Eppure resta di Ginger_J (/viewuser.php?uid=46280)
Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Ottobre 2008 ***
Capitolo 2: *** Ovunque andrà dovrà tornare. ***
Capitolo 3: *** Bentornata al Sud ***
Capitolo 4: *** Vecchie incomprensioni ***
Capitolo 5: *** Veleno per topi ***
Capitolo 6: *** Snow White ***
Capitolo 1 *** Ottobre 2008 ***
1.
Ottobre 2008
Nel
2004 avevo tutto quello che una ragazza potesse desiderare: avevo
degli amici fantastici, un ragazzo che mi amava ed una famiglia
altrettanto amorevole, pensavo che nulla sarebbe cambiato, che la mia
vita perfetta sarebbe rimasta intatta.
"Ho
sofferto tanto, un po' di felicità me la merito"
continuavo a ripetermi, anche quando vi era un intoppo a
quell'immacolata vita piena di gioie. Me lo ripetevo spesso quando
andavo a trovare mio padre, o nei mesi in cui non potevo vedere il
mio fidanzato.
Le cose belle, però, si sa che prima o poi
finiscono, così dodici mesi dopo era successo l'impensabile.
Ero
stata lasciata, l'unica persona che pensavo non mi potesse mai
abbandonare l'aveva fatto, senza spiegazioni. Senza un messaggio.
Niente. Marco se n'era semplicemente andato e con lui me n'ero
lentamente andata io. Per un lunghissimo anno sprofondai più
giù
dell'abisso. Io che ero logorroica dalla nascita caddi in un mutismo
sconvolgente, mi chiusi in me stessa e nel mio dolore. Non uscivo
più
con i miei amici. Non uscivo più con la mia famiglia.
Passavo le
giornate chiusa in camera ad ascoltare musica deprimente e piangere,
ero diventata lo stereotipo della donna in post-rottura, ma in genere
queste si riprendono dopo un paio di mesi, a me ce ne vollero
tredici. Alla fine un giorno di Marzo mi alzai dal letto con la
consapevolezza di dover reagire, chiamai il mio migliore amico ed
andai a fare shopping, poi mi tagliai tutti i capelli e li tinsi di
rosso, un rosso acceso come la rabbia che sentivo in corpo. I due
anni successivi mi servirono per stabilizzarmi. Iniziai a lavorare,
ripresi ad uscire, passivamente, con gli uomini e tornai ad essere
quella che ero un tempo. Ero perfino andata a vivere da sola, forse
ero stata così dipendente dal dolore che quello che
desideravo era
solo essere totalmente indipendente. Passarono così quattro
anni, ma
al contrario di quella volta, nel 2008 sentivo che sarebbe successo
qualcosa. Percepivo nell'aria il profumo del cambiamento, non
riuscivo a capire se era una fragranza che mi piaceva oppure che mi
avrebbe dato il volta stomaco, ma quando c'è un cambiamento
la
maggior parte delle volte non si può decidere se
abbracciarlo o
meno, lo si prende così come viene, pregando in qualcosa di
migliore. Purtroppo però, per quel che mi riguarda, ancora
sto
cercando di capire se, quella volta, cambiare fu un bene...
L'Iphone
vibrò sul comodino facendo quel rumore sordo che tanto
detestavo,
dopo qualche secondo partì "Rock off" degli Stones e
quello fu l'irrimediabile segno che dovevo rispondere.
«Pronto?» avevo la la voce ancora impastata dal sonno.
«Stai dormendo» disse una voce che conoscevo molto bene all'altro
capo del
telefono, non era una domanda, ma una semplice constatazione
accompagnata da uno sbuffo.
«Stavo dormendo» specificai
sbuffando a mia volta e rigirandomi in posizione supina.
«Sai che
giorno è?»
«Un freddo giovedì mattina di fine
Ottobre»
«Rebecca tra circa due ore si laurea una delle nostre
migliori
amiche, ti consiglio di muovere il culo» mi
suggerì il ragazzo,
sempre con un tono di voce molto pacato.
«Cazzo!» gridai,
invece, io. «E' quel
giovedì,
vero?»
chiesi conferma, sperando che mi stessi sbagliando.
«Sì.
Sbrigati, ti passo a prendere tra quarantacinque minuti.»
«Ok,
ce la posso fare» mormorai in preda al panico.
«Muoviti!» mi
incitò lui con uno sbuffo. «Non capisco
perché non ti decidi a
comprare una sveglia» chiese, più a se stesso.
«Perché dopo
una settimana la tiro contro il muro» risposi schioccando la
lingua,
«che dovevo mettermi?!» gli domandai alzandomi di
scatto dal letto
ed in preda al panico.
«Il vestito viola, con quell'orribile
giacca nera» rispose lui con un altro sospiro. «Li
avevi messi
nella parte destra dell'armadio» aggiunse prevedendo
già la mia
futura domanda.
«Ok, ce la posso fare» mi dissi nuovamente cercando di
auto-convincermi.
«Fammi un favore, portami la colazione» lo implorai
toccandomi di
riflesso lo stomaco.
«Rebecca devi muoverti!» sbuffò il
ragazzo, il suo tono pacato si stava trasformando in un tono
palesemente irritato.
«Certo, certo» risposi sbrigativa mentre
entravo in bagno,«ricordati il caffè e il cornetto
al
pistacchio.»
«Altro?»
«Ti voglio bene David!» gli dissi,
poi mi specchiai e constatai che dovevo lavarmi anche i capelli,
segno che non ce l'avrei mai fatta ad essere pronta in tempo.
«Si
certo. Ci vediamo tra quaranta minuti.»
«Ma non erano
quarantacinque?»
«Ne hai persi cinque al telefono, ciao» e
David interruppe la chiamata.
Davide, o David, era il mio migliore
amico. Ci eravamo conosciuti in quinta elementare, poi ci eravamo
persi di vista e ritrovati al liceo; passammo un anno ad ignorarci, e
poi tramite amici in comune iniziammo ad uscire in gruppo, da quel
momento non ci dividemmo più. Sarebbe stato il ragazzo
perfetto:
avevamo gli stessi interessi, erano poche le cose che non
condividevamo e questo ci portava a vivere in simbiosi, eravamo
così
attaccati che la mia cara nonna, molte volte, mi aveva fatto
intendere che sapeva di una nostra fantomatica e nascosta storia
d'amore, ma purtroppo per la povera vecchietta David era totalmente
gay e molte volte ringraziai il cielo per il suo orientamento
sessuale che in molte situazioni si era rivelato un vero toccasana. I
suoi consigli, soprattutto in fatto di uomini, erano i più
azzeccati
perché vedeva con un occhio maschile e con uno femminile.
Sbuffai
uscendo da quella doccia che era durata troppo poco, mi frizionai i
capelli con l'asciugamano, e purtroppo non c'era tempo per la
piastra, così presi le gocce liscianti e me ne misi una dose
molto
abbondante sulla chioma rossa, poi mi misi a testa in giù ed
iniziai
ad asciugarli con il phon.
Ero stanca morta, l'ultimo giorno di lavoro mi aveva ammazzata e mai come quella volta ringraziai la fine di un lavoro, tra tutte le produzioni che mi avrebbero potuto chiamare era stata proprio la peggiore a farlo; mi era ritrovata a curare l'edizione di un gruppo di misogini
e superbi, diverse volte avevo pensato di licenziarmi, ma alla fine avevo continuato per non dargliela vinta, per una questione
d'orgoglio; quell'orgoglio enorme che molte volte mi aveva salvato,
ma che avevo anche perso e dovuto recuperare con il tempo.
L'Iphone
squillò di nuovo e sul display apparve la foto di Carlotta,
buttai
indietro i capelli e spensi il phon poggiandolo sul ripiano.
«Sei
sveglia!» constatò felice Carlotta.
«Mi ha svegliato David»
risposi cercando i collant che erano magicamente spariti dal cassetto
in cui ero convinta di trovarli.
«Ah. Effettivamente sarebbe
stato un miracolo...» ridacchiò Carlotta.
«Comunque tra cinque
minuti sono a casa tua.»
«Perché?» le domandai mettendo il
viva-voce ed iniziando a vestirmi.
«Non ti ricordi? Dovevi
truccarmi!» trillò la ragazza, «ci
vediamo tra pochi minuti» E
anche lei interruppe la telefonata; respirai sommessamente e corsi a
vestirmi, tra due minuti sarebbe salita Carlotta, tra quindici David
e io dovevo ancora truccarmi e finire di aggiustarmi i capelli,
quella giornata sarebbe stata faticosa, me lo sentivo.
Andai in
bagno e iniziai a litigare con i capelli che non trovavano pace, nel
momento esatto che avevano deciso di collaborare facendosi
raccogliere in uno chignon morbido il trillo del citofono mi fece
sobbalzare, sbuffai affranta e mi diressi verso la porta, senza
chiedere chi fosse aprii il portone di sotto e la porta di casa; dopo
qualche minuto le porte dell'ascensore si aprirono e Carlotta
entrò
dentro casa. «Ancora così?» mi chiese
poggiando la borsa sulla
poltrona.
«Eh per cortesia... non ti ci mettere pure tu»
risposi
in acidità mentre tornavo in bagno, «intanto
mettiti il fondotinta»
le ordinai, così mentre lei armeggiava con i trucchi io ebbi
il
tempo per sistemarmi per lo meno i capelli; feci sedere Carlotta ed
iniziai a truccarla in modo molto leggero, aveva la pelle molto
chiara quindi non potevo osare molto con i colori, anche
perché ero
negata a dosare gli ombretti scuri. Quando ebbi finito feci giusto in
tempo a mettermi il fondotinta ed un filo d'ombretto prima che un
messaggio mi avvertì che David ci stava aspettando sotto
casa.
«Mettimi il mascara, la terra e la matita nera nella
pochette che sta nel terzo cassetto, per favore» chiesi a
Carlotta
mente, nel panico, correvo in camera a spostare il contenuto della
borsa rossa in quella nera. Presi i tacchi in mano per evitare di
cadere e rompermi qualcosa, mi infilai velocemente la giacca, chiusi
bene la porta e mi diressi velocemente in ascensore, quando le porte
si aprirono mi misi finalmente le scarpe ed uscimmo dal portone; ma
quando mettemmo piede nella macchina di David lui mi guardò
in
cagnesco, se avesse avuto qualche potere mi avrebbe sicuramente
incenerito per bene.
«Cinque minuti di ritardo, ce ne vorranno
altri dieci per cercare parcheggio. Questa volta Elisa ti
ammazza»
constatò lui, poi mi diede la bustina bianca che conteneva
la mia
tanto agognata colazione e partì a tutta velocità
con la sua
Mercedes nuova di zecca. «Buongiorno tesoro» disse
poi guardando
Carlotta dallo specchietto retrovisore.
Sbuffai
poggiando il bicchiere del caffè nel portavivande, misi il
cornetto
sul cruscotto e cercai di finirmi di truccare chiedendomi,
però,
come mi venne in mente l'idea di armeggiare con il mascara mentre
David sfrecciava per le vie di Roma incurante del traffico e del
fatto che la grandezza della sua macchina non era proprio adatta a
certi sorpassi.
«Il fatto che non mi sia finito il pennellino del
mascara nell'occhio la dice lunga sulle mie abilità di
trucco»
dissi fiera mentre chiudevo lo specchietto.
«Al tuo prossimo
compleanno ti regaleremo un set di quindici sveglie»
scherzò
Carlotta.
«Dovrete
aspettare quasi un anno... però per il tuo ti
regalerò,
sicuramente, un corso di trucco» schioccai la lingua e poi mi
apprestai finalmente a fare colazione.
«Ti avverto: una sola
macchia di caffè e ti taglio i capelli nel sonno»
mi minacciò
David osservandomi con la coda dell'occhio.
«Non ho dieci anni»
sbuffai sentendomi colpita nell'orgoglio e addentai tristemente un
pezzo di cornetto.
«Ti ho solo avvisato amore» sorrise il
ragazzo prima di iniziare ad urlare contro una macchina che, a suo
avviso, era meglio se andasse allo sfascio assieme al suo
guidatore.
«Ma tra i suoi mille optional questa macchina non ha
uno stereo?» chiesi iniziando a spingere tasti a caso.
«Togli le
tue manacce da lì!» urlò David.
«Faccio io, tu non toccare
nulla»
«Porca puttana David, non sono mica una deficiente!»
«No,
ma quando dormi poco combini più danni del solito»
«Vaffanculo!»
urlai, poi mi accoccolai meglio sul sedile ed inizia ad armeggiare
con l'Iphone fino a quando non trovai e feci partire una canzone di
Bob Dylan.
«E questo che sarebbe?» mi chiese con una smorfia
disgustata sul viso.
«Musica» sorrisi tornando poi ad annuire
con la testa a tempo di musica.
«Togli questa roba!» urlò David
con disappunto; sentii Carlotta sbuffare dietro di me, sicuramente
non era pronta a subirsi cinque minuti di grida su cosa fosse musica
e su cosa no, infatti la vidi iniziare a giocare con una ciocca di
capelli pronta ad essere spettatrice di quella guerra che andava
avanti da anni, perché per quanto io e David potevamo essere
uguali,
la musica ci divideva quasi sempre: io amavo i Rolling Stone, i
Beatles, Janis Joplin e tutto ciò che andava dagli anni
sessanta
alla metà degli ottanta; lui invece amava la musica
commerciale e da
discoteca.
Fortunatamente, o sfortunatamente, il telefono di David
iniziò a suonare e la modalità "auto"
attivò il
viva-voce facendo spargere per tutto l'abitacolo le urla dell'altra
nostra migliore amica, la laureanda.
«David! Dove diavolo
sei?»
«Stiamo cercando parcheggio» mentì lui.
«Sei in
viva-voce» aggiunse poi.
«Ely come ti senti?» provai a chiedere
addolcendo la voce.
«Se avessi i miei migliori amici accanto
sarebbe meglio» rispose Elisa sbuffando.
«Luca è li?» le
chiese Carlotta, cercando di distrarla.
«No, il mio ragazzo è
andato a prendere i suoi genitori... circa due ore fa»
rispose
acida.
«Stiamo arrivando amore, un po' di pazienza» la
rasserenò
David, passando con il rosso e arrivando finalmente davanti La
Sapienza.
«Sbrigatevi» sospirò Elisa, sbuffai
interrompendo la
chiamata.
«Lì a destra c'è un posto,
corri!» trillò Carlotta,
il ragazzo seguì il dito dell'amica e con pochissime manovre
parcheggiò.
«E' tutto merito del park assist, non ti gasare» lo
presi in giro spegnendo il suo entusiasmo, poi mi accesi una
sigaretta e ci dirigemmo verso la facoltà di lettere
classiche
pronti a supportare, come facevamo da quasi sei anni, chi del gruppo
aveva bisogno di una mano; forse era questo che ci aveva sempre
tenuto uniti, la consapevolezza di esserci l'uno per l'altro, andando
anche contro il resto del mondo.
«Non
ci avevi mai detto che il tuo professore era un figo da
paura!»
disse David bevendo un po' del suo cocktail, Elisa ridacchiò
e si
accoccolò ancora di più su Luca; stava dando
finalmente la sua
festa di laurea, si era laureata con il massimo dei voti e da oggi
poteva finalmente iniziare a cercare un lavoro e a gettare le basi
per crearsi una famiglia tutta sua, in fin dei conti ero felice per
lei.
«Non credevo fosse il tuo tipo» gli rispose la
neo-laureata.
«Ely, tutti sono il suo tipo» ridacchiai mangiando
un altra manciata di noccioline.
«Da che pulpito!» rise David,
additandomi.
«Il
fatto che mi piacciono dei ragazzi non implica l'andarci per forza a
letto» cercai di difendermi, «comunque, se qui
c'è qualcuno che
dovrebbe parlare di ragazzi non sono di certo io» aggiunsi
guardando
Carlotta, «allora, com'è andata ieri
sera?»
La ragazza guardò
Luca, e al suo sguardo si aggiunse quello di tutti i presenti; il
ragazzo di Elisa era diventano da tempo parte integrante del gruppo,
ma la regola è che davanti a lui certe cose non si dicevano,
e se io
e -soprattutto- David riuscivamo a fare qualche eccezione, Carlotta
era intransigente.
«Ho capito» sbuffò il ragazzo alzandosi
«vado a farmi un giro» annuì, guardando
la sua fidanzata in cerca
d'aiuto, ma anche Ely lo guardava con il nostro stesso
sguardo.
«Grazie amore» gli disse lei, poi lo prese per la
camicia e lo costrinse ad abbassarsi per farsi baciare; Luca sorrise
e le passò una mano dietro la testa, stringendo Elisa ancora
più a
se e facendo durare quel bacio più del previsto.
«Vi prego, il
diabete mi sta uccidendo» li interruppi con una delle mie
solite
battutine, la coppia si staccò e Luca prima di andarsene, mi
fece la
linguaccia, scompigliandomi poi i capelli al suo passaggio.
«Allora?»
domandai guardando Carlotta che era già diventata paonazza
in
viso.
«Ci sei andata a letto?» le chiese David con la sua
solita
schiettezza.
«No!» gracchiò Carlotta spalancando gli
occhi,
«che diamine era solo il primo appuntamento!»
«E' solo un
dettaglio, quello» sbuffò David alzando gli occhi
al cielo.
«Vabè,
raccontaci! Dove siete stati?» cercò di spronarla
Elisa, con
Carlotta era sempre così, quando doveva iniziare un discorso
più o
meno serio aveva sempre bisogno di una spintarella iniziale per poi
prendere coraggio ed iniziare a parlare a macchinetta.
«Mi
è venuto a prendere a casa, e poi mi ha portato in un
ristorantino
in centro, veramente carino...»
«Blà blà blà... arriviamo ai
dettagli piccanti per favore?» la supplicò David
versandosi un po'
di champagne del bicchiere.
«Che
palle che sei» borbottò Carlotta alzando gli occhi
al cielo, «ci
siamo baciati, a lungo»
«E basta?» fu la mia domanda, volevo
sapere qualche dettaglio in più e magari anche ricordare
cosa si
provasse in certe situazioni, visto che era da tempo che non
partecipavo ad un tradizionale primo appuntamento.
«Sì. E per il
momento va più che bene» sentenziò
Carlotta, poi lanciò uno
sguardo ad Elisa sperando in un suo aiuto.
«Come bacia?» chiese
quest'ultima abbozzando un sorriso.
«Alla nostra età la domanda
più consona sarebbe "come scopa?"»
ridacchiò David prima
di ricevere una mia, non poco leggera, gomitata al fianco; Carlotta
lo ignorò e rispose che era un discreto baciatore, ma che
gli
avrebbe dato una seconda chance per la galanteria che aveva
dimostrato.
Quando Carlotta finì il suo racconto decidemmo che
era arrivato il momento di animare la serata, troppa gente stava
seduta sui divanetti e solo in pochi in pista a ballare, bevvi un
lungo sorso del mio cocktail e sentii la gola pizzicare, scossi la
testa e feci una smorfia mentre sentivo David prendermi per mano e
portarmi al centro della pista pronto a coinvolgermi in qualche
strano ballo dei suoi.
Il
rumore incessante della pioggia mi svegliò definitivamente
salvandomi dal finale di un terribile incubo. Mi passai una mano
sulla fronte per togliermi i capelli che mi erano finiti davanti gli
occhi, allungai la mano sul comodino e presi l'Iphone, me lo portai
fino a pochi centimetri dagli occhi e tentai di mettere a fuoco
constatando che la mia miopia stava peggiorando; mi resi conto che
era appena mezzogiorno e che avevo dormito cinque ore scarse, mi
voltai verso David che al contrario dormiva placidamente, ridacchiai
ricordando che fino a qualche ora prima gli stavo tenendo la testa
mentre vomitava.
Presi gli occhiali dal comodino e finalmente il
mondo mi iniziava a sembrarmi un posto più bello e luminoso,
mi
alzai lentamente e, cercando di non svegliare il mio amico, anche se
dubitavo che potesse succedere, mi trascinai fino alla cucina. La mia
dipendenza dal caffè si faceva sentire.
Lo versai nella mia tazza
preferita e mi sedetti sul divanetto sotto la finestra, guardai fuori
dai vetri semi-appannati e mi incantai ad osservare la pioggia che
ininterrottamente lavava ogni cosa, che rendeva tutto più
pulito.
Invidiai la natura provando -invece- pena per gli esseri umani, i
loro sensi di colpa, i loro errori, non venivano mai veramente via
dopo una doccia, e neanche dopo cento; tanti anni fa ci avevo provato
anche io, stetti tre ore sotto la doccia e ripetei per una settimana
quell'azione, ma non ci fu niente da fare, appena uscivo dal box i
sensi di colpa, la malinconia e l'angoscia riaffioravano più
prepotentemente di prima ed io stavo peggio.
Ripensare a quel
periodo della mia vita mi fece venire la pelle d'oca, quei terribili
mesi in cui ero diventata un vegetale umano sembravano così
lontani,
eppure tre anni non erano niente; tre anni in cui avevo toccato il
fondo più volte prima di risalire con una dura corazza a
farmi da
scudo, da quel momento non avevo più permesso a nessuno di
distruggerla.
Mi
asciugai un lacrima che era scesa al pensiero di quei momenti e
tornai in camera da letto decisa a svegliare David, perché
c'era
solo un modo per scacciare quella malinconia che mi si era ammassata
dentro...
«Dà» provai a chiamarlo dolcemente per
tre volte, poi
iniziai a scuoterlo alzando
di due toni la voce. «David svegliati!» sbuffai,
avvicinandomi per
constatare se, effettivamente, stesse ancora respirando e quando ne
ebbi la conferma iniziai a tirargli una serie di cuscinate in
faccia.
«Ma che problema ti assilla?» gracchiò
lui
nascondendosi sotto il piumone.
«Ho avuto un momento di pura
depressione, devo fare shopping per dimenticare» cinguettai.
«I
cervelli nuovi non sono in saldo» biascicò lui con
uno sbuffo e
girandosi dall'altro lato.
«Magari c'è la svendita dei migliori
amici» pensai ad alta voce, poi poi mi alzai dal letto e
presi dei
vestiti dall'armadio, «alzati, lavati e vestiti»
«Che palle che
sei» borbottò David togliendosi di dosso il
pesante piumone, «ma
dove vuoi andare con questo tempo?!» mi chiese, sconvolto,
dopo
essersi accorto dell'acquazzone che c'era di fuori.
«Centro
commerciale» risposi scuotendo le spalle.
«Ti ho già detto che
ti odio?»
«Sì, almeno un milione di volte da quando ci
conosciamo»
Gli
feci la linguaccia e mi andai a gettare sul divano. Per ingannare
l'attesa accesi la televisione, fare zapping era un ottimo passatempo
soprattutto quando in televisione non c'era un bel niente da vedere;
passai in rassegna più di cinquanta canali e mi interruppi
solo
quando mi resi conto che era il mio telefono a squillare, lessi il
nome sul display e risposi: «Buongiorno
splendore!»
«Questa pioggia mi annoia» sbuffò
Carlotta, «ti
va di vedere un film?»
«Vieni tu da noi?» le chiesi lanciando
uno sguardo al ripiano della libreria che avevo adibito a
videoteca.
«Noi?»
«Sì, c'è David. Ieri sera era in
condizioni pessime, l'ho obbligato a restare qui»
«Meno male»
sentì sospirare Carlotta, «comunque ok, ci vediamo
tra un
pò»
«Tesoro, porta da mangiare; io non ho avuto il tempo di
fare la spesa»
«Genuino o schifezza?»
«Schifezza, il
genuino ce l'ho anche io» ridacchiai tirandomi su dal divano,
«Luca
ed Elisa staranno dormendo, chiamarli è inutile...
vero?»
«Sì,
sicuramente dormono. Siamo solo noi tre» constatò
Carlotta.
«Soli
e felici, a vita» scherzai alludendo anche alle nostre vite
sentimentali.
«Oddio, felici è una parola grossa...»
«A me
non manca niente» pensai ad alta voce mentre cercavo il
pacchetto di
sigarette nella borsa.
«Però se avessimo quella cosa in più
sarebbe meglio, non trovi?» cercò di convincermi
Carlotta.
«Parla
per te» ribattei stizzita trovando finalmente anche
l'accendino.
«Certo, certo» tagliò corto Carlotta che
si rese
conto che stava iniziando ad affrontare l'argomento taboo,
«comunque
ho preso tutto il cibo necessario, potremmo sfamare una squadra di
rugby.»
«Mmh... i giocatori di rugby non sono niente male»
mormorai andandomi a togliere le scarpe.
«Non avevo dubbi!» rise
Carlotta, «ci vediamo tra un pochino»
«Ok. Intanto faccio le
pop-corn; è l'unica cosa che ho» le dissi entrando
in cucina, presi
la padella e mentre versavo i chicchi di mais scoppiai a ridere da
sola pensando alle urla che prossimamente si sarebbero sparse per
casa, con quel pensiero mi diressi in camera da letto e cambiai jeans
con un paio di vecchi leggins scoloriti, poi entrai in bagno e riposi
le scarpe nell'enorme scarpiera.
«Ti sei cambiata per stare più
comoda, vero?» mi domandò David mentre si passava
una mano sui
capelli bagnati.
«Certo amore mio» trillai sfarfallando le
lunghe ciglia.
«Rebecca!» gracchiò lui, «cosa
mi nascondi?!»
mi chiese, assottigliando lo sguardo.
«Ma niente... mi ha
chiamato Carlotta e... c'è stato un piccolissimo cambio di
programmi» borbottai iniziando ad attorcigliarmi una ciocca
di
capelli attorno al dito, «nulla di grave eh. Solo che
restiamo a
casa a guardare un film» specificai, con un sorriso, prima di
uscire
in tutta fretta dal bagno e dirigermi velocemente verso la cucina,
una volta arrivata ai fornelli spensi il gas sotto la padella
scoppiettante di pop-corn e poi mi voltai alla ricerca di David, ma
di lui e la sua ira non vi era neanche l'ombra; perplessa mi diressi
di nuovo verso la camera, camminavo lentamente per paura che David
potesse sbucare da dietro qualche mobile e mettermi paura, ma quando
arrivai sulla porta lo trovai sdraiato a stella sul letto, con la
faccia completamente schiacciata sul cuscino.
«Non avrai
intenzione di...»
«Non ti azzardare a parlare!» mi zittì
lui,
«ora tu aspetti Carlotta e insieme vi vedete qualche film
pietoso,
io arriverò per i titoli di coda»
ordinò.
«Uffa, che palle»
borbottai, poi andai ad aprire a Carlotta che aveva già
suonato il
campanello tre volte.
«Ma David?» mi domandò poggiando il
cappotto su una sedia.
«Dorme. Ci raggiunge per i titoli di coda»
risposi alzando gli occhi al cielo, poi andai in cucina a prendere la
ciotola delle pop-corn e mi sedetti sul divano con Carlotta,
«tu che
hai nella bustona?» le chiesi osservando il sacchetto di
plastica ai
piedi del divano.
«Tavolette di cioccolata e caramelle gommose...
e anche qualche lattina di coca-cola» mi sorrise Carlotta
svuotando
il contenuto della busta sul divano.
«Io ho la birra» aggiunsi
sorridendo, «direi che possiamo iniziare» proclamai
aprendo una
tavoletta di cioccolato bianco.
«Che film hai scelto?» mi
domandò Carlotta prendendo una manciata di pop-corn dalla
ciotola.
«Benjamin Button» risposi telegrafa.
«Ottima
scelta!» asserì lei mentre il film iniziava, poi
si zittì, ma
l'iniziale silenzio durò per i primi cinque minuti,
perché si
trasformò in uno scambio assiduo di commenti sulle battute
dei
personaggi, sulla storia e su tutto ciò di cui si poteva
parlare;
adoravo vedere i film con Carlotta proprio per questo, durante le
proiezioni non stavamo zitte un minuto, ci confrontavano subito,
ridevamo, ma allo stesso tempo riuscivamo a seguire il film in modo
impeccabile, e le cose -anche quel piovoso pomeriggio di Ottobre-
andarono così.
David
si era svegliato giusto in tempo per vedere l'ultima mezz'ora di
film, avevo poggiato la testa sulle sue gambe lasciando che mi
accarezzasse i lunghi capelli rossi mentre mi beavo dell'effetto
calmante della nicotina.
«Vogliamo prendere la pizza?» ci chiese
Carlotta mentre sul televisore scorrevano i titoli di coda.
«Io,
sinceramente, sto scoppiando» le risposi toccandomi la
pancia, «però
possiamo ordinarne un paio, al massimo ve le portate a casa e ve le
mangiate domani»
«Io ho una fame assurda, quindi per me va bene
tutto» dichiarò David.
