccata a Stefano!» le sussurrai, lei diventò rossa e iniziò a balbettare che non era vero, «sto scherzando, cretina» la rassicurai ridacchiando, ma dopo un po' le risate mi morirono in gola e mi sentii mancare il respiro.
«Che ci fa lei qui?!» berciò Francesca tenendomi per un braccio.
«Non lo so, non mi interessa» balbettai continuando a camminare sorridente, arrivate alla meta salutammo Carmen e altre due ragazze che non conoscevo, poi mi sedetti per sfilarmi i pattini e per poco non rischiai di tagliarmi la mano; mi dissi che dovevo stare calma, che non c'era motivo di agitarmi in quel modo, ma più tentavo di auto-convincermi e più la situazione mi sfuggiva dalle mani.
Poco dopo arrivarono anche i ragazzi che guardarono le nuove arrivate con perplessità, soprattutto Matteo che parlò a nome di tutti noi: «Come mai dai queste parti?» chiese, ma nessuna delle ragazze rispose e Carmen guardò Marco che si alzò dalla panca e mi porse la digitale.
«La potete riaccompagnare voi a casa?» domandò poi rivolgendosi ai nostri amici, io sgranai gli occhi dalla sorpresa soprattutto quando vedi un ghigno disegnarsi sul viso di Carmen.
«Sì non c'è problema» rispose Vincent guardandomi con la coda dell'occhio.
«Ho dimenticato le chiavi in macchina tua» dissi di getto per poi pentirmi subito di quella frase, Marco mi guardò con un sopracciglio alzato ed io entrai nel panico, «sì... non le avevo messe in borsa» tentai di spiegare e per fortuna la mia fantasia era enorme, «poi quando ero al telefono mi sono cadute a terra e mi son scordata di prenderle» conclusi annuendo con enfasi, come se il movimento della testa potesse convincere tutti delle mie parole.
«Va bene...» sospirò Marco, «allora quando state per andarvene chiamatemi» ci disse, poi si allontanò seguito da Carmen che tentò con poco successo di prendergli la mano.
Distolsi lo sguardo dai due, adirata con lui e soprattutto con me stessa; sarebbe stato meglio se mi fossi fatta gli affari miei senza inventarmi quella balla terribile sulle chiavi, invece adesso mi toccava stare con l'ansia perpetua di dover salire su quella Jeep dove, magari proprio in quel momento, stavano succedendo cose indicibili.
«Tieni...» mi sussurrò Matteo porgendomi una sigaretta, «fuma e non lamentarti!» aggiunse strizzandomi l'occhio, io gli sorrisi e poggiai per un momento la testa sulle sue spalle.
«Ti pare che dobbiamo aspettare i suoi porci comodi!?» sbuffò Francesca sedendosi, «che cazzone!»
«Lasciate perdere, lo sapete com'è fatto» scrollò le spalle Vincent, «lamentarsi non servirà a niente, come non servirà incazzarsi» aggiunse serafico mentre si sedeva al mio fianco, «sappiamo tutti che è un coglione, ma alla fine gli vogliamo bene»
«Un bene dell'anima» specificai sarcastica, Stefano rise e propose un altro giro in pista, accettarono tutti tranne io che avevo bisogno di un po' di tempo tutto per me; anche Vincent rimase seduto, gli sorrisi e lui mi poggiò una mano sulla spalla, «cerca di non pensarci», mi disse, «anche se so quant'è difficile...»
«Con te posso essere sincera: non so cosa mi stia passando per la testa, sul serio» sbuffai, «un minuto mi manca, l'altro lo vorrei ammazzare e quello dopo sento il bisogno di un suo abbraccio» proseguii, «pensavo di averla superata... pensavo di odiarlo fino al punto che rivederlo non mi avrebbe fatto più ne caldo e ne freddo...»
«Rebecca, è stato il tuo primo grande amore, ti avrebbe fatto, in ogni caso, uno strano effetto» mi disse lui, guardandomi con apprensione, «ora devi solo fare luce dentro di te, continuando a vivere la tua vita»
«Lui la sua se la vive bene» borbottai facendo un ultimo tiro dalla sigaretta, «come al solito quella con i pensieri sono io!»
«Lo sai meglio di tutti com'è fatto... vive alla giornata, ma credimi se ti dico che i pensieri ce li ha, soprattutto ultimamente...» disse Vincent alzandosi, mi diede un bacio sui capelli e raggiunse gli altri in pista lasciandomi sola a riflettere sulle sue parole; in quel momento capii finalmente che per far luce dentro di me dovevo rimanere lì, stare di nuovo a stretto contatto con quella realtà era l'unico modo per capire se ne volessi fare ancora parte.


In macchina tutto taceva. Il rombo del motore della Jeep era l'unico fastidioso rumore di fondo, neanche una mosca si sarebbe permessa di rovinare quel silenzio quasi religioso; Marco amava la velocità, però quando ero in macchina con lui superava raramente i novanta chilometri orari, ma quella volta la sua guida era più lenta del solito e quel viaggio di ritorno sembrava dovesse durare per sempre.
«Vi siete divertiti?» mi chiese Marco facendomi sobbalzare.
«Sì» risposi sospirando, «tu?» gli domandai di rimando, ma si limitò ad alzare le spalle e ad annuire un poco col capo; sbuffai e mi sfregai le mani, infreddolita, anche se i riscaldamenti erano al massimo sentivo un aura di gelo che mi avvolgeva il corpo, mi penetrava nella pelle intaccando le ossa.
«Tieni» Marco aveva preso la sua giacca dai sedili posteriori e me l'aveva poggiata sulle gambe, lo ringraziai e me la misi sul petto a mo' di coperta, fu un attimo e il suo profumo si insinuò prepotentemente nelle mie narici, risvegliò i ricordi più intimi facendomi arrossire.
«Che c'è?» mi chiese lui che forse si era accorto della sfumatura rossa che avevano acquistato le mie gote.
«Niente» mi affrettai a rispondere, poi poggiai la testa sul vetro e rimasi in silenzio, fino a casa, continuandomi a beare di quel profumo che avevo dimenticato essere così buono.


***


Note Finali:

Mi scuso per il ritardo, ma in questi giorni mi sono presa un momento di pausa per me e proprio non avevo voglia di postare.
Spero che con questo capitolo possiate iniziare a capire qualcosa dell'intricata storia Rebecca/Marco, e spero che avrete voglia di andare fino in fondo. Ovviamente se c'è qualcosa di poco chiaro potete tranquillamente chiedere.
Ringrazio chi si è fermato a leggere i due capitoli precedenti, e Kate che come al solito mi ha betato il capitolo.
A presto.
-J

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Vecchie incomprensioni ***



4. Vecchie incomprensioni


Non ero mai stata una di quelle ragazze con il perpetuo bisogno di avere una persona al proprio fianco. Ero sempre stata sentimentalmente solitaria, era l'idea di perdere quella mia libertà personale a spaventarmi, e fu così fino a quando non incontrai Marco. Non aveva niente di speciale rispetto agli altri che erano venuti prima di lui, anzi era un buzzurro di prima categoria con una mentalità ristretta e vari problemi giuridici alle spalle, e ancora non so spiegare perché gli diedi una possibilità. Forse mi avevano convinto i suoi occhioni, quell'unica parte di lui che parlava anche quando Marco non voleva, quei due fanali color cioccolato così dolci che era impossibile resistergli.
Quando lo conobbi, come da manuale, non lo sopportavo. Lo vedevo come l'accalappiacani cattivo che, con i suo i messaggi da diabete e l'eccessivo interessamento, voleva mettere in gabbia la mia libertà, ma poi mi attaccai proprio a quelle cose; quando per mesi mi mancò la figura paterna Marco e le sue attenzioni furono l'unica cosa che mi facero andare avanti, perfino le nostre litigate acquistarono una sfumatura diversa...
Presi dal mucchio di foto che avevo davanti una che ritraeva la mia famiglia davanti lo scoppiettante camino di mio nonno, c'eravamo tutti: c'era mia madre, sorridente forse perché dopo due anni di assenza mio padre era li al suo fianco, e c'ero io con il sorriso più bello che avessi mai avuto perché ero accanto ai due uomini della mia vita, e il braccio di Marco che mi cingeva la vita ne era la prova...
«Nostalgia?» mi chiese la voce di mio padre appoggiato da chissà quanto allo stipite della porta.
«Mmh, un po'» abbozzai un sorriso, «dovresti averne anche tu... sopra i tuoi capelli c'era appena un accenno di bianco» aggiunsi ridacchiando, lui si avvicinò e mi strappò la foto dalle mani per poi osservarla.
«Sono comunque un gran bel pezzo di uomo» mi rispose sedendosi a terra accanto a me, «dove lo trovi un altro così!» continuò, saccente.
«Certo papà, certo» risposi io, riprendendomi la foto, «comunque è stato un bel Natale, quello» sospirai guardando per l'ultima volta la fotografia.
«Eravamo tutti insieme» sorrise mio padre, poi mi guardò negli occhi, sembrava stesse cercando le parole giuste, sospirò e sconsolato si accese una sigaretta, «hai intenzione di fermarti qui, non è così...» era un'affermazione, non una domanda; sospirai ed annuii semplicemente, sentivo che con lui non avevo bisogno di spiegargli le mille ragioni della mia scelta.
«Fai attenzione Rebecca, non voglio che tu stia male» mi disse con fare apprensivo, lo abbracciai e lui mi strinse forte a se, «voglio solo il meglio, e secondo me Marco non è alla tua altezza... ma alla fine quello che conta è ciò che tu vuoi, quindi agisci sempre di testa tua e ne uscirai vincitrice» mi sussurrò, e dovetti combattere duramente per non scoppiare a piangere. E decisi che avrei comunicato quella mia decisione alle altre persone importanti della mia vita.
Dirlo a mia madre non fu facile: non aveva mai visto di buon occhio la mia relazione con Marco e al contrario di mio padre lei non ne faceva segreto, forse il suo astio era dovuto al fatto che durante le nostre prime litigate di coppia chiamavo lei in lacrime, chiedendo consiglio su come evitare l'omicidio di un calabrese visto che lei ne aveva sposato uno ed era ancora vivo e vegeto; non aveva preso bene la notizia forse anche per una questione lavorativa, in effetti lì non avevo la possibilità di lavorare nel mio settore, neanche per qualche televisione locale, ma alla fine, sotto sotto, era felice di avermi nuovamente in giro per casa.
Neanche dirlo ai miei amici fu facile. David non mi parlò per giorni e se non fosse stato per Carlotta avrebbe continuato a tenermi il muso per sempre, Elisa e Luca erano come sempre molto apatici al riguardo, per loro tutto era un vivi e lascia vivere, così mi diedero la loro benedizione. Quando sistemai le cose a Roma provai a trovare qualche lavoro, ma sembrava che nessun negozio avesse bisogno di una commessa, nessun discount di una cassiera e nessuna famiglia di una baby sitter, poi una sera parlando con Vincent fui assunta da lui per lavorare al primo piano dell'Havana, il pub; servivo birre e panini dal lunedì al giovedì, non era gran che, ma affiancavo Francesca che rendeva piacevole anche lavorare fino a tardi, e poi i ragazzi stavano sempre lì...
«Io vedo...» mormorò Stefano guardando le sue carte; era un lunedì sera piovoso e come al solito si stavano giocando la cena, li guardai sbuffando da dietro il bancone, presa dalla noia mi munii di uno straccio bagnato e lo passai sul lavello, Francesca mi guardò sconsolata, c'erano sere in cui la noia aleggiava tra i muri dell'Havana e quella sembrava esserne la riproduzione perfetta.
«Reby!» mi salutò Matteo sedendosi davanti a me, «una scura, media» ordinò con un sorriso, ricambiai e gli riempii il boccale per poi porgerglielo.
«Già uscito?» gli chiesi indicando con un cenno del capo il tavolo delle carte.
«Sì, mi annoiavo» scrollò le spalle lui.
«Non sai perdere!» urlò Francesco che probabilmente aveva sentito la risposta di Matteo.
«Senti chi parla!» gracchiò sua sorella, «appena perdi una scommessa vai subito a piangere da papà!»
«Non è vero» si difese lui, «sei tu che bari, stronza!» aggiunse.
«Ehi!» lo ammonì Stefano assottigliando lo sguardo, Francesca divenne rossa come un pomodoro e la vidi guardarmi con la coda degli occhi, io trattenei a stento una risata, ma Matteo non fece la stessa cosa e per fortuna contagiò il resto del gruppo; scossi la testa e continuando a ridere versai un po' di salatini in una ciotola e li portai, insieme a delle birre, ad un tavolo dove vi era un gruppetto di ragazzi.
«Grazie» mi disse gentilmente uno di loro, io gli sorrisi di rimando e iniziai a mettere i bicchieri vuoti sul vassoio, «tu sei Rebecca, vero?» mi chiese lo stesso ragazzo.
«Sì» annuii inarcando un sopracciglio, «ci conosciamo?» gli chiesi poi, curiosa.
«No, no...» si sbrigò a rispondermi, «conosco Marco» mormorò, io scrollai le spalle e mi allontanai dal tavolo cercando di non far cadere il vassoio che avevo riempito troppo; il rumore della porta che si chiudeva mi fece voltare e questa volta per poco non rischiai veramente di far cadere un bicchiere a terra alla vista di Carmen avvinghiata al collo di Marco, il quale, però, vedendomi cambiò espressione e scansò subito la mora.
«Che... che ci fai qui?» mi chiese con una faccia tra lo stupito e lo sconvolto.
«Ci lavoro» gli risposi seccata mentre ricominciavo ad asciugare le stoviglie, sembrò volesse dirmi qualcosa, ma ci ripensò e si andò a sedere al tavolo dei ragazzi salutando con un cenno del capo il tizio con cui pochi minuti prima avevo scambiato qualche parola; Carmen lo seguì in silenzio, sembrava fosse la sua ombra.
«Io non la sopporto» sussurrò a denti stretti Francesca, «potrei versarle, accidentalmente, del veleno per topi nel bicchiere?» mi chiese facendomi ridacchiare.
«Se volete vi do una mano io» mormorò Matteo, «è peggio di un'oca giuliva» aggiunse guardandomi.
«Ragazzi, sul serio: non me ne frega niente»
«Certo, certo. E tu sei rimasta qui perché ti piace l'aria di campagna...» disse Francesca muovendo la mano in aria, «e perché vorresti diventare una grande servitrice di drink»
«Falla finita» sbuffai a testa bassa, «sono rimasta perché mi sentivo di rimanere...» continuai, «e perché e non riuscivo più a dire addio a Matteo» aggiunsi guardando il mio amico, «perché io ti amo» dissi guardandolo negli occhi.
«Ti amo anche io!» mi rispose lui stando al gioco, mi prese una mano e ne baciò il dorso facendo scoppiare a ridere Francesca: «voi siete due deficienti!» disse, poi andò al tavolo dai ragazzi e tolse tutti i bicchieri vuoti riservando un sorriso speciale a Stefano.
«Becca!» mi voltai verso Marco e lo guardai inclinando la testa, ogni volta che usava quel nomignolo nasceva sempre un sorriso sul mio volto, era un riflesso incondizionato generato dai ricordi, «potresti portarmi un bicchierino di amaro?» mi chiese gentile, talmente gentile che Carmen lo fulminò con lo sguardo, ma lui non le diede importanza; versai il suo amaro preferito in un bicchiere congelato e glielo portai stando bene attenta a dove mettevo i piedi, lui mi ringraziò regalandomi un altro sorriso.
Mi sentivo stordita da tutta quella cordialità, non ero più abituata a quei rari momenti di calma, a quei sorrisi e a quegli sguardi, sapevo che non sarebbe durata a lungo perché Marco era sempre stato un tipo poco prevedibile, capace di farti sentire in paradiso per una settimana e di portarti giù all'inferno per mesi, ma forse era proprio quell'imprevedibilità a renderlo così bello ai miei occhi; dopo che Marco mi porse il bicchiere vuoto tornai dietro il bancone e sistemai le ultime cose, Francesca sparecchiò l'altro tavolo occupato, io mi apprestai a fare il conto e quando il gruppetto di ragazzi se ne andò mi tolsi il grembiule verde e andai a chiudere a chiave la porta dell'Havana: un'altra sera di lavoro era giunta finalmente al termine.
«Che volete fare?» ci chiesero i ragazzi con un sorriso.
«Cinema?» proposi.
«Io vorrei solo dormire» sbadigliò Francesca.
«Potresti dormire sulla mia spalla» mormorò Stefano, Francesco lo guardò e alzò gli occhi al cielo dicendogli che gli facevano venire il volta stomaco.
«Anche tu» gli rispose gentilmente sua sorella dandogli poi una pacca sulla spalla.
«Fatemi sapere» disse Marco alzandosi dalla sedia, «io riporto lei a casa e vi raggiungo» aggiunse.
«Ma...» provò a contestare Carmen che, sicuramente, voleva uscire con noi, ma l'occhiata di Marco le fece morire le parole in gola; sbuffò e si alzò anche lei, poi mi guardò e di nuovo ebbi la sensazione che se gli sguardi potessero uccidere quello sarebbe stata l'arma dell'omicidio perfetto, il mio.


