La città vecchia di CricetoBilly (/viewuser.php?uid=184254)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Barbara ***
Capitolo 2: *** Barbara (Via del Campo) - Parte seconda ***
Capitolo 1 *** Barbara ***
barbara
Barbara
Via del Campo, una stradina
stretta e tortuosa nel cuore di
Genova, appartiene a quella rete di vicoli dove mai e poi mai puoi
incontrare
la Gente.
Con
Gente mi riferisco agli altolocati, agli aristocratici,
e a tutti coloro che storcono il naso e voltano la vista quando uno
straccione
pulcioso qualunque gli passa accanto.
Loro ignorano e vanno oltre,
guidano le loro autovetture e
la mattina, appena svegli, fanno colazione sfogliando un quotidiano con
gli
amici.
A loro il pane non manca mai,
hanno domestiche in divisa che
svolgono ogni sorta di servizio, mentre le loro mogli, bellissime dame
ricoperte d’oro e di vestiti all’ultima moda, li
accompagnano per le strade,
nei teatri e nei più suntuosi ristoranti con quel sorriso
meraviglioso e
perenne stampato sul volto.
E perché mai
dovrebbero confondersi con noi, la Gentaglia?
Quelli che tirano avanti giorno
per giorno, che mangiano
pane duro e raccolgono le molliche sotto il tavolo, quelli che dormono
il più
stretti possibile, non per affetto, né per amore, ma per il
freddo che ogni
notte entra nelle ossa e fa tremare i cuori.
Ogni figlio che arriva porta
nuove braccia per lavorare, e
se la povertà cresce oltre, diviene anch’esso una
maledizione.
E questa è la
Gentaglia, vestita di stracci e miseria, che
si sente a suo agio solo dove il sole non batte, dove l’aria
è spessa e carica
d’odori.
Ed io ne faccio parte, con i
miei sedici anni e gli occhi
già troppo stanchi, di una vita ricca di dolore, perdita e
povertà.
Provengo da una famiglia umile
e quel poco che resta di essa
siamo mia madre e me.
Viviamo alla giornata, tirando
avanti con poco di quello che
riesco a racimolare, il resto serve per le medicine. Mia madre si
ammalò poco
dopo la morte di mio padre, ha bisogno di cure e di affetto, eppure
nemmeno
quelli riescono a bloccare o arrestare l’avanzare della
malattia.
Così a dodici anni
ho dovuto porre fine all’età dei giochi,
dove è permesso perfino
sognare.
Ho abbandonato Nancy, la mia
bambola di pezza e ho smesso di
andare a scuola.
Sulle mie spalle da bambina, da
allora, grava la
responsabilità della mia famiglia.
Prima della morte di mio padre
non ho mai conosciuto cosa
realmente fosse la miseria, non abbiamo mai navigato nell’oro -certo- eppure lui
spezzandosi la vecchia schiena
da muratore ci ha sempre garantito un tetto sopra la testa, il pane in
tavola e
nelle giornate di festa un po’ di manzo di seconda scelta con
un po’ di vino
annacquato. Mi sono sempre vestita degli stracci usati di mia sorella,
ogni
buco ed ogni macchia sono segni indelebili degli anni trascorsi. A
dieci anni
ricevetti da Emilia, mia sorella più grande, una camicetta
blu. Qualche giorno
dopo si sposò e da allora la vidi sempre più
raramente, quando ci veniva a
trovare, fra un turno e l’altro in lavanderia. Mi
raccontò con un certo rossore
sulle guance che quella stessa camicetta blu fu testimone del suo primo
bacio,
dato al figlio della lavandaia che dopo pochi anni chiese la sua mano a
nostro
padre.
Ricordo la mia invidia, lei
felice e innamorata aveva
coronato il suo sogno d’amore, e sposandosi con
l’uomo che amava si era
conquistata la libertà, lasciandosi dietro quella casa
piccola e ammuffita.
Quanto mi sbagliavo.
Ma come biasimarmi, ero solo
una bimba ignara del mondo fuori
quelle quattro mura che mi avevano visto nascere e crescere.