«E ci credo, tutto quello che avevi
mangiato lo hai vomitato» gli ricordai contraendo il volto in
una
smorfia; lo squillare del cellulare mi fece sobbalzare, mi allungai a
prenderlo e sorrise vedendo che finalmente i miei genitori mi stavano
chiamando.
Mamma e papà si erano trasferiti in un piccolo paesino
della Calabria due anni prima; quando mia nonna materna morì
decisero che era venuto il momento di ritirarsi in campagna per una
vita più tranquilla e per godersi, ancora, della compagnia
di mio
nonno, il padre di mio padre.
«Madre!» dissi alzandomi da terra,
ma non feci in tempo a muovermi che sentii le gambe vacillare e mi
accasciai di nuovo, «ma quando?» le chiesi con gli
occhi sbarrati;
ebbi come l'impressione di essere stata colpita in pieno stomaco da
un pugile professionista.
«E' successo ieri notte, ma non
volevamo rovinare la festa di Elisa; a proposito... falle i nostri
auguri» mi spiegò mia madre, sospirando.
«Metto qualcosa in
valigia e scendo in macchina»
«Rebecca, non è un viaggio che
puoi affrontare con la smart» mi rammentò.
«Ok, allora...»
cercai di pensare a qualcosa, guardai l'orologio che avevo al polso e
sospirai cercando di trattenere le lacrime e trovare un' alternativa.
«Qui ci sono David e Carlotta, mi faccio dare un passaggio in
stazione, prendo il treno delle sei, così per le undici sono
lì»
«Tuo padre dice di stare tranquilla e di prendere il primo
treno domani mattina, oramai non c'è molto da fare
qui...»
«Va
bene» sospirai sconfitta, David e Carlotta mi guardavano
senza fare
domande, anche se avevano intuito che fosse successo qualcosa di
grave. «Zio?» chiesi poi tirandomi indietro i
capelli.
«Arriva
tra un'ora, con tua cugina» mi rispose mia madre sospirando.
«Ci
vediamo domani allora» la salutai con un filo di voce, poi
poggiai
il telefono sul tappetto e guardai i miei amici, «domani vado
in
Calabria, è morto mio nonno» dissi prima di
scoppiare
definitivamente a piangere.
***
Note
finali:
Eppure resta nasce sette
mesi fa.
Eppure resta nasce dopo una storia finita male, nasce come una
valvola di sfogo e si è trasformata in un'avventura. Il
titolo... c'è chi dice che è una frase di
Montale, c'è chi ne reclama la maternità, io non
lo so, so solo che amo questa frase e che l'ho trovata mesi fa su una
pagina di Facebook come, appunto, citazione di Montale xD
Racchiude un
po' tutte le passioni della mia vita: il mare, gli amici, l'amore
travolgente ecc.. ma c'è anche dell'altro; c'è la
tematica
dell'illegalità che, purtroppo, al giorno d'oggi nei paesini
del sud
è ancora fin troppo presente, c'è un piccolo
paesino dove la vita
non è sempre facile e ci sono i tradizionali scontri
famigliari.
Spero che resterete a farmi compagnia in
quest'avventura che per me significa veramente molto, forse troppo;
finisco, quindi, col ringraziare chiunque si sia fermato a leggere
questo primo capitolo e tutti quelli che lo commenteranno.
Infine
un Grazie speciale va a Kate che c'è
sempre stata, che non mi
ha mai abbandonata e che molte volte mi ha spinto a proseguire questa
storia e mi ha convinto a pubblicarla. Ti voglio bene patata! E
grazie a Pind autrice della bellisima grafica.
Ho veramente terminato, un
bacio e
spero di “vedervi” al prossimo capitolo.
-J
|
Ritorna all'indice
Capitolo 2 *** Ovunque andrà dovrà tornare. ***
2.
Ovunque andrà dovrà tornare.
L'ultima
volta che ero stata in Calabria per più di un mese fu
quattro anni
prima; poi mi ero solo limitata ad aiutare i miei con il trasloco e
quelle rare volte che li andavo a trovare non mi trattenevo
più di
un paio di giorni. Il motivo era chiaro a tutti e nessuno mi faceva
domande, al contrario ringraziavano il cielo per quelle visite; io
avevo mantenuto vivi tutti i rapporti con i miei amici più
cari e
fortunatamente a loro piaceva mettersi in macchina e viaggiare,
così
molte volte me li ero ritrovati a dormire sul divano di casa...
ovviamente tutti tranne Lui che, per quel che ne sapevo, poteva
essere latitante su qualche montagna limitrofa, oppure poteva essersi
aperto un bar in qualche paese vicino; comunque combattevo la
mancanza e la tentazione senza fare domande, anche perché
quando ci
avevo provato le risposte erano state poco esaustive.
«Bentornata»
mi disse mio zio che, infreddolito, mi aspettava sul binario della
stazione di Gioia marina, il piccolo paesino di cui era originaria la
mia famiglia situato sulla parte jonica della Calabria.
«Grazie»
l'abbracciai forte, poi abbassai lo sguardo e sorrisi alla mia
cuginetta preferita. «Spiegami perché tu sei
sempre più alta, e
più bella» le dissi facendola ridacchiare; ci
avviammo verso la
macchina e dalla stazione a casa ci vollero una ventina di minuti,
tempo in cui mi resi conto di quanto il paese sembrava cambiato,
anche se -in realtà- era sempre lo stesso.
«Come l'ha presa?»
domandai a mio zio guardando Yasmine che, seduta dietro, osservava il
paesaggio fuori dal finestrino.
«Le ho detto che ora il nonno è
felice perché finalmente si è ricongiunto alla
nonna» mi rispose
lui con quell'accento un po' torinese che nel corso degli anni aveva fatto
suo e che io adoravo. Aprii un poco il finestrino e mi misi ad
osservare quel paesaggio di campagna, l'unico che amavo sul serio;
respirai a pieni polmoni quell'aria e mi sentii inebriata da quei
profumi
così famigliari...
«Ok»
sospirai scendendo dalla macchina, ero arrivata finalmente a casa.
«Era
ora» mi
sorrise mio padre che mi aspettava sulla porta, sorrisi di rimando e
corsi ad abbracciarlo fregandomene di tutte le persone che, sul
pianerottolo, stavano andando a dare l'ultimo saluto a mio nonno; con
il tempo avevo imparato a fregarmene delle persone del paese
soprattutto quando avevo capito che l'unica cosa che gli importava
sul serio era sparlare di quella ragazza -secondo loro- così
cittadina.
«Mi
sei mancato tanto» sussurrai all'orecchio di mio padre.
«Anche
tu amore mio, anche tu» mi rispose accarezzandomi il volto
con le
sue mani ruvide.
«Giuseppe, mi lasci salutare nostra figlia?» la
voce di mia madre ci fece sorridere entrambi, mi abbracciò
stampandomi una serie di baci sulle guance, quando ci staccammo
sorrisi a tutti quei parenti e amici che mi osservavano di sottecchi
e mi avviai verso il feretro che era posto nell'inutilizzato
soggiorno. Arrivata davanti la bara accarezzai le mani del nonno, gli
toccai il volto gelido e sentii le lacrime iniziare a scendermi sul
viso, mi chinai sulla bara e depositai un bacio sulla sua fronte,
incapace di pensare che lui non fosse più tra noi, poi a
testa bassa
uscii e mi apprestai a salire le scale che portavano al mio
appartamento.
«Te l'ho pulito, e ti ho cambiato le lenzuola» mi
disse mia madre che mi aveva seguito.
«Grazie» le sorrisi, poi
poggiai la valigia sul pavimento e diedi un veloce sguardo al
letto.
«I funerali ci sono tra tre ore, fatti una doccia e
riposati un po'» mi consigliò prima di tornare di
sotto; sospirai e
mi sedetti, avevo dimenticato quanto amassi quella casa che, con il
primo stipendio, avevo arredato seguendo uno stile prettamente
orientale.
Mi tolsi le scarpe e svuotai la valigia, sperando che
nella fretta avessi preso i vestiti giusti, poi seguendo il consiglio
di mamma andai a farmi una doccia, ma quando il getto d'acqua mi
toccò la schiena riaffiorarono alla mia mente i ricordi,
scocciata
chiusi la manopola dell'acqua e mi avvolsi sospirando ad un
asciugamano; tornai in camera e mi fiondai a peso morto sul letto,
chiusi gli occhi e quei ricordi che avevo represso poco prima
tornarono prepotentemente a galla.
Scesi
le scale di corsa rischiando di cadere un paio di volte, ma riuscii
ad arrivare al primo piano indenne, sospirai profondamente e poi mi
resi conto di essere osservata da tutti i presenti, sorrisi
flebilmente a qualche parente e presa dal panico mi dileguai al piano
di sotto dove trovai Yasmine intenta a guardare la televisione; la
piccola mi lanciò uno sguardo domandandomi se mi servisse
qualcosa.
«Sinceramente no» scrollai le spalle, in effetti
non
sapevo neanche io perché era scesa nell'appartamento di mio
zio,
«hai fatto merenda?» le domandai poi.
«Sì» sorrise Yasmine
lanciando uno sguardo fiero al mucchietto di carte di merendine che
troneggiava al suo fianco.
«Dov'è papà?» le chiesi,
posandole un bacio sui capelli biondi.
«E' sopra» mi rispose la
bambina, così feci un respiro profondo e tornai di sopra,
entrando
poi in quella che era stata la casa di mio nonno.
«Condoglianze»
disse una voce alle mie spalle, mi voltai e intravidi un viso
conosciuto al quale però non seppi dare un nome,
così mi limitai ad
annuire e sussurrare un ringraziamento a mezza bocca.
«Tesoro»
la voce di mia madre mi fece voltare nuovamente, «non
dovresti
essere qui... stanno per chiudere il nonno» mi disse con fare
apprensivo.
«Ah» sbiancai e mi sbrigai ad uscire di casa
andandomi a sedere sulle scale dell'ingresso; feci dei respiri
profondi, solo al pensiero di una cassa chiusa mi sentivo mancare
l'aria e fortunatamente mia madre mi aveva avvertito in tempo prima
che la mia claustrofobia prendesse il sopravvento, probabilmente
voleva evitare che svenissi o mi prendesse un attacco di panico
proprio in quel momento.
Mi accesi una sigaretta e chiusi gli
occhi inspirando, ma quel momento di relax durò poco
perché una
voce fin troppo famigliare mi costrinse a riaprire gli occhi. Mi
voltai a guardare verso la mia destra e diventai ancora più
pallida
di quanto non lo fossi qualche minuto prima sulle scale; cercai di
fare dei respiri profondi mentre mi premevo una mano sul petto come
se volessi fermare il cuore o, per lo meno, rallentare un po' i suoi
battiti. Lo sentivo pulsare in gola e avevo l'impressione che da un
momento all'altro mi sarebbe uscito dalla bocca e l'avrei dovuto
raccogliere dal ciglio della strada.
Forse lui, che stava parlando
con un paio di persone, si sentì osservato, forse fu
incuriosito
dagli sguardi dei suoi interlocutori, fatto sta che si voltò verso di me e che la sua espressione si tramutò;
ci
fissammo per una manciata di secondi che, però, mi
sembrarono ore,
poi distolse lo sguardo e io finii alla svelta la sigaretta cercando
di non guardare più in quella
direzione, ma era difficile e per ingannare il tempo iniziai a
tamburellare con la mano sulle ginocchia, poi fortunatamente venne a
farmi compagnia mia cugina, poggiando la testa sulle mie gambe.
«Il
nonno sta bene?» mi chiese Yasmine con un'aria visibilmente
preoccupata; era sempre stata molto attaccata a nostro nonno. Eravamo
due nipoti completamente diverse, se io non gli avevo mai dimostrato
esplicitamente il mio affetto Yasmine lo faceva sempre, da piccola lo
accompagnava nei campi o si divertiva a dare da mangiare alle
galline, cosa che io non avevo mai fatto.
«Sì tesoro, sta
benone» le risposi accarezzandole i lunghi capelli biondi.
«E
sarà felice, perché è con la nonna,
vero?» domandò sincera, come
a volerne una conferma; feci una smorfia, da non credente convinta
non trovavo giusto alimentare quella falsa speranza in mia cugina,
pensavo che fosse meschino dirle cose che non pensavo, ma se le
avessi detto qualcos'altro zio mi avrebbe linciata, per cui feci un
respiro profondo e dissi: «Sì, starà
con la nonna»
«Gli
mancava molto» mi sorrise Yasmine, continuai ad accarezzarle
i
capelli e presa com'ero dal nostro discorso non mi ero resa conto che
tutto il resto del parentado stava uscendo di casa, guardai verso la
mia famiglia e vidi mia madre farmi gesto di alzarmi, così
presi
Yasmine per mano e ci spostammo dalle scale. Per un momento non seppi
dove andare, tutta quella gente mi metteva ansia e mi faceva girare
la testa, così mia cugina mi tirò verso destra e
la seguii inerme,
senza rendermi conto di dove stessi effettivamente andando.
«Becca,
mi dispiace» sentii una mano toccarmi la spalla e mi
irrigidii
all'istante riconoscendo quella voce, quel soprannome. Il mio
soprannome.
«Grazie» mormorai senza neanche voltarmi, sentivo
le
gambe vacillare a quel tocco, e forse Yasmine se ne rese conto,
perché strinse la presa sulla mia mano e si mosse di nuovo
trascinandomi, questa volta, dai rispettivi genitori; presi posto di
fianco mio padre, gli strinsi la mano e poggia il mento sulla sua
spalla, non stava piangendo, guardava inerme la bara che veniva posta
in macchina e quando questa venne chiusa fece un lungo
sospiro.
«Papà, vuoi che guido io?» gli domandai,
lui annuì e
mi passò le chiavi della macchina, poi spostò lo
sguardo verso la
piccola folla che si stava sparpagliando verso le auto parcheggiate
davanti casa, fissò qualcuno alle mie spalle e poi
tornò a
guardarmi negli occhi; mi chiese se stessi bene e gli risposi con un' alzata di spalle, in fin dei conti avevo rivisto solo l'amore della
mia vita di cui avevo perso le tracce quasi tre anni prima.
Avevo
saltato, per ovvie ragioni, la parte tumulativa del funerale, avevo
aspettato la mia famiglia fuori il cimitero ed eravamo tornati a
casa; dopo aver mangiato io e mio padre ci eravamo messi ad ascoltare
qualche suo vecchio vinile e poi nel tardo pomeriggio scesi in paese,
feci un paio di giri in macchina, e alla fine decisi di andare sul
lungo mare; parcheggiai e mi sedetti su una panchina che dava sulla
spiaggia.
Il cielo era grigio come se da un momento all'altro si
sarebbe dovuta abbattere una tempesta su quel piccolo paesino all'estremo
sud della Calabria, mi accesi una sigaretta e tornai a fissare le
onde scure che si disperdevano nel mare, in quel mare che nei bei
giorni di sole diventava uno specchio cristallino dove ci si poteva
facilmente specchiare; lo squillo del cellulare mi destò dai
miei
pensieri sempre più contorti, frugai in borsa e vedendo chi
era mi
affrettai a rispondere.
«Com'è andata?» mi chiese David.
«Da
schifo» sbuffai buttando fuori un po' di fumo della sigaretta.
«E
tu come stai?»
«Da schifo»
«Ottimo direi» rispose
sarcastico David, «siccome conosco questo tono di voce
neanche ti
chiedo se hai visto qualcuno» blaterò cogliendo il
punto.
«Esatto... ho visto chi non dovevo vedere»
sospirai,
chiudendo gli occhi e beandomi per un momento del ricordo di lui con
tanto di giacca e camicia.
«Rè, come ti senti?» mi chiese di
nuovo, con la voce più dolce che potesse avere.
«Mi sento
strana. Mi ha fatto le condoglianze, ma sentire la sua voce dopo tre
anni mi ha scombussolata in modo assurdo» ammisi riaprendo
gli occhi
e facendo un altro tiro dalla sigaretta, come se la nicotina potesse
effettivamente cancellare quelle sensazioni che si stavano
agglomerando nella mia testa.
«Ora dove sei?» David sembrava in
ansia per me e questo mi fece sorridere, l'avrei voluto al mio fianco
perché era l'unico che riusciva a capirmi anche quando mi
ostinavo a
stare in silenzio per ore.
«Sul lungomare.»
«A
parte lui, hai visto qualcun' altro?» mi domandò
David cercando
palesemente di cambiare discorso.
«Altri amici... mi erano
mancati» sorrisi, poi guardai l'orologio e mi resi conto che
sarebbe
stato meglio sbrigarsi a tornare a casa. «Amore scusa, ti
devo
salutare; se non rientro in tempo per cena mia madre mi
decapita»
«Salutami Marina» trillò lui,
«anche Giuseppe»
aggiunse.
«Sarà fatto»
«Torna presto Rè» mi sussurrò
David prima di riagganciare; sospirai apprestandomi a finire la
sigaretta, fissai ancora per qualche minuto il mare e poi mi
incamminai a testa bassa verso la macchina, ma il rumore di una moto
mi fece sobbalzare e quando questa si fermò davanti la mia
auto
riuscii solo a fissare la carrozzeria di quella Ducati nera, timorosa
di guardare negli occhi il suo possessore.
«Chissà perché, ma
ero certo di trovarti qui...» mi disse togliendosi il casco
integrale, ed io ingoiai aria a vuoto.
«Marco. Ciao» dissi
cercando di rimanere il più lucida possibile, anche se
pronunciare
quel nome mi fece tremare un po' la voce.
«Ciao» mi sorrise lui,
«volevo solo dirti che questa sera siamo tutti insieme all'Havana... i ragazzi vorrebbero che tu venissi»
«E
hanno mandato te come messaggero?» gli domandai con una punta
di
acidità nella voce.
«Mi hanno chiesto di dirtelo se ti avessi
vista, ma penso che Matteo ti avrebbe mandato a breve un
messaggio»
spiegò lui scrollando le spalle, «non
ci sembrava una buona idea dirtelo dopo il funerale» aggiunse
sarcastico.
«Allora
ogni tanto pensi in modo decente» schioccai la lingua
saccente,
Marco mi guardò aggrottando la fronte e io gli sorrisi,
beffarda.
«Comunque
ok... dopo
chiamerò Matteo» gli dissi aprendo lo sportello
della macchina, ero
ansiosa di andarmene a casa. Ma la verità è che
avevo paura di
continuare a parlare con lui perché fin da quando si era
tolto il
casco avevo sentito un enorme masso depositarsi sul mio stomaco.
«Ti
passo a prendere per le undici e mezza» dichiarò
Marco, alzai un
sopracciglio spostando più volte lo sguardo dalla moto al
ragazzo e
lui ridacchiò, «tranquilla, verrò su
quattro ruote» cercò di
rasserenarmi, ma non avevo bisogno di rassicurazioni, io avevo
bisogno di capire a cosa stesse architettando la sua mente malata;
anche se la prospettiva di andare in moto con lui non mi allettava
particolarmente.
«Ma non è quello il problema... ho la mia
macchina» ribattei tenendo lo sportello con una mano.
«Alle
undici e mezza» ribadì lui mentre si rimetteva il
casco, mi fece un
segno con la mano e ripartì a tutta velocità.
Mi misi finalmente
a sedere in macchina sospirando, tentando invano di tranquillizzarmi
e due minuti dopo mi ritrovai con la testa sul volante a fare dei
respiri profondi; tutto quello era troppo, mi sentivo come un
eroinomane che, dopo un lungo periodo di disintossicazione, provava
di nuovo il suo tipo preferito di eroina, cinque minuti di parole ed
ero già assuefatta dalla sua presenza. Non potevo
sopportarlo a
lungo e forse in quel momento fu l'unica volta che desiderai di
tornare al più presto Roma.
Erano
dieci minuti che fissavo una serie di maglie posate sul letto, mi ero
fatta la doccia, lisciata i capelli e mi ero messa un filo di trucco,
mi mancava solo da scegliere cosa mettere; mia madre aveva
consigliato la canotta verde con la giacca nera, alla fine
-nell'incertezza- decisi di seguire il suo consiglio.
Mentre mi
stavo infilando la canotta suonarono alla porta, andai ad aprire
sperando che non fosse Marco e mi ritrovai mia madre davanti che mi
sorpassò e si diresse in camera da letto; si mise a
sistemare le
maglie che erano state scartate, in silenzio.
«Ti
serve qualcosa?» le domandai mentre mi mettevo gli orecchini.
«Quella
canotta è molto scollata» constatò lei
sedendosi sul letto.
«Ma
se me l'hai detto tu di metterla...» le ricordai, perplessa,
poi
scrollai le spalle e presi a spruzzarmi il mio profumo
preferito.
«Con chi hai detto che esci sta sera?»
«Con i
soliti mamma» sbuffai, mi sembrò, per un attimo,
di essere tornata
indietro nel tempo quando lei le faceva il terzo grado prima di farmi
uscire in santa pace.
«Perché Marco ti è venuto a
prendere?»
mi chiese d'un tratto, «siete tornati insieme?»
aggiunse con un
profondo cipiglio.
«Cosa? No!» risposi forse un po' troppo
agitata, «non siamo... non siamo tornati insieme»
misi in chiaro
calmandomi e infilandomi gli stivali, «e non so
perché mi sia
venuto a prendere; i ragazzi mi hanno invitato al Havana e lui si
è
offerto per venirmi a prendere a casa, punto.»
«Hai la tua
macchina»
«Cazzo mamma, gliel'ho detto!» gridai spazientita,
«ma cosa pensi?» sbuffai, odiavo quando mia madre
dava per scontato
che la causa di qualche problema fossi io, era come se non credesse
mai in me.
«Niente, non penso niente» mi rispose,
«non penso
che tu sia così stupida da ripetere gli stessi errori; tuo
padre lo
potrà trovare accettabile, potranno essere legati da
questioni di
rispetto, onore e altre stronzate, ma io non lo accetto»
disse
accarezzandomi la mano, «non voglio che anche tu fai quel
genere di
vita; non lo volevo quando avevi diciannove anni, non lo voglio
adesso»
«Tranquilla mamma» le feci un sorriso tirato e
finii di
prepararmi, poi scendemmo al piano di sotto dove trovammo mio padre e
Marco a giocare tranquillamente a carte; sorrisi ricordando quando,
in passato, quella scena era di ordinaria quotidianità.
«Spero
che stai vincendo» dissi a mio padre, abbracciandolo.
«Certo
tesoro» mi sorrise lui gettando l'ultima carta,
«dai Marco, magari
la prossima volta andrà meglio» lo prese in giro,
«si vede che sei
fortunato in amore» aggiunse papà, Marco
abbozzò un sorriso
guardandomi di sfuggita, poi si alzò e sistemò la
sedia vicino al
tavolo; io salutai i miei genitori e seguita da Marco mi diressi
verso il portone.
«Mi raccomando» disse mio padre guardando
prima me e poi lui, che annuì e salì in macchina.
«Allora?» mi
chiese Marco con lo sguardo fisso sulla strada buia.
«Cosa?»
«Come
stai?»
«Non c'è male» risposi, poi tornai a
guardare fuori dal
finestrino giocando distrattamente con una ciocca di capelli; non so
perché, ma volevo urlare. Volevo urlargli in faccia tutto
quello che
mi ero tenuta dentro in quegli anni, volevo dargli un cazzotto in
pieno viso, e magari anche un calcio negli stichi, sentivo le mani
prudere e dovetti incrociarle in grembo per evitare qualche gesto
avventato.
«Cos'hai fatto in questi anni?» quella domanda mi
sembrò la domandona finale di qualche quiz, deglutii
cercando una
risposta, provando a creare una qualche storia dove non ero la
ragazza depressa che passava i giorni chiusa in casa a
piangere...
«Mi sono diplomata ed ho iniziato a lavorare»
risposi rimanendo sul vago, anche se pensai che a lui non importasse
un gran che di quel lato della mia vita.
«E ti trovi
bene?»
«Abbastanza, sì» sospirai, poi gli porsi
la domanda la
cui risposta mi spaventava di più: «Tu invece che
hai fatto?»
«In
giro» scrollò le spalle lui continuando a guardare
la strada.
«Che
vuol dire in giro? Dove sei stato? Ti sei trasferito?»
«Più o
meno sì, per un anno» rispose lui vago,
guardandomi con la coda
dell'occhio; sbuffai, e a mio malgrado capì che non sembrava
cambiato affatto, «come mai hai cambiato colore?»
mi chiese poi
guardandomi i capelli.
«Sono rossi da tre anni» mi limitai a
dire inizialmente, poi aggiunsi saccente: «Sai si dice che
una donna
che cambia pettinatura è una donna che vuole cambiare
vita»; lui
ridacchiò e continuò a guidare in silenzio.
Tornai a guardare
fuori dal finestrino, Gioia marina era deserta ed ebbi l'impressione
di trovarmi in qualche città fantasma capitale degli horror
più
trash, però alla fine amavo anche quello: il fatto che
quando volevo
farmi una camminata solitaria lo potevo fare, potevo camminare per il
paese alle undici di sera senza che nessuno mi rompesse le palle,
potevo stare sola con i miei pensieri, ed ovviamente quello a Roma
era impossibile.
Quando
arrivammo davanti l'Havana, però, i miei pensieri cambiarono
drasticamente: non avevo mai visto tante persone davanti un locale, e
soprattutto non avevo mai visto un locale del genere in paese; Marco
parcheggiò, ed entrammo dalla porta sul retro e la mia
perplessità
non fece che aumentare.
L'Havana era un locale insolito, al primo
piano sembrava un tranquillissimo pub, ma scendendo le larghe scale
in ferro battuto ti ritrovavi catapultato in un altro mondo: vi erano
due enormi piste da ballo e la musica pompava dalle casse in modo
esagerato, le persone sia accalcavano in pista, ma sembrava si
divertissero un mondo, al contrario di me che al solo pensiero di
dover passare in mezzo a quella massa di gente mi sentivo male.
«Era
ora!» gridò Matteo, «iniziavamo a
pensare al peggio» aggiunse
abbracciandomi talmente forte da farmi male, «cosa vuoi da
bere?»
mi chiese retoricamente versando in un bicchiere una
quantità
sproporzionata di alcool.
«Lei prende una vodka lemon» gli fece
eco un vocione alle mie spalle, mi girai ed allargai le labbra in un
enorme sorriso.
«Zio Vincent!» urlai abbracciando l'uomo;
Vincenzo -zio Vincent per tutti noi- era il più grande,
quarant'anni
e passa e ne dimostrava almeno dieci di meno. A quanto avevo capito
era lui il proprietario del locale e non potevo che esserne felice,
Vincent era il classico amicone, quello con gli agganci giusti che
faceva entrare sempre tutti in ogni posto senza far sborsare un soldo
a nessuno.
«Ma mangi?» mi chiese sciogliendo l'abbraccio,
«ti
vedo un po' sciupata» disse squadrandomi.
«Macché, è la giacca
nera che sfina!» ridacchiai aprendomi l'indumento,
«la pancia c'è
ancora» aggiunsi dandomi degli schiaffetti sul ventre, poi
iniziai a
salutare gli altri, c'era Francesco, c'era Stefano ed alcuni volti a
me poco famigliari; quand'ebbi finito mi tolsi la giacca e mi sedetti
vicino a Matteo.
«Allora, che ci racconti? Oramai sei diventata
una cittadina a tutti gli effetti» scherzò il
ragazzo che era
visibilmente ubriaco.
«Oramai lei è nel mondo del cinema, è
una
importante» gli fece eco Francesco.
«Tra un po' la vedremo agli
Oscar!» rincarò Stefano.
«La smettete di parlare come se io non
ci fossi?!» borbottai, facendoli ridere, «comunque
non sono una
cittadina, lavoro solo dieci ore al giorno... quando mi va bene, ma
non mi posso lamentare»
«E le ferie non ce l'hai? Ogni tanto
potresti anche venirci a trovare» brontolò
Francesco bevendo un
sorso del suo cocktail.
«Bé, ogni tanto voi potreste anche fare
una visita in città, è un anno che non vi fate
vedere...» risposi
facendogli la linguaccia, i ragazzi non mi diedero tutti i torti e io
gli sorrisi saccente; ad un certo punto Marco, che era rimasto in
silenzio tutto il tempo, si alzò e si allontanò
dal tavolo,
involontariamente lo seguii con lo sguardo fino a che una ragazza non
mi si parò davanti.
«Non ci credo!» disse la voce di questa,
«lei è qui e nessuno mi avverte!» alzai
lo sguardo e mi si
illuminarono gli occhi, scattai in piedi ed andai a salutare
Francesca, l'unica vera amica che avevo lì.