Non so perché decisi di andare al cimitero. Non amavo andare in quel luogo, avevo sempre pensato che fosse stupido posare dei fiori sul freddo marmo in ricordo dei defunti, per me il ricordo era nel cuore e i fiori erano solo una perdita di tempo e denaro; quel giorno però, dopo aver pranzato, decisi di scendere in paese e andare nella tomba di famiglia.
Quando scesi dalla macchina il vento freddo mi colpì in pieno volto facendomi rabbrividire, mi strinsi di più nel mio cappotto viola e camminai a passi decisi sul vialetto, di tanto in tanto incontravo qualcuno che salutavo educatamente con un cenno del capo; arrivata davanti la tomba di famiglia porsi due rose sulle lapidi dei miei nonni e mi misi ad osservare le foto, mi persi nel azzurro degli occhi di mia nonna, così simili a quelli di mia cugina Yasmine. Osservai i tratti del viso del nonno, tratti che potevo scorgere sul mio volto ogni qual volta che passavo davanti ad uno specchio. Mi ritrovai a pensare a quanto strana fosse la vita, tanta fatica, tanti affanni, tanto dolore per poi finire dietro una lastra di spesso marmo, tutto l'amore che i miei nonni avevano provato si era, certamente, tramandato nei loro figli e nelle loro nipotine, ma tutto il resto? A cos'era servito lavorare dodici ore al giorno? A niente. Osservai le altre lapidi, le foto sbiadite dei miei bis nonni e sentì l'ansia crescere dentro di me, mi succedeva sempre quando pensavo alla morte, forse perché avevo paura di non poter fare abbastanza per poi essere ricordata.
Sbattei le palpebre un paio di volte e mi poggiai contro la parete facendo dei respiri profondi. Dovevo uscire da li, eppure non riuscivo a muovere un muscolo, vedevo le pareti di quel piccolo mausoleo di famiglia avvicinarsi sempre di più, come a volermi schiacciare, chiusi gli occhi ed iniziai a contare fino a venti sperando che le pareti si sarebbero fermate, ma quando mancavano pochi numeri mi sentii trascinare fuori di lì.
«Stai bene?» mi chiese Marco accarezzandomi la testa.
«Sì...» risposi facendo dei respiri profondi, «che ci fai qui?» gli chiesi quando fui finalmente in grado di reggermi in piedi da sola.
«Quello che ci fai tu...»
«Tu odi i cimiteri» gli feci notare drizzando completamente le spalle.
«Anche tu» mi rispose, poi estrasse un pacchetto di sigarette dalla tasca del giubbotto e me la porse, l'accettai e me l'accesi; rimanemmo a guardarci per un bel po', poi in silenzio ci incamminammo verso l'uscita.
«Ora dove vai?» mi chiese sotto voce.
«Vado a fare una passeggiata sul lungo mare» gli risposi, mi morsi il labbro indecisa se aggiungere altro o meno, lui sembrò accorgersene e rimase in silenzio, in attesa, «ti... ti va di venire?» mormorai a testa bassa, Marco annuii e disse che mi avrebbe seguita in moto; «a meno che tu non voglia venire con me» aggiunse sogghignando.
«Magari un giorno... molto lontano» risposi ridacchiando a mia volta, lui mi fece l'occhiolino e partì a tutta velocità; quando arrivai lo vidi seduto su una panchina a braccia conserte, mi sedetti vicino a lui. «Corri troppo...» borbottai con un sorriso, incapace di dire qualcosa di sensato.
«Avere la moto e andare piano non ha senso»
«Sì ma... tu non hai mezze misure» mi stavo aggrappando sugli specchi per evitare di cadere nel pozzo delle battute pessime, anche se il silenzio di Marco mi fece capire che, in fondo, c'ero già caduta.
«Così...» sospirò, poi arricciò le labbra e alzò gli occhi al cielo, «così... rimani qui» disse per poi guardarmi dritta negli occhi, io deglutii ed annuii semplicemente, «sono contento» sorrise, e sembrò sincero, così sincero che sentii gli occhi inumidirsi; voltai la testa e mi misi a fissare il mare tentando di nascondergli quella mia debolezza, ma lui se ne accorse, se ne accorgeva sempre.
«Che c'è?» mi chiese.
«Niente, niente. Mi è andato qualcosa negli occhi» mentii palesemente e lui scoppiò a ridere dicendomi che come al solito ero una pessima bugiarda; «non è vero!» contestai, «generalmente mi riesce benissimo... come quella volta che ti avevo organizzato la festa a sorpresa» gli ricordai saccente.
«Ma che dici! Lo sapevo già da due giorni prima» ridacchiò.
«Certo, perché Francesco è un deficiente e non tiene mai la bocca chiusa» sbuffai, «senno non l'avresti mai capito»
«Certo Becca, certo» asserì lui facendo finta di darmi ragione; «diciamo che anche tu non sei la persona più adatta per mantenere un segreto...» mormorò soffocando una risata.
«Sei tu che tentavi di corrompermi a tutti i costi; mi chiamavi perfino quand'ero a scuola!» blaterai alzando gli occhi al cielo, «diavolo tentatore!» l'apostrofai gesticolando.
«Bé, ti lasciavi corrompere molto facilmente» mi rispose alzando un sopracciglio, io deglutii sonoramente e cercai di nascondere il viso nella sciarpa evitando, così, di farmi beccare con il volto in fiamme; «il discorso era un altro» borbottai.
«Era partito dal fatto che non riesci a mentire...» ricordò lui, sorridendo.
«Sì, ma purtroppo solo con te ho questo deficit, senno sono un mago della menzogna!» mi pompai, senza essermi effettivamente resa conto che gli avevo appena confessato una delle mie debolezze.
«Sono irresistibile, lo so» scherzò Marco.
«No, sei insopportabile e talmente petulante che alla fine una persona cede pur di non sentirti più!» gli spiegai saccente facendogli, poi, la linguaccia.
«Ah si? Mi davi ragione solo per zittirmi?» mi chiese avvicinando pericolosamente il suo volto al mio.
«Perché tu non lo facevi?»
«No... io lo facevo solo per tentare di spegnere la tua ira, visto che provavi, e provi, un gusto sadico nel litigare» mi rispose con un sorrisetto, io sbuffai spostandomi così una ciocca di capelli che mi era finita davanti gli occhi e arricciai il naso cercando una risposta tagliente a quell'affermazione, ma non vi era nessuna risposta adatta perché in fin dei conti aveva ragione: amavo litigare con lui, ma per il semplice fatto che poi facevamo pace ed ogni gesto era ampliato da quello strano senso di beatitudine post-litigata.
«Ok, hai ragione tu» sbuffai di nuovo e lui rise di gusto poggiandosi sullo schienale della panchina in ferro battuto; «guarda che hai ragione solo quando dici che mi piace litigare» tentai di smorzare le sue risate, ma queste non fecero che aumentare e alla fine scoppiai a ridere anch'io.
«Pensavo fossi cambiata, invece mi rendo conto che fortunatamente sei sempre la stessa Rebecca» mi disse ad un certo punto.
«Ti sbagli, sono cambiata...» sospirai, «solo che poi basta un niente per far tornare la vecchia me»
«Bé, io la vecchia te l'adoravo» mormorò accendendosi un'altra sigaretta; stavo per rispondere quando un tonfo si perse nell'aria. Guardai Marco perplessa e al secondo botto lui scattò in piedi, prendendomi per un braccio e trascinandomi in macchina. Il terzo scoppio lo sentii più vicino,fu talmente nitido che pensai ci stessero sparando addosso. Marco sospirò e mi lasciò per un momento sola in auto, corse alla moto e estrasse qualcosa da sotto il sellino mettendoselo dietro i pantaloni per poi tornare in macchina con me, era visibilmente teso; «teste di cazzo...» mormorò a denti stretti, ci fu un altro tonfo che venne seguito dal rumore di una frenata, e alla fine si aggiunsero anche le sirene delle forze dell'ordine.
«Stai bene?» mi chiese guardandomi negli occhi, io annuii con vigore, non mi avrebbero certo spaventata alcuni spari di pistola provenienti da chissà dove; uscimmo dalla macchina e mi aprì la portiera dalla parte del guidatore, «vai a casa, e non ti fermare da nessuna parte», mi ordinò.
«Marco sto bene» tentai di tranquillizzarlo alzando gli occhi al cielo, «ho sentito di peggio» ironizzai, ma mi guardò come se non volesse repliche.
«Lo so, lo so» si sbrigò a dire, «però ora vai» aggiunse con insistenza, sbuffai ed entrai in macchina. «Ci vediamo dopo» mi disse prima di chiudermi la portiera, partii e dopo pochi metri una macchina della polizia mi sfrecciò vicino fermandosi dov'ero parcheggiata poco prima io, rallentai e dallo specchietto retrovisore vidi un agente prendere Marco dalle spalle e spingerlo con poca gentilezza sul cofano dell'auto iniziando a perquisirlo. Estrasse qualcosa dai suoi pantaloni e poco dopo, mentre guidavo verso casa, mi resi conto che l'oggetto misterioso fosse, effettivamente, una pistola.