Cosa ne sapevo degli stenti e
delle fatiche necessari a
tirare avanti una famiglia?Dei debiti, del lavoro, della miseria?
Neanche per Emilia è
una vita facile, passa le ore fra il
lavoro e le cure domestiche, passava a trovarci ogni fine mese per
contribuire,
con quel poco che riusciva a mettere da parte per se stessa, alle cure
mediche
per la mamma. Ma si tratta ormai di qualche anno fa.
Iniziò pian piano a
stancarsi della situazione, insistette
per rinchiudere nostra madre in un centro anziani statale credendo che
ciò avrebbe
reso migliori le vite di tutte e tre.
Ma io non volevo, ho sempre
saputo che dietro quella
facciata da donna vissuta, appassita, stanca e apatica, c’era
ancora quella
dolce e meravigliosa creatura che mi aveva sempre donato tutto
l’amore di cui
era capace.
Sapevo anche cosa si dice di
quei centri, dove gli anziani
vivono affollati e abbandonati, dove vengono fatti morire di fame,
umiliati e
derisi. Conosco persone rinchiuse la dentro e morte dopo pochi mesi.
Forse ciò che sento
dire di questi luoghi sono sciocche
dicerie, forse quelle persone erano ormai senza speranza, eppure ho
considero
il dubbio e ho tenuto mia madre stretta.
Con quale cuore avrei potuto
abbandonarla?
Emilia e suo marito, Piero,
minacciarono di non aiutarci più
e dopo qualche tempo ci abbandonarono a noi stesse. Ma come biasimarli?
Fra il bambino che stava per
nascere e i debiti per mettere
su casa erano con l’acqua al collo, e di conseguenza io e mia
madre eravamo
l’ultimo dei loro pensieri.
Avevo solo quattordici anni e
più nessun appoggio esterno al
nostro piccolo dramma familiare.
Ho dovuto rimboccarmi le
maniche, ma nessun lavoretto poteva
permettermi di sostenere me e mia madre, né potevo
affaccendarmi tutto il
giorno lasciandola sola.
Così ho seppellito
la bambina casta, pura e piena di sogni
in un angolino remoto del mio essere, e ho fatto l’unica cosa
che mi avrebbe
consentito di tirare avanti nella mia situazione.
Non ho scelto chi diventare, ma
ho dovuto esserlo per colpa
di un destino ingiusto e crudele.
Avrei iniziato a vergognarmi di
me stessa, ad abbassare gli
occhi di fronte a qualsiasi altro pezzente incontrato per strada e
disonorato
il mio nome.
E cosa peggiore, non avrei mai
conosciuto il vero amore, chi
avrebbe perso più del tempo dovuto con una donnaccia? Non
avrei, forse, mai
conosciuto quel nobile sentimento puro e sincero di cui mia sorella mi
aveva
tanto parlato.
Dovetti così vendere
il mio corpo, divenire poco più di un
oggetto.
Ma
cos’altro potevo fare?
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Capitolo 2 *** Barbara (Via del Campo) - Parte seconda ***
CricetoBilly
Scusate
l'esposizione del testo, il fatto è che ho appena iniziato a
fare pratica con Nvu e non riesco a dare una forma adeguata al capitolo
-.-".
Non
si tratta di una poesia, bensì di una storia che ho
inventato intorno ai personaggi di De Andrè.
Ovviamente,
come avete potuto notare già dal primo capitolo, ho dovuto
seguire la traccia delle canzoni, quindi sono consapevole che il mio
scritto possa apparire come una rielaborazione di esse.
In
realtà ho cercato di descrivere questi personaggi
immedesimandomi in loro, e descrivendo, cioè, quello che ho
immaginato in proposito.
Penso
che dedicherò pochi capitoli ad ogni personaggio, anche se
non so ancora se intrecciare le loro vite, facendo rispuntare di tanto
in tanto quanlche personaggio precedente!
Vi
auguro buona lettura, grazie per dedicarci un po' del vostro tempo!
<
Pregai mia sorella per prendersi nostra madre in
casa, con la promessa di portarle ogni fine del mese abbastanza soldi
per il vitto e le cure mediche.