«Dico, almeno tu
potevi avvisarmi della sua presenza!» urlò
puntando il dito contro
Francesco, che era il suo fratello minore, «e tu potevi
mandarmi un
messaggio e dirmi che saresti venuta, avrei chiesto la serata libera
a Vincent» sbuffò iniziando a mettere i bicchieri
vuoti su un
vassoio circolare.
«E' successo tutto all'improvviso Frà»
mi
giustificai, «come stai?» le domandai dopo,
sorridendole.
«Bene,
bene. Tu piuttosto?» mie chiese.
«Nonno a parte non c'è male»
risposi, la biondina mi sorrise di rimando e poi si
allontanò verso
un altro privè dicendo che sarebbe tornata al più
presto; intanto,
senza un perché, tornai a guardare tra la folla cercando di
scorgere
la figura di Marco, ma di lui neanche l'ombra, mi spostai i capelli
sulla spalla destra e finì il drink che avevo in mano.
Guardai i
miei amici e sorrisi, in fin dei conti era bello stare con loro, mi
sembrava di tornare un'adolescente, quei ragazzi mi facevano sempre
ridere e star bene, avevano il potere di far sparire ogni mia
preoccupazione, ogni mia ansia.
«Buona sera» la voce melensa di
una ragazza interruppe un'animata discussione su quanto potesse
essere bella la nuova moto verde acido di Matteo, sorrisi a quella
mora e cercai di ricordare il suo nome, ma non mi sovvenne almeno
fino a quando Marco non spuntò dietro di lei.
«Ah, sei qui»
disse la ragazza fingendosi sorpresa.
«Carmen...» la salutò lui
con un cenno del capo, «non pensavo saresti venuta»
aggiunse
alzando un sopracciglio.
«Non riesce a starti lontana» ridacchiò
Francesco che però si beccò una gomitata da
Stefano, scrollai le
spalle constatando che, comunque, il suo nome non mi diceva niente e
tornai a bere il mio secondo drink.
«A casa mi annoiavo... e non
sapevo se saresti passato a farmi compagnia, così sono
venuta io»
piagnucolò Carmen avvinghiandosi al collo di Marco, il
ragazzo la
scansò con poca delicatezza e la liquidò in
un'istante dicendole
che quella sera voleva stare semplicemente in compagnia dei suoi
amici e in quel momento mi sentii irrimediabilmente e
stranamente
sollevata.
«Ah, c'è la romana anche...»
constatò la mora
guardandomi, mi voltai e la guardai come per chiederle se ci
conoscevamo, «abbiamo fatto qualche serata insieme, niente di
che»
specificò Carmen leggendo il mio sguardo; sfogliai
velocemente i
miei ricordi fino a quando il volto di quella ragazza non mi
passò
davanti prepotentemente: era Agosto, durante una serata in discoteca
mi ero allontanata dal gruppo per salutare alcuni cugini, ma
quando ero tornata lo spettacolo di Carmen che ballava avvinghiata a
Marco mi si era parato davanti e solo Francesca era riuscita a
reprimere la mia la voglia di spaccare la faccia prima a lei e poi a
lui; era stata una di quelle tante volte in cui avevo evitato di
essere me stessa per amore di lui.
«Ah sì, mi ricordo...»
sorrisi, «come stai?» le domandai gentilmente.
«Potrei stare
meglio» rispose la mora guardando Marco, «ma alla
fine non mi
lamento; c'è chi sta peggio» aggiunse con un
ghigno rivolto
palesemente a me, scrollai le spalle fingendomi indifferenti e mi
scolai le ultime gocce del cocktail, «è vero,
sicuramente c'è chi
è stato
peggio» le diedi man forte lanciando un'occhiata a Marco che
sbuffò
spazientito. «Non ci sono le tue amichette?» chiese
rivolgendosi
alla mora.
«Sì, sono al bar»
«E perché non le raggiungi?»
suggerì ironico.
«Stavo parlando con Rebecca,
veramente...»
«Appunto» replicò il ragazzo a denti
stretti,
«raggiungi le tue amiche» aggiunse di nuovo, lo
guardai aggrottando
la fronte.
«Ciao
ragazzi, ciao Rebecca» disse sbuffando Carmen e riservandomi
un'occhiataccia, le feci un sorriso sincero e poi tornai a parlare
con Matteo della sua moto come se niente fosse; la mora
sbuffò
nuovamente e girò i tacchi, Marco alzò gli occhi
al cielo come per
ringraziare qualche divinità superiore e per tutto il resto
della
serata restò seduto davanti a me.
Come
al solito il nostro gruppo fu l'ultimo ad uscire dal locale. Alle
quattro passate del mattino ci eravamo salutati rimanendo d'accordo
per vederci tutti a cena il lunedì sera, visto che quello
era il
giorno libero di Francesca.
«Poi
noi due ci sentiamo domani ed organizziamo per vederci da sole...
dobbiamo parlare di molte cose!» mi disse la bionda
abbracciandomi.
«Sì, ma non prima delle quattro del pomeriggio;
ho bisogno di minimo dodici ore di sonno!» sbadigliai stanca
morta.
«Dovresti essere abituata a questi ritmi, a Roma si fa la
bella vita il sabato, no?» mi punzecchiò Francesco.
«Certo,
peccato che io in genere il sabato non lavoro... e che oggi invece ho
affrontato un viaggio in treno ed un funerale» risposi
stizzita, lui
mi abbracciò ridendo, era talmente ubriaco che fece ridere
anche me;
mentre ci stavamo avviando alle macchine non riuscii a fare a meno di
notare che Francesca stava salendo in macchina con Stefano e non con
suo fratello, e per andare a casa sua, Stefano, non passava per
niente vicino casa di Francesca.
«Frà» la chiamai sorridendo,
«dobbiamo parlare di molte cose!» urlai calcando
sulle parole, lei
rise e mi strizzò l'occhio, alzai gli occhi al cielo e
quando
finalmente salii in macchina Marco partì a tutta
velocità verso
casa. All'inizio nessuno dei due parlò per buoni dieci
minuti,
replicando in parte il viaggio d'andata, io giocavo con i capelli e
Marco guidava, poi decise di aprire il discorso: «Tuo padre
mi ha
chiesto se domani lo potevo aiutare a pitturare il garage...»
disse
guardandomi di sottecchi.
«Mmh, ok» risposi, «non che mi
interessi particolarmente eh» aggiunsi in tutta
sincerità.
«Era
per parlare di qualcosa...» si giustificò lui
sbuffando, «non fare
l'acida»
«Io non faccio l'acida» risposi seccata,
«è che non
vedo il motivo per cui tu debba rendermi partecipe della tua
vita»
«Infatti non lo sto facendo, stavo solo cercando di fare
conversazione»
«Risparmiatela» lo ammonii, stizzita; il ragazzo
borbottò qualcosa e poi tornò a guidare in
silenzio
«Poi,
quando ne hai voglia, mi spiegherai il perché di tanto
risentimento
nei miei confronti...» mi disse Marco fermando l'auto davanti
casa
mia; lo guardai di sbieco, non credevo alle mie orecchie, in fin dei
conti perché dovevo avercela con lui? Certo, le persone
normali
fanno finta di niente davanti il proprio ex che è sparito
dalla sera
alla mattina, non una chiamata, non un messaggio, zero; ero certa che
quello fosse il momento giusto per sputargli in faccia tutte le serie
di insulti che avevo in mente, tutta la rabbia ed il dolore che mi
portavo dietro da tre anni, ma non ce la feci, lo guardai senza
riuscire ad emettere un suono, sapevo di avere gli occhi lucidi
così
mi voltai a prendere la borsa nel sedile posteriore della Jeep, ma
Marco mi bloccò il braccio costringendomi a guardarlo negli
occhi,
lo sentii scrutarmi come se volesse cercare dentro di me una serie di
motivazioni valide, una scusa obbiettiva per quella Rebecca
così
diversa da quella che conosceva e che aveva amato anni prima...
«Quando ne avrò voglia...» sussurrai,
lui lasciò la presa
sospirando ed io mi affrettai a prendere le mie cose e uscire da
quella macchina che non mi era mai sembrata così opprimente
prima di
quella sera.
Corsi per le scale e appena arrivai in casa mi andai
a gettare sul letto, non riuscivo a capire con chi ero più
adirata,
se con lui, oppure con me stessa per avergli quasi permesso di
leggermi dentro.
***
Note
Finali:
Eccoci
qui, anche il secondo capitolo è andato. Ci tengo a
ringraziare
tutti quelli che si sono fermati a leggere il primo e a commentarlo,
e ringrazio chi ha seguito anche il secondo. Questo è un
capitolo
abbastanza di passaggio. Vediamo Rebecca tornare in paese e conosciamo
i suoi amici “estivi”, le sue abitudini
quand'è lontano dalla
frenetica vita della capitale; questo sarà comunque un
aspetto che
verrà ampliato nella storia, così come scopriremo
un po' di più
del suo passato con Marco.
L' I-phone di Rebecca è il primo
i-phone uscito sul mercato, quindi è il mattoncino della
Apple
;)
Tra l'altro ci tengo a dire che il clichè della ragazza
abbattuta post-rottura è stato solo di passaggio, mi
è servito per
introdurre proprio il personaggio della protagonista e basta...
Rebecca è più di questo.
Il titolo del capitolo è preso da una
strofa di “Mezz'ora” degli Zero Assoluto e
modificato da me,
cambiando la parola “comunque” con
“ovunque”.
Vi ringrazio
infinitamente per essere arrivati fin qui e per aver letto anche
questo capitolo, invito chiunque a lasciar un commento senza farsi
scrupoli.
Il capitolo è stato betato da Kate che non finirò
mai
di ringraziare. E betato una seconda volta da Pind che ha amorevolmente corretto tutti i miei errori di battitura :)
A presto.
-J
|
Ritorna all'indice
Capitolo 3 *** Bentornata al Sud ***
3.
Bentornata al Sud
Avevo
dimenticato cosa volesse dire dormire tutto il giorno, per cui quando
mi alzai -alle quattro del pomeriggio- ero più rincoglionita
del
solito. Mi trascinai fino in cucina e mi preparai un caffè,
poi
iniziai ad aprire tutti gli sportelli della credenza alla ricerca di
qualcosa di commestibile, ma presto constatai che non c'era niente
che potesse riempire il mio stomaco; sbuffai e tornai in camera a
recuperare l'Iphone, quando lo sbloccai mi resi conto di avere sette
chiamate perse ed un messaggio: due erano le chiamate di Carlotta,
una di Elisa, una di David e tre di Francesca che, tra l'altro, era
anche il mittente del messaggio dove mi chiedeva se fossi morta.
Chiamai subito Francesca e ci accordammo per vederci due ore
dopo, così mi avrebbe accompagnato a fare la spesa, andai ad
accendere i termosifoni e poi mi defilai in bagno per farmi una
doccia veloce; quando uscii corsi a vestirmi prima di sfiorare
l'ibernazione, mi accesi la prima sigaretta del giorno e decisi di
chiamare Carlotta.
«Hai visto Marco?» mi chiese senza darmi
neanche il tempo di salutarla o di chiederle come se la passasse;
sospirai scuotendo la testa con rassegnazione e mi apprestai a
risponderle con un si. «E che ti ha detto?»
domandò ancora
lei.
«Anche io sto bene amore, grazie per avermelo
chiesto» le
dissi sarcastica.
«Sarebbe stata la mia prossima domanda, te lo
giuro» ridacchiò Carlotta, «e, per la
cronaca, le due cose erano
collegate... tutto dipende da quello che ti ha detto lui»
aggiunse
saccente.
«Sicuramente!» asserii io, «comunque
sia... siamo
andati al locale di un nostro amico, perché i ragazzi mi
avevano
invitata e...»
«Siete usciti insieme?!» urlò Carlotta
perforandomi un timpano, «quando me lo volevi dire, tra due
anni?!»
strillò di nuovo e fui costretta ad allontanare l'iphone
dall'orecchio per evitare di perdere del tutto l'udito.
«Magari
se mi fai finire...» sbuffai, «mi è
venuto a prendere a casa, non
so per quale motivo. Siamo stati tutti insieme in questo locale, poi
è venuta una vecchia conoscenza che, a quanto ho capito,
è la sua
amica di letto, ma lui l'ha cacciata...» e calcai la voce
sulle
ultime parole provando uno strano senso di beatitudine, «poi
siamo
tornati a casa e lui mi ha detto che, quando ne avrò voglia,
dovrò
spiegargli perché sono così acida con lui;
fine»
«Ok, è
pazzo. Sei stata con un pazzo, l'abbiamo appurato!» disse
Carlotta e
dal torno di voce mi sembrava abbastanza sconvolta; «quindi
è
fidanzato con quella tizia?» mi chiese poi.
«No!» risposi
subito con troppa enfasi, «se la porta a letto e finisce
li... a
quanto ho capito lei gli sbava dietro, ma lui oltre la scopata
abituale non va» le spiegai sospirando come se, alla fine,
ero
felice di quella situazione; e a distanza di settimane capii che lo
ero, al contrario della mia amica che lo capì subito.
«Quindi
rivederlo non è stato così brutto... potreste
andare d'accordo di
nuovo...» ipotizzò, e me la immaginai mentre
ridacchiava.
«Non
lo so tesoro mio, non lo so. So che non voglio tornare con lui,
questo è poco ma sicuro. Non posso stare, a ventiquattro
anni, con
una persona celebrolesa!» scherzai, e mentre Carlotta rideva
io
sentii il mio stomaco ruggire segno che non potevo più
ignorare la
fame, così mentre ero ancora al telefono presi la borsa e
scesi a
casa dei miei, pronta a mangiare la prima cosa che avrei trovato.
«Ma
tu con quello ci sei uscita di nuovo?» chiesi a Carlotta
mentre
aprivo il frigo e con gioia adocchiavo un budino al
caramello.
«Guarda, lasciamo perdere... un cretino!»
sbuffò
lei, «la galanteria della prima sera si è
trasformata nell'enorme
voglia di entrarmi nelle mutande»
«Amore... vogliono sempre
entrarci nelle mutande!» risi mentre divoravo quella
squisitezza,
«ragionano con quello che hanno in mezzo alle gambe, sono
uomini...
non c'entra niente nemmeno l'orientamento sessuale, vedi David; il
loro scopo è sempre quello: scopare!» gracchiai
infilando con
cattiveria il cucchiaino nel budino.
«Si ma non te la prendere
con quel povero dolce, non ti ha fatto nulla» rise una voce
dietro
di me, alzai gli occhi al cielo sbuffando, ma infondo mi aveva
avvertita che sarebbe stato in giro per casa.
«Uh, salutami tuo
padre!» disse Carlotta sentendo quella voce maschile.
«Non è
mio padre» risposi con un altro sonoro sbuffo, Marco si
sedette
davanti a me e si accese una sigaretta continuando a fissarmi, sapeva
che una delle cose che mi dava più fastidio era quando una
persona
mi fissava e lui lo faceva, ne ero certa, per puro gusto di
provocarmi.
«Dicevamo... quindi nessun terzo appuntamento?»
cercai di ignorarlo tornando a parlare con la mia amica, ma la
sensazione di sentirmi i suoi occhi addosso mi rendeva irrequieta,
quindi presi a giocherellare con le unghie, battendole sul
tavolo.
«No, ne ha avuto uno e mezzo» rispose Carlotta
sbrigativa, «ma se non era tuo padre, chi era?» mi
chiese con
troppa curiosità.
«Nessuno Carlotta, nessuno!»
«Oddio!
Oddio! Marco è a casa tua! Lo sapevo, stronza!»
riprese a gridare e
dovetti di nuovo allontanare l'iphone dall'orecchio, ma questa volta
urlò talmente forte che perfino Marco la sentì.
«No, sono a
casa dei miei» mi affrettai a dire, «comunque ora
ti devo lasciare,
se non mi sbrigo ad andare a fare la spesa è la
fine!» aggiunsi,
«ci sentiamo domani, un bacio. Ciao.» dissi prima
di attaccarle in
telefono in faccia mentre continuava a protestare; Marco continuava a
guardarmi imperterrito, poi tentò di offrirmi una sigaretta,
ma io
scossi la testa sfilandone una dal mio pacchetto.
«Mio padre?»
gli chiesi alzandomi dalla sedia e sistemandomi la tuta decisa a non
rimanere altri cinque minuti sotto il suo occhio critico.
«E'
andato a comprare la vernice» scrollò le spalle
lui, «e tua madre
è sotto con tua cugina» aggiunse.
«Ok, è stato un piacere; ci
vediamo domani sera» tagliai corto prendendo la borsa,
«ah, e non
c'è bisogno che mi passi a prendere!» aggiunsi con
il sorriso più
odioso che potessi fare sperando di far nascere in lui qualche punta
d'odio nei miei confronti, ma fu il sorriso che fece lui a far
accrescere in me quello che, in un primo momento, pensai fosse odio.
Me ne andai sbattendo la porta. Mi stavo comportando come una
ragazzina mandando all'aria tutto ciò che avevo sopportato
negli
anni prima, era come se le lacrime che avevo speso per lui non mi
avessero insegnato nulla: lui mi faceva annullare, da sempre; per lui
avevo messo da parte orgoglio e testardaggine, avevo sopportato cose
che non avrei mai pensato di poter sopportare, non tornavo a casa
più
tardi dell'una di notte, limitavo le uscite in discoteca e mi ero
imbarcata in una relazione a distanza solo perché lo amavo
così
tanto da accontentarmi di vederlo due volte al mese, ma quando venne
il momento di abbandonarmi senza un reale motivo fu come se tutto
quello che avevo fatto per lui -per noi- non era servito a niente,
forse era questo il motivo per cui pensavo di odiarlo,
perché non
trovavo una spiegazione logica al suo abbandono, niente di
plausibile; ed ancora oggi quando non sento qualcuno per più
di due
ore vivo nell'incubo di essere rimasta sola, di nuovo.
Il
centro commerciale appena fuori il paese non era niente in confronto
a quelli che potevi trovare in ogni angolo della capitale, ma era
proprio il suo essere così raro che lo rendeva speciale ai
miei
occhi. Avevo passato lì dentro ogni giorno di pioggia
estiva, quando
gli acquazzoni arrivavano all'improvviso e noi dalla spiaggia ci
spostavamo lì, con i piedi ancora sporchi di sabbia.
«Allora?»
chiesi a Francesca mentre spingevo il carrello tra la corsia dei
detersivi.
«Allora tu... come va la vita a Roma?» mi
domandò di
rimando lei cercando di spostare il discorso su di me.
«La solita
vita: lavoro, qualche serata, casa...» scrollai le spalle,
«ma non
sono io quella che ieri sera è tornata a casa con l'amore
della sua
adolescenza» le dissi dandole una leggera spinta.
«Ah no?» rise
lei, «mi sembra che eri in macchina con Marco, o
sbaglio?» aggiunse
schioccando la lingua, io alzai gli occhi al cielo e scossi la testa.
«Non è...» provai a dire, ma lasciai
perdere, era inutile negare
il fatto che fosse l'amore della mia adolescenza, «Marco
è un
coglione» mi limitai a dire con uno sbuffo.
«Sì, ma resta
comunque l'amore della tua vita» osservò
Francesca, «l'ammorbidente
lo prendo piccolo?» mi chiese poi fermandosi davanti uno
scaffale.
«Sì, piccolo» annuii, «non
è l'amore della mia
vita, solo della mia adolescenza» specificai.
«Certo, certo»
ridacchiò, «ed io non ho un fratello
più piccolo»
«Sul serio
Frà, non sei simpatica» sbuffai continuando a
camminare, «e poi i
nostri discorsi dovevano essere incentrati tutti su di te e Stefano,
non mi smontare i piani!» protestai mettendo una cassa
d'acqua nel
carrello.
«Non c'è niente da dire... Francesco doveva
accompagnare Matteo a casa ed io ero stanca morta, così ha
chiesto a
Stefano di riportarmi; fine della storia» mormorò
guardandosi la
punta delle scarpe.
«Capisci anche tu che il discorso non rende?»
le chiesi poggiandole una mano sulla spalla, «santa pace
Frà,
poteva portarlo a casa Stefano, Matteo...»
«Sì, ma Francesco
gliel'ha detto per primo» m'interruppe cercando di
giustificare quel
comportamento.
«Ho capito, ma Stefano gli poteva dire "no
Frà, vai tranquillo a casa con tua sorella, ci penso io a
Matteo."
visto che, tra l'altro, casa sua gli era pure di strada»
provai a
farla ragionare come facevo in passato, ma Francesca era più
testarda di suo fratello, e, soprattutto quando si trattava di
Stefano, si ostinava a non credere in se stessa.
«Magari l'ha
fatto per gentilezza, figurati!» disse facendo un gesto della
mano.
«Sì certo e gli asini volano, ma falla
finita!» risi
dandole una pacca sulla schiena, «Stefano ha sempre avuto un
debole
per te, e non ha mai fatto nulla per paura di qualcosa... ancora non
so cosa, ma lo scoprirò» le spiegai serafica,
«ora andiamo a
pagare tutta questa roba e poi andiamo a mangiare qualcosa di
ipocalorico al Mc Donalds!» ordinai, lei scosse la testa e
rise
abbracciandomi. «E' bello riaverti qui!» mi
sussurrò all'orecchio
facendomi quasi commuovere; ci sbrigammo a caricare la spesa nelle
buste e le andammo a mettere in macchina, mentre metteva l'ultimo
sacchetto sul sedile Francesca mi chiese: «Ma quanto tempo
hai
intenzione di rimanere?»
Quella domanda mi spiazzò, diedi una
rapida occhiata ai sacchetti accatastati nella mia auto e mi resi
conto che quella non era una spesa fatta da qualcuno che voleva
trattenersi solo una manciata di giorni, al contrario era una spesa
di chi voleva restare; un brivido mi percorse la schiena, che il mio
inconscio avesse espresso il desiderio di rimanere a tempo
indeterminato lì?
«Non lo so» ammisi sbuffando e chiusi forse
con troppa forza la portiera della macchina, «non lo
so» ripetei
sull'orlo di una crisi di pianto. Mi poggiai con la schiena sull'auto
e mi accesi una sigaretta, «il piano era di rimanere quattro,
sette
giorni al massimo...» mormorai a testa bassa.
«Ma adesso non ce
la fai a lasciare tutto e tornare nell'altra tua vita»
concluse
Francesca guardandomi con apprensione; odiavo quando mi dicevano che
avevo due vite, ma era vero: c'era la Rebecca di Roma, quella solare,
che passava le serate in discoteca ad ubriacarsi e divertirsi con i
suoi amici e che non voleva legarsi a nessun ragazzo, e poi c'era la
Rebecca della Calabria, quella romantica, quella che si divertiva
anche con poco, quella che amava e che era disposta a sacrificare
tutta se stessa per amore; purtroppo queste due realtà erano
parallele e si erano incrociate solo un paio di volte con risultati
disastrosi.
«Forse è così...» risposi
facendo un altro tiro di
nicotina, «seriamente Frà, non lo so...»
«C'entra mio
cugino...»
«No! Oppure sì... non ne ho idea. Sapevo che
l'avrei
rivisto, e per il momento sto bene; però ci sono attimi in
cui
rivivo tutta la nostra storia, i ricordi riaffiorano nella mia mente
e sento un calore famigliare dentro di me» feci un respiro
profondo,
«quando lo ricordo a Roma sono cupa per le seguenti tre ore,
mentre
invece se ricordo qui mi sento felice,
perché?» le chiesi
con gli occhi lucidi, lei mi guardò negli occhi e
sospirò.
«Non
lo so tesoro, forse perché quando stai qui rivivi al massimo
i
ricordi visto che è qui che è successo
tutto...» ipotizzò lei, ma
vide che le sue parole, che erano lo specchio della realtà,
non
fecero che dare una spinta a quelle lacrime così
cercò di tirarmi
su di morale, «e comunque io pensavo che mi rispondessi "no
Marco non c'entra, voglio rimanere qui per sempre perché ci
sei tu
unico amore della mia vita!" ma come al solito non conto un
cazzo» gracchiò, e scoppiai a ridere
così forte che due vecchiette
si girarono per guardarmi male.
«Sicuramente è per questo!» le
dissi abbracciandola, «ed ora cibo, o tra cinque minuti
sarò morta
di fame» aggiunsi trascinandola dentro il fast food.
C'era
una strana maledizione che mi impediva di essere puntuale,
più
crescevo e più me ne rendevo conto: ogni volta che credevo
di essere
in orario o addirittura in anticipo succedeva qualcosa che ribaltava
totalmente la situazione; quella sera non trovavo gli orecchini e
dopo averli cercati in largo e lungo mi resi conto di averli lasciati
sul tavolinetto del salone.
Scesi le scale a due a due,
infilandomi il cappotto e arrotolandomi la sciarpa al collo, mi misi
la borsa in spalla ed entrai a casa dei miei per fare un saluto
generale: «E' tardi. Ci vediamo domani mattina. Vi voglio
bene.
Ciao», dissi rubando una fetta di pane dal tavolo.
«Vai piano!»
sentii mia madre urlare prima di chiudere con troppa foga il
portoncino bianco della palazzina di famiglia; quando scesi in strada
per poco non mi sfracellai contro l'asfalto.
«Era ora!» gridò
Marco poggiato alla sua Jeep, lo guardai sospirando, per quanto
volessi fare la sostenuta non riusci fare a meno di sorridere sotto i
baffi: se ne stava a braccia conserte, con un giubbotto bianco ed un
sorrisetto sulle labbra: era bello da mozzare il fiato; mi ripresi e
scossi la testa, «quale parte di "non mi venire a prendere"
non ti è chiara?» gli chiesi storcendo le labbra
in una
smorfia.
«Quella dove ti ascolto» mi rispose lui, serafico.
Alzai gli occhi al cielo dandomi della stupida per aver pensato che,
almeno una volta, avrebbe eseguito un mio ordine. Marco doveva fare
di testa sua, sempre; era uno dei tratti che avevamo in comune, ma
che io sopprimevo quando stavo con lui per evitare inutili
spargimenti di sangue.
«Potevi almeno entrare invece di stare qui
fuori come un cretino» borbottai aprendo lo sportello della
sua
macchina, lui mi guardò stupito, sicuramente non si
aspettava che
cedessi subito, ma alla fine non aveva senso discutere e ritardare
ulteriormente, senza contare che se avesse guidato lui io avrei
potuto bere qualche bicchiere di vino in più.
«Credo che Marina
non ami molto la mia presenza quando in casa ci sei anche tu»
mi
rispose stringendosi nelle spalle, io ridacchiai mentre addentavo il
pezzo di pane che avevo preso in casa, «e ci
credo». Gli dissi dopo
aver ingoiato.
«Cos'hai fatto oggi?» mi domandò
guardandomi con
la coda dell'occhio.
«Ho dormito fino a tardi e poi ho aiutato
Yasmine con i compiti di storia»
«Quando tornano a
Torino?»
«Credo domenica; zio voleva trovare qualche offerta con
l'aereo» risposi certa che poi sarebbe arrivata la stessa
domanda
rivolta a me, invece rimase in silenzio, arricciò le labbra
ma poi
non disse nulla.
«Tu cos'hai fatto?» gli chiesi gentilmente, non
so perché addolcii la voce, ma quelle brevi chiacchierate mi
ricordavano com'eravamo un tempo e com'era bello parlare con lui, ed
i ricordi erano talmente dolci che mi ci aggrappavo sperando -a
tratti- di recuperare almeno un minimo di quello che avevamo.
«Niente, sono stato a casa tutta la mattina e poi sono andato
a
pranzo da mia sorella»
«Come sta?»
«Bene» mi sorrise,
«anche il piccolino» aggiunse prevedendo la mia
domanda
successiva.
«Piccolino... ora avrà quanto, cinque
anni?»
sorrisi ricordandomi quando ci portavamo in giro con noi mia cugina e
suo nipote che mi chiamava zia e voleva stare solo in braccio a me
,mentre lui teneva per mano Yasmine, e in quei momenti sembravamo
quasi una famiglia allargata, quella famiglia che io ero sempre stata
restia a volere fino a quando non conobbi lui.
«Quattro»
«Dio,
come passa il tempo» sospirai, «Yasmine ne ha
compiuti sette
quest'anno»
«E' bellissima» mormorò Marco,
«somiglia molto a
tua nonna» disse sorridendomi appena.