Quella sera il locale era talmente vuoto che restammo aperti solo un'ora e alle nove chiudemmo. Dopo la sparatoria del pomeriggio Gioia marina era un paese deserto, così ce ne tornammo a casa annoiati e senza alcun programma per la serata. Nessuno si chiedeva come mai non ci fosse Marco ed io non proferii parola sui fatti del pomeriggio, tartassandomi, però, le pellicine del dito cercando di combattere l'ansia; avevo paura che gli fosse successo qualcosa, perché anche se non c'entrava niente con i colpi sparati era stato trovato in possesso di una pistola che, magari, neanche avrebbe potuto tenere e poi conoscevo l'arroganza che aveva quando si rapportava con qualcuno che portava la divisa, anche quando aveva ragione, alla fine, passava irrimediabilmente dalla parte del torto.
Era cresciuto così, Marco. Era cresciuto in una famiglia che aveva imparato ben presto a farsi giustizia da sola, che risolveva tutto stringendo amicizie con varie famiglie locali, era sempre stato così a casa sua, anche quando una di queste
amicizie si era venduto suo padre Aldo privandolo di cinque anni di libertà, privando un'intera famiglia del suo capostipite.
Tornai a casa e per un momento ebbi la tentazione di raccontare a mio padre cosa fosse successo nel pomeriggio, magari si era venuto a sapere qualcosa, ma alla fine ci rinuncia, impaurita dalla reazione che avrebbe potuto avere. Una volta salita nel mio appartamento mi misi la tuta, accesi i riscaldamenti pigiando anche il tasto del caminetto elettrico, poi presi un pacco di biscotti e mi piazzai sul divano con il portatile sulle ginocchia; mi misi a sfogliare le pagine interattive dei giornali ed ogni quotidiano parlava dei fatti pomeridiani. I titoli, scritti con font giganteschi, richiamavano alla stagione di sparatorie di 'ndrangheta, parlavano di una tregua che si era oramai rotta e prevedevano un futuro di sangue per tutti i paesi limitrofi. Sospirai leggendo i nomi dei tre ragazzi rimasti uccisi quel pomeriggio, in paese ci si conosceva, bene o male, quasi tutti e con la vittima più giovane ci avevo addirittura lavorato l'estate in cui avevo prestato servizio come bagnina. Aveva un anno in meno di me, e ancora tutta una vita davanti. Indecisa sul da farsi presi l'iphone dalla borsa e tolsi il blocco tasti, non avevo nessuna chiamata persa, feci scorrere la rubrica fino al contatto di Marco, ma decisi di non chiamarlo, riposai tutto e tornai a leggere gli articoli di giornale, e più righe leggevo e più sentivo appesantirsi quel masso di cemento che si era poggiato dentro di me e che mi impediva di respirare a pieni polmoni. Dopo neanche un'ora mi arrivò un messaggio di Francesca dove mi diceva che avevano trovato una soluzione a quella serata di pura noia, i suoi messaggi erano sempre molto criptici e dovetti chiamarla per sentire il suo colpo di genio. «Tra mezz'ora veniamo tutti a casa tua» mi disse Francesco rispondendo al telefono della sorella, «ci vediamo un film e diciamo quattro cazzate» aggiunse dopo un po', «spero tu abbia qualcosa da mangiare» brontolò alla fine.
«Sì, ho molte cose da mangiare» lo tranquillizzai mentre mi dirigevo in cucina per iniziare a prendere le cose dalla dispensa e sistemarli in salone.
«Perfetto» trillò lui, «ci vediamo tra poco» concluse prima di terminare la chiamata, mi accesi una sigaretta ed aprii un pacco di patatine versandole in una ciotola colorata, poi presi la scatola della pizza per-cotta dal freezer e ne misi due nel forno alzando al massimo la temperatura; quando ebbi finito di preparare le cose da mangiare tirai fuori quelle da bere e tornai a sedermi sul divano in attesa dell'arrivo dei miei amici.
Non tardarono, venti minuti dopo la mia casa era diventata una specie di bisca clandestina, ma quando suonarono per l'ennesima volta al citofono ed andai ad aprire le risate mi morirono in gola.
«E' qui la festa?» chiese Marco poggiato sulla porta, spalancai gli occhi, sgomentata.
«Era ora!» gracchiò Francesco andando a salutare suo cugino, Marco entrò ed io rimasi immobile sulla porta; avevo passato l'intera giornata in ansia, avevo rischiato come minimo un arresto cardiaco mentre lui, invece, sembrava essere la persona più tranquilla del mondo.
Lo conoscevo bene Marco, sapevo che sotto quei sorrisi, sotto le battute e sotto il menefreghismo si nascondeva la realtà, ed io neanche in quell'episodio della nostra vita avevo preteso niente se non un maledetto messaggio, invece no: Marco sembrava totalmente convinto che se a lui non interessava niente di una determinata cosa, allora non me ne doveva fregare niente neanche a me, era matematico per lui.
«E' carina la porta?» mi chiese Stefano ironicamente, la chiusi scuotendo la testa e tornai nel salotto, in silenzio.
Da quel momento non parlai più. Non riuscivo ad articolare un discorso, non sapevo che dire e avevo paura che qualsiasi cosa mi avrebbe fatto scattare la rabbia che sentivo dentro, così misi un film nel lettore e ci piazzammo a vederlo; Marco si sedé sulla poltrona, Francesco seduto a terra poggiava la testa sulle gambe di sua sorella che, insieme a me e Stefano, occupava il divano.
Quando i titoli di testa finirono di scorrere voltai rapidamente la testa verso Marco, non so perché, ma in quel momento capii di quanto, alla fine, mi sentivo sollevata solo dalla sua presenza. Era sconvolgente il fatto che averlo semplicemente seduto a due passi da me mi facesse stare così bene. Era una sensazione di beatitudine che non avrei mai capito, come non avrei mai capito il perché... perché Marco aveva questo potere su di me? La domanda che poi mi era sempre sorta spontanea era se anche lui provava queste emozioni nei miei confronti, e il sorriso che mi rivolse quando si accorse che lo stavo guardando fu una risposta più che esaustiva.
Dopo non so quando il russare di Stefano mi fece sobbalzare, mi passai una mano sugli occhi e mi resi conto che non eravamo neanche a metà film, ma che tutti stavano dormendo; sbadigliando mi voltai verso la poltrona e raggelai vedendola vuota, poi però la luce della cucina catturò il mio sguardo ed arrancai fino lì, stanca morta.
«Già sveglia?» ridacchiò Marco, guardava fuori dal vetro della finestra e probabilmente mi aveva visto arrivare dal riflesso.
«Russano tutti in modo spropositato» sbuffai raggiungendolo, «Stefano mi ha svegliata... non capisco come faccia tua cugina a non soffocarlo con il cuscino» borbottai sbadigliando di nuovo.
«L'amore ti fa sopportare cose neanche immagineresti» soffiò lui, io inclinai la testa e lo guardai con un cipiglio, «tranquilla, torna a dormire» scherzò, dandomi un buffetto sulla spalla.
«A proposito di sopportazione...» dissi e gli diedi un pugno sulla spalla, «questo è per quello che ho dovuto sopportare oggi!» berciai a denti stretti, «razza di deficiente!» l'apostrofai incrociando le braccia al petto.
«Ahia!» si lamentò Marco, «che ho fatto?» mi chiese, innocente.
«Ti sembra modo di sparire?» gli chiesi, retoricamente, «mi hai fatto prendere un colpo! E poi la polizia che ti ha perquisito... perché hanno perquisito te?» continuai a domandargli incapace di tenere a freno la lingua, pur sapendo quando odiasse le domande, «e soprattutto: che cazzo ci facevi con una pistola?!»
«Hai finito?» mi domandò Marco, seccato, io annuii e mi squadrò, sorridendo.
«Non sorridere Marco» lo ammonii, puntandogli il dito, «non mi prendere per il culo con quel sorrisetto!» lui non smise di sorridere e per tutta risposta mi prese il dito e me lo abbasso, dolcemente. «Non c'è niente di cui preoccuparsi» ribatté in seguito, sospirai ed abbassai la testa, «Becca, se ti dico di stare tranquilla, tu stai tranquilla» ribadì con fare autoritario, «non ricominciare a preoccuparti» aggiunse mollando la presa sul mio dito e spostando nuovamente lo sguardo oltre il vetro.
«Che vuol dire che non devo ricominciare?» lo aggredii, «secondo te ho mai smesso?! Le brutte abitudini sono dure a morire» mormorai a bassa voce.
«Appunto» sospirò Marco, «conosci le mie abitudini, per cui non stare in pena» specificò con una scrollata di spalle.
«Tranquillo, se dovessi stare in pena per te saresti l'ultimo a saperlo» gli risposi saccente.
«Lo sai che io so sempre tutto, ovunque mi trovi»
«Se un giorno dovresti partire starò molto attenta» borbottai.
«Allora stai attenta questa settimana» disse, io alzai un sopracciglio e Marco mi sorrise, «sì, devo andare fuori un paio di giorni» aggiunse, ma il mio sguardo non mutò; volevo sapere dov'era diretto, con chi partiva, perché partiva proprio in questi giorni, ma sapevo anche che tutte queste domande l'avrebbero scocciato, per cui mi limitai a chiedergli per quando era fissata la partenza e quando mi rispose sentii un tonfo al cuore, come un pugno in pieno petto. «Come parti tra quattro ore?!» gli domandai, shockata.
«Eh sì, tra quattro ore» ripeté lui, sogghignando, «tranquilla non mi devi mica portare alla stazione, vado in macchina» provò a sdrammatizzare.
«Ma non hai dormito per niente!» lo rimproverai, «e se ti viene fame, hai qualcosa per il viaggio?» gli chiesi iniziando ad aprire tutti i vani della credenza in cerca di qualcosa da dargli; Marco scoppiò a ridere e mi pregò di smetterla, ma la mia faccia non so perché lo fece ridere ancora di più, allora si accese una sigaretta e prese a guardarmi mentre gli arrangiavo un paio di panini e qualche pacchetto di patatine.
«Penso basti...» sospirai mettendo tutto il preparato in un sacchetto di plastica, «l'acqua ce l'hai?» gli chiesi, «...ma che domande, è ovvio che non ce l'hai» mi risposi da sola, poi lo guardai e il suo sorriso fece sorridere anche me, «che c'è?» chiesi arrossendo appena.
«Niente, niente» mi rispose lui, «ma non dormi tu?» mi domandò accarezzandomi la testa.
«Non ho sonno» mentii e lo sbadiglio che seguì la mia risposta ne fu la prova; «quello che dovrebbe riposare sei tu» gli feci notare.
«Sto bene» disse con una scrollata di spalle, ma anche lui sbadigliò e io scoppiai a ridere, «ok, lo ammetto: sono un pochino stanco» sbuffò.
«E' un miracolo... tu che mi dai ragione, devi essere malato» constatai, poi molto teatralmente gli misi una mano sulla fronte e con faccia preoccupata feci finta di sentirgli la temperatura, «sì, è febbre. Non puoi partire».
«Smettila di fare la cretina e vai a letto» sbuffò accennando un sorriso, «io giuro che mi poggio sulla poltrona»
«Potresti... potresti farmi compagnia». Non so che mi disse la testa, infatti tentai di recuperare la situazione, ma con scarsi risultati: «perché la poltrona è scomoda»
«Scomodissima» mi diede corda Marco, così mi incamminai verso la mia camera da letto e sentire i suoi passi dietro di me non faceva che aumentare l'ansia e quella voragine che sapevo essersi aperta al centro del mio stomaco.
Mi gettai direttamente sul letto senza accedere neanche la luce, alzai il piumone e mi ci infilai sotto, poco dopo sentii Marco sedersi sul bordo e fare lo stesso. Per quanto fosse possibile tentai di mantenere le distanze, ma il suo profumo era un richiamo troppo forte così lentamente mi avvicinai di un po', quanto bastava per respirarlo a pieni polmoni.
«Mi è sempre piaciuto questo letto» mormorò lui, «è morbido, ma non è quel morbido dove affondi...»
«Stai veramente parlando della morbidezza del mio letto?» scoppiai a ridere e sentii ridacchiare anche lui, «promettimi che farai attenzione, ovunque stai andando» gli sussurrai, lui sospirò facendomi render conto di quanto fossimo vicino e colta dall’ennesimo momento di morte celebrale, mi sporsi e gli accarezzai dolcemente la guancia; mi girai subito dandogli così le spalle e sentii che il braccio di Marco mi cinse automaticamente la vita, quel gesto mi fece sospirare di nuovo e ancora una volta ripensai a qualche anno fa, quando spesso ci addormentavamo abbracciati in quel modo.
«E tu fai la brava» biascicò lui, per tutta risposta gli accarezzai la mano e mi strinsi un altro po' a lui, volevo stamparmi nella mente quel momento, quella calma e quel senso di felicità che provavo perché, ne ero certa, non sarebbe durato.
«Marco?» lo chiamai dopo qualche minuto.
«Mmh…» mormorò lui.
«Dormi?» gli chiesi voltandomi di nuovo e sperando che non togliesse il suo braccio da attorno a me.
«No, non dormivo» mi rispose senza deludere le mie aspettative e, anzi, stringendo la presa.
«E che facevi?» gli domandai, era come se in un attimo mi fosse passato tutto il sonno, come quando da bambina tornavo a casa e durante il viaggio ero stanca morta, ma poi una volta messa a letto passavo le ore a rivoltarmici dentro.
«Pensavo… e tu perché non dormi?» mi sussurrò accarezzandomi lentamente la schiena.
«In realtà pensavo anche io…» risposi, «ti devo chiedere una cosa, però voglio che sei sincero…»
«Va bene»
«Perché tre anni fa sei sparito? Non un messaggio, non una lettera; non mi hai fatto avvertire da nessuno…» gli domandami a bruciapelo, sentivo che quello era il momento giusto per togliermi ogni dubbio che in quegli anni mi aveva assillato la testa.
«Perché vuoi saperlo ora?» mi chiese, e lo sentii irrigidirsi al mio fianco.
«L’ho sempre voluto sapere», ammisi, «ed ora mi sembra il momento giusto per chiedertelo».
Non mi rispose subito, riprese ad accarezzarmi delicatamente il fianco, sospirando un paio di volte prima di parlare, «sono sparito così perché era giusto, era la cosa giusta da fare» mi rispose in un primo momento, «non sopportavo di saperti fuori con un altro dolore del genere; avevi da poco superato il momentaccio con tuo padre, non volevo infliggertene dell’altro» mi spiegò, pacato.
«Ma così sono stata di merda ugualmente»
«Sì, ma sapevo che saresti stata così forte da reagire positivamente. Sapevo che quello era l’unico modo per evitare che ti buttassi di nuovo giù e che passassi ancora una volta quelle giornate di inferno solo per fare, magari, un’ora di colloquio con me»
«Grazie della risposta, e del pensiero» gli dissi sperando che non avesse percepito il tremolio che avevo alla voce. Me l’ero immaginato dentro un cella di pochi metri quadrati a convivere con altre quattro –cinque- persone totalmente diverse da lui. Me l’ero immaginato perdere la sua quotidianità e reinventarsene un’altra per poter sopravvivere in quel luogo che oggi giorno è più un luogo di tortura che un luogo dove poter scontare le proprie colpe; tutte quelle immagini apparivano così nitide nella mia mente che non riuscii a trattenermi a lungo e alla fine scoppiai in lacrime. Senti Marco farsi ancora più vicino e stringersi ancora di più a me, mi cullò in silenzio tra le sue braccia, lasciandomi di tanto in tanto dei baci sui capelli. Quel chiarimento mi era servito a capire l’inutilità dei brutti pensieri che avevo fatto da tre anni fino a qualche mese prima, mi sentii una merda di dimensioni epiche per avergli augurato altri cento di quei giorni, per avergli detto circa un migliaio di parolacce. Mi sentivo uno schifo perché io ero fuori che potevo sfogarmi con i miei amici, mentre lui lì dentro non poteva fare niente se non viaggiare nei ricordi e stare, forse, ancora peggio; quella sera, mentre piangevo tra le sue braccia, avevo capito che il massiccio muro che per tutto quel tempo avevo innalzato davanti a lui era finalmente caduto e che io ero di nuovo pronta a ricostruire un qualcosa su quello spazio apparentemente inutilizzato che c’era tra di noi ed ero certa che Marco non mi avrebbe ostacolato e che, anzi, pian piano mi avrebbe dato una mano.


***
Note finali:

Eccoci qua con il nuovo capito... finalmente, pernserà qualcuno!
Ma veniamo a noi, forse la decisione di Rebecca era scontata, comunque ci tenevo a mostrare, seppur in minima parte, le opinioni della sua famiglia e dei suoi amici; perché, anche se ora la nostra rossa ha cambiato città, i suoi amici sono sempre presenti nel suo cuore ed il loro parere è sempre importante per lei.
Per quanto riguarda la sparatoria in paese.. bè, spero di aver reso l'idea; ero terrorizzata mentre scrivevo questa parte perché non sapevo veramente come spiegare quello che stava accadendo.
Tra l'altro state conoscendo meglio Marco, o meglio, alcune parti di Marco. Sì, è veramente una persona orribile, non sa mai cosa vuole dalla vita, da tutto per scontato e soffre di personalità multipla... ma bisogna che ce lo teniamo così. Però vi prometto che in seguito scoprirete di più su di lui, e sul perché era al cimitero pur odiando quel posto...
Ed infine Rebecca. Rebecca che finalmente si è tolta un peso dal cuore e che ora pensa che tutto potrebbe andare per il meglio, o almeno lo spera. Spererà in vano? Chi lo sa ;)
Come al solito ringrazio chi si è fermato a leggere, chi ha commentato, chi ha inserito “Eppure resta” tra le storie seguite... ringrazio sempre Kate che è stata la prima a leggere il capitolo.

Tra l'altro ho creato un profilo di Facebook, dove metterò le foto dei personaggi, qualche spoiler ed altre cose riguardanti la storia... per chi volesse aggiungermi eccolo qui: 
X