Così, per la prima volta nella mia
vita, rimasi sola.
Ricordo che quella sera, entrando in casa, non
accesi neppure la luce.
Mi buttai sul letto e cercai sotto il cuscino la
mia piccola Nancy, iniziai ad accarezzarle i lunghi capelli di lana e a
donarle dolci carezze sul visino di pezza. Non so perché, ma
nulla riusciva a tranquillizzarmi più di quei semplici
gesti. Nancy era parte della mia infanzia, lei c’era da
sempre, ed era la mia unica grande amica.
Quella sera mi addormentai con la mia piccola
fra le braccia e la paura per la piega che la mia vita aveva
inaspettatamente preso. Cosa mi aspettava?Cosa avrei dovuto fare?Non ne
sapevo un granché.
La mia era un’età dove
nelle ore libere della giornata si concede alla mente di fantasticare
sui pettegolezzi, i vestiti nuovi, o al massimo qualche bacio rubato a
qualche passante.
Il destino che l’indomani mi avrebbe
atteso fuori la porta non prevedeva nulla di tutto ciò, ma
un mondo ignoto, sconosciuto in ogni suo angolo e vicolo.
Mi svegliai di buon ora, mi concessi un bel
bagno caldo e scelsi con cura i vestiti.
Indossai il miglior capo che possedevo e mi
truccai, per la prima volta, come soleva fare mia madre prima che la
Morte portò via mio padre.
Iniziai a frequentare le “cattive
compagnie” della zona, a scherzare con gli sguardi divertiti
dei vecchi ubriaconi e scoprii in me un talento innato: quello di poter
sedurre con un solo sguardo, un solo sorriso o qualche
bella parola chiunque.
Alleata fondamentale la mia bellezza,
l’unica cosa di valore che possedevo.
Un viso a forma di cuore, due enormi occhi verdi
e la pelle diafana e liscia non restavano mai indifferenti ai bei
passanti, attratti dalle forme morbide e attraenti del mio fisico di
giovane donna.
Ricordo ancora il mio primo cliente, Lui
pagò più di chiunque altro, e lo fece
liberamente, perché aveva letto la paura e
l’incertezza dei miei occhi, e aveva intuito la purezza del
mio animo.
Non fu insensibile,
ma con lui capii come funzionava davvero il mondo.
Lui per primo, e tanti altri dopo, mi adorarono
indiscutibilmente, ma dopo aver ottenuto con i soldi quello che
volevano, fuggivano soddisfatti. Alcuni tornarono, altri non li vidi
più.
La mia prima volta, su cui non avevo mai
fantasticato più di tanto, avvenne in modo alquanto scontato;
Sul vecchio letto dei miei, fra quelle lenzuola
consumate dal tempo, Lui, il primo cliente, mi prese dolcemente.
Era sicuramente vicino alla quarantina, quella
fede dorata al dito mi disse tutto di lui.
Una storia, la sua, tanto comune fra gli uomini
della città vecchia, quanto facile da indovinare: sposato,
un lavoro stressante, una moglie inacidita
dall’età che gli struggeva i nervi con lamenti e
richieste, figli forse e sicuramente qualche debito.
Era venuto al calar delle tenebre e prendendomi
per mano cercò un dolce rifugio dalle amarezze della vita.
Ed io lo accolsi, calandomi nel ruolo di angelo guaritore.
Sarebbe rimasto quel tanto che bastava e poi se
ne sarebbe andato, lasciando che il sole cancellasse i suoi peccati e
pregando Dio di capirlo.
Non sapevo
cosa fare, e cosa più importante non potevo permettermi il
lusso di deluderlo.
Il lavoro, questo, non lo concedeva.
Così costrinsi il mio corpo a seguire
il ritmo del mio compagno, a intrecciare le braccia intorno al suo
torace e ad accarezzarlo amorevolmente. Non fu doloroso, ne mi sentii
avvilita come avevo immaginato, era tutto perfetto. Era diverso da
ciò che mi aspettavo, tutto consisteva in una dolce danza al
ritmo dei nostri cuori finalmente non più soli.
