Sacrifice

di Mika_mika
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** blood ***
Capitolo 2: *** away from my nightmare ***



Capitolo 1
*** blood ***


Lucente come un lampo in una notte senza luna, un’affilata lama fendeva il suo ennesimo, repentino colpo

Lucente come un lampo in una notte senza luna, un’affilata lama fendeva il suo ennesimo, repentino colpo.

Una vischiosa scia purpurea imbrattò la sua consistenza argentea, per poi scivolare silenziosamente via, quasi fosse acqua su un vetro durante un temporale.

Similarmente, del suo passaggio non rimase nulla, se non uno scialbo alone, impossibile da distinguere dai numerosi altri, alcuni risalenti alle ore prima, alcuni vecchi di solo pochi secondi.

Un sacrificio di mille innocenti, per la salvezza di un unico piccolo ignaro.

Tutto questo perché ci sono legami e patti stipulati col sangue, e in esso tramandati, e solo con quello stesso sangue possono essere recisi, annegandoli in un carminio fiume di porpora.

Un solo carnefice ne era il fautore, e volteggiava dentro questo rosso con grazia e sicurezza degne dell’angelo della morte più impietoso.

E quando l’ultimo colpo andò a segno, quel messaggero di decadenza e distruzione ebbe la sua stessa visuale offuscata dal sangue.

Non riuscì più a distinguere se fosse il proprio o l’altrui.

Mentre l’assassino si passava stancamente il dorso della mano sugli occhi, tergendone linfa vitale e sudore, l’ignaro innocente per la cui salvezza tutto ciò era stato compiuto riposava tranquillo nel suo letto.

Il suo sereno sorriso era eternamente preservato dal genjutsu che era stato per lui appositamente creato.

Quando Sasuke si svegliò, quella dannata mattina, un’atmosfera diversa, tremendamente diversa, aleggiava nella grande villa orientale dove era nato e cresciuto, sul cui suolo avevano camminato generazioni e generazioni del suo celeberrimo e fastoso clan, conosciuto in tutto il continente.

Nella quiete delle due stanze e nel calore del suo letto, nulla pareva mutato.

L’acuto cinguettare degli uccellini, che da tempo avevano trovato alloggio e rifugio per sé e per i propri piccoli tra le floride fronde del giardino, penetrava lieve dalle finestre, insieme a sottili raggi di luce attorno e dentro ai quali danzava leggero e impalpabile il pulviscolo.

Ma all’odore solitamente rilassante che aveva sempre emanato il connubio dei legni pregiati con cui la casa era stata edificata e decorata, c’era mischiato qualcos’altro.

Un odore indecifrabile che trasmetteva una sensazione incomprensibile, penetrante al punto da divenire quasi un sapore percepito dalle papille gustative.

Quando, perplesso, posò delicatamente i delicati piedi infantili sui tatami tiepidi, una scossa di tensione l’attraversò da parte a parte, propagandosi lungo la sua spina dorsale.

Lasciò dietro di sé solo una profonda inquietudine.

C’era decisamente qualcosa che non andava.

Percorse con lenti passi i corridoi che si diramavano per la struttura, il cui silenzio si faceva sempre più opprimente e incalzante ad ogni piè sospinto.

Prese a chiamare a gran voce suo padre, sua madre e infine anche suo fratello maggiore, lasciando anche da parte l’orgoglio che lo avrebbe portato a trattenersi per non sentirsi dare del fifone da lui.

Ma il nulla in cui si ritrovò nuovamente immerso quando l’eco della sua voce si fu dileguata, risultò essere un più che eloquente segnale.

Sempre più titubante, si decise, quasi facendo violenza su sé stesso, ad aprire uno shoji che separava il soggiorno principale dal giardino interno, su cui si affacciava.

Ogni anticipazione gli era negata dall’ombra scura che lo spesso muro di cinta proiettava scontrandosi con la bassa luce del sole mattutino, occultandogli la verità.

Quando infine il pannello finì di scorrere, andando a scomparire nell’incavo del muro che gli era riservato, ai suoi occhi venne arrogato il diritto di vedere.

E fu l’inferno.

Ciò che un comune essere umano può solo provare ad immaginare.

Con tutta probabilità, se avesse potuto cancellare la propria memoria e tornare indietro, avrebbe preferito di gran lunga restare ignaro di quella visuale angosciante.

L’intricata consistenza dei tatami e la morbida terra del prato avevano assorbito litri e litri di sangue, finché le loro fibre e la loro stessa materia non ne erano uscite saturate, ed erano state costrette a farlo traboccare in pozze purpuree.

In mezzo a questi liquidi, abbandonati alla brezza leggera che scuoteva l’erba ancora verde, decine e decine di cadaveri, totalmente irriconoscibili alla stregua di ammassi di carne al macello.

Capire a chi appartenessero, o meglio, fossero appartenuti, era una macabra battaglia persa in partenza.

Gli unici riconoscibili, forse per la familiarità, forse per qualcosa di più profondo e meno nominabile, risultarono essere solo due dei corpi esanimi.

Il primo, era stato proprietà di sua madre, ed era decisamente il meno mutilato tra tutti.