 
Ancora grazie, a presto.
-J

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Veleno per topi ***



5. Veleno per topi


Io e l'attività fisica andavamo raramente d'accordo.
Mi annoiavo facilmente. Avevo praticato tennis per quattro anni dopodiché avevo appeso letteralmente le racchette al chiodo, mi ero iscritta ad una palestra che mi aveva visto, sì e no, due mesi su dodici, avevo fatto boxe per quasi due anni, ma mia madre aveva appurato che ero già abbastanza mascolina di mio e quello sport non faceva che diminuire il mio già precario livello di femminilità adolescenziale; ogni tanto mi piaceva andare a correre al parco, ma l'unico sport che avevo praticato seriamente era il nuoto. Fin dall'età di tre anni sguazzavo allegramente in acqua e solo quand'ero totalmente immersa riuscivo a sentirmi bene con me stessa; quella mattina di metà Novembre l'acqua era irrimediabilmente gelata, così mi preparai e dovetti accontentarmi di scendere in spiaggia per correre invece che per nuotare.
Feci patire l'Ipod ed iniziai con un'andatura leggera per poi aumentare piano piano. Ad ogni passo i piedi affondavano nella sabbia e dovevo fare uno sforzo immane per fare quello successivo; dopo un po' decisi di correre in piano, così risalii la spiaggia e continuai la mia corsa sul pavimento più o meno liscio del lungomare.
Un'ora e mezza dopo rallentai il passo fino a che non presi a camminare facendo dei respiri profondi. Avevo il corpo accaldato ma sentivo un freddo boia alle mani, così me le misi in tasca e continuai a riprendere fiato. Quando tornai a respirare in modo regolare alzai la testa e mi resi conto che qualche metro più avanti vi erano alcuni gazebo bianchi ed una trentina di ragazzi con delle bandiere della pace e qualche cartellone scritto a mano; spensi l'Ipod e mi avvicinai per capire cosa stesse succedendo.
«...è un sit-in pacifico, non vogliamo tornare a vivere nel terrore di trovarci in mezzo ad una sparatoria» stava spiegando una ragazza ad un gruppetto di persone di mezza età; guardai nei gazebo e diedi una lettura veloce ai cartelloni, ma ero talmente stanca dalla corsa che non mi resi conto di avere una persona davanti e andai a sbattergli praticamente addosso.
«Oddio, scusi» biascicai massaggiandomi una spalla indolensita.
«Figurati Rebecca» mi rispose una voce stranamente famigliare, alzai la testa e strabuzzai gli occhi: davanti a me si parava un ragazzo in tenuta da militare, alto sicuramente due metri e con le spalle larghe come l'armadio della mia stanza; i capelli scuri erano magistralmente tagliati per non risultare troppo lunghi, ma neanche troppo corti, e i suoi occhioni verdi si ridussero ad una fessura mentre mi sorrideva.
«Alessio!» gli sorrisi di rimando e divenni sicuramente rossa in volto, ma per fortuna quel colorito poteva benissimo essere scambiato solo per un post sforzo fisico. Alessio era stato uno dei miei primi amici e, inutile negarlo, prima cotta all'età di undici anni. Io per lui ero sempre stata solo un'amica fino a quando non iniziai a frequentare Marco, infatti poi aveva iniziato ad interessarsi a me fregandosene del mio ragazzo e per quanto mi potesse far piacere essere corteggiata da un'altra persona non gli avevo mai dato corda più del dovuto; «Che ci fai qui?» gli chiesi.
«Ho aiutato mia cugina» mi rispose indicando con un cenno del capo la ragazza che parlava. «Tu invece? Come mai da queste parti?» mi chiese sorridendomi di nuovo; non era cambiato affatto, era il solito ragazzone che aveva sempre il sorriso sulle labbra.
«Mah, niente... mi sono momentaneamente trasferita» gli risposi senza entrare troppo nei particolari.
«Veramente?! E con il lavoro come fai? Mi ricordo che lavoravi in televisione, o qualcosa del genere...»
«Ora invece lavoro all'Havana» sdrammatizzai ridacchiando, «servo birre e panini, un salto di qualità!» aggiunsi facendogli l'occhiolino. «Tu invece come mai in paese?»
«Sono in licenza fino a Gennaio, poi dovrei tornare in Iraq»
«Madonna, un posto tranquillo eh...» osservai sgranando gli occhi.
«Tranquillissimo» ironizzò lui accendendosi una sigaretta, mi porse il pacchetto ma declinai l'offerta spiegandogli che volevo evitare di collassargli davanti.
«Quanto hai corso?»
«Un'ora e mezza»
«Pochissimo»
«Eh lo so, ma non correvo da quasi un mese; se avessi provato a fare di più sarei morta, sicuro» gli risposi.
«E in questi giorni che fai?»
«Niente, la solita vita che si fa qui» dissi con una scrollata di spalle, poi sentii il mio stomaco brontolare e decisi che era arrivato il momento di fare colazione: «Ora devo proprio andare, ma mi ha fatto piacere rivederti». Lui mi salutò con due baci sulle guance ed un sorriso sincero e lentamente mi avviai verso la macchina; una volta arrivata estrassi l'Iphone dal cruscotto e dopo aver letto i due messaggi ricevuti partii alla volta del bar dove mi aspettavano Francesco e Matteo per colazione.
Un'ora dopo, mentre mi beavo finalmente del getto d'acqua calda sul corpo, sentii squillare l'Iphone che avevo lasciato sul davanzale della finestra; ero tentata ad interrompere la doccia e fiondarmi a vedere se fosse Marco, ma alla fine non riuscii a smettere di godermi quel calore.
Marco era partito da due giorni e ovviamente non si era fatto sentire. La cosa più inquietante era che sembrava che nessuno dei nostri amici si fosse accorto della sua assenza momentanea, si comportavano come se niente fosse, il che mi fece pensare che quei suoi "viaggi" avvenivano spesso.
Dopo quasi un'ora i polpastrelli avevano assunto un aspetto orribile con mille pieghe che sembravano il volto di un'ultra-centenario, un chiaro segno che mi invitava a chiudere l'acqua e uscire dalla doccia, e così feci; raccolsi i capelli in un asciugamano e presi il cellulare, il numero a cui non avevo risposto non era tra quelli memorizzati sul mio Iphone, così lo richiamai, curiosa di sapere chi fosse e anche un po' speranzosa di sentire la voce di Marco all'altro capo del telefono.
«Ehi Rebecca» mi disse una voce femminile che, lì per lì, non riuscii a riconoscere.
«Ehm... ciao»
«Sono Antonella» specificò lei che, sicuramente, aveva percepito della perplessità nella mia voce. Antonella era la sorella maggiore di Marco.
«Ah... ciao Anto» la salutai di nuovo, questa volta cordialmente, «è successo qualcosa?» le chiesi poi.
«No, niente di preoccupante» ridacchiò lei, «come stai?»
«Tutto bene, tu? Mirko sta bene?» le domandai mentre mi infilavo un paio di pantaloni.
«Stiamo bene...» mi rispose Antonella. «Senti, volevo chiederti una cosa...»
«Dimmi»
«Fai ancora quelle foto meravigliose?»
«Sì, ogni tanto mi capita» le risposi ridacchiando. «Perché?»
«Tra una settimana è il compleanno di Mirko, il quinto... vista la situazione vorrei organizzargli una bella festa e fargli fare tante foto...»
«Capisco...» mormorai con un sorriso amaro, era il suo secondo compleanno senza papà.
«Ti andrebbe di aiutarmi?» mi chiese Antonella. «Vorrei mandare a Salvatore tante belle foto, vorrei che avesse l'impressione di essere qui con noi» sussurrò.
«Certo che mi andrebbe!» le risposi con vigore, «contami anche se hai bisogno di aiuto per organizzare la festa» aggiunsi.
«Grazie; allora ti chiamo tra un paio di giorni, così iniziamo ad elaborare»
«Perfetto Anto, ci vediamo presto» le dissi, poi riagganciai e sorrisi; ero seriamente contenta di aiutarla. Antonella mi era sempre stata simpatica e il piccolo Mirko l'avevo praticamente visto crescere, e poi volevo fare il possibile perché Salvatore non si sentisse escluso dalla famiglia, mia madre si era fatta in quattro quando mio padre non c'era ed ora che ne avevo la possibilità ero felice di aiutare una famiglia che stava passando quello che avevamo passato noi.
Mentre finivo di asciugarmi i capelli mia madre fece irruzione in casa lamentandosi di quanto poco riuscivamo a stare insieme anche ora che abitavamo praticamente nello stesso condominio.
«È che abbiamo orari diversi mamma» mi giustificai rialzando la testa e fonando le punte dei capelli.
«Sì, ma questo pomeriggio non lavori» mi disse con un ghigno malefico stampato in faccia.
«Mamma sono le quattro, direi che il pomeriggio è bello che iniziato»
«Appunto.. quindi ora che hai finito scendi giù e mi aiuti a fare una torta» mi rispose come se fosse la cosa più ovvia del mondo.
«Non riesci più a leggere la ricetta da sola e per questo ti serve il mio aiuto?» la presi in giro mentre rimettevo il fon al suo posto.
«Esatto!» mi diede corda mia madre, «quindi se vuoi il dolce dovrai aiutarmi a prepararlo»
«Ma io ho la casa invasa da cose dolci» mi lamentai seguendola verso l'uscio di casa. Contro la mia volontà fui costretta a rompere una dozzina di uova, a sbatterle, a montare a mano la panna e a mescolare creme di vario genere, alla fine però venni premiata con il permesso di leccare il composto direttamente dalla terrina; era una cosa che facevo fin da piccola, ma che penso facesse ogni bambino che assisteva la propria mamma in cucina. In quel momento provai per la prima volta un puro senso di nostalgia. Non ero nostalgica verso il passato, mi mancavano i miei amici.
Mi vennero in mente le immagini di David, Carlotta ed Elisa che si litigavano il resto degli impasti che preparavo, mi vennero in mente tutte le battaglie a colpi di farina che alla fine scoppiavano nella mia cucina, e una serie di aneddoti che mi fecero sospirare, sconfortata. E mi madre se ne accorse. Se ne accorse, ma non disse niente, come se volesse rispettare quel mio momentaneo dolore, convinta che prima o poi mi sarei cotta bene nel mio brodo e sarei tornata a Roma, da loro.

Altri due giorni passarono relativamente in fretta, e quel giovedì sera sembrava che tutto il paese si fosse riversato nel locale; l'Havana era talmente pieno che Vincent dovette aprire anche una delle due sale della discoteca per accogliere i clienti; il freddo aveva sicuramente aiutato quel pienone, ma io e Francesca ci stavamo esaurendo, straboccava così tanto di gente che anche Stefano e Matteo si misero i grembiuli e ci dettero una mano con i tavoli.
«Buona sera ragazzi!» dissi salutando cordialmente il gruppetto che era appena entrato. «In quanti siete?»
«In sette, manca ancora una persona» mi rispose il più alto, annuii e li scortai ad un tavolo che Stefano aveva appena finito di pulire, il gruppo mi ringraziò e prese posto.
«Non ce la faccio più» mi lamentai tornando dietro il bancone, «mi fanno male i piedi e sento che puzzo di birra»
«Uno spettacolo veramente carino» disse con una smorfia di disgusto Francesco mentre addentava il suo secondo panino.
«Potresti anche aiutarci, deficiente» lo sgridò sua sorella mettendo in un vassoio quanta più roba vi potesse entrare.
«No, è più bello stare seduto qui e godermi lo spettacolo» rise lui «e poi io sono troppo giovane per lavorare» aggiunse piccato; sbuffai scrollando la testa, ma mi fermai quando vidi Alessio entrare nel locale e raggiungere dopo poco il gruppetto di ragazzi che avevo appena fatto sedere, il settimo era lui.
«Ma quello non è...» stava per dire Francesca.
«Zitta» mormorai a denti stretti prendendo un nuovo blocchetto per le ordinazioni.
«E quello non è il tuo tavolo?» disse di nuovo, cercando di trattenere le risate.
«Zitta» ripetei uscendo dal bancone e camminando verso il tavolo; mi sistemai la treccia che avevo fatto ai capelli adagiandola meglio sulla spalla destra e una volta che arrivai al tavolo feci un sorriso di cortesia. Presi le ordinazioni e mi defilai subito per il pub prestando attenzione agli altri clienti, ma la sensazione di essere osservata era talmente forte che ogni tanto mi giravo in direzione di Alessio e, puntualmente, il mio sguardo incrociava il suo; quando entrò anche Carmen imprecai a denti stretti e iniziai a parlare direttamente con
Lui, chiedendogli cosa avessi fatto di male per meritare una serata del genere, sperai che almeno non si sedesse al bancone ma ovviamente successe proprio quello.
«Vado a prendere quel veleno per topi?» mi chiese a bassa voce Francesco.
«Non mi tentare» ribattei, poi mi voltai e con la voce più melensa e falsa che potessi fare le chiesi cosa ordinasse da bere.
«Non sono qui per quello» mi rispose.
«Vuoi mangiare?» le chiesi allora, sempre garbatamente.
«Marco c'è?» domando lei, rivolgendosi a Matteo che mi aveva portato dei bicchieri da lavare.
«No» le rispose lui, telegrafo prima di uscire da dietro il bancone e andare a servire due tavoli; Carmen rimase seduta e iniziò a fissarmi, inizialmente feci finta di niente continuando a riempire boccali di birra, ma ad un certo punto scoppiai: «Se non consumi dovresti lasciare il posto, siamo pieni questa sera» le dissi con un sorriso.
«Prendo un panino, allora» mi rispose dopo aver dato una rapida occhiata al piatto di Francesco.
«La cucina sta per chiudere, mi dispiace» ribattei, poi presi il mio vassoio e uscii dal bancone mentre Francesca, che probabilmente aveva sentito tutto, mi fece l'occhiolino; tornai e la trovai ancora lì, come l'avevo lasciata, sbuffai e Francesca si voltò a guardarmi con un ghigno malefico sul volto.
«Quindi hai sentito mia cugina Antonella...» urlò alzando la voce più del necessario. Francesco alzò gli occhi al cielo, ridacchiando.
«Sì» le risposi guardandola, con la mia solita espressione di perplessità dipinta sulla faccia.
«Ovviamente ti ha invitato» continuò lei, cercando di dirmi qualcosa anche con gli occhi. «Poi senti Marco, così andate a fare il regalo insieme» aggiunse guardando Carmen che si era immediatamente drizzata sulla sedia.
«Ah... sì, quando ho finito il turno lo chiamerò» stetti al gioco per quanto mi sembrava una cosa stupida, ma almeno passai un po' di tempo in quella serata che sembrava non finisse mai più.
«Sicuramente ci saranno anche Aldo e Lucia» continuò Francesca mentre il volto di Carmen diventava più rosso dei miei capelli. «Ti hanno sempre adorato i miei zii... vero Frà?» continuò facendomi scoppiare a ridere.
«La finite di cazzeggiare voi due?» borbottò Stefano tornando dietro il bancone e scompigliando i capelli di Francesca.
«Queste due lavorano poco!» rimbeccò Francesco, «sono un cliente poco soddisfatto» aggiunse incrociando le braccia al petto.
«Parlavamo dell'amore dei miei zii per Rebecca» sua sorella gli parlò sopra incitandolo con lo sguardo a darle man forte, cosa che fortunatamente non accadde.
«Oddio basta» la zittii arrossendo, «non ci posso fare niente se sono simpatica a tutti» sbuffai mangiucchiando un salatino.
«Sei bellissima» ridacchiò Francesca beccandosi, però, un dito medio da parte mia. Stefano ridacchiò ed io mi apprestai ad andare a sparecchiare i primi tavoli che si erano liberati, sembrava finalmente che la gente avesse deciso di sloggiare e tornarsene a casa.
Due ore dopo al locale era rimasto solo il tavolo di Alessio, perfino Carmen alla fine si era alzata ed in silenzio se n'era andata. In realtà quella sera mi aveva fatto anche un po' pena, in quel periodo pensavo che se non ce l'avesse avuta con me per il mio passato con Marco io e lei saremmo potute diventare tranquillamente amiche; dopo aver passato lo straccio sull'ultimo tavolo mi tolsi il grembiule e sbuffando mi accasciai su una sedia.
«Mi sa che è ora che leviamo le tende anche noi» ridacchiò Alessio guardandomi.
«Per me potete restare quanto volete, vi lascio le chiavi e chiudete voi» gli risposi con un sorriso tirato.
«No no, non vorremmo avere ripercussioni» ribatté un altro, alzandosi e mettendosi il cappotto; poi andarono a saldare il conto e si avviarono lentamente alla porta, Alessio si voltò e mi sorrise di nuovo. «Ci vediamo Rè» mi disse, lo salutai con un cenno del capo vagando con lo sguardo sulle sue spalle larghe fino al sedere che, ahimè, era sempre stata una piacevole visione.
«Vedo che non è cambiato in niente...» mormorò Francesca facendomi sobbalzare.
«Santa pace, sembra fatto di marmo» commentai, distogliendo lo sguardo solo quando uscì definitivamente dalla porta.
«Rebecca, stai sbavando» mi disse Francesco indicandomi l'angolo della bocca.
«Come fai a non sbavare?!» gli chiesi retoricamente, «non puoi capirle queste cose tu» sbuffai con disappunto.
«Eh lo so, scusa. Da domani inizierò a guardare i culi di mezzo paese, così mi farò anche io una cultura!»
«In quanto a sederi c'è una vasta scelta in paese...» gli risposi.
«Lo sai che ogni tua parola verrà riportata a chi di dovere?» mi disse con un ghigno malefico stampato in faccia.
«Sì, e non mi interessa» ribattei muovendo la mano per aria in un gesto di sufficienza. «Sai che mi frega...»
«Vedremo...» ridacchiò lui. Come al solito continuammo a punzecchiarci fino a che non uscimmo dal locale, dopo mezz'ora.
«Frà» chiamai, e come da copione si girarono entrambi i fratell, «Francesco» specificai alzando gli occhi al cielo, «domani vieni a fare spese con me, ti istruirò sulla nobile arte dell'ammirazione dei fondoschiena» gli dissi, facendogli la linguaccia.
«Offri il pranzo?» mi chiese lui, arricciando la lingua.
«Sì...»
«Affare fatto!» sorrise sornione, poi mi diede un bacio in guancia e tornò in macchina da sua sorella, che l'aspettava impaziente come tutti di toccare finalmente il letto.