«Già, anche delle
espressioni...» risposi sorridendogli di rimando, rimanemmo
in
silenzio per tutto il resto del viaggio, di sottecchi lo osservavo
mentre guidava e neanche mi degnavo di abbassare lo sguardo quando
lui mi guardava con la coda dell'occhio. Non provavo vergogna
perché
osservarlo era sempre stato uno dei miei passatempi preferiti; lo
osservavo da sempre, mentre scherzava, mentre giocava a carte, lo
osservavo cambiare quando parlava con qualcuno che non faceva parte
della nostra cerchia di amici, ammiravo quel sorriso che mi regalava
quando si accorgeva dei miei occhi su di lui, ammiravo ogni suo
gesto, soprattutto quelli più piccoli e intimi che rivolgeva
solo a
me.
Arrivammo nella pizza del paese con un quarto d'ora di
ritardo, nessuno sembrò stupito di vedermi scendere dalla
Jeep di
Marco, neanche Francesca che -invece- rideva sotto i baffi,
assottigliai lo sguardo e lei mi strizzò l'occhio, sbuffai
in segno
di arresa; Vincent aveva prenotato in un ristorante di pesce, qualche
paesino più in la, così ci avviammo subito con le
macchine,
stremati dalla fame.
«Ma sbaglio, o Francesco non c'era?»
chiesi a Marco arricciando le labbra.
«Ha la febbre» mi rispose
lui, poi accese lo schermo digitale e la musica della radio si
espanse per tutto l'abitacolo.
«Insomma ti tratti bene eh» dissi
sarcastica facendolo ridere, poi presi a pigiare a caso sui tasti
fino a che non trovai il menù dei CD, scelsi a caso ed
iniziarono le
note di una famosa canzone dance, sorrisi pensando a quanto Marco e
David sarebbero andati d'accordo musicalmente parlando e in quel
momento mi ricordai che non chiamavo il mio migliore amico da due
giorni; imprecai a denti stretti, presi l'iphone e lo chiamai,
pregando che non rifiutasse la chiamata.
«Amore della mia vita
perdonami!» urlai al telefono dopo aver sentito la sua voce.
«No
grazie, non mi serve il forno nuovo» rispose lui sarcastico,
«magari
il set di coltelli sì... sa, dovrei uccidere una rossa
malefica!»
«Lo
so, chiedo venia; ma sono stata occupata»
«A fare le porcate con
quel coglione di Marco?»
«Cosa? No! Questa è Carlotta che come
al solito non capisce un cazzo!» gracchiai sbuffando, Marco
mi
guardò alzando un sopracciglio ed io sorrisi imbarazzata;
«non c'è
stato niente e non ci sarà, credo» ripresi,
cercando di essere
criptica il più possibile; l'ultima cosa che volevo era che
Marco
capisse di essere il soggetto della conversazione.
«Ed ora dove
sei?» mi domandò.
«In macchina, sto andando a cena fuori»
«Ed
hai gli auricolari? Il viva-voce?»
«No... smettila di fare il
cretino!» sbuffai per l'ennesima volta, «sto
gestendo il lavoro con
estrema ansia, non ti ci mettere anche tu» gli dissi.
«Ho
capito, ti sei fottuta di nuovo» arrivò alla sua
conclusione, io
deglutii sonoramente e il mio sguardo volò subito su Marco;
non
avevo l'impressione di essermi fottuta, ma non
potevo negare
che l'astio che avevo avuto il primo giorno nei suoi riguardi ora si
stava lentamente rimpicciolendo; «no...» mormorai
balbettando, non
capivo se quella risposta la stavo dando a lui, o stavo solo cercando
un modo per auto-convincermi.
«Va bene; quando torni?»
«Non
lo so» risposi con un groppo alla gola perché
sapevo che quella era
la famosa goccia che avrebbe fatto traboccare il vaso.
«Ok
Rebecca, ci sentiamo quando decidi di riprendere in mano la tua
vita», me lo disse con il suo solito tono tranquillo e con la
consapevolezza che quella patina di pacatezza mi avrebbe fatto
scoppiare.
«Falla finita!» berciai, «non puoi
giudicarmi
proprio tu!» aggiunsi fregandomene di non essere sola in
macchina.
«Invece sì, sono l'unico che può farlo,
perché sono
l'unico che ti conosce veramente a fondo. Sono l'unico che sa il vero
motivo per cui tua madre non voleva, e non vuole, questa relazione...
e a proposito, che dice di queste uscite?»
«Smettila di farmi
sentire una merda!» gli risposi con gli occhi lucidi.
«Ora devo
andare, ci sentiamo.»
«Aspetta...» dissi, ma aveva già
attaccato; presi una sigaretta e me l'accesi, senza neanche chiedere
se in quella dannatissima macchina si potesse fumare. Aprii un poco
il finestrino e lasciai che il vento mi scompigliasse i capelli, una
sola lacrima uscì dai miei occhi e decisi di reprimere le
altre
perché piangere per una litigata del genere era da sciocchi,
perché
non volevo che Marco iniziasse a fare domande, o peggio, mi
consolasse; non ero ancora pronta a riabbracciare
quell'intimità, a
spogliarmi nuovamente del mio orgoglio.
«Tutto bene?» si limitò
a chiedere, io annuii abbozzando un sorriso e finii la mia sigaretta
rimanendo in silenzio per i restanti venti minuti di viaggio.
In
Calabria come in tutto il sud Italia ogni cosa era abbondante, a
partire dai pasti, ed io avevo dimenticato cosa volesse dire andare a
mangiare in un ristorante e alzarsi dal tavolo con, minimo, una
taglia in più; non era una questione di quanti piatti si
erano
ordinati, il segreto stava nella quantità di cibo in ogni
piatto. Se
al nord un normale primo di ravioli consisteva in quindici ravioli
sparpagliati nel piatto, qui i ravioli erano non meno di venticinque,
conditi da sughi ipocalorici che dopo ti invogliavano, per forza, a
fare la tradizionale scarpetta con il pane.
«Sto scoppiando»
reclamai dopo aver bevuto il secondo bicchiere di amaro, «non
riesco
più neanche a mandare giù un bicchiere
d'acqua» aggiunsi
teatralmente.
«Ma l'amaro scende che è una meraviglia,
vero?»
mi prese in giro Matteo, «però ancora non hai
assaggiato questo
alla liquirizia, è divino!» aggiunse versando in
un bicchierino un
liquido nero, denso.
«Oddio basta» dissi di nuovo, facendo
ridere Francesca seduta al mio fianco; Matteo mi porse il bicchiere
ed io lo squadrai per bene con una smorfia contrariata sul viso.
«Non
ti costringe nessuno a berlo...» brontolò Marco,
ebbi la sensazione
di trovarmi nuovamente indietro nel tempo, quando anche bere una
birra era diventato un motivo per litigare; lui non aveva mai visto
di buon occhio il fatto che io bevessi di tanto in tanto, forse anche
perché la prima volta che ci lasciammo la colpa fu proprio
dell'alcool che io avevo in corpo.
«Chiamala curiosità» gli
risposi schioccando la lingua prima di bere tutto d'un sorso quel
liquore amarognolo ed un brivido mi percorse la schiena. Marco mi
guardò scuotendo la testa, aveva capito che avevo preso le
sue
parole come una sfida al mio orgoglio così io lo guardai con
un
sorrisetto di vittoria stampato sulle labbra, lui per tutta risposta
si alzò dal tavolo ed andò a fumare una sigaretta.
«Dopo che
vogliamo fare?» ci chiese Vincent guardandolo allontanarsi
dal
tavolo, alzammo tutti le spalle e lui propose di andare all'Havana e
starcene un po' per conto nostro.
«Col cavolo!» berciò
Francesca, «per favore, almeno oggi che è chiuso
evitiamo quel
posto» aggiunse con un broncio, Stefano ridacchiò
accarezzandole
una guancia, lei mi lanciò uno sguardo ed io le feci
l'occhiolino.
«Dai, ci divertiremo» le disse Vincent provando ad
incoraggiarla, «sennò potremmo andare al
bowling» aggiunse
pensieroso.
«C'è anche la pista di pattinaggio sul ghiaccio
qui»
disse Matteo scrollando le spalle.
«Ogni tanto il tuo cervello mi
stupisce, sul serio» gli disse Stefano beccandosi,
però, un sonoro
vaffanculo da Matteo; aspettammo il rientro di Marco e poi i ragazzi
pagarono il conto, pronti a dirigersi verso la pista di pattinaggio
dove si prevedevano un milione di figure di merda.
Quando
arrivammo alla pista la trovammo piena, così ci sedemmo
sulle
panchine sotto i gazebo riscaldati e cercammo di passare il tempo
iniziando a cazzeggiare come facevamo da sempre. Marco armeggiava con
il cellulare ed io avevo voglia di strapparglielo dalle mani e vedere
chi fosse il mittente di tutti quei messaggi che gli arrivano e di
dirgli che non era molto educato isolarsi con il cellulare in quel
modo quando si era in compagnia; forse stanco dei miei continui
sbuffi ci pensò zio Vincent a dirgli qualcosa, «ma
non ce l'ha il
silenzioso quel coso?» gli chiese.
«Sì, ma tanto ho finito»
rispose Marco mettendo il cellulare nella tasca interna del
giubbotto, «tra quanto entrate in pista?»
«Tu non vieni?»
gracchiò Francesca, «non puoi non
venire!» lo additò
sbuffando.
«Non mi va» disse semplicemente lui scrollando le
spalle, «poi forse ho da fare» aggiunse, io
aggrottai le
sopracciglia guardandomi la punta delle scarpe, reprimendo l'istinto
di chiedergli cosa diamine avesse da fare, ma poi pensai che forse
quello era collegato ai continui messaggini così mi prese il
panico
e sentii lo stomaco attorcigliarsi su se stesso.
«Madonna, sei
triste!» affermò Matteo dandogli una pacca sulla
spalla, lui rise e
i due continuarono a battibeccare per altri dieci minuti buoni;
cercai di distrarmi chiacchierando con Vincent e Stefano e Francesca,
ma era impossibile scacciare del tutto quel senso di paura che avevo,
non ci riuscii neanche quando entrai in pista con i pattini ai
piedi.
«Frà, vieni qui!»
«No tranquilla, è bello girare
per il bordo» mi rispose lei restando aggrappata alla sbarra,
io
risi e la raggiunsi urtandola un po' durante la frenata, «ma
sei
scema?» urlò spalancando gli occhi.
«Esagerata!» risposi,
«visto che stai li senza fare niente, prendi la macchina
fotografica
nella mia borsa e renditi utile!» dissi rivolgendomi a Marco,
lui mi
sorrise e fece quello che gli avevo detto; chiamai il resto dei
ragazzi e ci sistemammo per farci fare qualche foto di gruppo, poi
quando ebbe finito mi bastò uno sguardo di intesa con
Stefano ed
entrambi prendemmo Francesca e la trascinammo con noi al centro della
pista.
«Lasciatemi!» urlò lei agitandosi e, se
non fosse stato
per i riflessi di Stefano sarebbe finita sicuramente a terra,
«Vincent, aiuto!» gracchiò, ma lui non
se la filò continuando a
pattinarci intorno insieme a Matteo; dopo qualche minuto si
assestò
ed io abbandonai la presa sul suo braccio lasciandola stretta a
Stefano.
«Dici che prima o poi si sveglieranno?» mi
domandò
Matteo una volta che mi avvicinai a loro.
«Sono cinque anni che
ci spero!» sbuffai, «o questa volta si svegliano
loro, oppure li
svegliamo noi a suon di testate» aggiunsi annuendo, Vincent
scoppiò
a ridere e disse che avremmo fatto in modo di svegliare la bella
addormentata; dopo un altro paio di giri io e Francesca decidemmo di
uscire dalla pista, stanche ed infreddolite camminavamo come due
pinguini verso il gazebo dove eravamo prima pronte a toglierci quei
pattini e rimetterci nuovamente le nostre scarpe asciutte.
«Dillo
che la tua era tutta una scusa per stare attaccata a
Stefano!» le
sussurrai, lei diventò rossa e iniziò a
balbettare che non era
vero, «sto scherzando, cretina» la rassicurai
ridacchiando, ma dopo
un po' le risate mi morirono in gola e mi sentii mancare il
respiro.
«Che ci fa lei qui?!» berciò Francesca
tenendomi per
un braccio.
«Non lo so, non mi interessa» balbettai continuando
a camminare sorridente, arrivate alla meta salutammo Carmen e altre
due ragazze che non conoscevo, poi mi sedetti per sfilarmi i pattini
e per poco non rischiai di tagliarmi la mano; mi dissi che dovevo
stare calma, che non c'era motivo di agitarmi in quel modo, ma
più
tentavo di auto-convincermi e più la situazione mi sfuggiva
dalle
mani.
Poco dopo arrivarono anche i ragazzi che guardarono le nuove
arrivate con perplessità, soprattutto Matteo che
parlò a nome di
tutti noi: «Come mai dai queste parti?» chiese, ma
nessuna delle
ragazze rispose e Carmen guardò Marco che si alzò
dalla panca e mi
porse la digitale.
«La potete riaccompagnare voi a casa?»
domandò poi rivolgendosi ai nostri amici, io sgranai gli
occhi dalla
sorpresa soprattutto quando vedi un ghigno disegnarsi sul viso di
Carmen.
«Sì non c'è problema» rispose
Vincent guardandomi con
la coda dell'occhio.
«Ho dimenticato le chiavi in macchina tua»
dissi di getto per poi pentirmi subito di quella frase, Marco mi
guardò con un sopracciglio alzato ed io entrai nel panico,
«sì...
non le avevo messe in borsa» tentai di spiegare e per fortuna
la mia
fantasia era enorme, «poi quando ero al telefono mi sono
cadute a
terra e mi son scordata di prenderle» conclusi annuendo con
enfasi,
come se il movimento della testa potesse convincere tutti delle mie
parole.
«Va bene...» sospirò Marco,
«allora quando state per
andarvene chiamatemi» ci disse, poi si allontanò
seguito da Carmen
che tentò con poco successo di prendergli la mano.
Distolsi lo
sguardo dai due, adirata con lui e soprattutto con me stessa; sarebbe
stato meglio se mi fossi fatta gli affari miei senza inventarmi
quella balla terribile sulle chiavi, invece adesso mi toccava stare
con l'ansia perpetua di dover salire su quella Jeep dove, magari
proprio in quel momento, stavano succedendo cose
indicibili.
«Tieni...» mi sussurrò Matteo porgendomi
una
sigaretta, «fuma e non lamentarti!» aggiunse
strizzandomi l'occhio,
io gli sorrisi e poggiai per un momento la testa sulle sue
spalle.
«Ti pare che dobbiamo aspettare i suoi porci
comodi!?»
sbuffò Francesca sedendosi, «che
cazzone!»
«Lasciate perdere,
lo sapete com'è fatto» scrollò le
spalle Vincent, «lamentarsi non
servirà a niente, come non servirà
incazzarsi» aggiunse serafico
mentre si sedeva al mio fianco, «sappiamo tutti che
è un coglione,
ma alla fine gli vogliamo bene»
«Un bene dell'anima»
specificai sarcastica, Stefano rise e propose un altro giro in pista,
accettarono tutti tranne io che avevo bisogno di un po' di tempo
tutto per me; anche Vincent rimase seduto, gli sorrisi e lui mi
poggiò una mano sulla spalla, «cerca di non
pensarci», mi disse,
«anche se so quant'è difficile...»
«Con te posso essere
sincera: non so cosa mi stia passando per la testa, sul
serio»
sbuffai, «un minuto mi manca, l'altro lo vorrei ammazzare e
quello
dopo sento il bisogno di un suo abbraccio» proseguii,
«pensavo di
averla superata... pensavo di odiarlo fino al punto che rivederlo non
mi avrebbe fatto più ne caldo e ne freddo...»
«Rebecca, è
stato il tuo primo grande amore, ti avrebbe fatto, in ogni caso, uno
strano effetto» mi disse lui, guardandomi con apprensione,
«ora
devi solo fare luce dentro di te, continuando a vivere la tua
vita»
«Lui la sua se la vive bene» borbottai facendo un
ultimo
tiro dalla sigaretta, «come al solito quella con i pensieri
sono
io!»
«Lo sai meglio di tutti com'è fatto... vive alla
giornata,
ma credimi se ti dico che i pensieri ce li ha, soprattutto
ultimamente...» disse Vincent alzandosi, mi diede un bacio
sui
capelli e raggiunse gli altri in pista lasciandomi sola a riflettere
sulle sue parole; in quel momento capii finalmente che per far luce
dentro di me dovevo rimanere lì, stare di nuovo a stretto
contatto
con quella realtà era l'unico modo per capire se ne volessi
fare
ancora parte.
In
macchina tutto taceva. Il rombo del motore della Jeep era l'unico
fastidioso rumore di fondo, neanche una mosca si sarebbe permessa di
rovinare quel silenzio quasi religioso; Marco amava la
velocità,
però quando ero in macchina con lui superava raramente i
novanta
chilometri orari, ma quella volta la sua guida era più lenta
del
solito e quel viaggio di ritorno sembrava dovesse durare per
sempre.
«Vi siete divertiti?» mi chiese Marco facendomi
sobbalzare.
«Sì»
risposi sospirando, «tu?» gli domandai di rimando,
ma si limitò ad
alzare le spalle e ad annuire un poco col capo; sbuffai e mi sfregai
le mani, infreddolita, anche se i riscaldamenti erano al massimo
sentivo un aura di gelo che mi avvolgeva il corpo, mi penetrava nella
pelle intaccando le ossa.
«Tieni» Marco aveva preso la sua
giacca dai sedili posteriori e me l'aveva poggiata sulle gambe, lo
ringraziai e me la misi sul petto a mo' di coperta, fu un attimo e il
suo profumo si insinuò prepotentemente nelle mie narici,
risvegliò
i ricordi più intimi facendomi arrossire.
«Che c'è?» mi chiese
lui che forse si era accorto della sfumatura rossa che avevano
acquistato le mie gote.
«Niente» mi affrettai a rispondere, poi
poggiai la testa sul vetro e rimasi in silenzio, fino a casa,
continuandomi a beare di quel profumo che avevo dimenticato essere
così buono.
***
Note
Finali:
Mi
scuso per il ritardo, ma in questi giorni mi sono presa un momento di
pausa per me e proprio non avevo voglia di postare.
Spero che con
questo capitolo possiate iniziare a capire qualcosa dell'intricata
storia Rebecca/Marco, e spero che avrete voglia di andare fino in
fondo. Ovviamente se c'è qualcosa di poco chiaro potete
tranquillamente chiedere.
Ringrazio chi si è fermato a leggere i
due capitoli precedenti, e Kate che come al solito mi ha betato il
capitolo.
A presto.
-J
|
Ritorna all'indice
Capitolo 4 *** Vecchie incomprensioni ***
4.
Vecchie incomprensioni
Non
ero mai stata una di quelle ragazze con il perpetuo bisogno di avere
una persona al proprio fianco. Ero sempre stata sentimentalmente
solitaria, era l'idea di perdere quella mia libertà
personale a
spaventarmi, e fu così fino a quando non incontrai Marco.
Non aveva
niente di speciale rispetto agli altri che erano venuti prima di lui,
anzi era un buzzurro di prima categoria con una mentalità
ristretta
e vari problemi giuridici alle spalle, e ancora non so spiegare
perché gli diedi una possibilità. Forse mi
avevano convinto i suoi
occhioni, quell'unica parte di lui che parlava anche quando Marco non
voleva, quei due fanali color cioccolato così dolci che era
impossibile resistergli.
Quando lo conobbi, come da manuale, non
lo sopportavo. Lo vedevo come l'accalappiacani cattivo che, con i suo i
messaggi da diabete e l'eccessivo interessamento, voleva
mettere in gabbia la mia libertà, ma poi mi attaccai proprio
a
quelle cose; quando per mesi mi mancò la figura paterna
Marco e le
sue attenzioni furono l'unica cosa che mi facero andare avanti,
perfino le nostre litigate acquistarono una sfumatura
diversa...
Presi dal mucchio di foto che avevo davanti una che
ritraeva la mia famiglia davanti lo scoppiettante camino di mio
nonno, c'eravamo tutti: c'era mia madre, sorridente forse
perché
dopo due anni di assenza mio padre era li al suo fianco, e c'ero io
con il sorriso più bello che avessi mai avuto
perché ero accanto ai
due uomini della mia vita, e il braccio di Marco che mi cingeva la
vita ne era la prova...
«Nostalgia?»
mi chiese la voce di mio padre appoggiato da chissà quanto
allo
stipite della porta.
«Mmh, un po'» abbozzai un sorriso,
«dovresti averne anche tu... sopra i tuoi capelli c'era
appena un
accenno di bianco» aggiunsi ridacchiando, lui si
avvicinò e mi
strappò la foto dalle mani per poi osservarla.
«Sono comunque un
gran bel pezzo di uomo» mi rispose sedendosi a terra accanto
a me,
«dove lo trovi un altro così!»
continuò, saccente.
«Certo
papà, certo» risposi io, riprendendomi la foto,
«comunque è stato
un bel Natale, quello» sospirai guardando per l'ultima volta
la
fotografia.
«Eravamo tutti insieme» sorrise mio padre, poi mi
guardò negli occhi, sembrava stesse cercando le parole
giuste,
sospirò e sconsolato si accese una sigaretta, «hai
intenzione di
fermarti qui, non è così...» era
un'affermazione, non una domanda;
sospirai ed annuii semplicemente, sentivo che con lui non avevo
bisogno di spiegargli le mille ragioni della mia scelta.
«Fai
attenzione Rebecca, non voglio che tu stia male» mi disse con
fare
apprensivo, lo abbracciai e lui mi strinse forte a se,
«voglio solo
il meglio, e secondo me Marco non è alla tua altezza... ma
alla fine
quello che conta è ciò che tu vuoi, quindi agisci
sempre di testa
tua e ne uscirai vincitrice» mi sussurrò, e
dovetti combattere
duramente per non scoppiare a piangere. E decisi che avrei comunicato
quella mia decisione alle altre persone importanti della mia vita.
Dirlo
a mia madre non fu facile: non aveva mai visto di buon occhio la mia
relazione con Marco e al contrario di mio padre lei non ne faceva
segreto, forse il suo astio era dovuto al fatto che durante le nostre
prime litigate di coppia chiamavo lei in lacrime, chiedendo consiglio
su come evitare l'omicidio di un calabrese visto che lei ne aveva
sposato uno ed era ancora vivo e vegeto; non aveva preso bene la
notizia forse anche per una questione lavorativa, in effetti
lì non
avevo la possibilità di lavorare nel mio settore, neanche
per
qualche televisione locale, ma alla fine, sotto sotto, era felice di
avermi nuovamente in giro per casa.
Neanche dirlo ai miei amici fu
facile. David non mi parlò per giorni e se non fosse stato
per
Carlotta avrebbe continuato a tenermi il muso per sempre, Elisa e
Luca erano come sempre molto apatici al riguardo, per loro tutto era
un vivi e lascia vivere, così mi diedero la loro
benedizione. Quando
sistemai le cose a Roma provai a trovare qualche lavoro, ma sembrava
che nessun negozio avesse bisogno di una commessa, nessun discount di
una cassiera e nessuna famiglia di una baby sitter, poi una sera
parlando con Vincent fui assunta da lui per lavorare al primo piano
dell'Havana, il pub; servivo birre e panini dal lunedì al
giovedì,
non era gran che, ma affiancavo Francesca che rendeva piacevole anche
lavorare fino a tardi, e poi i ragazzi stavano sempre lì...
«Io
vedo...» mormorò Stefano guardando le sue carte;
era un lunedì
sera piovoso e come al solito si stavano giocando la cena, li guardai
sbuffando da dietro il bancone, presa dalla noia mi munii di uno
straccio bagnato e lo passai sul lavello, Francesca mi
guardò
sconsolata, c'erano sere in cui la noia aleggiava tra i muri
dell'Havana e quella sembrava esserne la riproduzione
perfetta.
«Reby!» mi salutò Matteo sedendosi
davanti a me, «una
scura, media» ordinò con un sorriso, ricambiai e
gli riempii il
boccale per poi porgerglielo.
«Già uscito?» gli chiesi
indicando con un cenno del capo il tavolo delle carte.
«Sì, mi
annoiavo» scrollò le spalle lui.
«Non sai perdere!» urlò
Francesco che probabilmente aveva sentito la risposta di
Matteo.
«Senti chi parla!» gracchiò sua sorella,
«appena perdi
una scommessa vai subito a piangere da papà!»
«Non è vero»
si difese lui, «sei tu che bari, stronza!» aggiunse.
«Ehi!» lo
ammonì Stefano assottigliando lo sguardo, Francesca divenne
rossa
come un pomodoro e la vidi guardarmi con la coda degli occhi, io
trattenei a stento una risata, ma Matteo non fece la stessa cosa e
per fortuna contagiò il resto del gruppo; scossi la testa e
continuando a ridere versai un po' di salatini in una ciotola e li
portai, insieme a delle birre, ad un tavolo dove vi era un gruppetto
di ragazzi.
«Grazie»
mi disse gentilmente uno di loro, io gli sorrisi di rimando e iniziai
a mettere i bicchieri vuoti sul vassoio, «tu sei Rebecca,
vero?» mi
chiese lo stesso ragazzo.
«Sì» annuii inarcando un
sopracciglio, «ci conosciamo?» gli chiesi poi,
curiosa.
«No,
no...» si sbrigò a rispondermi, «conosco
Marco» mormorò, io
scrollai le spalle e mi allontanai dal tavolo cercando di non far
cadere il vassoio che avevo riempito troppo; il rumore della porta
che si chiudeva mi fece voltare e questa volta per poco non rischiai
veramente di far cadere un bicchiere a terra alla vista di Carmen
avvinghiata al collo di Marco, il quale, però, vedendomi
cambiò
espressione e scansò subito la mora.
«Che... che ci fai qui?»
mi chiese con una faccia tra lo stupito e lo sconvolto.
«Ci
lavoro» gli risposi seccata mentre ricominciavo ad asciugare
le
stoviglie, sembrò volesse dirmi qualcosa, ma ci
ripensò e si andò
a sedere al tavolo dei ragazzi salutando con un cenno del capo il
tizio con cui pochi minuti prima avevo scambiato qualche parola;
Carmen lo seguì in silenzio, sembrava fosse la sua ombra.
«Io
non la sopporto» sussurrò a denti stretti
Francesca, «potrei
versarle, accidentalmente, del veleno per topi nel
bicchiere?» mi
chiese facendomi ridacchiare.
«Se volete vi do una mano io»
mormorò Matteo, «è peggio di un'oca
giuliva» aggiunse
guardandomi.
«Ragazzi, sul serio: non me ne frega niente»
«Certo,
certo. E tu sei rimasta qui perché ti piace l'aria di
campagna...»
disse Francesca muovendo la mano in aria, «e
perché vorresti
diventare una grande servitrice di drink»
«Falla finita»
sbuffai a testa bassa, «sono rimasta perché mi
sentivo di
rimanere...» continuai, «e perché e non
riuscivo più a dire addio
a Matteo» aggiunsi guardando il mio amico,
«perché io ti amo»
dissi guardandolo negli occhi.
«Ti
amo anche io!» mi rispose lui stando al gioco, mi prese una
mano e
ne baciò il dorso facendo scoppiare a ridere Francesca:
«voi siete
due deficienti!» disse, poi andò al tavolo dai
ragazzi e tolse
tutti i bicchieri vuoti riservando un sorriso speciale a
Stefano.
«Becca!» mi voltai verso Marco e lo guardai
inclinando
la testa, ogni volta che usava quel nomignolo nasceva sempre un
sorriso sul mio volto, era un riflesso incondizionato generato dai
ricordi, «potresti portarmi un bicchierino di
amaro?» mi chiese
gentile, talmente gentile che Carmen lo fulminò con lo
sguardo, ma
lui non le diede importanza; versai il suo amaro preferito in un
bicchiere congelato e glielo portai stando bene attenta a dove
mettevo i piedi, lui mi ringraziò regalandomi un altro
sorriso.
Mi
sentivo stordita da tutta quella cordialità, non ero
più abituata a
quei rari momenti di calma, a quei sorrisi e a quegli sguardi, sapevo
che non sarebbe durata a lungo perché Marco era sempre stato
un tipo
poco prevedibile, capace di farti sentire in paradiso per una
settimana e di portarti giù all'inferno per mesi, ma forse
era
proprio quell'imprevedibilità a renderlo così
bello ai miei occhi;
dopo che Marco mi porse il bicchiere vuoto tornai dietro il bancone e
sistemai le ultime cose, Francesca sparecchiò l'altro tavolo
occupato, io mi apprestai a fare il conto e quando il gruppetto di
ragazzi se ne andò mi tolsi il grembiule verde e andai a
chiudere a
chiave la porta dell'Havana: un'altra sera di lavoro era giunta
finalmente al termine.
«Che volete fare?» ci chiesero i ragazzi
con un sorriso.