Lo amai perdutamente, deliziandolo delle
più dolci e accurate carezze, regalandogli scie di baci in
tutto il corpo.
E lui apprezzò di gran lunga,
tornando ogni qual volta poteva permetterselo.
E, come lui, tanti altri tornavano a tenermi
compagnia, ed io regalavo loro un angolo di paradiso, donando ad ognuno
le stesse amorevoli attenzioni.
Avevo il dono di curare i loro animi perduti, e
non m’importava dei nasi storti o delle orecchie a sventola,
quelli erano solo futili dettagli.
Guardavo ognuno di loro negli occhi e leggevo in
essi le paure e i dolori di una vita, e guarivo con la passione e
l’amore i loro cuori amareggiati.
Divenni bocca di Rosa, così mi
chiamavano.
Nessuno osò mai darmi della
prostituta, della donnaccia, no.
Io curavo le loro anime, riscaldando anche se
per poco, i loro e il mio stesso cuore.
Così, notte dopo notte, fra le loro
braccia imparai l’arte del fare l’amore,
ritrovando, in quella città scura e fino a poco tempo prima
a me ignota, il paradiso.
E fu questa mia passione che mi portò
ben presto a considerare né come professione, né
come passatempo quello che facevo, ma come puro e travolgente
sentimento.
Da allora aspetto ogni singola notte sulla
soglia del portone, fino a quando qualche anima bisognosa si ferma e mi
prende per mano. Non m’importa chi sia, è un
malato da curare, come chiunque altro, così lo guardo con un
sorriso e lo accompagno su per le scale nel mio appartamento.
Lo amo, amo tutti.
O forse non ho mai amato nessuno, ma in
fondo..Che differenza fa?
L’amore viene puntualmente di notte,
bussa con ardore alla mia porta ed io lo accolgo per un po’
di denaro, poi allo stesso modo se ne va, silenzioso e splendido come
sempre.
Inutile dire che in poco tempo mi sono fatta un
nome e un bel gruzzoletto.
Sono sulla bocca di tutti, gli uomini mi
adorano, le donne mi disprezzano.
E che posso farci?Le capisco, e un po’
perfino mi dispiace per quello che Loro son diventate.
Conducono la vita che sognavo da bambina, ma che
ringrazio Dio di non aver intrapreso.
Dopotutto cosa potrei desiderare più
della mia amata libertà?Niente preoccupazioni, niente fatica
in fabbrica, nessun marito a decidere per me né bambini da
accudire e sfamare giorno dopo giorno.
Se per i maschi sono una Graziosa, per le
femmine sono solo una schifosa e spudorata mangiatrice di uomini.
Eppure non le ho mai biasimate, loro non possono
comprendere.
Non perdono tempo a farlo, preferiscono
giudicare e disprezzare, perché odiare è perfino
più semplice che amare.
Emilia non mi ha accettato più in
casa sua, i soldi per nostra madre li lascio dentro una busta nella
cassetta della posta. Quelli, a differenza mia, non li rifiuta mai.
Secondo la mia famiglia mi sono prestata
all’antico e ripugnante mestiere,
ho infangato il buon nome di mio padre, ma anche
loro non hanno mai capito la realtà dei fatti.
Non sono diventata un oggetto come temevo,
anzi..La sorte mi ha portato ad essere quello per cui sono nata, una
Dea che asseconda le voglie di ogni uomo, curandone il cuore afflitto e
la mente carica di ingombranti quanto futili pensieri.
Dono e ricevo amore, non
c’è nulla di sporco e ignobile in quello che
faccio.
E inoltre ciò mi permette di vivere
in una certa agiatezza, a poco a poco infatti ho reso deliziose queste
quattro mura, come vedi mio caro Amico, profumo di rose e la pulizia
domina ovunque.
Non vivo più fra la polvere e la
muffa, vesto gli stessi abiti sontuosi delle nobili dame e or anche io
sono cliente fissa del grande panificio in piazza.
Nel giro di pochi anni sono diventata la Signora
della città vecchia, nessuna viene pagata quanto me, nessuna
riesce in quello di cui solo io sono capace.
E’ il mio mondo, la mia
necessità primaria.