Poi i giorni, però, iniziarono a passare più lentamente del solito. Era quasi sconvolgente la lentezza con cui si susseguivano le ore, soprattutto quando ero a lavoro, non mi era mai pesato lavorare come in quella settimana e le continue visite di Carmen non avevano alleviato quella sofferenza, magari si aspettava di ricevere notizie di Marco ma rimase ogni volta delusa; d'altronde neanche io l'avevo sentito e mentre mi sbrigavo a vestirmi per il compleanno di Mirko speravo che quel cretino sarebbe tornato in tempo per non perdersi la festa di quel piccolino.
In fretta e furia mi misi una gonna di jeans ed una maglia nera e rossa, persi un'altra mezz'ora a cercare le ballerine rosse, ma quando le ebbi trovate fui abbastanza soddisfatta del risultato, non volevo essere troppo sofisticata, ma una parte di me voleva fare bella figura con chi sarebbe stato presente, mi sentivo nella classica situazione in cui una donna voleva e doveva dare il meglio di sé.
Arrivai con un leggero ritardo alla pizzeria dove si sarebbe tenuto il compleanno e prima di varcare la soglia feci una serie di respiri profondi che dovevano servire a tranquillizzarmi ma che invece non fecero che aumentare la mia ansia; diedi un ultimo tiro alla sigaretta e alla fine entrai.
La prima cosa che notai è che faceva effettivamente troppo caldo, la seconda fu il piccolo Mirko seduto sulle gambe di suo nonno mentre un’altra decina di bambini schiamazzava davanti l'enorme caminetto del ristorante.
«Rebecca!» mi chiamò Antonella venendomi incontro a braccia aperte, l'abbracciai e fui pervasa da uno strano senso di beatitudine e felicità, era come se stessi abbracciando una specie di parente che non vedevo da chissà quanti anni. «Meno male che sei arrivata», sospirò sciogliendo l'abbraccio, «Mirko non si scolla da papà e gli altri bambini mi hanno già fatto venire il mal di testa... e non so che fine ha fatto mio fratello» sbuffò facendomi strada fino al nostro tavolo.
Ridacchiai mentre mi liberavo della sciarpa e della custodia della macchina fotografica. «Buona sera» dissi rivolgendomi poi ai genitori di Marco, sua mamma si alzò e mi abbracciò dolcemente, e lo stesso senso di beatitudine di qualche secondo prima mi attanagliò lo stomaco.
«Bentornata piccola» mi sussurrò Lucia dandomi uno dei soliti baci sulle guance che, ne fui certa, divennero più rosse delle mie scarpe.
«Guarda chi c'è...» disse invece Aldo sorridendomi e costringendo suo nipote a girarsi per guardarmi; inizialmente Mirko mi lanciò uno sguardo interrogativo poi però si aprì in un enorme sorriso e dopo essere sceso dalle gambe del nonno mi corse in braccio. «Zia!» urlò saltando, l'urto mi fece indietreggiare, ma per fortuna evitammo di cadere tutti e due. È inutile stare a spiegare cosa mi provocò quell'abbraccio e quell'appellativo che mi era appena stato dato, ci mancò poco che scoppiai a piangere mentre il piccolino mi riempiva di coccole.
«Come stai ometto?» gli domandai rimettendolo con i piedi per terra.
«Da oggi ho cinque anni, hai visto come sono cresciuto?» mi chiese retoricamente lui, «tra un po' potrai lasciare lo zio e sposarti con me»
«Non te l'ho detto» gli dissi con una risata isterica, «ma io oggi sono qui proprio per sposarti» gli feci l'occhiolino e lui rise; «Perché non vai a giocare un pochino con i tuoi amichetti? Mi sembra che si stanno divertendo un mondo lì» gli suggerii indicando il gruppo di bambini con un cenno della testa.
«Va bene, però tra poco torno da te» asserì prima di correre incontro a qualche bimbo; io andai a salutare Aldo e mi misi a chiacchierare un pochino con lui, mi chiese del mio lavoro e di come stesse andando la mia vita, poi iniziammo a parlare del piccolo Mirko quando questo tornò da noi con un enorme broncio.
«Che c'è amore?» gli chiese Antonella prendendolo in braccio.
«Mi annoio... e voglio papà» le disse tirando su con il naso; vidi gli occhi di Antonella farsi lucidi e sentii io stessa un groppone in gola.
«Non mi piace questa festa» si lamentò ancora il bambino, sua mamma mi guardò alla ricerca di aiuto e sorridendole ringraziai il cielo di aver lavorato nei centri estivi.
«Ma tu lo sai che la zia è diventata una strega potentissima?» gli chiesi avvicinandomi a loro, Mirko scosse la testa ed io continuai: «Sì, sì. Non potrei fare magie davanti a tutti, ma questa sera penso proprio che farò un eccezione» aggiunsi facendogli un occhiolino, poi aprii la busta di palloncini che era poggiata sul tavolo ed iniziai ad armeggiare fino a che non mi venne fuori una specie di cane; gli altri bambini vennero richiamati dalle risate del festeggiato ed in men che non si dica mi ritrovai circondata da marmocchi che azzardavano le richieste più strane, c'era perfino chi mi chiese di creargli un carro armato.
«Il carro armato lo sa fare lui!» trillai indicando Matteo che aveva appena poggiato il suo giubbotto sull'appendi abiti.
«Ma lui non è una strega!» si lamentò una bimba.
«No, ma è un ottimo aiutante» dissi io porgendo a Matteo un po' di palloncini sgonfi; quando poi arrivarono anche Stefano e Francesca la serata prese decisamente una piega migliore. I ragazzi si occuparono dei maschietti inventandosi assurdi giochi di carte, mentre io e Fra avevamo racimolato un’eloquente quantità di trucchi sparsi nelle nostre borse e stavamo truccando le femmine già vanitose a soli sei o sette anni. All'arrivo della pizza tutti i bambini erano già stanchi quel poco che bastava per starsene seduti senza fare troppo casino dando così a noi adulti la quiete necessaria per scambiarci quattro chiacchiere in tranquillità.
«Dopo ricordami di metterti da parte un pezzo di torta per tuo fratello», disse Lucia rivolgendosi a Francesca.
«Ma tranquilla zia, così la prossima volta impara a non venire il tuo adorato nipotino»
«Ma ha la febbre, mica è colpa sua!» alzò gli occhi al cielo Matteo, «sei proprio una sorella del cavolo» sbuffò poi.
«Con certi fratelli bisogna essere così per forza» gli rispose a denti stretti Antonella, guardandomi; io mi strinsi nelle spalle e dopo aver bevuto un sorso d'acqua uscii di fuori per fumare. La differenza di temperatura mi fece arrossire il volto e sentivo il freddo pungermi le guance, con difficoltà accesi la sigaretta ed iniziai a fumarla, avida. Marco ancora non era arrivato e a quel punto iniziai a preoccuparmi ancora di più, non si sarebbe perso la festa di suo nipote per niente al mondo, e se fosse successo qualcosa di brutto si sarebbe saputo, ma quei giorni di totale silenzio mi facevano sentire oppressa come quando mi prendeva una crisi di claustrofobia; alla fine si aggiunse anche un senso di vomito quando riconobbi le risate che fino a qualche secondo prima avevo sentito solo in lontananza.
«Ah, ciao» disse Marco arrestandosi davanti a me, il sorriso era sparito.
«Ciao» risposti guardandolo negli occhi, «e ciao a te, Carmen» aggiunsi rivolgendo un sorrisetto verso la mora, sorriso che lei ricambiò con uno ancora più sprezzante.
«Te l'avevo detto che c'erano tutti» schioccò la lingua lei continuando a stringere il braccio di Marco.
«Ci vediamo dentro» borbottò lui, strattonandola con poca grazia; gettai il mozzicone della sigaretta che avevo appena finito e me ne accesi un'altra fumandola, però, con più ingordigia. Non volevo rientrare e mi stavo attaccando alla nicotina in modo ossessivo. Non avevo voglia di rientrare ed essere costretta a sedermi allo stesso tavolo di Marco e Carmen, magari con la fortuna che mi ritrovavo gli sarei anche capitata davanti e sarei stata costretta a guardare mentre si appiccicava al suo braccio come fa una cozza con uno scoglio. Fui indecisa se finire la terza sigaretta, ma a metà la gettai, e convinta dal vento gelido che iniziò a tirare decisi di rientrare nella pizzeria con il mio sorriso finto migliore ben stampato in faccia.
«Stavamo per chiamare la polizia» ridacchiò Antonella guardandomi.
«Scusate, ero al telefono» mentii, spudoratamente.
«E chi era?» mi chiese Francesca inclinando un po' la testa.
«Amici, di Roma» risposi mangiucchiando qualche patatina fritta che era rimasta ancora nel mio piatto; Marco mi guardò di sottecchi ed io alzai un sopracciglio in segno di dissenso, poi mi alzai e dopo aver sistemato la macchina fotografica iniziai a fare alcune foto; feci il giro del tavolo e scattai a raffica qualche primo piano ai bambini invitati concentrandomi, poi, su Mirko che alla vista dello zio sembrava avesse ritrovato il sorriso. Continuai così fino all'arrivo della torta e mi apprestai a scattare una foto ricordo con tutti gli invitati, grandi o piccini che erano.
«Zia, vieni anche tu!» trillò Mirko quando suo zio lo prese in braccio, sentendomi chiamare in quel modo Carmen storse la bocca e mi riservò l'ennesima occhiataccia della serata.
«Amore, ma io devo fare la foto» gli risposi con un sorriso, «magari dopo».
«No, la voglio insieme a tutti e due!» ribatté il piccolo aggrottando le sopracciglia
«Vai! Ci penso io qui» mi disse Francesca strappandomi letteralmente la macchinetta dalle mani, sotto gli sguardi di tutti mi andai a posizionare dopo la torta e mi avvicinai il minimo ed indispensabile a Marco e al festeggiato.
«Più vicini» ci incitò Francesca, con un cenno della mano; alzai gli occhi al cielo e feci come mi disse, mi avvicinai finché non sentii il mio fianco toccare quello di Marco.
«Vuoi venire in braccio a me?» chiesi a Mirko con un sorriso, il bambino annuì e Marco me lo passò per poi stringersi ancora di più a me e cingermi la vita con il braccio. Mi irrigidii all'istante e fu talmente evidente che Francesca dovette scattare un altro paio di foto prima che una si potesse considerare minimamente decente; mi accarezzò per un attimo il fianco, ma quando stava per sciogliere l'abbraccio si dovette rimettere in posa perché Stefano, con grande entusiasmo di Mirko, aveva chiesto a Carmen di farci una foto tutti insieme, così mentre pregavo che quella vipera non facesse cadere
accidentalmente la mia macchina fotografica mi beavo dell'abbraccio di Marco dimenticandomi momentaneamente di avercela con lui.
Dopo il taglio della torta iniziarono ad arrivare i genitori degli invitati e, a poco a poco, se ne andarono tutti, gli ultimi fummo noi. «Tra due giorni le foto dovrebbero essere pronte» dissi ad Antonella aprendo la mia auto e posandovi dentro l'ingombrante custodia della macchina fotografica.
«Tranquilla, magari stampa prima quelle di Mirko, per le altre c'è tempo» mi sorrise lei mentre poggiava dolcemente il figlio sui sedili posteriori facendo ben attenzione a non svegliarlo.
«Lo sai che non partirà mai questa macchina?» la voce di Marco mi fece sobbalzare, mi voltai e lo guardai alzando un sopracciglio. «Hai lasciato le luci di posizione accese» mi spiegò con un cenno del capo.
«Non è possibile che si sia scaricata la batteria» sbuffai e mi apprestai a fare una prova, girai la chiave ma appena provai a dare un po' di gas la macchina sembrò tossire e poi morire. «Ti prego, ti prego» mormorai a denti stretti. «Ti prego, non mi abbandonare...» ma niente, non sembrava volesse essere clemente.
«Dai tesoro, ti porto io» mi disse Matteo mettendomi una mano dietro la schiena, ma Marco scosse la testa dicendo che mi avrebbe portato a casa lui. «A me è di strada, a te no. Però potresti portare Carmen» spiegò, senza curarsi minimamente delle occhiatacce della mora, e Matteo sbuffò senza preoccuparsi, a sua volta, di nascondere l'antipatia che provava verso la ragazza.
«Ok, visto che siete tutti sistemati noi intanto ci avviamo verso casa», salutammo Antonella e i genitori di Marco per poi avviarci anche noi alla macchina.
«Ti chiamo domani» urlò Francesca dal finestrino della macchina di Stefano, mossi la testa in segno di assenso e chiusi la portiera della Jeep con troppa foga.
«Allora?» gli chiesi con un sopracciglio alzato. Non avevo voglia di aspettare che lui si decidesse a parlarmi, non avevo voglia di aspettare che Marco iniziasse una qualche conversazione stupida che poi sarebbe sicuramente degenerata, perciò decisi di colpire per prima e lo feci con l'intenzione di affondarlo.
«Cosa?» mi domandò a sua volta senza distogliere gli occhi dalla strada.
«Quando sei tornato?» gli chiesi di nuovo, fregandomene di quanto le mie domande potessero irritarlo.
«Questo pomeriggio»
«E che hai fatto in questo pomeriggio?»
«Niente, sono tornato a casa e ho dormito» mi rispose scrollando le spalle, «perché?»
«E Carmen?»
«Quando ho riacceso il cellulare ho visto le sue chiamate, così l'ho ricontattata» si spiegò, poi mi guardò accennando un sorrisetto.
«Certo, perché giustamente non riusciva a starsene buona lei» mormorai. «E tu, da buon samaritano, l'hai subito chiamata e sei andato a tranquillizzarla»
«Le ho offerto un caffè...» specificò lui senza togliersi quel sorriso da schiaffi sul viso.
«Non vedo cosa ci sia di divertente» sbuffai accendendomi una sigaretta, «niente è divertente in questa storia!»
«Potevi chiamarmi, ti avrei ricontattata e avrei offerto un caffè anche a te» ridacchiò ancora Marco, passandosi la punta della lingua sulle labbra.
«Ma vaffanculo!» berciai fulminandolo con uno sguardo.
«Smettila di fare la gelosa» mi canzonò accarezzandomi i capelli. «Anche se hai sempre avuto il tuo fascino, da gelosa» rise.
«Io non sono gelosa!» risposi piccata, incrociai le braccia al petto e mi scansai da lui, irritata. «E non sono neanche ossessiva come Carmen che ti chiama trecento volte al giorno o va dove lavorano i tuoi amici a rompergli il cazzo con le sue mille domande: "E dov'è Marco?", "Marco vi ha chiamati?", "Marco qui e Marco lì"...» smisi di fare il mio monologo interrotta dalla risata cristallina che si espanse nell'auto. «Marco, vai a cagare!» gli dissi di nuovo, guardandolo in cagnesco. Restammo in silenzio fino davanti casa mia, una volta spento il motore si avvicinò con l'intenzione di sciogliere le mie braccia che tenevo ancora conserte, ma opposi una dura resistenza.
«Ti sta per arrivare uno schiaffo, sappilo» l'avvertii guardandolo negli occhi.
«Lo sai che non puoi fare a botte con me perché perderesti, vero?»
«Credimi, ho immaginato talmente tante volte di picchiarti che so bene quali punti colpire» soffiai saccente.
«Ok» sbuffò lui scansandosi, era sempre stato un tipo permaloso, «comunque la tua macchina è andata, domani ti porto la mia C3 e intanto vediamo se quel catorcio si può sistemare»
«Punto primo, la mia macchina non è un catorcio!» sbottai punta nell'orgoglio. «Punto secondo, ci penserò io a portarla dal meccanico» continuai gesticolando, «e terzo: non la voglia la tua C3!»
«La Classe A ti va bene?» mi domandò.
«No!»
«La Jeep te la scordi» disse Marco accarezzando il volante.
Alzai gli occhi al cielo sospirando per quanto fosse deficiente, «non voglio nessuna delle tue stupide macchine che usi per fare chissà che cosa con Carmen o chicchessia... soprattutto non voglio la C3!» gli spiegai irritata.
«Perché non vuoi la C3?» mi chiese aggrottando le sopracciglia.
Mi morsi le labbra maledicendomi per essermi fatta sfuggire quella frase, degludii sonoramente cercando una scusa plausibile, ma alla fine decisi di dirgli la pura e semplice verità, anche perché mi avrebbe subito scoperta se gli avessi racontato una balla.
«Perché l'avevamo comprata insieme e... lascia perdere Marco» sospirai passandomi una mano tra i capelli, lui approfittò di quel momento e mi tirò a sé prendendomi per un braccio.
«Te la volevo prestare proprio per quel motivo, è la nostra macchina. Non c'è mai salita nessuna oltre te...» mi sussurrò mentre cercavo di allontanarmi. «Che c'è?» mi domandò, percependo la mia resistenza a quell'abbraccio.
«Niente, non c'è niente» borbottai irritata, «è solo che non vedo il motivo per cui tu debba offrire un caffè a quella lì»
«Perché sono un ragazzo gentile?»
«Vabbè, girala sempre come vuoi tu» sbuffai tentando nuovamente di staccarmi, ma lui mi trascinò nuovamente a se facendomi sbattere con la faccia sul suo petto, poi mi prese il volto e mi costrinse a guardarlo negli occhi.
«Sei gelosa» canticchiò di nuovo facendomi sbuffare per l'ennesima volta. «Ah, a proposito: che ci faceva Alessio all'Havana?» mi domandò, spiazzandomi. Strabuzzai per un momento gli occhi.
Lo sai che io so sempre tutto, ovunque mi trovi, l'aveva detto ed io lo sapevo già da tempo, ma non pensavo che si fosse aggiornato in meno di ventiquattro ore dal suo ritorno... maledetto Francesco! Mentalmente mi appuntai di andarlo a trovare il giorno dopo e di soffocarlo con il cuscino mentre era già morente a causa della febbre.
«E che ne so io!» feci spallucce, «era lì, con i suoi amici. E' in licenza per un po'»
«Te l'ha detto mentre prendevi le ordinazioni?»
«No, l'avevo incontrato qualche giorno prima mentre ero andata a correre... oddio, ora lo stai facendo tu l'interrogatorio»
«Ero solo curioso» mi rispose lui senza allentare ancora la presa. «E comunque, tu puoi fare le domande ed io no?»
«Figurati, tu puoi fare tutto!» ribattei con una risata, ma mi resi conto che quella frase poteva contenere mille sfumature, ed infatti Marco si leccò il labbro superiore con la punta della lingua, guardandomi; «Nei limiti dell'accettabile» misi subito in chiaro, ma oramai era troppo tardi, il suo volto era troppo vicino al mio, e le sue labbra erano troppo invitanti.