«Cinema?» proposi.
«Io vorrei solo dormire»
sbadigliò Francesca.
«Potresti dormire sulla mia spalla»
mormorò Stefano, Francesco lo guardò e
alzò gli occhi al cielo
dicendogli che gli facevano venire il volta stomaco.
«Anche tu»
gli rispose gentilmente sua sorella dandogli poi una pacca sulla
spalla.
«Fatemi sapere» disse Marco alzandosi dalla sedia,
«io
riporto lei a casa e vi raggiungo» aggiunse.
«Ma...» provò a
contestare Carmen che, sicuramente, voleva uscire con noi, ma
l'occhiata di Marco le fece morire le parole in gola; sbuffò
e si
alzò anche lei, poi mi guardò e di nuovo ebbi la
sensazione che se
gli sguardi potessero uccidere quello sarebbe stata l'arma
dell'omicidio perfetto, il mio.
Non
so perché decisi di andare al cimitero. Non amavo andare in
quel
luogo, avevo sempre pensato che fosse stupido posare dei fiori sul
freddo marmo in ricordo dei defunti, per me il ricordo era nel cuore
e i fiori erano solo una perdita di tempo e denaro; quel giorno
però,
dopo aver pranzato, decisi di scendere in paese e andare nella tomba
di famiglia.
Quando scesi dalla macchina il vento freddo mi colpì
in pieno volto facendomi rabbrividire, mi strinsi di più nel
mio
cappotto viola e camminai a passi decisi sul vialetto, di tanto in
tanto incontravo qualcuno che salutavo educatamente con un cenno del
capo; arrivata davanti la tomba di famiglia porsi due rose sulle
lapidi dei miei nonni e mi misi ad osservare le foto, mi persi nel
azzurro degli occhi di mia nonna, così simili a quelli di
mia cugina
Yasmine. Osservai i tratti del viso del nonno, tratti che potevo
scorgere sul mio volto ogni qual volta che passavo davanti ad uno
specchio. Mi ritrovai a pensare a quanto strana fosse la vita, tanta
fatica, tanti affanni, tanto dolore per poi finire dietro una lastra
di spesso marmo, tutto l'amore che i miei nonni avevano provato si
era, certamente, tramandato nei loro figli e nelle loro nipotine, ma
tutto il resto? A cos'era servito lavorare dodici ore al giorno? A
niente. Osservai le altre lapidi, le foto sbiadite dei miei bis nonni
e sentì l'ansia crescere dentro di me, mi succedeva sempre
quando
pensavo alla morte, forse perché avevo paura di non poter
fare
abbastanza per poi essere ricordata.
Sbattei le palpebre un paio
di volte e mi poggiai contro la parete facendo dei respiri profondi.
Dovevo uscire da li, eppure non riuscivo a muovere un muscolo, vedevo
le pareti di quel piccolo mausoleo di famiglia avvicinarsi sempre di
più, come a volermi schiacciare, chiusi gli occhi ed iniziai
a
contare fino a venti sperando che le pareti si sarebbero fermate, ma
quando mancavano pochi numeri mi sentii trascinare fuori di
lì.
«Stai
bene?» mi chiese Marco accarezzandomi la testa.
«Sì...»
risposi facendo dei respiri profondi, «che ci fai
qui?» gli chiesi
quando fui finalmente in grado di reggermi in piedi da sola.
«Quello
che ci fai tu...»
«Tu odi i cimiteri» gli feci notare drizzando
completamente le spalle.
«Anche tu» mi rispose, poi estrasse un
pacchetto di sigarette dalla tasca del giubbotto e me la porse,
l'accettai e me l'accesi; rimanemmo a guardarci per un bel po', poi
in silenzio ci incamminammo verso l'uscita.
«Ora dove vai?» mi
chiese sotto voce.
«Vado a fare una passeggiata sul lungo mare»
gli risposi, mi morsi il labbro indecisa se aggiungere altro o meno,
lui sembrò accorgersene e rimase in silenzio, in attesa,
«ti... ti
va di venire?» mormorai a testa bassa, Marco annuii e disse
che mi
avrebbe seguita in moto; «a meno che tu non voglia venire con
me»
aggiunse sogghignando.
«Magari un giorno... molto lontano»
risposi ridacchiando a mia volta, lui mi fece l'occhiolino e
partì a
tutta velocità; quando arrivai lo vidi seduto su una
panchina a
braccia conserte, mi sedetti vicino a lui. «Corri
troppo...»
borbottai con un sorriso, incapace di dire qualcosa di
sensato.
«Avere la moto e andare piano non ha senso»
«Sì
ma... tu non hai mezze misure» mi stavo aggrappando sugli
specchi
per evitare di cadere nel pozzo delle battute pessime, anche se il
silenzio di Marco mi fece capire che, in fondo, c'ero già
caduta.
«Così...»
sospirò, poi arricciò le labbra e alzò
gli occhi al cielo,
«così... rimani qui» disse per poi
guardarmi dritta negli occhi,
io deglutii ed annuii semplicemente, «sono
contento» sorrise, e
sembrò sincero, così sincero che sentii gli occhi
inumidirsi;
voltai la testa e mi misi a fissare il mare tentando di nascondergli
quella mia debolezza, ma lui se ne accorse, se ne accorgeva
sempre.
«Che c'è?» mi chiese.
«Niente, niente. Mi è andato
qualcosa negli occhi» mentii palesemente e lui
scoppiò a ridere
dicendomi che come al solito ero una pessima bugiarda; «non
è
vero!» contestai, «generalmente mi riesce
benissimo... come quella
volta che ti avevo organizzato la festa a sorpresa» gli
ricordai
saccente.
«Ma che dici! Lo sapevo già da due giorni
prima»
ridacchiò.
«Certo, perché Francesco è un
deficiente e non
tiene mai la bocca chiusa» sbuffai, «senno non
l'avresti mai
capito»
«Certo Becca, certo» asserì lui facendo
finta di darmi
ragione; «diciamo che anche tu non sei la persona
più adatta per
mantenere un segreto...» mormorò soffocando una
risata.
«Sei tu
che tentavi di corrompermi a tutti i costi; mi chiamavi perfino
quand'ero a scuola!» blaterai alzando gli occhi al cielo,
«diavolo
tentatore!» l'apostrofai gesticolando.
«Bé, ti lasciavi
corrompere molto facilmente» mi rispose alzando un
sopracciglio, io
deglutii sonoramente e cercai di nascondere il viso nella sciarpa
evitando, così, di farmi beccare con il volto in fiamme;
«il
discorso era un altro» borbottai.
«Era partito dal fatto che non
riesci a mentire...» ricordò lui, sorridendo.
«Sì, ma
purtroppo solo con te ho questo deficit, senno sono un mago della
menzogna!» mi pompai, senza essermi effettivamente resa conto
che
gli avevo appena confessato una delle mie debolezze.
«Sono
irresistibile, lo so» scherzò Marco.
«No, sei insopportabile e
talmente petulante che alla fine una persona cede pur di non sentirti
più!» gli spiegai saccente facendogli, poi, la
linguaccia.
«Ah
si? Mi davi ragione solo per zittirmi?» mi chiese avvicinando
pericolosamente il suo volto al mio.
«Perché tu non lo facevi?»
«No... io lo facevo solo per tentare di spegnere la tua ira,
visto che provavi, e provi, un gusto sadico nel litigare» mi
rispose
con un sorrisetto, io sbuffai spostandomi così una ciocca di
capelli
che mi era finita davanti gli occhi e arricciai il naso cercando una
risposta tagliente a quell'affermazione, ma non vi era nessuna
risposta adatta perché in fin dei conti aveva ragione: amavo
litigare con lui, ma per il semplice fatto che poi facevamo pace ed
ogni gesto era ampliato da quello strano senso di beatitudine
post-litigata.
«Ok, hai ragione tu» sbuffai di nuovo e lui rise
di gusto poggiandosi sullo schienale della panchina in ferro battuto;
«guarda che hai ragione solo quando dici che mi piace
litigare»
tentai di smorzare le sue risate, ma queste non fecero che aumentare
e alla fine scoppiai a ridere anch'io.
«Pensavo fossi cambiata,
invece mi rendo conto che fortunatamente sei sempre la stessa
Rebecca» mi disse ad un certo punto.
«Ti sbagli, sono
cambiata...» sospirai, «solo che poi basta un
niente per far
tornare la vecchia me»
«Bé, io la vecchia te l'adoravo»
mormorò accendendosi un'altra sigaretta; stavo per
rispondere quando
un tonfo si perse nell'aria. Guardai Marco perplessa e al secondo
botto lui scattò in piedi, prendendomi per un braccio e
trascinandomi in macchina. Il terzo scoppio lo sentii più
vicino,fu
talmente nitido che pensai ci stessero sparando addosso. Marco
sospirò e mi lasciò per un momento sola in auto,
corse alla moto e
estrasse qualcosa da sotto il sellino mettendoselo dietro i pantaloni
per poi tornare in macchina con me, era visibilmente teso;
«teste di
cazzo...» mormorò a denti stretti, ci fu un altro
tonfo che venne
seguito dal rumore di una frenata, e alla fine si aggiunsero anche le
sirene delle forze dell'ordine.
«Stai bene?» mi chiese
guardandomi negli occhi, io annuii con vigore, non mi avrebbero certo
spaventata alcuni spari di pistola provenienti da chissà
dove;
uscimmo dalla macchina e mi aprì la portiera dalla parte del
guidatore, «vai a casa, e non ti fermare da nessuna
parte», mi
ordinò.
«Marco sto bene» tentai di tranquillizzarlo alzando
gli
occhi al cielo, «ho sentito di peggio» ironizzai,
ma mi guardò
come se non volesse repliche.
«Lo so, lo so» si sbrigò a dire,
«però ora vai» aggiunse con insistenza,
sbuffai ed entrai in
macchina. «Ci vediamo dopo» mi disse prima di
chiudermi la
portiera, partii e dopo pochi metri una macchina della polizia mi
sfrecciò vicino fermandosi dov'ero parcheggiata poco prima
io,
rallentai e dallo specchietto retrovisore vidi un agente prendere
Marco dalle spalle e spingerlo con poca gentilezza sul cofano
dell'auto iniziando a perquisirlo. Estrasse qualcosa dai suoi
pantaloni e poco dopo, mentre guidavo verso casa, mi resi conto che
l'oggetto misterioso fosse, effettivamente, una pistola.
Quella
sera il locale era talmente vuoto che restammo aperti solo un'ora e
alle nove chiudemmo. Dopo la sparatoria del pomeriggio Gioia marina
era un paese deserto, così ce ne tornammo a casa annoiati e
senza
alcun programma per la serata. Nessuno si chiedeva come mai non ci
fosse Marco ed io non proferii parola sui fatti del pomeriggio,
tartassandomi, però, le pellicine del dito cercando di
combattere
l'ansia; avevo paura che gli fosse successo qualcosa, perché
anche
se non c'entrava niente con i colpi sparati era stato trovato in
possesso di una pistola che, magari, neanche avrebbe potuto tenere e
poi conoscevo l'arroganza che aveva quando si rapportava con qualcuno
che portava la divisa, anche quando aveva ragione, alla fine, passava
irrimediabilmente dalla parte del torto.
Era
cresciuto così, Marco. Era cresciuto in una famiglia che
aveva
imparato ben presto a farsi giustizia da sola, che risolveva tutto
stringendo amicizie con varie famiglie locali, era sempre stato
così
a casa sua, anche quando una di queste amicizie
si
era venduto suo
padre Aldo privandolo di cinque anni di libertà, privando
un'intera
famiglia del suo capostipite.
Tornai a casa e per un momento ebbi
la tentazione di raccontare a mio padre cosa fosse successo nel
pomeriggio, magari si era venuto a sapere qualcosa, ma alla fine ci
rinuncia, impaurita dalla reazione che avrebbe potuto avere. Una
volta salita nel mio appartamento mi misi la tuta, accesi i
riscaldamenti pigiando anche il tasto del caminetto elettrico, poi
presi un pacco di biscotti e mi piazzai sul divano con il portatile
sulle ginocchia; mi misi a sfogliare le pagine interattive dei
giornali ed ogni quotidiano parlava dei fatti pomeridiani. I titoli,
scritti con font giganteschi, richiamavano alla stagione di
sparatorie di 'ndrangheta, parlavano di una tregua che si era oramai
rotta e prevedevano un futuro di sangue per tutti i paesi limitrofi.
Sospirai leggendo i nomi dei tre ragazzi rimasti uccisi quel
pomeriggio, in paese ci si conosceva, bene o male, quasi tutti e con
la vittima più giovane ci avevo addirittura lavorato
l'estate in cui
avevo prestato servizio come bagnina. Aveva un anno in meno di me, e
ancora tutta una vita davanti. Indecisa sul da farsi presi l'iphone
dalla borsa e tolsi il blocco tasti, non avevo nessuna chiamata
persa, feci scorrere la rubrica fino al contatto di Marco, ma decisi
di non chiamarlo, riposai tutto e tornai a leggere gli articoli di
giornale, e più righe leggevo e più sentivo
appesantirsi quel masso
di cemento che si era poggiato dentro di me e che mi impediva di
respirare a pieni polmoni. Dopo neanche un'ora mi arrivò un
messaggio di Francesca dove mi diceva che avevano trovato una
soluzione a quella serata di pura noia, i suoi messaggi erano sempre
molto criptici e dovetti chiamarla per sentire il suo colpo di genio.
«Tra mezz'ora veniamo tutti a casa tua» mi disse
Francesco
rispondendo al telefono della sorella, «ci vediamo un film e
diciamo
quattro cazzate» aggiunse dopo un po', «spero tu
abbia qualcosa da
mangiare» brontolò alla fine.
«Sì,
ho molte cose da mangiare» lo tranquillizzai mentre mi
dirigevo in
cucina per iniziare a prendere le cose dalla dispensa e sistemarli in
salone.
«Perfetto» trillò lui, «ci
vediamo tra poco» concluse
prima di terminare la chiamata, mi accesi una sigaretta ed aprii un
pacco di patatine versandole in una ciotola colorata, poi presi la
scatola della pizza per-cotta dal freezer e ne misi due nel forno
alzando al massimo la temperatura; quando ebbi finito di preparare le
cose da mangiare tirai fuori quelle da bere e tornai a sedermi sul
divano in attesa dell'arrivo dei miei amici.
Non
tardarono, venti minuti dopo la mia casa era diventata una specie di
bisca clandestina, ma quando suonarono per l'ennesima volta al
citofono ed andai ad aprire le risate mi morirono in gola.
«E'
qui la festa?» chiese Marco poggiato sulla porta, spalancai
gli
occhi, sgomentata.
«Era ora!» gracchiò Francesco andando a
salutare suo cugino, Marco entrò ed io rimasi immobile sulla
porta;
avevo passato l'intera giornata in ansia, avevo rischiato come minimo
un arresto cardiaco mentre lui, invece, sembrava essere la persona
più tranquilla del mondo.
Lo
conoscevo bene Marco, sapevo che sotto quei sorrisi, sotto le battute
e sotto il menefreghismo si nascondeva la realtà, ed io
neanche in
quell'episodio della nostra vita avevo preteso niente se non un
maledetto messaggio, invece no: Marco sembrava totalmente convinto
che se a lui non interessava niente di una determinata cosa, allora
non me ne doveva fregare niente neanche a me, era matematico per
lui.
«E' carina la porta?» mi chiese Stefano
ironicamente, la
chiusi scuotendo la testa e tornai nel salotto, in silenzio.
Da
quel momento non parlai più. Non riuscivo ad articolare un
discorso,
non sapevo che dire e avevo paura che qualsiasi cosa mi avrebbe fatto
scattare la rabbia che sentivo dentro, così misi un film nel
lettore
e ci piazzammo a vederlo; Marco si sedé sulla poltrona,
Francesco
seduto a terra poggiava la testa sulle gambe di sua sorella che,
insieme a me e Stefano, occupava il divano.
Quando
i titoli di testa finirono di scorrere voltai rapidamente la testa
verso Marco, non so perché, ma in quel momento capii di
quanto, alla
fine, mi sentivo sollevata solo dalla sua presenza. Era sconvolgente
il fatto che averlo semplicemente seduto a due passi da me mi facesse
stare così bene. Era una sensazione di beatitudine che non
avrei mai
capito, come non avrei mai capito il perché...
perché Marco aveva
questo potere su di me? La domanda che poi mi era sempre sorta
spontanea era se anche lui provava queste emozioni nei miei
confronti, e il sorriso che mi rivolse quando si accorse che lo stavo
guardando fu una risposta più che esaustiva.
Dopo non so quando
il russare di Stefano mi fece sobbalzare, mi passai una mano sugli
occhi e mi resi conto che non eravamo neanche a metà film,
ma che
tutti stavano dormendo; sbadigliando mi voltai verso la poltrona e
raggelai vedendola vuota, poi però la luce della cucina
catturò il
mio sguardo ed arrancai fino lì, stanca morta.
«Già sveglia?»
ridacchiò Marco, guardava fuori dal vetro della finestra e
probabilmente mi aveva visto arrivare dal riflesso.
«Russano
tutti in modo spropositato» sbuffai raggiungendolo,
«Stefano mi ha
svegliata... non capisco come faccia tua cugina a non soffocarlo con
il cuscino» borbottai sbadigliando di nuovo.
«L'amore ti fa
sopportare cose neanche immagineresti» soffiò lui,
io inclinai la
testa e lo guardai con un cipiglio, «tranquilla, torna a
dormire»
scherzò, dandomi un buffetto sulla spalla.
«A proposito di
sopportazione...» dissi e gli diedi un pugno sulla spalla,
«questo
è per quello che ho dovuto sopportare oggi!»
berciai a denti
stretti, «razza di deficiente!» l'apostrofai
incrociando le braccia
al petto.
«Ahia!» si lamentò Marco, «che
ho fatto?» mi
chiese, innocente.
«Ti sembra modo di sparire?» gli chiesi,
retoricamente, «mi hai fatto prendere un colpo! E poi la
polizia che
ti ha perquisito... perché hanno perquisito te?»
continuai a
domandargli incapace di tenere a freno la lingua, pur sapendo quando
odiasse le domande, «e soprattutto: che cazzo ci facevi con
una
pistola?!»
«Hai finito?» mi domandò Marco, seccato,
io annuii
e mi squadrò, sorridendo.
«Non sorridere Marco» lo ammonii,
puntandogli il dito, «non mi prendere per il culo con quel
sorrisetto!» lui non smise di sorridere e per tutta risposta
mi
prese il dito e me lo abbasso, dolcemente. «Non
c'è niente di cui
preoccuparsi» ribatté in seguito, sospirai ed
abbassai la testa,
«Becca, se ti dico di stare tranquilla, tu stai
tranquilla» ribadì
con fare autoritario, «non ricominciare a
preoccuparti» aggiunse
mollando la presa sul mio dito e spostando nuovamente lo sguardo
oltre il vetro.
«Che vuol dire che non devo ricominciare?» lo
aggredii, «secondo te ho mai smesso?! Le brutte abitudini
sono dure
a morire» mormorai a bassa voce.
«Appunto» sospirò Marco,
«conosci le mie abitudini, per cui non stare in
pena» specificò
con una scrollata di spalle.
«Tranquillo, se dovessi stare in
pena per te saresti l'ultimo a saperlo» gli risposi saccente.
«Lo
sai che io so sempre tutto, ovunque mi trovi»
«Se un giorno
dovresti partire starò molto attenta» borbottai.
«Allora stai
attenta questa settimana» disse, io alzai un sopracciglio e
Marco mi
sorrise, «sì, devo andare fuori un paio di
giorni» aggiunse, ma il
mio sguardo non mutò; volevo sapere dov'era diretto, con chi
partiva, perché partiva proprio in questi giorni, ma sapevo
anche
che tutte queste domande l'avrebbero scocciato, per cui mi limitai a
chiedergli per quando era fissata la partenza e quando mi rispose
sentii un tonfo al cuore, come un pugno in pieno petto. «Come
parti
tra quattro ore?!» gli domandai, shockata.
«Eh sì, tra quattro
ore» ripeté lui, sogghignando,
«tranquilla non mi devi mica
portare alla stazione, vado in macchina» provò a
sdrammatizzare.
«Ma non hai dormito per niente!» lo rimproverai,
«e se ti viene fame, hai qualcosa per il viaggio?»
gli chiesi
iniziando ad aprire tutti i vani della credenza in cerca di qualcosa
da dargli; Marco scoppiò a ridere e mi pregò di
smetterla, ma la
mia faccia non so perché lo fece ridere ancora di
più, allora si
accese una sigaretta e prese a guardarmi mentre gli arrangiavo un
paio di panini e qualche pacchetto di patatine.
«Penso basti...»
sospirai mettendo tutto il preparato in un sacchetto di plastica,
«l'acqua ce l'hai?» gli chiesi, «...ma
che domande, è ovvio che
non ce l'hai» mi risposi da sola, poi lo guardai e il suo
sorriso
fece sorridere anche me, «che c'è?»
chiesi arrossendo
appena.
«Niente, niente» mi rispose lui, «ma non
dormi tu?» mi
domandò accarezzandomi la testa.
«Non ho sonno» mentii e lo
sbadiglio che seguì la mia risposta ne fu la prova;
«quello che
dovrebbe riposare sei tu» gli feci notare.
«Sto bene» disse con
una scrollata di spalle, ma anche lui sbadigliò e io
scoppiai a
ridere, «ok, lo ammetto: sono un pochino stanco»
sbuffò.
«E'
un miracolo... tu che mi dai ragione, devi essere malato»
constatai,
poi molto teatralmente gli misi una mano sulla fronte e con faccia
preoccupata feci finta di sentirgli la temperatura,
«sì, è febbre.
Non puoi partire».
«Smettila di fare la cretina e vai a letto»
sbuffò accennando un sorriso, «io giuro che mi
poggio sulla
poltrona»
«Potresti... potresti farmi compagnia». Non so che
mi
disse la testa, infatti tentai di recuperare la situazione, ma con
scarsi risultati: «perché la poltrona è
scomoda»
«Scomodissima»
mi diede corda Marco, così mi incamminai verso la mia camera
da
letto e sentire i suoi passi dietro di me non faceva che aumentare
l'ansia e quella voragine che sapevo essersi aperta al centro del mio
stomaco.
Mi gettai direttamente sul letto senza accedere neanche
la luce, alzai il piumone e mi ci infilai sotto, poco dopo sentii
Marco sedersi sul bordo e fare lo stesso. Per quanto fosse possibile
tentai di mantenere le distanze, ma il suo profumo era un richiamo
troppo forte così lentamente mi avvicinai di un po', quanto
bastava
per respirarlo a pieni polmoni.
«Mi è sempre piaciuto questo
letto» mormorò lui, «è
morbido, ma non è quel morbido dove
affondi...»
«Stai veramente parlando della morbidezza del mio
letto?» scoppiai a ridere e sentii ridacchiare anche lui,
«promettimi che farai attenzione, ovunque stai
andando» gli
sussurrai, lui sospirò facendomi render conto di quanto
fossimo
vicino e colta dall’ennesimo momento di morte celebrale, mi
sporsi
e gli accarezzai dolcemente la guancia; mi girai subito dandogli
così
le spalle e sentii che il braccio di Marco mi cinse automaticamente
la vita, quel gesto mi fece sospirare di nuovo e ancora una volta
ripensai a qualche anno fa, quando spesso ci addormentavamo
abbracciati in quel modo.
«E tu fai la brava» biascicò lui, per
tutta risposta gli accarezzai la mano e mi strinsi un altro po' a
lui, volevo stamparmi nella mente quel momento, quella calma e quel
senso di felicità che provavo perché, ne ero
certa, non sarebbe
durato.
«Marco?»
lo chiamai dopo qualche minuto.
«Mmh…» mormorò lui.
«Dormi?»
gli chiesi voltandomi di nuovo e sperando che non togliesse il suo
braccio da attorno a me.
«No, non dormivo» mi rispose senza
deludere le mie aspettative e, anzi, stringendo la presa.
«E che
facevi?» gli domandai, era come se in un attimo mi fosse
passato
tutto il sonno, come quando da bambina tornavo a casa e durante il
viaggio ero stanca morta, ma poi una volta messa a letto passavo le
ore a rivoltarmici dentro.
«Pensavo… e tu perché non
dormi?»
mi sussurrò accarezzandomi lentamente la schiena.
«In realtà
pensavo anche io…» risposi, «ti devo
chiedere una cosa, però
voglio che sei sincero…»
«Va bene»
«Perché tre anni fa
sei sparito? Non un messaggio, non una lettera; non mi hai fatto
avvertire da nessuno…» gli domandami a bruciapelo,
sentivo che
quello era il momento giusto per togliermi ogni dubbio che in quegli
anni mi aveva assillato la testa.
«Perché vuoi saperlo ora?» mi
chiese, e lo sentii irrigidirsi al mio fianco.
«L’ho sempre
voluto sapere», ammisi, «ed ora mi sembra il
momento giusto per
chiedertelo».
Non mi rispose subito, riprese ad accarezzarmi
delicatamente il fianco, sospirando un paio di volte prima di
parlare, «sono sparito così perché era
giusto, era la cosa giusta
da fare» mi rispose in un primo momento, «non
sopportavo di saperti
fuori con un altro dolore del genere; avevi da poco superato il
momentaccio con tuo padre, non volevo infliggertene
dell’altro» mi
spiegò, pacato.
«Ma
così sono stata di merda ugualmente»
«Sì, ma sapevo che
saresti stata così forte da reagire positivamente. Sapevo
che quello
era l’unico modo per evitare che ti buttassi di nuovo
giù e che
passassi ancora una volta quelle giornate di inferno solo per fare,
magari, un’ora di colloquio con me»
«Grazie della risposta, e
del pensiero» gli dissi sperando che non avesse percepito il
tremolio che avevo alla voce. Me l’ero immaginato dentro un
cella
di pochi metri quadrati a convivere con altre quattro
–cinque-
persone totalmente diverse da lui. Me l’ero immaginato
perdere la
sua quotidianità e reinventarsene un’altra per
poter sopravvivere
in quel luogo che oggi giorno è più un luogo di
tortura che un
luogo dove poter scontare le proprie colpe; tutte quelle immagini
apparivano così nitide nella mia mente che non riuscii a
trattenermi
a lungo e alla fine scoppiai in lacrime. Senti Marco farsi ancora
più
vicino e stringersi ancora di più a me, mi cullò
in silenzio tra le
sue braccia, lasciandomi di tanto in tanto dei baci sui capelli. Quel
chiarimento mi era servito a capire l’inutilità
dei brutti
pensieri che avevo fatto da tre anni fino a qualche mese prima, mi
sentii una merda di dimensioni epiche per avergli augurato altri
cento di quei giorni, per avergli detto circa un migliaio di
parolacce. Mi sentivo uno schifo perché io ero fuori che
potevo
sfogarmi con i miei amici, mentre lui lì dentro non poteva
fare
niente se non viaggiare nei ricordi e stare, forse, ancora peggio;
quella sera, mentre piangevo tra le sue braccia, avevo capito che il
massiccio muro che per tutto quel tempo avevo innalzato davanti a lui
era finalmente caduto e che io ero di nuovo pronta a ricostruire un
qualcosa su quello spazio apparentemente inutilizzato che
c’era tra
di noi ed ero certa che Marco non mi avrebbe ostacolato e che, anzi,
pian piano mi avrebbe dato una mano.
***
Note
finali:
Eccoci
qua con il nuovo capito... finalmente, pernserà qualcuno!
Ma
veniamo a noi, forse la decisione di Rebecca era scontata, comunque
ci tenevo a mostrare, seppur in minima parte, le opinioni della sua
famiglia e dei suoi amici; perché, anche se ora la nostra
rossa ha
cambiato città, i suoi amici sono sempre presenti nel suo
cuore ed
il loro parere è sempre importante per lei.
Per quanto riguarda
la sparatoria in paese.. bè, spero di aver reso l'idea; ero
terrorizzata mentre scrivevo questa parte perché non sapevo
veramente come spiegare quello che stava accadendo.
Tra l'altro
state conoscendo meglio Marco, o meglio, alcune parti di Marco.
Sì,
è veramente una persona orribile, non sa mai cosa vuole
dalla vita,
da tutto per scontato e soffre di personalità multipla... ma
bisogna
che ce lo teniamo così. Però vi prometto che in
seguito scoprirete
di più su di lui, e sul perché era al cimitero
pur odiando quel
posto...