Capire, aiutare e perfino guarire la mente di
chi si affida a me.
Per nulla al mondo abbandonerei queste vesti,
semplicemente perché mi appagano in modo così
profondo e reale da farmi sentire me stessa.
I clienti sono diventati sempre più
eleganti e raffinati, mi coprono di regali, e parlano con me senza
vergogna confidandomi i crucci di una vita. Casa mia è
l’emblema della serenità, dove lasciare fuori per
qualche ora le preoccupazioni e i cattivi pensieri.
E’ per questo che non voglio liberarmi
della vita che ho scelto, caro Fabrizio.
Questa è la mia storia, capisci
dunque perché non posso maritare Michele?
So perché sei venuto, tu sei diverso
da chiunque altro, tu sei un Poeta.
Non giudichi, piuttosto osservi, ma resti in
silenzio.
Adesso sai perché rifiuto in tutti i
modi il tuo caro amico, perché non oso rivolgergli nemmeno
uno sguardo.
Se lo facessi, cederei. Lui è
così nobile d’animo, dovresti sapere quanta
bontà vedo nei suoi occhi, forse perfino paragonabile alla
sua bellezza.
E’ stata una dannazione averlo
incontrato, una tentazione a cui difficilmente mi sottraggo.
L’amore che m’illudevo
d’aver conosciuto in tutti questi anni risiede in lui, ma non
posso accettarlo.
Cosa ne sarebbe della mia
libertà?Spiacente, ma preferisco pettinare ogni sera i
capelli di Nancy e continuare a giocare con gli occhi ed il cuore di
chi forse mi odia, ma presto o tardi mi perdona sempre.
Quindi caro Fabrizio non dire nulla,
perché niente potrebbe farmi cambiare idea >>.
Spegne la sua sigaretta nel posacenere e
continua a scrutarmi, poi abbassa lo sguardo e inizia a parlare con la
sua voce dolce e profonda.
<< Mia cara Barbara, io vedo
diamanti dove gli altri scorgono il letame, e tu non fai eccezione
>>.
Si alza stirandosi il cappotto con le mani
macchiate d’inchiostro e si accende un’altra
sigaretta.
<< Sei speciale, Barbara, e ti
ringrazio >>Continua con un mezzo sorriso
<< Oggi la tua storia è stata spunto per la
mia creatività, perché mi hai colpito come pochi
finora >>.
Rimango seduta a sorseggiare la mia tazza di
the, mentre una lacrima silenziosa mi solca una guancia, nessuno mi ha
mai capito quanto questo strano, forsepazzo ragazzo appena conosciuto.
Mi asciuga il viso con una dolce carezza, mi
regala un altro sorriso e se ne va.
Pochi giorni dopo trovai una busta di carta
pregiata nella cassetta della posta, sapevo già chi era il
mittente ma non potevo sapere cosa v’era scritto, nero su
bianco, indelebile.
Mi sdraiai sul letto, accesi una sigaretta e
distesi il foglio per leggerne il contenuto.
Ad ogni frase una boccata di fumo ed una lacrima.
E mentre lentamente scorrevo quella meravigliosa
poesia ne imprigionavo le parole in fondo al mio cuore.
Parole che mai dimenticai.
Via Del Campo (Fabrizio De andrè)
Via del Campo c'è una
graziosa
gli occhi grandi color di foglia
tutta notte sta sulla soglia
vende a tutti la stessa rosa.
Via del Campo c'è una bambina
con le labbra color rugiada
gli occhi grigi come la strada
nascon fiori dove cammina.
Via del Campo c'è una puttana
gli occhi grandi color di foglia
se di amarla ti vien la voglia
basta prenderla per la mano
e ti sembra di andar lontano
lei ti guarda con un sorriso
non credevi che il paradiso
fosse solo lì al primo piano.
Via del Campo ci va un illuso
a pregarla di maritare
a vederla salir le scale
fino a quando il balcone ha chiuso.
Ama e ridi se amor risponde
piangi forte se non ti sente
dai diamanti non nasce niente
dal letame nascono i fior
dai diamanti non nasce niente
dal letame nascono i fior.
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