Baciare Marco, quella volta, fu differente.
Le nostre labbra si ritrovavano dopo tre anni eppure non sembravano essersi mai divise, si amalgamavano alla perfezione come una dose perfetta di ingredienti per una torta. Sentivo la sua lingua rincorrere la mia: la raggiungeva, la stuzzicava e l'accarezzava con la stessa lentezza con cui la sua mano accarezzava il mio fianco. Mi strinsi ancora di più a lui, volevo sentirmi ancora una volta il pezzo mancante del suo puzzle personale e il modo in cui mi strinse mi fece sentire realizzata a tal punto che mi uscì spontaneo un sospiro profondo.
«Che succede?» mi chiese senza staccare del tutto le sue labbra dalle mie.
«Niente, va tutto bene» lo tranquillizzai abbracciandolo forte.
«Hai sospirato, qualcosa c'è» insistette lui e questa volta si staccò poggiando la sua fronte alla mia.
«Niente Marco, era un sospiro di gioia... mi sembra di essere tornata a respirare dopo tre anni di apnea» confessai, e anche se sentii le guance avvampare lo guardai dritto negli occhi e lui mi sorrise, dolcemente.
«Una volta mi dicesti che rivedermi fu come rinascere...» disse accarezzandomi il visto e citando una frase di Guccini che io avevo volutamente usato in passato. «Ora io ti dico che questo bacio è stata la mia rinascita» aggiunse passando il pollice sulle mie labbra che, nel mentre, si erano bagnate con le lacrime che non ero riuscita a trattenere.
Mi sorrise di nuovo e capii che avrei fatto di tutto per quel sorriso che illuminava la mia vita, per quei due occhioni che mi stavano guardando ancora una volta come se fossi la donna più bella del mondo.


***

Note finali:

Pietosa attesa, me ne rendo conto, ma con la scuola e tutto il resto non ho avuto un attimo di tempo. Ma ora eccoci qui!
Avete fatto la conoscenza di un nuovo personaggio, spero vivamente che Alessio vi piacerà e vorrei sapere che ne pensate. Ma ci sono anche Antonella e il piccolo Mirko.. insomma, tanta gente nuova che farà da cornice a questa piccola storia senza pretese.
Ora, Marco... non si sa dov'è andato e probabilmente non lo scopriremo mai perchè è narrato tutto dal punto di vista di Rebecca, quindi se lui non dovesse dirglielo rimarremo tutte con il dubbio, ma tranquille... non sarà l'unico segreto che ci proteremo dietro.
Carmen e Rebecca... sono due persone diverse ma che alla fine sono unite dall'amore per lo stesso ragazzo, il problema è che Carmen non guarda in faccia nessuno, mentre Rebecca si fa mille seghe mentali e pensa perfino di poter diventare amica di Carmen -sì, lo so, è matta-.
Parlando della coppia invece, che c'è da dire? Finalmente è successo qualcosa, ma niente è come sembra, anche perchè, come ho detto mille volte, Marco è un pochino fuori di testa. Vedrete nel prossimo capitolo. Voi, comunque, che ne pensate? Come si potrebbe evolvere la loro situazione?
Non mi dilungo più, aggiungo solo che il capitolo è stato ri-betato da pind, l'unica che riesce a scovare gli errori di battitura più nascosti. Ringrazio sempre chi si è fermato a leggere, chi è arrivato fino qui e chi ha avuto il coraggio di inserire la storia tra la preferite/seguite. Grazie, grazie, grazie!
Vi ricordo il mio profilo di FACEBOOK dove potete trovare qualche spoiler, le foto dei personaggi ed altre cosucce.
A presto,
-J

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Snow White ***



[…]

Con te le ho scese perché sapevo che di noi due
le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate,
erano le tue.