Ed infine Rebecca. Rebecca che finalmente si è tolta un
peso dal cuore e che ora pensa che tutto potrebbe andare per il
meglio, o almeno lo spera. Spererà in vano? Chi lo sa ;)
Come al
solito ringrazio chi si è fermato a leggere, chi ha
commentato, chi
ha inserito “Eppure resta” tra le storie seguite...
ringrazio
sempre Kate che
è stata la
prima a leggere il capitolo.
Tra l'altro ho creato un profilo
di Facebook, dove metterò le foto dei personaggi, qualche
spoiler ed
altre cose riguardanti la storia... per chi volesse aggiungermi
eccolo qui: X
Ancora grazie, a presto. -J
|
Ritorna all'indice
Capitolo 5 *** Veleno per topi ***
5.
Veleno per topi
Io
e l'attività fisica andavamo raramente d'accordo.
Mi annoiavo
facilmente. Avevo praticato tennis per quattro anni
dopodiché avevo
appeso letteralmente le racchette al chiodo, mi ero iscritta ad una
palestra che mi aveva visto, sì e no, due mesi su dodici,
avevo
fatto boxe per quasi due anni, ma mia madre aveva appurato che ero
già abbastanza mascolina di mio e quello sport non faceva
che
diminuire il mio già precario livello di
femminilità
adolescenziale; ogni tanto mi piaceva andare a correre al parco, ma
l'unico sport che avevo praticato seriamente era il nuoto. Fin
dall'età di tre anni sguazzavo allegramente in acqua e solo
quand'ero totalmente immersa riuscivo a sentirmi bene con me stessa;
quella mattina di metà Novembre l'acqua era
irrimediabilmente
gelata, così mi preparai e dovetti accontentarmi di scendere
in
spiaggia per correre invece che per nuotare.
Feci patire l'Ipod ed
iniziai con un'andatura leggera per poi aumentare piano piano. Ad
ogni passo i piedi affondavano nella sabbia e dovevo fare uno sforzo
immane per fare quello successivo; dopo un po' decisi di correre in
piano, così risalii la spiaggia e continuai la mia corsa sul
pavimento più o meno liscio del lungomare.
Un'ora e mezza dopo
rallentai il passo fino a che non presi a camminare facendo dei
respiri profondi. Avevo il corpo accaldato ma sentivo un freddo boia
alle mani, così me le misi in tasca e continuai a riprendere
fiato.
Quando tornai a respirare in modo regolare alzai la testa e mi resi
conto che qualche metro più avanti vi erano alcuni gazebo
bianchi ed
una trentina di ragazzi con delle bandiere della pace e qualche
cartellone scritto a mano; spensi l'Ipod e mi avvicinai per capire
cosa stesse succedendo.
«...è un sit-in pacifico, non vogliamo
tornare a vivere nel terrore di trovarci in mezzo ad una
sparatoria»
stava spiegando una ragazza ad un gruppetto di persone di mezza
età;
guardai nei gazebo e diedi una lettura veloce ai cartelloni, ma ero
talmente stanca dalla corsa che non mi resi conto di avere una
persona davanti e andai a sbattergli praticamente addosso.
«Oddio,
scusi» biascicai massaggiandomi una spalla indolensita.
«Figurati
Rebecca» mi rispose una voce stranamente famigliare, alzai la
testa
e strabuzzai gli occhi: davanti a me si parava un ragazzo in tenuta
da militare, alto sicuramente due metri e con le spalle larghe come
l'armadio della mia stanza; i capelli scuri erano magistralmente
tagliati per non risultare troppo lunghi, ma neanche troppo corti, e
i suoi occhioni verdi si ridussero ad una fessura mentre mi
sorrideva.
«Alessio!» gli sorrisi di rimando e divenni
sicuramente rossa in volto, ma per fortuna quel colorito poteva
benissimo essere scambiato solo per un post sforzo fisico. Alessio
era stato uno dei miei primi amici e, inutile negarlo, prima cotta
all'età di undici anni. Io per lui ero sempre stata solo
un'amica
fino a quando non iniziai a frequentare Marco, infatti poi aveva
iniziato ad interessarsi a me fregandosene del mio ragazzo e per
quanto mi potesse far piacere essere corteggiata da un'altra persona
non gli avevo mai dato corda più del dovuto; «Che
ci fai qui?» gli
chiesi.
«Ho aiutato mia cugina» mi rispose indicando con un
cenno del capo la ragazza che parlava. «Tu invece? Come mai
da
queste parti?» mi chiese sorridendomi di nuovo; non era
cambiato
affatto, era il solito ragazzone che aveva sempre il sorriso sulle
labbra.
«Mah, niente... mi sono momentaneamente trasferita»
gli
risposi senza entrare troppo nei particolari.
«Veramente?! E con
il lavoro come fai? Mi ricordo che lavoravi in televisione, o
qualcosa del genere...»
«Ora invece lavoro all'Havana»
sdrammatizzai ridacchiando, «servo birre e panini, un salto
di
qualità!» aggiunsi facendogli l'occhiolino.
«Tu invece come mai in
paese?»
«Sono in licenza fino a Gennaio, poi dovrei tornare in
Iraq»
«Madonna, un posto tranquillo eh...» osservai
sgranando
gli occhi.
«Tranquillissimo» ironizzò lui
accendendosi una
sigaretta, mi porse il pacchetto ma declinai l'offerta spiegandogli
che volevo evitare di collassargli davanti.
«Quanto hai
corso?»
«Un'ora e mezza»
«Pochissimo»
«Eh lo so, ma
non correvo da quasi un mese; se avessi provato a fare di
più sarei
morta, sicuro» gli risposi.
«E in questi giorni che
fai?»
«Niente, la solita vita che si fa qui» dissi con
una
scrollata di spalle, poi sentii il mio stomaco brontolare e decisi
che era arrivato il momento di fare colazione: «Ora devo
proprio
andare, ma mi ha fatto piacere rivederti». Lui mi
salutò con due
baci sulle guance ed un sorriso sincero e lentamente mi avviai verso
la macchina; una volta arrivata estrassi l'Iphone dal cruscotto e
dopo aver letto i due messaggi ricevuti partii alla volta del bar
dove mi aspettavano Francesco e Matteo per colazione.
Un'ora
dopo, mentre mi beavo finalmente del getto d'acqua calda sul corpo,
sentii squillare l'Iphone che avevo lasciato sul davanzale della
finestra; ero tentata ad interrompere la doccia e fiondarmi a vedere
se fosse Marco, ma alla fine non riuscii a smettere di godermi quel
calore.
Marco era partito da due giorni e ovviamente non si era
fatto sentire. La cosa più inquietante era che sembrava che
nessuno
dei nostri amici si fosse accorto della sua assenza momentanea, si
comportavano come se niente fosse, il che mi fece pensare che quei
suoi "viaggi" avvenivano spesso.
Dopo quasi un'ora i
polpastrelli avevano assunto un aspetto orribile con mille pieghe che
sembravano il volto di un'ultra-centenario, un chiaro segno che mi
invitava a chiudere l'acqua e uscire dalla doccia, e così
feci;
raccolsi i capelli in un asciugamano e presi il cellulare, il numero
a cui non avevo risposto non era tra quelli memorizzati sul mio
Iphone, così lo richiamai, curiosa di sapere chi fosse e
anche un
po' speranzosa di sentire la voce di Marco all'altro capo del
telefono.
«Ehi Rebecca» mi disse una voce femminile che,
lì per
lì, non riuscii a riconoscere.
«Ehm... ciao»
«Sono
Antonella» specificò lei che, sicuramente, aveva
percepito della
perplessità nella mia voce. Antonella era la sorella
maggiore di
Marco.
«Ah... ciao Anto» la salutai di nuovo, questa volta
cordialmente, «è successo qualcosa?» le
chiesi poi.
«No,
niente di preoccupante» ridacchiò lei,
«come stai?»
«Tutto
bene, tu? Mirko sta bene?» le domandai mentre mi infilavo un
paio di
pantaloni.
«Stiamo bene...» mi rispose Antonella.
«Senti,
volevo chiederti una cosa...»
«Dimmi»
«Fai ancora quelle
foto meravigliose?»
«Sì, ogni tanto mi capita» le risposi
ridacchiando. «Perché?»
«Tra una settimana è il compleanno di
Mirko, il quinto... vista la situazione vorrei organizzargli una
bella festa e fargli fare tante foto...»
«Capisco...» mormorai
con un sorriso amaro, era il suo secondo compleanno senza
papà.
«Ti
andrebbe di aiutarmi?» mi chiese Antonella. «Vorrei
mandare a
Salvatore tante belle foto, vorrei che avesse l'impressione di essere
qui con noi» sussurrò.
«Certo che mi andrebbe!» le risposi con
vigore, «contami anche se hai bisogno di aiuto per
organizzare la
festa» aggiunsi.
«Grazie; allora ti chiamo tra un paio di
giorni, così iniziamo ad elaborare»
«Perfetto Anto, ci vediamo
presto» le dissi, poi riagganciai e sorrisi; ero seriamente
contenta
di aiutarla. Antonella mi era sempre stata simpatica e il piccolo
Mirko l'avevo praticamente visto crescere, e poi volevo fare il
possibile perché Salvatore non si sentisse escluso dalla
famiglia,
mia madre si era fatta in quattro quando mio padre non c'era ed ora
che ne avevo la possibilità ero felice di aiutare una
famiglia che
stava passando quello che avevamo passato noi.
Mentre finivo di
asciugarmi i capelli mia madre fece irruzione in casa lamentandosi di
quanto poco riuscivamo a stare insieme anche ora che abitavamo
praticamente nello stesso condominio.
«È che abbiamo orari
diversi mamma» mi giustificai rialzando la testa e fonando le
punte
dei capelli.
«Sì, ma questo pomeriggio non lavori» mi
disse con
un ghigno malefico stampato in faccia.
«Mamma sono le quattro,
direi che il pomeriggio è bello che iniziato»
«Appunto.. quindi
ora che hai finito scendi giù e mi aiuti a fare una
torta» mi
rispose come se fosse la cosa più ovvia del mondo.
«Non riesci
più a leggere la ricetta da sola e per questo ti serve il
mio
aiuto?» la presi in giro mentre rimettevo il fon al suo
posto.
«Esatto!» mi diede corda mia madre,
«quindi se vuoi il
dolce dovrai aiutarmi a prepararlo»
«Ma io ho la casa invasa da
cose dolci» mi lamentai seguendola verso l'uscio di casa.
Contro la
mia volontà fui costretta a rompere una dozzina di uova, a
sbatterle, a montare a mano la panna e a mescolare creme di vario
genere, alla fine però venni premiata con il permesso di
leccare il
composto direttamente dalla terrina; era una cosa che facevo fin da
piccola, ma che penso facesse ogni bambino che assisteva la propria
mamma in cucina. In quel momento provai per la prima volta un puro
senso di nostalgia. Non ero nostalgica verso il passato, mi mancavano
i miei amici.
Mi vennero in mente le immagini di David, Carlotta
ed Elisa che si litigavano il resto degli impasti che preparavo, mi
vennero in mente tutte le battaglie a colpi di farina che alla fine
scoppiavano nella mia cucina, e una serie di aneddoti che mi fecero
sospirare, sconfortata. E mi madre se ne accorse. Se ne accorse, ma
non disse niente, come se volesse rispettare quel mio momentaneo
dolore, convinta che prima o poi mi sarei cotta bene nel mio brodo e
sarei tornata a Roma, da loro.
Altri
due giorni passarono relativamente in fretta, e quel giovedì sera sembrava
che
tutto il paese si fosse riversato nel locale; l'Havana era talmente
pieno che Vincent dovette aprire anche una delle due sale della
discoteca per accogliere i clienti; il freddo aveva sicuramente
aiutato quel pienone, ma io e Francesca ci stavamo esaurendo,
straboccava così tanto di gente che anche Stefano e Matteo
si misero
i grembiuli e ci dettero una mano con i tavoli.
«Buona sera
ragazzi!» dissi salutando cordialmente il gruppetto che era
appena
entrato. «In quanti siete?»
«In sette, manca ancora una
persona» mi rispose il più alto, annuii e li
scortai ad un tavolo
che Stefano aveva appena finito di pulire, il gruppo mi
ringraziò e
prese posto.
«Non ce la faccio più» mi lamentai
tornando dietro
il bancone, «mi fanno male i piedi e sento che puzzo di
birra»
«Uno
spettacolo veramente carino» disse con una smorfia di
disgusto
Francesco mentre addentava il suo secondo panino.
«Potresti anche
aiutarci, deficiente» lo sgridò sua sorella
mettendo in un vassoio
quanta più roba vi potesse entrare.
«No, è più bello stare
seduto qui e godermi lo spettacolo» rise lui «e poi
io sono troppo
giovane per lavorare» aggiunse piccato; sbuffai scrollando la
testa,
ma mi fermai quando vidi Alessio entrare nel locale e raggiungere
dopo poco il gruppetto di ragazzi che avevo appena fatto sedere, il
settimo era lui.
«Ma quello non è...» stava per dire
Francesca.
«Zitta» mormorai a denti stretti prendendo un nuovo
blocchetto per le ordinazioni.
«E quello non è il tuo tavolo?»
disse di nuovo, cercando di trattenere le risate.
«Zitta»
ripetei uscendo dal bancone e camminando verso il tavolo; mi sistemai
la treccia che avevo fatto ai capelli adagiandola meglio sulla spalla
destra e una volta che arrivai al tavolo feci un sorriso di cortesia.
Presi le ordinazioni e mi defilai subito per il pub prestando
attenzione agli altri clienti, ma la sensazione di essere osservata
era talmente forte che ogni tanto mi giravo in direzione di Alessio
e, puntualmente, il mio sguardo incrociava il suo; quando
entrò
anche Carmen imprecai a denti stretti e iniziai a parlare
direttamente con Lui,
chiedendogli cosa avessi fatto di male per meritare una serata del
genere, sperai che almeno non si sedesse al bancone ma ovviamente
successe proprio quello.
«Vado a prendere quel veleno per topi?»
mi chiese a bassa voce Francesco.
«Non mi tentare» ribattei, poi
mi voltai e con la voce più melensa e falsa che potessi fare
le
chiesi cosa ordinasse da bere.
«Non sono qui per quello» mi
rispose.
«Vuoi mangiare?» le chiesi allora, sempre
garbatamente.
«Marco c'è?» domando lei, rivolgendosi a
Matteo
che mi aveva portato dei bicchieri da lavare.
«No» le rispose
lui, telegrafo prima di uscire da dietro il bancone e andare a
servire due tavoli; Carmen rimase seduta e iniziò a
fissarmi,
inizialmente feci finta di niente continuando a riempire boccali di
birra, ma ad un certo punto scoppiai: «Se non consumi
dovresti
lasciare il posto, siamo pieni questa sera» le dissi con un
sorriso.
«Prendo un panino, allora» mi rispose dopo aver
dato
una rapida occhiata al piatto di Francesco.
«La cucina sta per
chiudere, mi dispiace» ribattei, poi presi il mio vassoio e
uscii
dal bancone mentre Francesca, che probabilmente aveva sentito tutto,
mi fece l'occhiolino; tornai e la trovai ancora lì, come
l'avevo
lasciata, sbuffai e Francesca si voltò a guardarmi con un
ghigno
malefico sul volto.
«Quindi hai sentito mia cugina Antonella...»
urlò alzando la voce più del necessario.
Francesco alzò gli occhi
al cielo, ridacchiando.
«Sì» le risposi guardandola, con la mia
solita espressione di perplessità dipinta sulla faccia.
«Ovviamente
ti ha invitato» continuò lei, cercando di dirmi
qualcosa anche con
gli occhi. «Poi senti Marco, così andate a fare il
regalo insieme»
aggiunse guardando Carmen che si era immediatamente drizzata sulla
sedia.
«Ah... sì, quando ho finito il turno lo
chiamerò»
stetti al gioco per quanto mi sembrava una cosa stupida, ma almeno
passai un po' di tempo in quella serata che sembrava non finisse mai
più.
«Sicuramente ci saranno anche Aldo e Lucia»
continuò
Francesca mentre il volto di Carmen diventava più rosso dei
miei
capelli. «Ti hanno sempre adorato i miei zii... vero
Frà?»
continuò facendomi scoppiare a ridere.
«La finite di cazzeggiare
voi due?» borbottò Stefano tornando dietro il
bancone e
scompigliando i capelli di Francesca.
«Queste due lavorano poco!»
rimbeccò Francesco, «sono un cliente poco
soddisfatto» aggiunse
incrociando le braccia al petto.
«Parlavamo dell'amore dei miei
zii per Rebecca» sua sorella gli parlò sopra
incitandolo con lo
sguardo a darle man forte, cosa che fortunatamente non
accadde.
«Oddio basta» la zittii arrossendo, «non
ci posso fare
niente se sono simpatica a tutti» sbuffai mangiucchiando un
salatino.
«Sei bellissima» ridacchiò Francesca
beccandosi,
però, un dito medio da parte mia. Stefano
ridacchiò ed io mi
apprestai ad andare a sparecchiare i primi tavoli che si erano
liberati, sembrava finalmente che la gente avesse deciso di sloggiare
e tornarsene a casa.
Due ore dopo al locale era rimasto solo il
tavolo di Alessio, perfino Carmen alla fine si era alzata ed in
silenzio se n'era andata. In realtà quella sera mi aveva
fatto anche
un po' pena, in quel periodo pensavo che se non ce l'avesse avuta con
me per il mio passato con Marco io e lei saremmo potute diventare
tranquillamente amiche; dopo aver passato lo straccio sull'ultimo
tavolo mi tolsi il grembiule e sbuffando mi accasciai su una
sedia.
«Mi sa che è ora che leviamo le tende anche
noi»
ridacchiò Alessio guardandomi.
«Per me potete restare quanto
volete, vi lascio le chiavi e chiudete voi» gli risposi con
un
sorriso tirato.
«No no, non vorremmo avere ripercussioni»
ribatté un altro, alzandosi e mettendosi il cappotto; poi
andarono a
saldare il conto e si avviarono lentamente alla porta, Alessio si
voltò e mi sorrise di nuovo. «Ci vediamo
Rè» mi disse, lo salutai
con un cenno del capo vagando con lo sguardo sulle sue spalle larghe
fino al sedere che, ahimè, era sempre stata una piacevole
visione.
«Vedo che non è cambiato in niente...»
mormorò
Francesca facendomi sobbalzare.
«Santa pace, sembra fatto di
marmo» commentai, distogliendo lo sguardo solo quando
uscì
definitivamente dalla porta.
«Rebecca, stai sbavando» mi disse
Francesco indicandomi l'angolo della bocca.
«Come fai a non
sbavare?!» gli chiesi retoricamente, «non puoi
capirle queste cose
tu» sbuffai con disappunto.
«Eh lo so, scusa. Da domani inizierò
a guardare i culi di mezzo paese, così mi farò
anche io una
cultura!»
«In quanto a sederi c'è una vasta scelta in
paese...»
gli risposi.
«Lo sai che ogni tua parola verrà riportata a chi
di dovere?» mi disse con un ghigno malefico stampato in
faccia.
«Sì,
e non mi interessa» ribattei muovendo la mano per aria in un
gesto
di sufficienza. «Sai che mi frega...»
«Vedremo...» ridacchiò
lui. Come al solito continuammo a punzecchiarci fino a che non
uscimmo dal locale, dopo mezz'ora.
«Frà» chiamai, e come da
copione si girarono entrambi i fratell, «Francesco»
specificai
alzando gli occhi al cielo, «domani vieni a fare spese con
me, ti
istruirò sulla nobile arte dell'ammirazione dei
fondoschiena» gli
dissi, facendogli la linguaccia.
«Offri il pranzo?» mi chiese
lui, arricciando la lingua.
«Sì...»
«Affare fatto!»
sorrise sornione, poi mi diede un bacio in guancia e tornò
in
macchina da sua sorella, che l'aspettava impaziente come tutti di
toccare finalmente il letto.
Poi i
giorni, però, iniziarono a passare più lentamente del solito. Era quasi
sconvolgente
la lentezza con cui si susseguivano le ore, soprattutto quando ero a
lavoro, non mi era mai pesato lavorare come in quella settimana e le
continue visite di Carmen non avevano alleviato quella sofferenza,
magari si aspettava di ricevere notizie di Marco ma rimase ogni volta
delusa; d'altronde neanche io l'avevo sentito e mentre mi sbrigavo a
vestirmi per il compleanno di Mirko speravo che quel cretino sarebbe
tornato in tempo per non perdersi la festa di quel piccolino.
In
fretta e furia mi misi una gonna di jeans ed una maglia nera e rossa,
persi un'altra mezz'ora a cercare le ballerine rosse, ma quando le
ebbi trovate fui abbastanza soddisfatta del risultato, non volevo
essere troppo sofisticata, ma una parte di me voleva fare bella
figura con chi sarebbe stato presente, mi sentivo nella classica
situazione in cui una donna voleva e doveva dare il meglio di
sé.
Arrivai con un leggero ritardo alla pizzeria dove si sarebbe
tenuto il compleanno e prima di varcare la soglia feci una serie di
respiri profondi che dovevano servire a tranquillizzarmi ma che
invece non fecero che aumentare la mia ansia; diedi un ultimo tiro
alla sigaretta e alla fine entrai.
La prima cosa che notai è che
faceva effettivamente troppo caldo, la seconda fu il piccolo Mirko
seduto sulle gambe di suo nonno mentre un’altra decina di
bambini
schiamazzava davanti l'enorme caminetto del ristorante.
«Rebecca!»
mi chiamò Antonella venendomi incontro a braccia aperte,
l'abbracciai e fui pervasa da uno strano senso di beatitudine e
felicità, era come se stessi abbracciando una specie di
parente che
non vedevo da chissà quanti anni. «Meno male che
sei arrivata»,
sospirò sciogliendo l'abbraccio, «Mirko non si
scolla da papà e
gli altri bambini mi hanno già fatto venire il mal di
testa... e non
so che fine ha fatto mio fratello» sbuffò
facendomi strada fino al
nostro tavolo.
Ridacchiai mentre mi liberavo della sciarpa e della
custodia della macchina fotografica. «Buona sera»
dissi
rivolgendomi poi ai genitori di Marco, sua mamma si alzò e
mi
abbracciò dolcemente, e lo stesso senso di beatitudine di
qualche
secondo prima mi attanagliò lo stomaco.
«Bentornata piccola» mi
sussurrò Lucia dandomi uno dei soliti baci sulle guance che,
ne fui
certa, divennero più rosse delle mie scarpe.
«Guarda chi c'è...»
disse invece Aldo sorridendomi e costringendo suo nipote a girarsi
per guardarmi; inizialmente Mirko mi lanciò uno sguardo
interrogativo poi però si aprì in un enorme
sorriso e dopo essere
sceso dalle gambe del nonno mi corse in braccio.
«Zia!» urlò
saltando, l'urto mi fece indietreggiare, ma per fortuna evitammo di
cadere tutti e due. È inutile stare a spiegare cosa mi
provocò
quell'abbraccio e quell'appellativo che mi era appena stato dato, ci
mancò poco che scoppiai a piangere mentre il piccolino mi
riempiva
di coccole.
«Come stai ometto?» gli domandai rimettendolo con i
piedi per terra.
«Da oggi ho cinque anni, hai visto come sono
cresciuto?» mi chiese retoricamente lui, «tra un
po' potrai
lasciare lo zio e sposarti con me»
«Non te l'ho detto» gli
dissi con una risata isterica, «ma io oggi sono qui proprio
per
sposarti» gli feci l'occhiolino e lui rise;
«Perché non vai a
giocare un pochino con i tuoi amichetti? Mi sembra che si stanno
divertendo un mondo lì» gli suggerii indicando il
gruppo di bambini
con un cenno della testa.
«Va bene, però tra poco torno da te»
asserì prima di correre incontro a qualche bimbo; io andai a
salutare Aldo e mi misi a chiacchierare un pochino con lui, mi chiese
del mio lavoro e di come stesse andando la mia vita, poi iniziammo a
parlare del piccolo Mirko quando questo tornò da noi con un
enorme
broncio.
«Che
c'è amore?» gli chiese Antonella prendendolo in
braccio.
«Mi
annoio... e voglio papà» le disse tirando su con
il naso; vidi gli
occhi di Antonella farsi lucidi e sentii io stessa un groppone in
gola.
«Non mi piace questa festa» si lamentò
ancora il bambino,
sua mamma mi guardò alla ricerca di aiuto e sorridendole
ringraziai
il cielo di aver lavorato nei centri estivi.
«Ma tu lo sai che la
zia è diventata una strega potentissima?» gli
chiesi avvicinandomi
a loro, Mirko scosse la testa ed io continuai:
«Sì, sì. Non potrei
fare magie davanti a tutti, ma questa sera penso proprio che
farò un
eccezione» aggiunsi facendogli un occhiolino, poi aprii la
busta di
palloncini che era poggiata sul tavolo ed iniziai ad armeggiare fino
a che non mi venne fuori una specie di cane; gli altri bambini
vennero richiamati dalle risate del festeggiato ed in men che non si
dica mi ritrovai circondata da marmocchi che azzardavano le richieste
più strane, c'era perfino chi mi chiese di creargli un carro
armato.
«Il carro armato lo sa fare lui!» trillai indicando
Matteo che aveva appena poggiato il suo giubbotto sull'appendi
abiti.
«Ma lui non è una strega!» si
lamentò una bimba.
«No,
ma è un ottimo aiutante» dissi io porgendo a
Matteo un po' di
palloncini sgonfi; quando poi arrivarono anche Stefano e Francesca la
serata prese decisamente una piega migliore. I ragazzi si occuparono
dei maschietti inventandosi assurdi giochi di carte, mentre io e Fra
avevamo racimolato un’eloquente quantità di
trucchi sparsi nelle
nostre borse e stavamo truccando le femmine già vanitose a
soli sei
o sette anni. All'arrivo della pizza tutti i bambini erano
già
stanchi quel poco che bastava per starsene seduti senza fare troppo
casino dando così a noi adulti la quiete necessaria per
scambiarci
quattro chiacchiere in tranquillità.
«Dopo
ricordami di metterti da parte un pezzo di torta per tuo
fratello»,
disse Lucia rivolgendosi a Francesca.
«Ma tranquilla zia, così
la prossima volta impara a non venire il tuo adorato nipotino»
«Ma
ha la febbre, mica è colpa sua!» alzò
gli occhi al cielo Matteo,
«sei proprio una sorella del cavolo»
sbuffò poi.
«Con certi
fratelli bisogna essere così per forza» gli
rispose a denti stretti
Antonella, guardandomi; io mi strinsi nelle spalle e dopo aver bevuto
un sorso d'acqua uscii di fuori per fumare. La differenza di
temperatura mi fece arrossire il volto e sentivo il freddo pungermi
le guance, con difficoltà accesi la sigaretta ed iniziai a
fumarla,
avida. Marco ancora non era arrivato e a quel punto iniziai a
preoccuparmi ancora di più, non si sarebbe perso la festa di
suo
nipote per niente al mondo, e se fosse successo qualcosa di brutto si
sarebbe saputo, ma quei giorni di totale silenzio mi facevano sentire
oppressa come quando mi prendeva una crisi di claustrofobia; alla
fine si aggiunse anche un senso di vomito quando riconobbi le risate
che fino a qualche secondo prima avevo sentito solo in
lontananza.
«Ah, ciao» disse Marco arrestandosi davanti a me,
il
sorriso era sparito.
«Ciao» risposti guardandolo negli occhi,
«e
ciao a te, Carmen» aggiunsi rivolgendo un sorrisetto verso la
mora,
sorriso che lei ricambiò con uno ancora più
sprezzante.
«Te
l'avevo detto che c'erano tutti» schioccò la
lingua lei continuando
a stringere il braccio di Marco.
«Ci vediamo dentro» borbottò
lui, strattonandola con poca grazia; gettai il mozzicone della
sigaretta che avevo appena finito e me ne accesi un'altra fumandola,
però, con più ingordigia. Non volevo rientrare e
mi stavo
attaccando alla nicotina in modo ossessivo. Non avevo voglia di
rientrare ed essere costretta a sedermi allo stesso tavolo di Marco e
Carmen, magari con la fortuna che mi ritrovavo gli sarei anche
capitata davanti e sarei stata costretta a guardare mentre si
appiccicava al suo braccio come fa una cozza con uno scoglio. Fui
indecisa se finire la terza sigaretta, ma a metà la gettai,
e
convinta dal vento gelido che iniziò a tirare decisi di
rientrare
nella pizzeria con il mio sorriso finto migliore ben stampato in
faccia.
«Stavamo per chiamare la polizia»
ridacchiò Antonella
guardandomi.
«Scusate, ero al telefono» mentii,
spudoratamente.
«E chi era?» mi chiese Francesca inclinando un
po' la testa.