6. Snow White


Non riuscivo a capire se il fatto che sentissi le voci dei miei amici di Roma fosse un sogno o l'inizio di una grave malattia mentale. Non stavo dormendo, o meglio, ero in quella fase post-sonno in cui i miei occhi tentavano di aprirsi ma le palpebre restavano appiccicate tra di loro, quindi la teoria della malattia mentale stava momentaneamente avendo la meglio. Dopo una dura lotta costrinsi l'occhio destro ad aprirsi e sentii la risata stridula di mia madre espandersi per tutta casa; sbuffai e mi alzai dal letto arrancando fino alla cucina, quando arrivai però dovetti sbattere di nuovo gli occhi e stropicciarmeli un paio di volte con la mano per riuscire a credere che la persona che avessi davanti fosse reale.
«Buongiorno!» trillò Carlotta venendomi ad abbracciare.
«Ma... ma... che cazzo ci fai qui!?» berciai ricambiando goffamente l'abbraccio.
«Buongiorno principessa!» borbottò ironicamente mia madre, «vi lascio a voi, la colazione è sul tavolo» aggiunse dandomi una leggera pacca sul sedere.
«Oddio, perché sei qui? Che è successo? E' morto qualcuno? Ecco, lo sapevo, non vi posso lasciare soli che...»
«Zitta!» rise Carlotta interrompendo la mia raffica di domande, «in genere appena sveglia non ti si può parlare, mentre ora non stai zitta un secondo» mi fece notare, mi sedetti al tavolo e mi versai il caffè nella tazza invitandola a spiegarmi la sua presenza lì, in Calabria. «Mi mancavi, non avevo niente da fare e sono venuta» spiegò telegrafa.
«E il lavoro?» le chiesi addentando un pezzo di torta al cioccolato.
«L'ho lasciato momentaneamente» mi rispose scrollando le spalle come se niente fosse.
«Come l'hai lasciato?» le chiesi rischiando di strozzarmi.
«Sì Rè, non mi sento più bene in quella libreria, ho bisogno di una pausa» sbuffò mangiucchiando un po' di torta anche lei.
«Va bene, se pensi che sia una cosa migliore ok. Lo sai che appoggio ogni tua scelta»
«Grazie dolcezza... quindi ho pensato di prendermi un week-end sabbatico dalla città e venirti a fare visita, spero non ti dispiaccia»
«Per me puoi restare quanto vuoi! I ragazzi che dicono?»
«David ha detto che lo abbiamo abbandonato... ma ha detto che "se Maometto non va alla montagna, la montagna andrà a Maometto" quindi verrà per le vacanze di natale».
«Ma natale è tra due mesi!» le dissi alzando un sopracciglio.
«Veramente natale è tra meno di un mese» ridacchiò Carlotta, «siamo al due Dicembre» mi ricordò, e fu come svegliarmi da un lungo sonno, tanto che mi cadde la sigaretta che avevo appena messo in bocca e assunsi un'espressione da ebete. «E' già un mese che manco da Roma?» le chiesi in preda alla perplessità, lei annuì ed io strabuzzai ancora di più gli occhi, «oddio!» esclamai dandomi uno schiaffo sulla fronte; mentre tentavo di metabolizzare la notizia del tempo che era passato così velocemente sentii il portone di sotto aprirsi e i passi di qualcuno che stava salendo le scale fino alla porta di casa mia. Aspettai che suonassero il campanello, ma evidentemente mia mamma aveva lasciato la porta socchiusa perché l’apparizione delle teste di Matteo e Marco mi fecero sussultare.
«Buongiorno splendore» mi sorrise Matteo posandomi un bacio sui capelli, gli sorrisi e poi grugnii un saluto in direzione di Marco. Erano passati tre giorni dal nostro bacio e lui non ne aveva ancora mai parlato. Non era mai stato il tipo che tirava in ballo il passato o dava spiegazioni, faceva ogni cosa che gli suggeriva la testa, e pur sapendo queste cose avevo comunque pensato che il giorno dopo il nostro bacio lui si sarebbe degnato a darmi qualche delucidazione al riguardo, ma mi sbagliavo anche quella volta.
«Non so se ve la ricordate, lei è Carlotta» dissi indicando la mia amica, il sorriso di Matteo si fece ancora più ampio e andò a salutarla con due baci sulle guance, «certo che me la ricordo» trillò, facendomi tornare in mente la simpatia che provava per lei; anche Marco l’andò a salutare, ma senza tanta cordialità.
«Allora, qual buon vento vi porta qui?» gli chiesi spegnendo la sigaretta.
«La tua macchina» mi rispose Marco tagliandosi un pezzo di torta.
«L’ho momentaneamente aggiustata, anche se penso non durerà a lungo Reby… gli do al massimo due mesi»
«Oddio che ansia!» sbuffai arrotolando sul dito una ciocca di capelli; stavano succedendo troppe cose e il mio cervello non riusciva a stare al passo, non appena sveglia e con quella poca caffeina che avevo assunto.
«Devi capire che quella macchina è come un malato terminale, fin da quando ti conosco io ha fatto la chemiometria, ma ora sta lentamente morendo»
«Dio che tristezza» commentò Carlotta con un sospiro.
«Ok, dov’è adesso?»
«In officina…»
«Siete venuti fino qui solo per darmi la cattiva notizia? Gentilissimi»
«Eravamo andati a fare colazione e poi abbiamo pensato di venirti a rompere le palle, l’idea era quella di svegliarti» mi spiegò Matteo guardando di sottecchi Marco.
«E se ora andassimo tutti in officina così io mi riprendo la mia macchina?» proposi, «così posso ridargli la sua» aggiunsi indicando Marco con un cenno del capo.
«Per me non c’è problema» asserì Matteo.
«Perfetto, mi cambio e tra cinque minuti sono nuovamente qui! Socializzate, parlate... fate qualcosa!» sorrisi e corsi in camera da letto lasciandoli tutti e tre seduti al tavolo della cucina. Arrivata in camera presi un paio di jeans ed una felpa e poi andai verso il bagno, posai i vestiti sul mobile e tornai indietro a prendere i calzini puliti che avevo dimenticato sul letto. Mi tolsi il pigiama e mi misi i jeans, poi il reggiseno e mi apprestai a lavarmi il viso, mentre avevo la faccia spalmata sull’asciugamano sentii un' imprecazione troppo vicina per essere di qualcuno che si trovava in cucina.
«Scusa, c’era la porta aperta» borbottò Marco.
«Ah, l’avrò lasciata aperta per sbaglio» scrollai le spalle io, poi presi il mascara e me lo passai sulle ciglia guardando dallo specchio Marco che aveva chiuso la porta e si era poggiato al muro.
«Ti serve qualcosa?» gli chiesi senza neanche voltarmi.
«No, ti stavo solo osservando»
«Come vuoi» feci di nuovo spallucce e mi sciolsi i capelli, e scuotendoli mi resi conto che la maglietta e la felpa erano poggiate sul pomello della porta, proprio dietro Marco. Feci un respiro profondo e mi avvicinai allungando un po’ la mano e sperando che capisse le mie intenzioni.
«Mi eviti da giorni» borbottò prendendomi per il polso; no, non le aveva decisamente capite le mie intenzioni.
«Il realtà non ti sto evitando, ti sto semplicemente ignorando… da tre giorni, per la precisione» gli risposi saccente osservando la maglia che penzolava.
«Ancora arrabbiata per quel caffè?» mi chiese. Non riuscii a trattenermi e scoppiai a ridere della sua ingenuità, anche se avevo sempre pensato che la stupidità di Marco fosse una finzione, che era uno di quelli che fa finta di non capire quando gli fa comodo, come in quel caso.
«Posso essere incazzata per un caffè?» gli domandai retoricamente, «mi sto solo relazionando a te nello stesso modo in cui tu ti relazioni con me» gli spiegai, ma lui non mollò la presa.
«Io ti starei ignorando?»
«No Marco, tu ignori i contorni ed i fatti, di conseguenza io ignoro te» sbuffai seccata, iniziavo a sentire freddo senza maglietta.
«Quali fatti?»
«Gli asini che volano!» replicai ironica, «guarda che se vogliamo fare finta che quel bacio non c’è mai stato per me va bene eh! Basta saperle le cose»
«Ma che diavolo… perché non ci dovrebbe mai essere stato?»
«Ah io non lo so, dimmelo tu»
«Becca ti prego, non la fare così complicata; sai come sono fatto, basta» si limitò a rispondere dopo un attimo di silenzo.
«Non hai più vent’anni, non puoi più ragionare così!»
«Posso, e lo faccio» ribatté prima di tirarmi verso di lui e provare a baciarmi di nuovo.
«Spiegami il senso» gli dissi scansandomi bruscamente.
«Mi mancavi tu, mi mancava il tuo sapore. Volevo farlo, l’ho fatto» mi spiegò accennando un lieve sorriso.
«Ok. Ma... non puoi fare così!» sbuffai riuscendo finalmente a liberarmi dalla sua presa, «non sono più disposta a sopportare questi tuoi sbalzi d'umore» gli dissi sentendo, però, un peso all'altezza dello stomaco ed la mia vocina interiore che mi accusava di essere una sporca bugiarda.
«Non capisco dove sia il problema... non ti è piaciuto?» mi chiese alzando un sopracciglio.
«Il problema è che non voglio che sia così» gli dissi mentre mi infilavo la maglietta.
«Ti ho fatto una domanda: non ti è piaciuto?»
«Non c'entra un cazzo!» berciai sicura che mi avessero sentito anche Matteo e Carlotta dalla cucina, «mi è piaciuto, e mi sei mancato anche tu. Ma il punto è che io non voglio tornare con te in questo modo», sospirai, «e siccome ti conosco bene so che per il momento questo sarebbe l'unico modo...»
«Tu vaneggi!» mi interruppe lui alzando gli occhi al cielo.
«No Marco io non vaneggio, al contrario tuo, io ragiono! Io ho bisogno di stabilità da te, tu non sei il ragazzo con cui io voglio spassarmela, bensì quello con cui pensare al futuro! Io la vedo così e tu no»
«Ne hai la certezza?» mi chiese guardandomi dritto negli occhi.
«So che per il momento non hai la testa per impegnarti seriamente, e lo sai anche tu» sospirai prendendo la felpa in mano, «quindi finché non sarà così anche per te finiamola qui» feci un lungo respiro ed uscii dal bagno. Senza mezzi termini gli avevo detto come la pensavo ed in quel momento avevo preso il suo silenzio come una'utomatica conferma delle mie parole, eppure c'era una piccola parte di me che pensava lui fosse nuovamente pronto ad affrontare una relazione. Dovevo lavorarci su, ma dovevo deciderle io le regole, non potevo permettere che le sue voglie mi destabilizzassero più del dovuto. Gli avrei fatto cambiare idea.
«Tutto bene?» mi chiese Matteo vedendomi entrare in cucina con una smorfia sul viso.
«Sì, tutto ok» gli sorrisi mettendomi la felpa, sentii i passi di Marco e mi scansai da vicino la porta per non ostruirgli il passaggio, «andiamo?» chiesi poi, Carlotta si alzò e mi venne vicino mentre i ragazzi si apprestarono a scendere le scale.
«Sicura che va tutto bene?» mi domandò Carlotta sotto voce.
«Sì tesoro, a meraviglia» tentai di tranquillizzarla con un sorriso ma non fui sicura di esserci riuscita, per fortuna la voce di mia madre la interruppe proprio mentre mi stava per domandare qualcos'altro.
«Dove state andando?» ci chiese uscendo dalla porta dei casa sua.
«A prendere la macchina di Rebecca» le rispose Matteo, mia mamma mi guardò e poi guardò Marco che se ne stava in disparte e in silenzio, forse consocio della poca simpatia che delle volte mia madre aveva verso di lui.
«Oramai è pronto da mangiare... mangiate un boccone e poi andate» disse con un sorriso, tentai di non sbuffare ma divenni paonazza in volto, doveva essere gentile proprio ora? Quello fu l'esempio lampante che il tempismo sbagliato era una caratteristica che avevo ripreso da lei.
«Non vorremmo disturbare...» mormorò Marco.
«Ma finiscila! E poi mi devi ancora una partita a carte!» le urla di mio padre ci fecero ridere, così ci avviammo tutti verso la cucina e lo trovammo ad aspettarci con le mani sui fianchi.
«Sì, ma andate a giocare in salone» li rimproverò mia madre, «qui è quasi pronto!» aggiunse alzando gli occhi al cielo.
«Spiegami questo attacco di gentilezza...» sbuffai a bassa voce.
«Sto solo provando a farmelo andare simpatico»
«Marina, non ci sei riuscita in tre anni, non penso ci riuscirai ora» ridacchiò Carlotta sedendosi.
«Lo so Carlò ma dovrò pur tentare di nuovo... anche se spero sempre che questa torni in se stessa» ribatté dandomi uno schiaffo sulla testa.
«Ah, guarda che per me puoi continuarlo ad odiare. Non stiamo insieme, quindi risparmiati la fatica» le risposi arricciando le labbra.
«Avete litigato?»
«No»
«Sicura?»
«Che palle!» gracchiai sedendomi vicino a Carlotta, «non era pronto il pranzo?» borbottai tentando di cambiare discorso.
«Ecco perché, principalmente, non vi sopporto insieme: lo frequenti e diventi isterica!» mi disse mia madre puntandomi il dito contro, Carlotta mi mise una mano sul ginocchio ed io evitai di rispondere a quella provocazione che in fin dei conti non era nient'altro che la realtà. Bastava stare a contatto con lui più di due giorni che la mia personalità cambiasse. Non ne capivo bene il motivo, sapevo solo che quando stavo con Marco diventavo un'altra persona, una persona che mia madre non sopportava e che io comprendevo a stento, perché quella Rebecca sostanzialmente non ero io. Eppure dicono tutti che quando si ama qualcuno si è disposti a sopportare tutto, e così facevo io da ben tre anni.
L'arrivo di Carlotta coincideva con uno dei nostri venerdì all'Havana. In realtà noi eravamo sempre all'Havana, ma il venerdì e il sabato ci andavamo per puro divertimento, per lo meno io che non lavoravo nel week-end, ma quel fine settimana anche Francesca era libera e non vedeva l'ora di divertirsi con noi, in più mi aveva confidato che quella sera sarebbe successo qualcosa che ci avrebbe sconvolto tutti e la mia curiosità ne stava risentendo.
«Quindi voi state praticamente ogni sera lì?» mi chiese Carlotta, perplessa.
«Sì» le dissi di nuovo mentre mi infilavo gli stivali.
«E non vi rompete le scatole?» mi domandò, forse per la millesima volta.
«Lo so, è difficile da capire per chi vive in una città come Roma» tentai di spiegarle, «ma quando siamo tutti insieme non conta dove andiamo... e poi l'Havana è diventato una seconda casa per tutti»
«Sarà... ma una volta odiavi la routine» fece spallucce lei mentre si metteva il cappotto.
«Odio la routine in città, ma qui mi sta bene così» tagliai corto, poi guardai il display del cellulare accendersi e lessi al volo il messaggio che mi aveva mandato Matteo, «perfetto, come al solito siamo in ritardo!» osservai girandomi la sciarpa attorno al collo, «e tu hai fatto colpo, di nuovo» aggiunsi con un sorriso malefico.
«Cosa?» balbettò Carlotta avviandosi verso la porta.
«No niente» ridacchiai io chiudendo casa.
«Posso sapere che hai detto?» insistette Carlotta mentre stavo ingranando la prima.
«Che hai fatto colpo. Cioè, lo avevi fatto anche anni fa, quindi hai confermato un colpo» blaterai senza distogliere lo sguardo dalla strada.
«Sei scema?» mi chiese retorica, «cioè, più scema del solito...» rifletté poi.
«Tranquilla, va tutto bene» ridacchiai ed accelerai, se non fossimo arrivate in meno di cinque minuti mi sarebbe toccato pagare da bere a tutti, era la regola.
Dopo una serie di inflazioni del codice stradale e un parcheggio fatto alla bel e meglio arrivammo in tempo; Francesco stava già controllando l'orologio e la sua faccia delusa mi fece sorridere vittoriosa.
«Tranquilla, non sei l'ultima» mi sorrise Stefano,
«Chi manca?» gli chiesi andando a salutare, intanto, Francesca che aveva un sorriso da ebete stampato in faccia.
«Il tuo amico» mi rispose suo fratello, seccato.
«Strano, i miei amici sono tutti qui» gli risposi saccente.
«Ah è vero, è più di un amico» ribatté lui e si beccò uno scappellotto da parte mia, «comunque eccolo» aggiunse facendo un cenno del capo. Mi girai e sgranai gli occhi. Il fatto che fossi miope era chiaro a tutti, ma le visioni non le avevo mai avute, per cui strizzai di nuovo gli occhi ma la bionda affianco a Marco non sparì come per magia e, anzi, avanzò verso di noi assieme a lui.
«E' possibile che ne esce fuori sempre una?!» sbuffò Francesca leggendomi nella mente, io sospirai profondamente e tentai di far finta di niente, come sempre. «Troverà gli sconti al super mercato, il tre per due è sempre conveniente» dissi scrollando le spalle.
«Lo so, devo pagare da bere a tutti» alzò subito le mani Marco con un sorriso, «anche se effettivamente il ritardo non è stato opera mia» aggiunse facendo ridacchiare l'essere al suo fianco.
«Ce l'hai mentale il ritardo» borbottò Francesca e dovetti trattenermi dallo scoppiare a ridere.
«Lei, comunque, è Daniela... per chi non la conoscesse» si rivolse a noi donne, soprattutto a me e Carlotta.
«Piacere, Rebecca» sorrisi stringendole la mano e già sapevo che non mi sarebbe andata a genio, odiavo fare strette di mani con chi sembrava avesse un budino a posto dell'arto. Dopo i convenevoli e le frecciatine rivolte a quella che sembrava la coppia della serata decidemmo di entrare e sederci al nostro solito tavolo, ma con nostra grande sorpresa Vincent ci aveva riservato il privè più grande, cosa di cui tutti noi restammo esterrefatti, tranne Francesca e Stefano.
«Ok, io devo bere» esclamai dopo aver quasi vomitato alla vista di Daniela senza cappotto.
«Ma deve fare un strip?» mi domandò Carlotta, guardandola scioccata.
«Non ne ho idea, ma quel cretino dopo mi sente, avevamo detto niente estranei questa sera» borbottò Francesca, «ovviamente tu sei esclusa, gli amici di Rebecca sono dei nostri» si affrettò ad aggiungere guardando l'altra mia amica.
«Grazie» le sorrise Carlotta, poi si alzò e mi tese la mano, «avanti, il bancone ci aspetta» mi disse, mi alzai e diedi un ultimo sguardo alla strana coppia prima di dirigermi verso il bar.
Ci sedemmo sui primi due sgabelli che si liberarono e chiesi ad Antonio, il barista, di farci due Long Island belli forti e il risultato superò, fortunatamente, di gran lunga le aspettative.
«Seriamente, vai li e tiragli un tavolo» mi suggerì Carlotta guardando Marco.
«Gli darei troppa soddisfazione» gli risposi prima di bere l'ultimo goccio che era rimasto nel bicchiere, «e poi non sono io quella che lo farà vergognare come un cane, bensì lei» aggiunsi indicando con un cenno del capo Carmen.
«Che sarebbe?»
«Quella che si tromba in genere. Lei lo ama follemente e pensa di essere la sua unica ragazza-sesso» spiegai alzando gli occhi al cielo, il cocktail stava facendo il suo effetto e ringraziai con un sorriso Antonio.
«A quanto vedo hai già pensato a tutto»
«Tesoro, sarò pure tornata la Rebecca innamorata, ma il gene della stronza non l'ho perso del tutto» le risposi ridacchiando, poi ci alzammo con l'intento di riavviarci di nuovo verso il nostro tavolo, ma sentii una mano fare pressione sul mio polso; mi voltai e sorrisi in direzione del suo possessore.
«Buonasera» mi salutò Alessio.
«Ciao!» dissi forse con troppa foga, «lei è Carlotta, una mia amica» aggiunsi voltandomi, ma mi resi conto che Carlotta era tornata al nostro tavolo senza accorgersi che io mi ero fermata. «Ehm... giuro che è una persona in carne ed ossa e non la mia amica immaginaria» mi giustificai sbuffando.
«Tranquilla, l'avevo vista» ridacchiò Alessio, «avete cambiato tavolo?» mi chiese poi.
«Sì, questa sera dovevamo stare più larghi possibile» gli spiegai con una smorfia di disgusto guardando in direzione di Marco e i miei occhi incrociarono i suoi per una frazione di secondi. «Tu invece, sei da solo?» gli chiesi tornando a posare lo sguardo su di lui. Lo squadrai per bene e accennai un sorriso alla vista del suo corpo perfetto, la camicia bianca gli fasciava l'ampio torace per poi restringersi sulla vita, piccola al punto giusto. In quel momento mi ricordai della visione di Marco all'entrata, dei pensieri che feci vedendolo infilarsi al volo la giacca nera e di quanto fosse bello vestito in quel modo; l'avevo sempre adorato in giacca e camicia, anche se il suo fisico non era asciutto come quello di Alessio, lui era comunque perfetto, per me.
«No, sono con i miei amici» mi rispose Alessio scuotendomi dai miei pensieri; mi maledii mentalmente e mi promisi di bere un altro bicchiere.
«Ok...» risposi a corto di idee, «ci vediamo in giro allora!» lo salutai con due baci sulle gote e mi diressi verso il tavolo buttandomi poi sul divanetto affianco a Francesca. «Datemi un bicchiere di champagne» mormorai guardando la bottiglia che, però, era ancora chiusa.
«Che ti ha detto?»
«Niente Frà, abbiamo parlato del più e del meno... ah, grazie per avermi mollata lì» gracchiai poi in direzione di Carlotta, che però era impegnata a conversare con Matteo, quindi molto probabilmente era come se avessi parlato ad un muro. «Che palle» sbuffai, «siete tutti accoppiati! Rimaniamo io e tuo fratello, gli unici single della serata, forse della storia!»
«Parla per te» borbottò Francesco, «non voglio diventare come te» aggiunse facendomi l'occhiolino, gli feci una pernacchia e poi lanciai un altro sguardo a Marco impegnato a farsi sussurrare qualcosa da Daniele; doveva essere qualcosa di veramente interessante visto il sorrisetto che aveva stampato sul viso.
«Ok... visto che non so per quanto tempo tu sarai lucida abbastanza da capire, credo sia ora di parlarvi, a tutti!» alzò la voce Francesca, e tutto il gruppo si voltò per ascoltarla.
«Ora?» le chiese Stefano e non riuscii a fare a meno di notare il tremolio che gli era preso alla mano.
«Oddio» dissi guardandoli, «oddio!» ribadii con gli occhi sgranati.
«Smettila» rise Matteo guardandomi di sbieco.
«Ok... però ribadisco: oddio!» mormorai con un risolino, e mi scrissi un altro dei miei post-it mentali: non bere mai più un Long Island preparato da Antonio.
«Lei lo sa? Lo sa lei e non lo sa tuo fratello?!» iniziò a dire Francesco in direzione della sorella che non sapeva più come farci zittire, guardò in direzione di Stefano come per cercare aiuto e lui le prese la mano sinistra, stringendogliela, poi estrasse un qualcosa che brillava un po' troppo e che in attimo dopo si trovava sull'anulare di Francesca.
«Ci sposiamo» disse Stefano, pacato.
«Perché, stavate veramente insieme?» chiesero Matteo e Marco, stupiti.
Mi portai la mano sulla bocca dallo stupore e l'unica cosa che riuscii a dire fu: «sei incinta!»
«Cosa? No!» gracchiò in coro la coppia. «Te l'avevo detto che sarebbe stata la prima cosa che avrebbero detto» borbottò poi Francesca scuotendo la testa. «Non sono incinta» mise in chiaro di nuovo. «E' solo... abbiamo aspettato tanto tempo. Ci siamo sempre amati e non abbiamo mai avuto le palle per dircelo» iniziò a spiegarci con gli occhi che le brillavano di gioia, «ci conosciamo da sempre, quindi non vediamo la necessità di fare anni di fidanzamento, inutili tra l'altro» ridacchiò guardando Stefano, «per cui... eccoci qui. Ci sposiamo tra un anno» concluse; partirono applausi e fischi e tutti si alzarono ad abbracciare la coppia felice. Per quanto mi riguarda rimasi seduta in una specie di stato catatonico, con le lacrime agli occhi. Mi feci coraggio e li andai ad abbracciare, scoppiando a piangere.
«Smettila o farai piangere anche me» mi sussurrò Francesca stringendomi.
«E' che... è una cosa bellissima! Tutto quello che hai detto, è fantastico» blaterai asciugandomi le lacrime ma senza riuscire a smettere.
«Sono parole mie» si pompò Stefano abbracciandomi.
«Oddio» dissi singhiozzando, «siete bellissimi. Sei un uomo con le palle, che non ha paura di dimostrare quanto vale alla donna che ama» gli dissi dandogli una pacca sulla spalla, ma guardando con la coda dell'occhio Marco. Sentivo la testa girarmi e l'aria che mi riempiva i polmoni non mi permetteva di respirare al meglio, ma non capivo se era dovuto all'alcool o ad altro. «Ora scusatemi, devo prendere aria o dovrete celebrare prima il mio funerale» gli dissi allontanandomi; sentii la mano di Carlotta stringere la mia e ci dirigemmo verso la porta sul retro.
«Rè...» mi sussurrò poggiandomi una mano sulla spalla, mi accesi una sigaretta e tentai di fermare le lacrime.
«Scusa... non ci riesco» mi arresi e continuai a piangere. Non riuscivo a capire cosa mi stesse prendendo, ma dopo aver sentito le parole di Francesca ebbi come l'impressione che la mia vita sarei sempre stata destinata a viverla da sola, perché Marco non avrebbe mai avuto le palle che aveva avuto Stefano, ed io non mi sarei mai accontentata di vivere con qualcuno che non fosse lui.
«Respira Rè, devi respirare» mi suggerì Carlotta sentendomi sempre più affannata, «respira e tranquillizzati. Andrà tutto bene»
«Non andrà bene un cazzo!» berciai tirando un altro po' dalla sigaretta, «scusa, non volevo urlare con te» mi affrettai a dire continuando a piangere, «non so cosa mi stia prendendo, non so perché sto reagendo così. Non riesco a smettere di piangere» le spiegai incazzandomi con me stessa.
«Hai un attacco d'ansia... la tua borsa è dentro?» mi chiese, ed io annuii. «Hai la pochette d'emergenza?» annuii di nuovo e lei rientrò, probabilmente era andata a prendermi le gocce di biancospino che portavo sempre con me; sospirai e gettai la sigaretta per poi piegarmi sulle ginocchia e stringermele al petto. Chiusi gli occhi e feci dei respiri profondi, riuscii a fermare le lacrime, ma non riuscii a togliermi quel senso di oppressione che sentivo dentro di me e che mi schiacciava. Carlotta tornò con tutta la mio borsa e dopo essermi messa cinque gocce sotto la lingua la situazione sembrò migliorare, così andai in bagno e mi aggiustai il trucco per poi tornare definitivamente al tavolo, con un sorriso tirato.
«Come stai?» mi chiesero tutti, apprensivi; Marco mi guardò, senza parlare.
«Bene, bene» li rassicurai, «ora smettetela di rompere le palle a me e festeggiamo questi due!» dissi andando ad abbracciare di nuovo Francesca.
«Mi hai fatto prendere un colpo. Avrei dovuto rimpiazzare subito una dei testimoni» sbuffò stringendomi.
«Oddio, non ho niente da mettermi» sbuffai facendola ridere; poi presi la bottiglia di champagne e la stappai riempendo i bicchieri di tutti, facemmo un brindisi ed iniziammo a prendere in giro i futuri sposi ricordando aneddoti divertenti e scherzando sul loro futuro più prossimo; perfino Vincent riuscì a staccare un attimo con il lavoro e venire a brindare con noi, lui era l'unico che sapeva tutto fin dall'inizio e ci raccontò che Stefano era andato da lui a chiedergli consiglio e poi lo aveva trascinato in gioielleria.
«Carmen ad ore dieci» mi sussurrò in un orecchio Francesca, io mi accoccolai meglio sul divanetto ed accavallai le gambe, poi drizza la schiena e sorseggiai un po' del mio drink, il tutto con molta teatralità. «Inizia lo spettacolo» canticchiai alzando lo sguardo in direzione di Carmen; arrivò e si piazzò dritta davanti Marco e Daniela, li squadrò per qualche secondo e poi parlò: «Mi devi delle spiegazioni».
«Io non ti devo niente» le rispose lui secco tornando poi a parlare con la bionda.
«Invece sì!» continuò Carmen, gli prese il volto tra le mani e l'obbligò a guardarla, fischiai sapendo quanto quel gesto avesse irritato Marco che, infatti, si alzò di scatto. «Cosa cazzo fischi tu!?» mi chiese la mora voltando appena la testa in mia direzione.
«Lasciala fuori» disse Marco digrignando i denti.
«Oh, ti scopi Daniela, ma nessuno può toccare Rebecca, come funziona la cosa?» gli chiese retoricamente Carmen mentre io mi ero irrigidita sul divanetto, d'un tratto mi sembrò una cattiva idea usare Carmen per fargliela pagare. «E a te tutto questo sta bene, scommetto?» disse rivolgendosi a me.
«Cosa... cosa centro io?» le chiesi con un cipiglio.
«Niente, ti sei sempre accontentata tu, non l'hai mai domato, stava con te eppure veniva al letto con me...»
«Non penso proprio...» le risposi alzandomi di scatto, stavo per avanzare verso di lei, ma sentii la forte presa di Vincent sul mio braccio che mi ritirò a sedere, al suo fianco e mi sussurrò di stare ferma.
«Ho detto: lascia fuori Rebecca» ribadì Marco con un sospiro.
«Tranquillo, non te la tocca nessuno, lo sanno tutti che lei è intoccabile» gli rispose lei, «e mi stupisco che Daniela sia qui a compiacerti mentre tu guardi palesemente un'altra» aggiunse. «Quando tornerai in te fammelo sapere, io ho momentaneamente chiuso con questa merda» concluse Carmen, poi girò i tacchi e tornò verso la pista mentre al nostro tavolo non volava una mosca; sentivo gli occhi di Marco addosso, ma feci di tutto per non cedere alla tentazione di riguardarlo.
«Oh mio Dio. Sono stata così cieca per tutta la sera...» disse Daniela rompendo il silenzio e alzandosi di scatto come se si fosse risvegliata da un lunghissimo sonno, «mi fai schifo» aggiunse prima di versare in faccia a Marco quel poco di champagne che era rimasto nel suo bicchiere.
«Uh la la, le gatte morte non sono poi così morte» dissi a mezza voce con il volto rosso di rabbia. Per la prima volta in tutta la mia vita mi si era rivoltato contro quello che pensavo essere un piano geniale, non avrei mai pensato che Carmen fosse così arrabbiata da mettere in mezzo me, e le sue parole mi colpirono forse peggio di uno schiaffo. Ero sicura che Marco non mi avesse mai tradito, per lo meno quando decidemmo di metterci insieme sul serio, ma nessuno mi dava la certezza di essere la sua unica ragazza anche quando ci frequentavano e basta. Era una cosa che io avevo sempre dato per scontato, ma da quel momento Carmen mi mise la pulce nell'orecchio, ed era molto fastidiosa.
«Dai, siediti e asciugati» Matteo si era alzato e aveva praticamente spinto Marco a sedere, poi gli aveva passato un fazzoletto ed era rimasto accanto a lui, impaurito per la sua possibile reazione.
«Devi ammetterlo, te le cerchi» gli disse Stefano, «anche se Daniela ha esagerato»
«Ha avuto stile, però» commentai io, senza riuscire a trattenermi.
«Sì, ma è inutile che parli, una scenata del genere tu non l'avresti mai fatta» osservò Francesco prendendo subito le difese del suo amato cugino.
«E' vero, non mi sarei mai azzardata di fare questo casino in pubblico semplicemente perché conosco il suo carattere, ma a casa l'avrebbe pagata cara; lo sa bene» scrollai le spalle e lo guardai di sottecchi mentre bevevo un altro sorso di champagne.
«Smettetela di parlare di me, sono qui e vi sento» sbuffò Marco, «continuiamo a festeggiare, per favore» disse e lo prendemmo in parola, nessuno parlò più di quello che successe, anche se ben presto Marco mi avrebbe dovuto dare delle risposte riguardo le insinuazioni di Carmen.


Visto che Carlotta sarebbe rimasta fino al lunedì decidemmo di organizzare due giornate in montagna, giusto per non stare sempre all'Havana; arrivammo alla casa di Marco nel primo pomeriggio e ci sistemammo nelle stanze. Avevo sempre amato quella casa e tornarci dopo tanto tempo mi aveva provocato un piccolo big bang interiore di ricordi.
«Tutto ok?» mi chiese Carlotta poggiando a terra la borsa.
«Sì, tutto ok... giusto qualche ricordo» le sorrisi.
«Non capisco: perché non state insieme? Ieri sera ti ha anche difesa contro quella lì, ti ama ancora. Tu lo ami ancora»
«Perché lui non vuole legarsi»
«Tre anni fa però l'aveva fatto...»
«Sono cambiate tante cose, lui stesso è cambiato. Devo fargli capire che le sue teorie sono sbagliate, perchè ha paura di farmi del male, ne ha sempre avuta» sbuffai legandomi i capelli in una coda alta.
«Capisci anche tu che non ha senso... secondo me servirebbe solo parlarne e arrivare ad una conclusione insieme»
«Ci sono arrivata io per tutti e due, ieri mattina: quando sarà pronto a mettere la testa a posto mi farà un fischio»
«E tu lo aspetterai all'angolo, fino a quel momento?»
«L'ho sempre aspettato, non sono mai stata all'angoletto, ma l'ho sempre aspettato» le risposi con un sorriso.
«Ah, questo si che è amore!» sentii sospirare alle mie spalle, mi voltai e vidi Francesco allo stipite della porta che sogghignava.
«Francesco non so a cosa paragonare la tua simpatia, giuro!» borbottai guardandolo storto.
«Non lo so, ad un fiore che sboccia in primavera?» mi chiese provando a fare gli occhi dolci, «e poi lo sai che io ho sempre fatto il tifo per te» aggiunse venendomi ad abbracciare.
«Sì certo, come no» mormorai aprendo le braccia.
«Sul serio Rè, quando ti ha lasciata in quel modo gli ho scritto una serie di lettere che se le avesse viste il papa mi avrebbe sicuramente scomunicato» me lo raccontò con una tale semplicità che non potei fare a meno di ridere, come se quello che aveva fatto fosse stata la cosa più normale del mondo.
«Ti credo. Però ora la situazione è ben diversa» sospirai guardandolo negli occhi.
«Tu credi?» mi chiese, retorico.
«Bé, sì. Tuo cugino è tornato quello di un tempo e io non so come gestire la situazione... ieri gli ho detto che finché non metterà la testa a posto non ci saranno spazio per effusioni ,di ogni genere...»
«Però?» mi domandò Francesco, sorridendo sotto i baffi.
«Eh, però... però non riesco a fare a meno di pensare a lui, a noi. Oddio, perché non posso mai amare una persona
normale? Che ho fatto di male per meritarmi questo?!» chiesi con teatralità.
«Ah, l'amore!» ripeté lui.
«Ma quale amore?!» gracchiai con una smorfia.
«Ma l'hai appena detto tu...»

«Nano, prova a dire in giro quello che hai sentito e ne pagherai le conseguenze» lo minacciai puntandogli il dito contro il petto.
«Marco!» urlò di tutta risposta correndo verso il salone, lo rincorsi tirandogli le ciabatte e per poco non presi la faccia del povero Matteo che stava armeggiando con il caminetto. «Marco!» urlò di nuovo cercando di richiamare l'attenzione del cugino.
«Che ti succede?» gli chiese il diretto interessato alzando un sopracciglio.
«Lascialo in pace, deve fare il cretino per mettersi in mostra»
«Ho sentito Rebecca che...» iniziò Francesco prima che gli tappai la bocca con la mia mano.
«Che raccontavo a Carlotta di quando siamo rimasti chiusi fuori in pieno novembre» mentii con una risata isterica, Marco mi guardò visibilmente incredulo e poi alzò gli occhi al cielo. «Pessima bugiarda, ricordalo» soffiò a due metri dal mio volto, poi come se niente fosse andò ad aiutare Stefano a portar dentro la legna.
«Io ti ammazzo!» berciai contro Francesco prima di iniziare a fargli il solletico.
«Hai il mio appoggio» asserì Francesca uscendo dalla cucina con un pezzo di pane in mano.
«Carlotta aiutami tu» pregò allora lui mentre rideva.
«Non posso, Rebecca picchia forte» si scusò lei, ridendo; continuai per un altro paio di minuti poi decisi di smetterla e di gettarmi sul divano affianco ai ragazzi che si stavano godendo il tepore del grande caminetto dopo essere riusciti ad accenderlo.
«E' questo il bello del termo-camino» sospirai allungando involontariamente le gambe su quelle di Marco, era una posizione che prendevo sempre e quando me ne accorsi tentai di ritrarmi, ma lui mi bloccò riservandomi un mezzo sorriso.
«Sì, ma vuoi mettere la bellezza della fiamma vera?» mi fece notare Matteo.
«No, per carità. Il camino vero è affascinante, ma io sono talmente scarsa che dopo cinque minuti lo farei spegnere»
«Non sei scarsa, ti pesa il culo a mettere la legna» mi disse Francesca facendo ridere tutti.
«Non è vero!» borbottai, «diglielo, mi divertivo sempre a riempire il camino» frignai tirando la maglietta di Marco.
«Il problema è che era troppa» mi rispose lui, ridendo.
«Ma dicevi che andava bene» mi lamentai incrociando le braccia al petto.
«Eri così felice! Non potevo distruggere i tuoi sogni da bambina piromane» mi prese in giro lui facendo ridere tutti.
«La prossima volta vorrà dire che ci infilerò te» ribattei facendogli una pernacchia.
«Ah, l'amour» sospirò Francesco ridacchiando.
«Taci!» gli urlò contro sua sorella tirandogli una cuscinata in piena faccia.
«Oddio, no» si lamentò Stefano, ci guardammo e spiegammo a Carlotta che adesso sarebbe iniziata la guerra, così si spostarono tutti sul divano dov'eravamo seduti io e Marco costringendomi a stare in braccio a lui e ad osservare quei due che si scannavano.
«Almeno tappategli la bocca» mormorai dopo il terzo gridolino di Francesca, non ce la facevo più a sentire le loro urla, così me ne andai in cucina ed iniziai a tagliare il pane per ammazzare il tempo. Avevo sempre odiato tagliare il pane e sostanzialmente non ne ero mai stata capace, a meno che una persona non si accontentasse di mangiare una fetta alta dieci centimetri, così rinunciai subito e decisi di fumare una sigaretta, mi avvicinai all'ampia finestra e guardai di fuori, pensierosa. Il cielo era bianco e il vento soffiava forte tra gli alberi, le previsioni davano possibili nevicate per quella notte, ma noi le sfidammo imperterrite. Mi era sembrata una bella idea, passare il fine settimana in montagna, ma appena avevo messo piede in quella casa quella sensazione si affievolì. I ricordi erano troppi e mi resi conto che più tempo passavo dentro quelle mura e più si facevano nitidi, e più ricordavo più faceva male.
«La lotta è finita» mi avvisò Marco spuntando al mio fianco, ero talmente sovrappensiero che non lo sentii arrivare, così dovetti asciugarmi velocemente qualche lacrima che proprio non ce l'aveva fatta a starsene buona nell'apparato lacrimale.
«Meno male» sorrisi, lui mi sorrise a sua volta e mi passò il braccio sulle spalle stringendomi un poco a se. Sospirai e iniziai a sperare che quel fine settimana passasse in fretta, cosa che ovviamente non accadde.
***

Note finali:

remetto col dire che postare non era in programma, perché è un lungo periodo che non scrivo e sono in ritardo con la mia tabella di marcia; però lunedì parto, e ci tenevo a mettere questo capitolo soprattutto perché per me è uno dei capitoli più speciali, non tanto per quello che succede, ma per la presenza di Carlotta. La poesia è di Eugenio Montale, ed il titolo è il soprannome che io ho datto alla mia Carlotta. Spero che sarà di vostro gradimento e che attenderete pazienti fino a settembre. Vi ricordo il mio profilo di FACEBOOK dove potete trovare qualche spoiler, le foto dei personaggi ed altre cosucce.
Buone vacanze a tutte, -J

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=1014178