«Amici, di Roma» risposi mangiucchiando qualche
patatina fritta che era rimasta ancora nel mio piatto; Marco mi
guardò di sottecchi ed io alzai un sopracciglio in segno di
dissenso, poi mi alzai e dopo aver sistemato la macchina fotografica
iniziai a fare alcune foto; feci il giro del tavolo e scattai a
raffica qualche primo piano ai bambini invitati concentrandomi, poi,
su Mirko che alla vista dello zio sembrava avesse ritrovato il
sorriso. Continuai così fino all'arrivo della torta e mi
apprestai a
scattare una foto ricordo con tutti gli invitati, grandi o piccini
che erano.
«Zia, vieni anche tu!» trillò Mirko
quando suo zio
lo prese in braccio, sentendomi chiamare in quel modo Carmen storse
la bocca e mi riservò l'ennesima occhiataccia della serata.
«Amore,
ma io devo fare la foto» gli risposi con un sorriso,
«magari
dopo».
«No, la voglio insieme a tutti e due!»
ribatté il
piccolo aggrottando le sopracciglia
«Vai! Ci penso io qui» mi
disse Francesca strappandomi letteralmente la macchinetta dalle mani,
sotto gli sguardi di tutti mi andai a posizionare dopo la torta e mi
avvicinai il minimo ed indispensabile a Marco e al festeggiato.
«Più
vicini» ci incitò Francesca, con un cenno della
mano; alzai gli
occhi al cielo e feci come mi disse, mi avvicinai finché non
sentii
il mio fianco toccare quello di Marco.
«Vuoi venire in braccio a
me?» chiesi a Mirko con un sorriso, il bambino
annuì e Marco me lo
passò per poi stringersi ancora di più a me e
cingermi la vita con
il braccio. Mi irrigidii all'istante e fu talmente evidente che
Francesca dovette scattare un altro paio di foto prima che una si
potesse considerare minimamente decente; mi accarezzò per un
attimo
il fianco, ma quando stava per sciogliere l'abbraccio si dovette
rimettere in posa perché Stefano, con grande entusiasmo di
Mirko,
aveva chiesto a Carmen di farci una foto tutti insieme, così
mentre
pregavo che quella vipera non facesse cadere accidentalmente
la
mia macchina
fotografica mi beavo dell'abbraccio di Marco dimenticandomi
momentaneamente di avercela con lui.
Dopo il taglio della torta
iniziarono ad arrivare i genitori degli invitati e, a poco a poco, se
ne andarono tutti, gli ultimi fummo noi. «Tra due giorni le
foto
dovrebbero essere pronte» dissi ad Antonella aprendo la mia
auto e
posandovi dentro l'ingombrante custodia della macchina
fotografica.
«Tranquilla, magari stampa prima quelle di Mirko,
per le altre c'è tempo» mi sorrise lei mentre
poggiava dolcemente
il figlio sui sedili posteriori facendo ben attenzione a non
svegliarlo.
«Lo sai che non partirà mai questa
macchina?» la
voce di Marco mi fece sobbalzare, mi voltai e lo guardai alzando un
sopracciglio. «Hai lasciato le luci di posizione
accese» mi spiegò
con un cenno del capo.
«Non è possibile che si sia scaricata la
batteria» sbuffai e mi apprestai a fare una prova, girai la
chiave
ma appena provai a dare un po' di gas la macchina sembrò
tossire e
poi morire. «Ti prego, ti prego» mormorai a denti
stretti. «Ti
prego, non mi abbandonare...» ma niente, non sembrava volesse
essere
clemente.
«Dai tesoro, ti porto io» mi disse Matteo
mettendomi
una mano dietro la schiena, ma Marco scosse la testa dicendo che mi
avrebbe portato a casa lui. «A me è di strada, a
te no. Però
potresti portare Carmen» spiegò, senza curarsi
minimamente delle
occhiatacce della mora, e Matteo sbuffò senza preoccuparsi,
a sua
volta, di nascondere l'antipatia che provava verso la ragazza.
«Ok,
visto che siete tutti sistemati noi intanto ci avviamo verso
casa»,
salutammo Antonella e i genitori di Marco per poi avviarci anche noi
alla macchina.
«Ti chiamo domani» urlò Francesca dal
finestrino
della macchina di Stefano, mossi la testa in segno di assenso e
chiusi la portiera della Jeep con troppa foga.
«Allora?» gli
chiesi con un sopracciglio alzato. Non avevo voglia di aspettare che
lui si decidesse a parlarmi, non avevo voglia di aspettare che Marco
iniziasse una qualche conversazione stupida che poi sarebbe
sicuramente degenerata, perciò decisi di colpire per prima e
lo feci
con l'intenzione di affondarlo.
«Cosa?» mi domandò a sua volta
senza distogliere gli occhi dalla strada.
«Quando sei tornato?»
gli chiesi di nuovo, fregandomene di quanto le mie domande potessero
irritarlo.
«Questo pomeriggio»
«E che hai fatto in questo
pomeriggio?»
«Niente, sono tornato a casa e ho dormito» mi
rispose scrollando le spalle, «perché?»
«E Carmen?»
«Quando
ho riacceso il cellulare ho visto le sue chiamate, così l'ho
ricontattata» si spiegò, poi mi guardò
accennando un
sorrisetto.
«Certo, perché giustamente non riusciva a starsene
buona lei» mormorai. «E tu, da buon samaritano,
l'hai subito
chiamata e sei andato a tranquillizzarla»
«Le ho offerto un
caffè...» specificò lui senza togliersi
quel sorriso da schiaffi
sul viso.
«Non vedo cosa ci sia di divertente» sbuffai
accendendomi una sigaretta, «niente è divertente
in questa
storia!»
«Potevi chiamarmi, ti avrei ricontattata e avrei
offerto un caffè anche a te» ridacchiò
ancora Marco, passandosi la
punta della lingua sulle labbra.
«Ma vaffanculo!» berciai
fulminandolo con uno sguardo.
«Smettila di fare la gelosa» mi
canzonò accarezzandomi i capelli. «Anche se hai
sempre avuto il tuo
fascino, da gelosa» rise.
«Io non sono gelosa!» risposi
piccata, incrociai le braccia al petto e mi scansai da lui, irritata.
«E non sono neanche ossessiva come Carmen che ti chiama
trecento
volte al giorno o va dove lavorano i tuoi amici a rompergli il cazzo
con le sue mille domande: "E dov'è Marco?", "Marco vi
ha chiamati?", "Marco qui e Marco lì"...» smisi di
fare il mio monologo interrotta dalla risata cristallina che si
espanse nell'auto. «Marco, vai a cagare!» gli dissi
di nuovo,
guardandolo in cagnesco. Restammo in silenzio fino davanti casa mia,
una volta spento il motore si avvicinò con l'intenzione di
sciogliere le mie braccia che tenevo ancora conserte, ma opposi una
dura resistenza.
«Ti sta per arrivare uno schiaffo, sappilo»
l'avvertii guardandolo negli occhi.
«Lo sai che non puoi fare a
botte con me perché perderesti, vero?»
«Credimi, ho immaginato
talmente tante volte di picchiarti che so bene quali punti
colpire»
soffiai saccente.
«Ok» sbuffò lui scansandosi, era sempre
stato
un tipo permaloso, «comunque la tua macchina è
andata, domani ti
porto la mia C3 e intanto vediamo se quel catorcio si può
sistemare»
«Punto primo, la mia macchina non è un
catorcio!»
sbottai punta nell'orgoglio. «Punto secondo, ci
penserò io a
portarla dal meccanico» continuai gesticolando, «e
terzo: non la
voglia la tua C3!»
«La Classe A ti va bene?» mi domandò.
«No!»
«La Jeep te la scordi» disse Marco accarezzando il
volante.
Alzai gli occhi al cielo sospirando per quanto fosse
deficiente, «non voglio nessuna delle tue stupide macchine
che usi
per fare chissà che cosa con Carmen o chicchessia...
soprattutto non
voglio la C3!» gli spiegai irritata.
«Perché non vuoi la C3?»
mi chiese aggrottando le sopracciglia.
Mi morsi le labbra
maledicendomi per essermi fatta sfuggire quella frase, degludii
sonoramente cercando una scusa plausibile, ma alla fine decisi di
dirgli la pura e semplice verità, anche perché mi
avrebbe subito
scoperta se gli avessi racontato una balla.
«Perché l'avevamo
comprata insieme e... lascia perdere Marco» sospirai
passandomi una
mano tra i capelli, lui approfittò di quel momento e mi
tirò a sé
prendendomi per un braccio.
«Te la volevo prestare proprio per
quel motivo, è la nostra macchina. Non c'è mai
salita nessuna oltre
te...» mi sussurrò mentre cercavo di allontanarmi.
«Che c'è?» mi
domandò, percependo la mia resistenza a quell'abbraccio.
«Niente,
non c'è niente» borbottai irritata,
«è solo che non vedo il
motivo per cui tu debba offrire un caffè a quella
lì»
«Perché
sono un ragazzo gentile?»
«Vabbè, girala sempre come vuoi tu»
sbuffai tentando nuovamente di staccarmi, ma lui mi trascinò
nuovamente a se facendomi sbattere con la faccia sul suo petto, poi
mi prese il volto e mi costrinse a guardarlo negli occhi.
«Sei
gelosa» canticchiò di nuovo facendomi sbuffare per
l'ennesima
volta. «Ah, a proposito: che ci faceva Alessio
all'Havana?» mi
domandò, spiazzandomi. Strabuzzai per un momento gli occhi. Lo
sai che io so sempre tutto, ovunque mi trovi,
l'aveva detto ed io lo sapevo già da tempo, ma non pensavo
che si
fosse aggiornato in meno di ventiquattro ore dal suo ritorno...
maledetto Francesco! Mentalmente mi appuntai di andarlo a trovare il
giorno dopo e di soffocarlo con il cuscino mentre era già
morente a
causa della febbre.
«E che ne so io!» feci spallucce, «era
lì,
con i suoi amici. E' in licenza per un po'»
«Te l'ha detto
mentre prendevi le ordinazioni?»
«No, l'avevo incontrato qualche
giorno prima mentre ero andata a correre... oddio, ora lo stai
facendo tu l'interrogatorio»
«Ero solo curioso» mi rispose lui
senza allentare ancora la presa. «E comunque, tu puoi fare le
domande ed io no?»
«Figurati, tu puoi fare tutto!» ribattei con
una risata, ma mi resi conto che quella frase poteva contenere mille
sfumature, ed infatti Marco si leccò il labbro superiore con
la
punta della lingua, guardandomi; «Nei limiti
dell'accettabile» misi
subito in chiaro, ma oramai era troppo tardi, il suo volto era troppo
vicino al mio, e le sue labbra erano troppo invitanti.
Baciare
Marco, quella volta, fu differente.
Le nostre labbra si
ritrovavano dopo tre anni eppure non sembravano essersi mai divise,
si amalgamavano alla perfezione come una dose perfetta di ingredienti
per una torta. Sentivo la sua lingua rincorrere la mia: la
raggiungeva, la stuzzicava e l'accarezzava con la stessa lentezza con
cui la sua mano accarezzava il mio fianco. Mi strinsi ancora di
più
a lui, volevo sentirmi ancora una volta il pezzo mancante del suo
puzzle personale e il modo in cui mi strinse mi fece sentire
realizzata a tal punto che mi uscì spontaneo un sospiro
profondo.
«Che succede?» mi chiese senza staccare del tutto
le
sue labbra dalle mie.
«Niente, va tutto bene» lo tranquillizzai
abbracciandolo forte.
«Hai sospirato, qualcosa c'è» insistette
lui e questa volta si staccò poggiando la sua fronte alla
mia.
«Niente Marco, era un sospiro di gioia... mi sembra di
essere tornata a respirare dopo tre anni di apnea» confessai,
e
anche se sentii le guance avvampare lo guardai dritto negli occhi e
lui mi sorrise, dolcemente.
«Una volta mi dicesti che rivedermi
fu come rinascere...» disse accarezzandomi il visto e citando
una
frase di Guccini che io avevo volutamente usato in passato.
«Ora io
ti dico che questo bacio è stata la mia rinascita»
aggiunse
passando il pollice sulle mie labbra che, nel mentre, si erano
bagnate con le lacrime che non ero riuscita a trattenere.
Mi
sorrise di nuovo e capii che avrei fatto di tutto per quel sorriso
che illuminava la mia vita, per quei due occhioni che mi stavano
guardando ancora una volta come se fossi la donna più bella
del
mondo.
***
Note
finali:
Pietosa
attesa, me ne rendo conto, ma con la scuola e tutto il resto non ho
avuto un attimo di tempo. Ma ora eccoci qui!
Avete fatto la
conoscenza di un nuovo personaggio, spero vivamente che Alessio vi
piacerà e vorrei sapere che ne pensate. Ma ci sono anche
Antonella e
il piccolo Mirko.. insomma, tanta gente nuova che farà da
cornice a
questa piccola storia senza pretese.
Ora, Marco... non si sa
dov'è andato e probabilmente non lo scopriremo mai
perchè è
narrato tutto dal punto di vista di Rebecca, quindi se lui non
dovesse dirglielo rimarremo tutte con il dubbio, ma tranquille... non
sarà l'unico segreto che ci proteremo dietro.
Carmen e Rebecca...
sono due persone diverse ma che alla fine sono unite dall'amore per
lo stesso ragazzo, il problema è che Carmen non guarda in
faccia
nessuno, mentre Rebecca si fa mille seghe mentali e pensa perfino di
poter diventare amica di Carmen -sì, lo so, è
matta-.
Parlando
della coppia invece, che c'è da dire? Finalmente
è successo
qualcosa, ma niente è come sembra, anche perchè,
come ho detto
mille volte, Marco è un pochino fuori di testa. Vedrete nel
prossimo
capitolo. Voi, comunque, che ne pensate? Come si potrebbe evolvere la
loro situazione?
Non mi dilungo più, aggiungo solo che il
capitolo è stato ri-betato da pind,
l'unica che riesce a scovare gli errori di battitura più
nascosti.
Ringrazio sempre chi si è fermato a leggere, chi
è arrivato fino
qui e chi ha avuto il coraggio di inserire la storia tra la
preferite/seguite. Grazie, grazie, grazie!
Vi ricordo il mio
profilo di FACEBOOK dove potete trovare qualche spoiler, le foto dei
personaggi ed altre cosucce.
A presto, -J
|
Ritorna all'indice
Capitolo 6 *** Snow White ***
[…]
Con
te le ho scese perché sapevo che di noi due
le sole vere
pupille, sebbene tanto offuscate,
erano le tue.
♥
6.
Snow White
Non
riuscivo a capire se il fatto che sentissi le voci dei miei amici di
Roma fosse un sogno o l'inizio di una grave malattia mentale. Non
stavo dormendo, o meglio, ero in quella fase post-sonno in cui i miei
occhi tentavano di aprirsi ma le palpebre restavano appiccicate tra
di loro, quindi la teoria della malattia mentale stava
momentaneamente avendo la meglio. Dopo una dura lotta costrinsi
l'occhio destro ad aprirsi e sentii la risata stridula di mia madre
espandersi per tutta casa; sbuffai e mi alzai dal letto arrancando
fino alla cucina, quando arrivai però dovetti sbattere di
nuovo gli
occhi e stropicciarmeli un paio di volte con la mano per riuscire a
credere che la persona che avessi davanti fosse reale.
«Buongiorno!»
trillò Carlotta venendomi ad abbracciare.
«Ma... ma... che cazzo
ci fai qui!?» berciai ricambiando goffamente
l'abbraccio.
«Buongiorno principessa!» borbottò
ironicamente
mia madre, «vi lascio a voi, la colazione è sul
tavolo» aggiunse
dandomi una leggera pacca sul sedere.
«Oddio, perché sei qui?
Che è successo? E' morto qualcuno? Ecco, lo sapevo, non vi
posso
lasciare soli che...»
«Zitta!» rise Carlotta interrompendo la
mia raffica di domande, «in genere appena sveglia non ti si
può
parlare, mentre ora non stai zitta un secondo» mi fece
notare, mi
sedetti al tavolo e mi versai il caffè nella tazza
invitandola a
spiegarmi la sua presenza lì, in Calabria. «Mi
mancavi, non avevo
niente da fare e sono venuta» spiegò telegrafa.
«E il lavoro?»
le chiesi addentando un pezzo di torta al cioccolato.
«L'ho
lasciato momentaneamente» mi rispose scrollando le spalle
come se
niente fosse.
«Come l'hai lasciato?» le chiesi rischiando di
strozzarmi.
«Sì Rè, non mi sento più
bene in quella libreria,
ho bisogno di una pausa» sbuffò mangiucchiando un
po' di torta
anche lei.
«Va bene, se pensi che sia una cosa migliore ok. Lo
sai che appoggio ogni tua scelta»
«Grazie dolcezza... quindi ho
pensato di prendermi un week-end sabbatico dalla città e
venirti a
fare visita, spero non ti dispiaccia»
«Per me puoi restare
quanto vuoi! I ragazzi che dicono?»
«David ha detto che lo
abbiamo abbandonato... ma ha detto che "se Maometto non va alla
montagna, la montagna andrà a Maometto" quindi
verrà per le
vacanze di natale».
«Ma natale è tra due mesi!» le dissi
alzando un sopracciglio.
«Veramente natale è tra meno di un
mese» ridacchiò Carlotta, «siamo al due
Dicembre» mi ricordò, e
fu come svegliarmi da un lungo sonno, tanto che mi cadde la sigaretta
che avevo appena messo in bocca e assunsi un'espressione da ebete.
«E' già un mese che manco da Roma?» le
chiesi in preda alla
perplessità, lei annuì ed io strabuzzai ancora di
più gli occhi,
«oddio!» esclamai dandomi uno schiaffo sulla
fronte; mentre tentavo
di metabolizzare la notizia del tempo che era passato così
velocemente sentii il portone di sotto aprirsi e i passi di qualcuno
che stava salendo le scale fino alla porta di casa mia. Aspettai che
suonassero il campanello, ma evidentemente mia mamma aveva lasciato
la porta socchiusa perché l’apparizione delle
teste di Matteo e
Marco mi fecero sussultare.
«Buongiorno splendore» mi sorrise
Matteo posandomi un bacio sui capelli, gli sorrisi e poi grugnii un
saluto in direzione di Marco. Erano passati tre giorni dal nostro
bacio e lui non ne aveva ancora mai parlato. Non era mai stato il
tipo che tirava in ballo il passato o dava spiegazioni, faceva ogni
cosa che gli suggeriva la testa, e pur sapendo queste cose avevo
comunque pensato che il giorno dopo il nostro bacio lui si sarebbe
degnato a darmi qualche delucidazione al riguardo, ma mi sbagliavo
anche quella volta.
«Non so se ve la ricordate, lei è
Carlotta»
dissi indicando la mia amica, il sorriso di Matteo si fece ancora
più
ampio e andò a salutarla con due baci sulle guance,
«certo che me
la ricordo» trillò, facendomi tornare in mente la simpatia
che
provava per lei; anche Marco l’andò a salutare, ma
senza tanta
cordialità.
«Allora, qual buon vento vi porta qui?» gli chiesi
spegnendo la sigaretta.
«La tua macchina» mi rispose Marco
tagliandosi un pezzo di torta.
«L’ho momentaneamente
aggiustata, anche se penso non durerà a lungo
Reby… gli do al
massimo due mesi»
«Oddio che ansia!» sbuffai arrotolando sul
dito una ciocca di capelli; stavano succedendo troppe cose e il mio
cervello non riusciva a stare al passo, non appena sveglia e con
quella poca caffeina che avevo assunto.
«Devi capire che quella
macchina è come un malato terminale, fin da quando ti
conosco io ha
fatto la chemiometria, ma ora sta lentamente morendo»
«Dio che
tristezza» commentò Carlotta con un sospiro.
«Ok, dov’è
adesso?»
«In officina…»
«Siete venuti fino qui solo per
darmi la cattiva notizia? Gentilissimi»
«Eravamo andati a fare
colazione e poi abbiamo pensato di venirti a rompere le palle,
l’idea
era quella di svegliarti» mi spiegò Matteo
guardando di sottecchi
Marco.
«E se ora andassimo tutti in officina così io mi
riprendo
la mia macchina?» proposi, «così posso
ridargli la sua» aggiunsi
indicando Marco con un cenno del capo.
«Per me non c’è
problema» asserì Matteo.
«Perfetto, mi cambio e tra cinque
minuti sono nuovamente qui! Socializzate, parlate... fate
qualcosa!»
sorrisi e corsi in camera da letto lasciandoli tutti e tre seduti al
tavolo della cucina. Arrivata in camera presi un paio di jeans ed una
felpa e poi andai verso il bagno, posai i vestiti sul mobile e tornai
indietro a prendere i calzini puliti che avevo dimenticato sul letto.
Mi tolsi il pigiama e mi misi i jeans, poi il reggiseno e mi
apprestai a lavarmi il viso, mentre avevo la faccia spalmata
sull’asciugamano sentii un' imprecazione troppo vicina per
essere
di qualcuno che si trovava in cucina.
«Scusa, c’era la porta
aperta» borbottò Marco.
«Ah, l’avrò lasciata aperta per
sbaglio» scrollai le spalle io, poi presi il mascara e me lo
passai
sulle ciglia guardando dallo specchio Marco che aveva chiuso la porta
e si era poggiato al muro.
«Ti serve qualcosa?» gli chiesi senza
neanche voltarmi.
«No, ti stavo solo osservando»
«Come vuoi» feci di nuovo spallucce e mi sciolsi i
capelli, e scuotendoli mi
resi conto che la maglietta e la felpa erano poggiate sul pomello
della porta, proprio dietro Marco. Feci un respiro profondo e mi
avvicinai allungando un po’ la mano e sperando che capisse le
mie
intenzioni.
«Mi eviti da giorni» borbottò
prendendomi per il
polso; no, non le aveva decisamente capite le mie intenzioni.
«Il
realtà non ti sto evitando, ti sto semplicemente
ignorando… da tre
giorni, per la precisione» gli risposi saccente osservando la
maglia
che penzolava.
«Ancora arrabbiata per quel caffè?» mi
chiese.
Non riuscii a trattenermi e scoppiai a ridere della sua
ingenuità,
anche se avevo sempre pensato che la stupidità di Marco
fosse una
finzione, che era uno di quelli che fa finta di non capire quando gli
fa comodo, come in quel caso.
«Posso essere incazzata per un
caffè?» gli domandai retoricamente, «mi
sto solo relazionando a te
nello stesso modo in cui tu ti relazioni con me» gli spiegai,
ma lui
non mollò la presa.
«Io ti starei ignorando?»
«No Marco, tu
ignori i contorni ed i fatti, di conseguenza io ignoro te»
sbuffai
seccata, iniziavo a sentire freddo senza maglietta.
«Quali
fatti?»
«Gli asini che volano!» replicai ironica,
«guarda che
se vogliamo fare finta che quel bacio non c’è mai
stato per me va
bene eh! Basta saperle le cose»
«Ma che diavolo… perché non
ci dovrebbe mai essere stato?»
«Ah io non lo so, dimmelo
tu»
«Becca ti prego, non la fare così complicata; sai
come sono
fatto, basta» si limitò a rispondere dopo un
attimo di
silenzo.
«Non hai più vent’anni, non puoi
più ragionare
così!»
«Posso, e lo faccio» ribatté prima di
tirarmi verso di
lui e provare a baciarmi di nuovo.
«Spiegami il senso» gli dissi
scansandomi bruscamente.
«Mi mancavi tu, mi mancava il tuo
sapore. Volevo farlo, l’ho fatto» mi
spiegò accennando un lieve
sorriso.
«Ok. Ma... non puoi fare così!» sbuffai
riuscendo
finalmente a liberarmi dalla sua presa, «non sono
più disposta a
sopportare questi tuoi sbalzi d'umore» gli dissi sentendo,
però, un
peso all'altezza dello stomaco ed la mia vocina interiore che mi
accusava di essere una sporca bugiarda.
«Non capisco dove sia il
problema... non ti è piaciuto?» mi chiese alzando
un
sopracciglio.
«Il problema è che non voglio che sia così»
gli dissi mentre mi infilavo la maglietta.
«Ti ho fatto una
domanda: non ti è piaciuto?»
«Non c'entra un cazzo!» berciai
sicura che mi avessero sentito anche Matteo e Carlotta dalla cucina,
«mi è piaciuto, e mi sei mancato anche tu. Ma il
punto è che io
non voglio tornare con te in questo modo», sospirai,
«e siccome ti
conosco bene so che per il momento questo sarebbe l'unico
modo...»
«Tu vaneggi!» mi interruppe lui alzando gli occhi
al
cielo.
«No Marco io non vaneggio, al contrario tuo, io ragiono!
Io ho bisogno di stabilità da te, tu non sei il ragazzo con
cui io
voglio spassarmela, bensì quello con cui pensare al futuro!
Io la
vedo così e tu no»
«Ne hai la certezza?» mi chiese guardandomi dritto negli occhi.
«So
che per il momento non hai la testa per impegnarti seriamente, e lo
sai anche tu» sospirai prendendo la felpa in mano,
«quindi finché
non sarà così anche per te finiamola
qui» feci un lungo respiro ed
uscii dal bagno. Senza mezzi termini gli avevo detto come la pensavo
ed in quel momento avevo preso il suo silenzio come una'utomatica
conferma delle mie parole, eppure c'era una piccola parte di me che
pensava lui fosse nuovamente pronto ad affrontare una relazione.
Dovevo lavorarci su, ma dovevo deciderle io le regole, non potevo
permettere che le sue voglie mi destabilizzassero più del
dovuto.
Gli avrei fatto cambiare idea.
«Tutto bene?» mi chiese Matteo
vedendomi entrare in cucina con una smorfia sul viso.
«Sì, tutto
ok» gli sorrisi mettendomi la felpa, sentii i passi di Marco
e mi
scansai da vicino la porta per non ostruirgli il passaggio,
«andiamo?» chiesi poi, Carlotta si alzò
e mi venne vicino mentre i
ragazzi si apprestarono a scendere le scale.
«Sicura che va tutto
bene?» mi domandò Carlotta sotto voce.
«Sì tesoro, a
meraviglia» tentai di tranquillizzarla con un sorriso ma non
fui
sicura di esserci riuscita, per fortuna la voce di mia madre la
interruppe proprio mentre mi stava per domandare qualcos'altro.
«Dove
state andando?» ci chiese uscendo dalla porta dei casa sua.
«A
prendere la macchina di Rebecca» le rispose Matteo, mia mamma
mi
guardò e poi guardò Marco che se ne stava in
disparte e in
silenzio, forse consocio della poca simpatia che delle volte mia
madre aveva verso di lui.
«Oramai è pronto da mangiare...
mangiate un boccone e poi andate» disse con un sorriso,
tentai di
non sbuffare ma divenni paonazza in volto, doveva essere gentile
proprio ora? Quello fu l'esempio lampante che il tempismo sbagliato
era una caratteristica che avevo ripreso da lei.
«Non vorremmo
disturbare...» mormorò Marco.
«Ma finiscila! E poi mi devi
ancora una partita a carte!» le urla di mio padre ci fecero
ridere,
così ci avviammo tutti verso la cucina e lo trovammo ad
aspettarci
con le mani sui fianchi.
«Sì, ma andate a giocare in salone» li
rimproverò mia madre, «qui è quasi
pronto!» aggiunse alzando gli
occhi al cielo.
«Spiegami questo attacco di gentilezza...»
sbuffai a bassa voce.
«Sto solo provando a farmelo andare
simpatico»
«Marina, non ci sei riuscita in tre anni, non penso
ci riuscirai ora» ridacchiò Carlotta sedendosi.
«Lo so Carlò
ma dovrò pur tentare di nuovo... anche se spero sempre che
questa
torni in se stessa» ribatté dandomi uno schiaffo
sulla testa.
«Ah,
guarda che per me puoi continuarlo ad odiare. Non stiamo insieme,
quindi risparmiati la fatica» le risposi arricciando le
labbra.
«Avete litigato?»
«No»
«Sicura?»
«Che
palle!» gracchiai sedendomi vicino a Carlotta, «non
era pronto il
pranzo?» borbottai tentando di cambiare discorso.
«Ecco perché,
principalmente, non vi sopporto insieme: lo frequenti e diventi
isterica!» mi disse mia madre puntandomi il dito contro,
Carlotta mi
mise una mano sul ginocchio ed io evitai di rispondere a quella
provocazione che in fin dei conti non era nient'altro che la
realtà.
Bastava stare a contatto con lui più di due giorni che la
mia
personalità cambiasse. Non ne capivo bene il motivo, sapevo
solo che
quando stavo con Marco diventavo un'altra persona, una persona che
mia madre non sopportava e che io comprendevo a stento,
perché
quella Rebecca sostanzialmente non ero io. Eppure dicono tutti che
quando si ama qualcuno si è disposti a sopportare tutto, e
così
facevo io da ben tre anni.
L'arrivo di Carlotta coincideva con
uno dei nostri venerdì all'Havana. In realtà noi
eravamo sempre
all'Havana, ma il venerdì e il sabato ci andavamo per puro
divertimento, per lo meno io che non lavoravo nel week-end, ma quel
fine settimana anche Francesca era libera e non vedeva l'ora di
divertirsi con noi, in più mi aveva confidato che quella
sera
sarebbe successo qualcosa che ci avrebbe sconvolto tutti e la mia
curiosità ne stava risentendo.
«Quindi voi state praticamente
ogni sera lì?» mi chiese Carlotta, perplessa.
«Sì» le dissi
di nuovo mentre mi infilavo gli stivali.
«E non vi rompete le
scatole?» mi domandò, forse per la millesima volta.
«Lo so, è
difficile da capire per chi vive in una città come
Roma» tentai di
spiegarle, «ma quando siamo tutti insieme non conta dove
andiamo...
e poi l'Havana è diventato una seconda casa per
tutti»
«Sarà...
ma una volta odiavi la routine» fece spallucce lei mentre si
metteva
il cappotto.
«Odio la routine in città, ma qui mi sta bene
così»
tagliai corto, poi guardai il display del cellulare accendersi e
lessi al volo il messaggio che mi aveva mandato Matteo,
«perfetto,
come al solito siamo in ritardo!» osservai girandomi la
sciarpa
attorno al collo, «e tu hai fatto colpo, di nuovo»
aggiunsi con un
sorriso malefico.
«Cosa?» balbettò Carlotta avviandosi
verso la
porta.
«No niente» ridacchiai io chiudendo casa.
«Posso
sapere che hai detto?» insistette Carlotta mentre stavo
ingranando
la prima.
«Che hai fatto colpo. Cioè, lo avevi fatto anche
anni
fa, quindi hai confermato un colpo» blaterai senza
distogliere lo
sguardo dalla strada.
«Sei scema?» mi chiese retorica,
«cioè,
più scema del solito...» rifletté poi.
«Tranquilla, va tutto
bene» ridacchiai ed accelerai, se non fossimo arrivate in
meno di
cinque minuti mi sarebbe toccato pagare da bere a tutti, era la
regola.
Dopo una serie di inflazioni del codice stradale e un
parcheggio fatto alla bel e meglio arrivammo in tempo; Francesco
stava già controllando l'orologio e la sua faccia delusa mi
fece
sorridere vittoriosa.
«Tranquilla, non sei l'ultima» mi sorrise
Stefano,
«Chi manca?» gli chiesi andando a salutare,
intanto,
Francesca che aveva un sorriso da ebete stampato in faccia.
«Il
tuo amico» mi rispose suo fratello, seccato.
«Strano, i miei
amici sono tutti qui» gli risposi saccente.
«Ah è vero, è più
di un amico» ribatté lui e si beccò uno
scappellotto da parte mia,
«comunque eccolo» aggiunse facendo un cenno del
capo. Mi girai e
sgranai gli occhi. Il fatto che fossi miope era chiaro a tutti, ma le
visioni non le avevo mai avute, per cui strizzai di nuovo gli occhi
ma la bionda affianco a Marco non sparì come per magia e,
anzi,
avanzò verso di noi assieme a lui.
«E' possibile che ne esce
fuori sempre una?!» sbuffò Francesca leggendomi
nella mente, io
sospirai profondamente e tentai di far finta di niente, come sempre.
«Troverà gli sconti al super mercato, il tre per
due è sempre
conveniente» dissi scrollando le spalle.
«Lo so, devo pagare da
bere a tutti» alzò subito le mani Marco con un
sorriso, «anche se
effettivamente il ritardo non è stato opera mia»
aggiunse facendo
ridacchiare l'essere al suo fianco.
«Ce l'hai mentale il
ritardo» borbottò Francesca e dovetti trattenermi
dallo scoppiare a
ridere.
«Lei, comunque, è Daniela... per chi non la
conoscesse»
si rivolse a noi donne, soprattutto a me e Carlotta.
«Piacere,
Rebecca» sorrisi stringendole la mano e già sapevo
che non mi
sarebbe andata a genio, odiavo fare strette di mani con chi sembrava
avesse un budino a posto dell'arto. Dopo i convenevoli e le
frecciatine rivolte a quella che sembrava la coppia della serata
decidemmo di entrare e sederci al nostro solito tavolo, ma con nostra
grande sorpresa Vincent ci aveva riservato il privè
più grande,
cosa di cui tutti noi restammo esterrefatti, tranne Francesca e
Stefano.
«Ok, io devo bere» esclamai dopo aver quasi
vomitato
alla vista di Daniela senza cappotto.
«Ma deve fare un strip?»
mi domandò Carlotta, guardandola scioccata.
«Non ne ho idea, ma
quel cretino dopo mi sente, avevamo detto niente estranei questa
sera» borbottò Francesca, «ovviamente tu
sei esclusa, gli amici di
Rebecca sono dei nostri» si affrettò ad aggiungere
guardando
l'altra mia amica.
«Grazie» le sorrise Carlotta, poi si
alzò e
mi tese la mano, «avanti, il bancone ci aspetta» mi
disse, mi alzai
e diedi un ultimo sguardo alla strana coppia prima di dirigermi verso
il bar.
Ci sedemmo sui primi due sgabelli che si liberarono e
chiesi ad Antonio, il barista, di farci due Long Island belli forti e
il risultato superò, fortunatamente, di gran lunga le
aspettative.
«Seriamente, vai li e tiragli un tavolo» mi
suggerì
Carlotta guardando Marco.
«Gli darei troppa soddisfazione» gli
risposi prima di bere l'ultimo goccio che era rimasto nel bicchiere,
«e poi non sono io quella che lo farà vergognare
come un cane,
bensì lei» aggiunsi indicando con un cenno del
capo Carmen.
«Che
sarebbe?»
«Quella che si tromba in genere. Lei lo ama follemente
e pensa di essere la sua unica ragazza-sesso» spiegai alzando
gli
occhi al cielo, il cocktail stava facendo il suo effetto e ringraziai
con un sorriso Antonio.
«A quanto vedo hai già pensato a
tutto»
«Tesoro, sarò pure tornata la Rebecca innamorata,
ma il
gene della stronza non l'ho perso del tutto» le risposi
ridacchiando, poi ci alzammo con l'intento di riavviarci di nuovo
verso il nostro tavolo, ma sentii una mano fare pressione sul mio
polso; mi voltai e sorrisi in direzione del suo
possessore.
«Buonasera» mi salutò Alessio.
«Ciao!» dissi
forse con troppa foga, «lei è Carlotta, una mia
amica» aggiunsi
voltandomi, ma mi resi conto che Carlotta era tornata al nostro
tavolo senza accorgersi che io mi ero fermata. «Ehm... giuro
che è
una persona in carne ed ossa e non la mia amica immaginaria»
mi
giustificai sbuffando.
«Tranquilla, l'avevo vista» ridacchiò
Alessio, «avete cambiato tavolo?» mi chiese poi.
«Sì, questa
sera dovevamo stare più larghi possibile» gli
spiegai con una
smorfia di disgusto guardando in direzione di Marco e i miei occhi
incrociarono i suoi per una frazione di secondi. «Tu invece,
sei da
solo?» gli chiesi tornando a posare lo sguardo su di lui. Lo
squadrai per bene e accennai un sorriso alla vista del suo corpo
perfetto, la camicia bianca gli fasciava l'ampio torace per poi
restringersi sulla vita, piccola al punto giusto. In quel momento mi
ricordai della visione di Marco all'entrata, dei pensieri che feci
vedendolo infilarsi al volo la giacca nera e di quanto fosse bello
vestito in quel modo; l'avevo sempre adorato in giacca e camicia,
anche se il suo fisico non era asciutto come quello di Alessio, lui
era comunque perfetto, per me.
«No, sono con i miei amici» mi
rispose Alessio scuotendomi dai miei pensieri; mi maledii mentalmente
e mi promisi di bere un altro bicchiere.
«Ok...» risposi a corto
di idee, «ci vediamo in giro allora!» lo salutai
con due baci sulle
gote e mi diressi verso il tavolo buttandomi poi sul divanetto
affianco a Francesca. «Datemi un bicchiere di
champagne» mormorai
guardando la bottiglia che, però, era ancora chiusa.
«Che ti ha
detto?»
«Niente Frà, abbiamo parlato del più e
del meno... ah,
grazie per avermi mollata lì» gracchiai poi in
direzione di
Carlotta, che però era impegnata a conversare con Matteo,
quindi
molto probabilmente era come se avessi parlato ad un muro.
«Che
palle» sbuffai, «siete tutti accoppiati! Rimaniamo
io e tuo
fratello, gli unici single della serata, forse della storia!»
«Parla
per te» borbottò Francesco, «non voglio
diventare come te»
aggiunse facendomi l'occhiolino, gli feci una pernacchia e poi
lanciai un altro sguardo a Marco impegnato a farsi sussurrare
qualcosa da Daniele; doveva essere qualcosa di veramente
interessante visto il sorrisetto che aveva stampato sul viso.
«Ok...
visto che non so per quanto tempo tu sarai lucida abbastanza da
capire, credo sia ora di parlarvi, a tutti!» alzò
la voce
Francesca, e tutto il gruppo si voltò per ascoltarla.
«Ora?» le
chiese Stefano e non riuscii a fare a meno di notare il tremolio che
gli era preso alla mano.
«Oddio» dissi guardandoli,
«oddio!»
ribadii con gli occhi sgranati.
«Smettila» rise Matteo
guardandomi di sbieco.
«Ok... però ribadisco: oddio!» mormorai
con un risolino, e mi scrissi un altro dei miei post-it mentali: non
bere mai più un Long Island preparato da Antonio.
«Lei lo sa? Lo
sa lei e non lo sa tuo fratello?!» iniziò a dire
Francesco in
direzione della sorella che non sapeva più come farci
zittire,
guardò in direzione di Stefano come per cercare aiuto e lui
le prese
la mano sinistra, stringendogliela, poi estrasse un qualcosa che
brillava un po' troppo e che in attimo dopo si trovava sull'anulare
di Francesca.
«Ci sposiamo» disse Stefano, pacato.
«Perché,
stavate veramente insieme?» chiesero Matteo e Marco, stupiti.
Mi
portai la mano sulla bocca dallo stupore e l'unica cosa che riuscii a
dire fu: «sei incinta!»
«Cosa? No!» gracchiò in coro la
coppia. «Te l'avevo detto che sarebbe stata la prima cosa che
avrebbero detto» borbottò poi Francesca scuotendo
la testa. «Non
sono incinta» mise in chiaro di nuovo. «E' solo...
abbiamo
aspettato tanto tempo. Ci siamo sempre amati e non abbiamo mai avuto
le palle per dircelo» iniziò a spiegarci con gli
occhi che le
brillavano di gioia, «ci conosciamo da sempre, quindi non
vediamo la
necessità di fare anni di fidanzamento, inutili tra
l'altro»
ridacchiò guardando Stefano, «per cui... eccoci
qui. Ci sposiamo
tra un anno» concluse; partirono applausi e fischi e tutti si
alzarono ad abbracciare la coppia felice. Per quanto mi riguarda
rimasi seduta in una specie di stato catatonico, con le lacrime agli
occhi. Mi feci coraggio e li andai ad abbracciare, scoppiando a
piangere.
«Smettila o farai piangere anche me» mi
sussurrò
Francesca stringendomi.
«E' che... è una cosa bellissima! Tutto
quello che hai detto, è fantastico» blaterai
asciugandomi le
lacrime ma senza riuscire a smettere.
«Sono parole mie» si pompò
Stefano abbracciandomi.
«Oddio» dissi singhiozzando, «siete
bellissimi. Sei un uomo con le palle, che non ha paura di dimostrare
quanto vale alla donna che ama» gli dissi dandogli una pacca
sulla
spalla, ma guardando con la coda dell'occhio Marco. Sentivo la testa
girarmi e l'aria che mi riempiva i polmoni non mi permetteva di
respirare al meglio, ma non capivo se era dovuto all'alcool o ad
altro. «Ora scusatemi, devo prendere aria o dovrete celebrare
prima
il mio funerale» gli dissi allontanandomi; sentii la mano di
Carlotta stringere la mia e ci dirigemmo verso la porta sul
retro.
«Rè...» mi sussurrò
poggiandomi una mano sulla spalla,
mi accesi una sigaretta e tentai di fermare le lacrime.
«Scusa...
non ci riesco» mi arresi e continuai a piangere. Non riuscivo
a
capire cosa mi stesse prendendo, ma dopo aver sentito le parole di
Francesca ebbi come l'impressione che la mia vita sarei sempre stata
destinata a viverla da sola, perché Marco non avrebbe mai
avuto le
palle che aveva avuto Stefano, ed io non mi sarei mai accontentata di
vivere con qualcuno che non fosse lui.
«Respira Rè, devi
respirare» mi suggerì Carlotta sentendomi sempre
più affannata,
«respira e tranquillizzati. Andrà tutto
bene»
«Non andrà bene
un cazzo!» berciai tirando un altro po' dalla sigaretta,
«scusa,
non volevo urlare con te» mi affrettai a dire continuando a
piangere, «non so cosa mi stia prendendo, non so
perché sto
reagendo così. Non riesco a smettere di piangere»
le spiegai
incazzandomi con me stessa.
«Hai un attacco d'ansia... la tua
borsa è dentro?» mi chiese, ed io annuii.
«Hai la pochette
d'emergenza?» annuii di nuovo e lei rientrò,
probabilmente era
andata a prendermi le gocce di biancospino che portavo sempre con me;
sospirai e gettai la sigaretta per poi piegarmi sulle ginocchia e
stringermele al petto. Chiusi gli occhi e feci dei respiri profondi,
riuscii a fermare le lacrime, ma non riuscii a togliermi quel senso
di oppressione che sentivo dentro di me e che mi schiacciava.
Carlotta tornò con tutta la mio borsa e dopo essermi messa
cinque
gocce sotto la lingua la situazione sembrò migliorare,
così andai
in bagno e mi aggiustai il trucco per poi tornare definitivamente al
tavolo, con un sorriso tirato.
«Come stai?» mi chiesero tutti,
apprensivi; Marco mi guardò, senza parlare.
«Bene, bene» li
rassicurai, «ora smettetela di rompere le palle a me e
festeggiamo
questi due!» dissi andando ad abbracciare di nuovo Francesca.
«Mi
hai fatto prendere un colpo. Avrei dovuto rimpiazzare subito una dei
testimoni» sbuffò stringendomi.
«Oddio, non ho niente da
mettermi» sbuffai facendola ridere; poi presi la bottiglia di
champagne e la stappai riempendo i bicchieri di tutti, facemmo un
brindisi ed iniziammo a prendere in giro i futuri sposi ricordando
aneddoti divertenti e scherzando sul loro futuro più
prossimo;
perfino Vincent riuscì a staccare un attimo con il lavoro e
venire a
brindare con noi, lui era l'unico che sapeva tutto fin dall'inizio e
ci raccontò che Stefano era andato da lui a chiedergli
consiglio e
poi lo aveva trascinato in gioielleria.
«Carmen ad ore dieci» mi
sussurrò in un orecchio Francesca, io mi accoccolai meglio
sul
divanetto ed accavallai le gambe, poi drizza la schiena e sorseggiai
un po' del mio drink, il tutto con molta teatralità.
«Inizia lo
spettacolo» canticchiai alzando lo sguardo in direzione di
Carmen;
arrivò e si piazzò dritta davanti Marco e
Daniela, li squadrò per
qualche secondo e poi parlò: «Mi devi delle
spiegazioni».
«Io
non ti devo niente» le rispose lui secco tornando poi a
parlare con
la bionda.
«Invece sì!» continuò Carmen,
gli prese il volto
tra le mani e l'obbligò a guardarla, fischiai sapendo quanto
quel
gesto avesse irritato Marco che, infatti, si alzò di scatto.
«Cosa
cazzo fischi tu!?» mi chiese la mora voltando appena la testa
in mia
direzione.
«Lasciala fuori» disse Marco digrignando i
denti.
«Oh, ti scopi Daniela, ma nessuno può toccare
Rebecca,
come funziona la cosa?» gli chiese retoricamente Carmen
mentre io mi
ero irrigidita sul divanetto, d'un tratto mi sembrò una
cattiva idea
usare Carmen per fargliela pagare. «E a te tutto questo sta
bene,
scommetto?» disse rivolgendosi a me.
«Cosa... cosa centro io?»
le chiesi con un cipiglio.
«Niente, ti sei sempre accontentata
tu, non l'hai mai domato, stava con te eppure veniva al letto con
me...»
«Non penso proprio...» le risposi alzandomi di
scatto,
stavo per avanzare verso di lei, ma sentii la forte presa di Vincent
sul mio braccio che mi ritirò a sedere, al suo fianco e mi
sussurrò
di stare ferma.
«Ho detto: lascia fuori Rebecca» ribadì
Marco
con un sospiro.
«Tranquillo, non te la tocca nessuno, lo sanno
tutti che lei è intoccabile» gli rispose lei,
«e mi stupisco che
Daniela sia qui a compiacerti mentre tu guardi palesemente
un'altra»
aggiunse. «Quando tornerai in te fammelo sapere, io ho
momentaneamente chiuso con questa merda» concluse Carmen, poi
girò
i tacchi e tornò verso la pista mentre al nostro tavolo non
volava
una mosca; sentivo gli occhi di Marco addosso, ma feci di tutto per
non cedere alla tentazione di riguardarlo.
«Oh mio Dio. Sono
stata così cieca per tutta la sera...» disse
Daniela rompendo il
silenzio e alzandosi di scatto come se si fosse risvegliata da un
lunghissimo sonno, «mi fai schifo» aggiunse prima
di versare in
faccia a Marco quel poco di champagne che era rimasto nel suo
bicchiere.
«Uh la la, le gatte morte non sono poi così
morte»
dissi a mezza voce con il volto rosso di rabbia. Per la prima volta
in tutta la mia vita mi si era rivoltato contro quello che pensavo
essere un piano geniale, non avrei mai pensato che Carmen fosse
così
arrabbiata da mettere in mezzo me, e le sue parole mi colpirono forse
peggio di uno schiaffo. Ero sicura che Marco non mi avesse mai
tradito, per lo meno quando decidemmo di metterci insieme sul serio,
ma nessuno mi dava la certezza di essere la sua unica ragazza anche
quando ci frequentavano e basta. Era una cosa che io avevo sempre
dato per scontato, ma da quel momento Carmen mi mise la pulce
nell'orecchio, ed era molto fastidiosa.
«Dai, siediti e
asciugati» Matteo si era alzato e aveva praticamente spinto
Marco a
sedere, poi gli aveva passato un fazzoletto ed era rimasto accanto a
lui, impaurito per la sua possibile reazione.
«Devi ammetterlo,
te le cerchi» gli disse Stefano, «anche se Daniela
ha
esagerato»
«Ha avuto stile, però» commentai io,
senza riuscire
a trattenermi.
«Sì, ma è inutile che parli, una
scenata del
genere tu non l'avresti mai fatta» osservò
Francesco prendendo
subito le difese del suo amato cugino.
«E' vero, non mi sarei mai
azzardata di fare questo casino in pubblico semplicemente
perché
conosco il suo carattere, ma a casa l'avrebbe pagata cara; lo sa
bene» scrollai le spalle e lo guardai di sottecchi mentre
bevevo un
altro sorso di champagne.
«Smettetela di parlare di me, sono qui
e vi sento» sbuffò Marco, «continuiamo a
festeggiare, per favore»
disse e lo prendemmo in parola, nessuno parlò più
di quello che
successe, anche se ben presto Marco mi avrebbe dovuto dare delle
risposte riguardo le insinuazioni di Carmen.
Visto
che Carlotta sarebbe rimasta fino al lunedì decidemmo di
organizzare
due giornate in montagna, giusto per non stare sempre all'Havana;
arrivammo alla casa di Marco nel primo pomeriggio e ci sistemammo
nelle stanze. Avevo sempre amato quella casa e tornarci dopo tanto
tempo mi aveva provocato un piccolo big bang interiore di
ricordi.
«Tutto ok?» mi chiese Carlotta poggiando a terra la
borsa.
«Sì, tutto ok... giusto qualche ricordo»
le
sorrisi.
«Non capisco: perché non state insieme? Ieri sera
ti ha
anche difesa contro quella lì, ti ama ancora. Tu lo ami
ancora»
«Perché lui non vuole legarsi»
«Tre anni fa però
l'aveva fatto...»
«Sono cambiate tante cose, lui stesso è
cambiato. Devo fargli capire che le sue teorie sono sbagliate,
perchè
ha paura di farmi del male, ne ha sempre avuta» sbuffai
legandomi i
capelli in una coda alta.
«Capisci anche tu che non ha senso...
secondo me servirebbe solo parlarne e arrivare ad una conclusione
insieme»
«Ci sono arrivata io per tutti e due, ieri mattina:
quando sarà pronto a mettere la testa a posto mi
farà un
fischio»
«E tu lo aspetterai all'angolo, fino a quel
momento?»
«L'ho sempre aspettato, non sono mai stata
all'angoletto, ma l'ho sempre aspettato» le risposi con un
sorriso.
«Ah, questo si che è amore!» sentii
sospirare alle mie
spalle, mi voltai e vidi Francesco allo stipite della porta che
sogghignava.
«Francesco non
so a
cosa paragonare la tua simpatia, giuro!» borbottai
guardandolo
storto.
«Non lo so, ad un fiore che sboccia in primavera?»
mi
chiese provando a fare gli occhi dolci, «e poi lo sai che io
ho
sempre fatto il tifo per te» aggiunse venendomi ad
abbracciare.
«Sì
certo, come no» mormorai aprendo le braccia.
«Sul serio Rè,
quando ti ha lasciata in quel modo gli ho scritto una serie di
lettere che se le avesse viste il papa mi avrebbe sicuramente
scomunicato» me lo raccontò con una tale
semplicità che non potei
fare a meno di ridere, come se quello che aveva fatto fosse stata la
cosa più normale del mondo.
«Ti credo. Però ora la situazione è
ben diversa» sospirai guardandolo negli occhi.
«Tu credi?» mi
chiese, retorico.
«Bé, sì. Tuo cugino è
tornato quello di un
tempo e io non so come gestire la situazione... ieri gli ho detto che
finché non metterà la testa a posto non ci
saranno spazio per
effusioni ,di ogni genere...»
«Però?» mi domandò Francesco,
sorridendo sotto i baffi.
«Eh, però... però non riesco a fare a
meno di pensare a lui, a noi. Oddio, perché non posso mai
amare una
persona normale?
Che ho fatto di male per meritarmi questo?!»
chiesi con teatralità.
«Ah, l'amore!» ripeté lui.
«Ma
quale amore?!» gracchiai con una smorfia.
«Ma l'hai appena detto
tu...»
«Nano, prova a dire in giro quello che hai
sentito e ne pagherai le conseguenze» lo minacciai
puntandogli il
dito contro il petto.
«Marco!» urlò di tutta risposta correndo
verso il salone, lo rincorsi tirandogli le ciabatte e per poco non
presi la faccia del povero Matteo che stava armeggiando con il
caminetto. «Marco!» urlò di nuovo
cercando di richiamare
l'attenzione del cugino.
«Che ti succede?» gli chiese il diretto
interessato alzando un sopracciglio.
«Lascialo in pace, deve fare
il cretino per mettersi in mostra»
«Ho sentito Rebecca che...»
iniziò Francesco prima che gli tappai la bocca con la mia
mano.
«Che
raccontavo a Carlotta di quando siamo rimasti chiusi fuori in pieno
novembre» mentii con una risata isterica, Marco mi
guardò
visibilmente incredulo e poi alzò gli occhi al cielo.
«Pessima
bugiarda, ricordalo» soffiò a due metri dal mio
volto, poi come se
niente fosse andò ad aiutare Stefano a portar dentro la
legna.
«Io
ti ammazzo!» berciai contro Francesco prima di iniziare a
fargli il
solletico.
«Hai il mio appoggio» asserì Francesca
uscendo dalla
cucina con un pezzo di pane in mano.
«Carlotta aiutami tu» pregò
allora lui mentre rideva.
«Non posso, Rebecca picchia forte» si
scusò lei, ridendo; continuai per un altro paio di minuti
poi decisi
di smetterla e di gettarmi sul divano affianco ai ragazzi che si
stavano godendo il tepore del grande caminetto dopo essere riusciti
ad accenderlo.
«E' questo il bello del termo-camino» sospirai
allungando involontariamente le gambe su quelle di Marco, era una
posizione che prendevo sempre e quando me ne accorsi tentai di
ritrarmi, ma lui mi bloccò riservandomi un mezzo sorriso.
«Sì,
ma vuoi mettere la bellezza della fiamma vera?» mi fece
notare
Matteo.
«No, per carità. Il camino vero è
affascinante, ma io
sono talmente scarsa che dopo cinque minuti lo farei spegnere»
«Non
sei scarsa, ti pesa il culo a mettere la legna» mi disse
Francesca
facendo ridere tutti.
«Non è vero!» borbottai,
«diglielo, mi
divertivo sempre a riempire il camino» frignai tirando la
maglietta
di Marco.
«Il problema è che era troppa» mi
rispose lui,
ridendo.
«Ma dicevi che andava bene» mi lamentai incrociando
le
braccia al petto.
«Eri così felice! Non potevo distruggere i
tuoi sogni da bambina piromane» mi prese in giro lui facendo
ridere
tutti.
«La prossima volta vorrà dire che ci
infilerò te»
ribattei facendogli una pernacchia.
«Ah, l'amour» sospirò
Francesco ridacchiando.
«Taci!» gli urlò contro sua sorella
tirandogli una cuscinata in piena faccia.
«Oddio, no» si lamentò
Stefano, ci guardammo e spiegammo a Carlotta che adesso sarebbe
iniziata la guerra, così si spostarono tutti sul divano
dov'eravamo
seduti io e Marco costringendomi a stare in braccio a lui e ad
osservare quei due che si scannavano.
«Almeno tappategli la
bocca» mormorai dopo il terzo gridolino di Francesca, non ce
la
facevo più a sentire le loro urla, così me ne
andai in cucina ed
iniziai a tagliare il pane per ammazzare il tempo. Avevo sempre
odiato tagliare il pane e sostanzialmente non ne ero mai stata
capace, a meno che una persona non si accontentasse di mangiare una
fetta alta dieci centimetri, così rinunciai subito e decisi
di
fumare una sigaretta, mi avvicinai all'ampia finestra e guardai di
fuori, pensierosa. Il cielo era bianco e il vento soffiava forte tra
gli alberi, le previsioni davano possibili nevicate per quella notte,
ma noi le sfidammo imperterrite. Mi era sembrata una bella idea,
passare il fine settimana in montagna, ma appena avevo messo piede in
quella casa quella sensazione si affievolì. I ricordi erano
troppi e
mi resi conto che più tempo passavo dentro quelle mura e
più si
facevano nitidi, e più ricordavo più faceva male.
«La lotta è
finita» mi avvisò Marco spuntando al mio fianco,
ero talmente
sovrappensiero che non lo sentii arrivare, così dovetti
asciugarmi
velocemente qualche lacrima che proprio non ce l'aveva fatta a
starsene buona nell'apparato lacrimale.
«Meno male» sorrisi, lui
mi sorrise a sua volta e mi passò il braccio sulle spalle
stringendomi un poco a se. Sospirai e iniziai a sperare che quel fine
settimana passasse in fretta, cosa che ovviamente non accadde.
***
Note
finali:
remetto col dire che postare non era in programma, perché è un lungo periodo che non scrivo e sono in ritardo con la mia tabella di marcia; però lunedì parto, e ci tenevo a mettere questo capitolo soprattutto perché per me è uno dei capitoli più speciali, non tanto per quello che succede, ma per la presenza di Carlotta. La poesia è di Eugenio Montale, ed il titolo è il soprannome che io ho datto alla mia Carlotta. Spero che sarà di vostro gradimento e che attenderete pazienti fino a settembre.
Vi ricordo il mio
profilo di FACEBOOK dove potete trovare qualche spoiler, le foto dei
personaggi ed altre cosucce.
Buone vacanze a tutte, -J
|
Ritorna all'indice
Questa storia è archiviata su: EFP /viewstory.php?sid=1014178
|