La fresca bellezza che l’aveva caratterizzata da quando il figlio minore ne aveva memoria, non era stata scalfita dal rigor mortis, ma esso gli aveva aggiunto un elemento in più.

Sasuke non era più così sicuro che sua madre potesse essere definita un angelo…

Integro, a parte lo squarcio sulla schiena, era accasciato accanto alla figura, austera perfino nella morte, di suo padre.

Il ragazzino poté facilmente immaginare, perfino in quel profondo sconvolgimento in cui versava, che gli altri fossero i restanti membri di quello che era stato un magnifico clan.

Gli sembrava quasi di vedere, oltre le lunghe mura del giardino, il proseguire di quello sfacelo lungo le strade del quartiere che a quel muro erano adiacenti.

Incurante del fatto di stare imbrattandosi di rosso la pelle morbida e candida, si avvicinò ai suoi genitori.

Fu in quel momento che vide qualcosa che distrusse totalmente le sue speranze insieme agli ultimi esigui cocci della sua vita tranquilla.

Immersi in quello che un tempo era stato un liquido portatore di vita, due oggetti che si affrettò a raccogliere.

Non poteva essere…

Non poteva…

Non anche quello…

Il suo sospetto fu però irrimediabilmente confermato.

D’altronde la certezza era stata nella sua mente da quando li aveva appena intravisti.

E ora li teneva uno per mano.

Nella destra, un aikuchi, il cui taglio su un manico, segno di una vecchia missione ANBU, ne rese identificabile l’appartenenza.

Stesso concetto per la collanina che le dita della mano sinistra stringevano spasmodicamente.

Erano senza dubbio di suoi fratello maggiore.

Uchiha Itachi, primogenito del capo clan, futuro erede.

Colui a cui aveva sempre guardato più come a un Dio che come ad un fratello, ammaliato dalla sua abilità e dal suo carisma.

Evidentemente caduto a sua volta vittima di quella carneficina.

Persino niisan non aveva potuto nulla…

E lui era l’unico superstite.

Vivo in mezzo ad un lago di sangue.

Lui che respirava in mezzo ai morti.

E non poteva fare altro che rimanere lì, fuori luogo in un posto che oramai non apparteneva più ai viventi, ma senza altro luogo in cui andare.

Solo, senza più nessuna al mondo.

Con la vista appannata dalle lacrime, le uniche cose che lo trattenevano su quel piano dimensionale erano il duro del tatami impregnato di sangue su cui si era accasciato e gli oggetti appartenuti a suo fratello che stringeva fino a far tremare le piccole nocche sbiancate.

Rimase così, in mezzo ai resti della sua famiglia e della sua ormai vuota esistenza, scosso da brividi intensi, sebbene il sole emanasse un lieve tepore che poteva sembrare un tentativo di conforto.

Fino all’arrivo dei soccorsi, l’utilità dei quali gli parve alquanto dubbia.

Non c’era più nessuno da aiutare.

Avrebbe preferito lo lasciassero lì a sé stesso…a fissare quel cielo che incurante della sua tragedia continuava ad essere terso e languido…finchè la morte non avesse raggiunto anche lui.

Ovviamente non gli fu permesso.

E forse anche questa può essere annoverata tra le crudeltà dell’essere umano…

Un anno intero era passato da quel giorno.

Un anno in cui, sostanzialmente, nulla era cambiato.

Né la sua psiche né il mondo che lo circondava, salvo alcuni particolari, alla fin fine irrilevanti.

Il genocida degli Uchiha non aveva volto, né tanto meno nome.

Il motivo per il quale solo lui era sopravvissuto, risparmiato da quella che pareva una furia implacabile, rimase sconosciuto.

Il sangue non invadeva più quella grande casa, meticolosamente ripulita.

Ma, seppure tatami e terreno erano stati sostituiti, la sua famiglia non era tornata, e lui si ritrovava solo in una villa enorme rimessa a nuovo.

Pronta per essere la dimora di quello che non era niente di più che un fantasma che aveva dimenticato come si giunge al nirvana, ed era stato lasciato indietro dagli altri spiriti.

Rimaneva lì solo nell’attesa che essi si ricordassero di lui e tornassero a prenderlo.

Interminabili secondi si sommavano fino a diventare interminabili minuti.

I minuti si trasformavano lentamente in ore vuote.

Le ore si trascinavano stancamente fino ai giorni.

I giorni, non sapeva bene come, andavano avanti, fino a mesi interi di profonda malinconia.

Ed un giorno, dal baratro di torpore in cui si ritrovava immerso, si accorse di essere riuscito a trascorrere un intero anni nella solitudine più totale.

Perché non si ricordavano di lui?

Perché mamma, papà e Itachi non si ricordavano di tornare a prenderlo e non lo portavano insieme a loro in un posto dove sarebbero potuti stare tutti insieme di nuovo?

La sua presenza nella loro vita era stata così labile che nella morte l’avevano immediatamente dimenticato?

Pianse a dirotto, quella notte, di tutte le lacrime ingoiate in trecentosessantacinque giorni.

Sfogò il suo dolore che non prevedeva lenimento sull’inerme federa del cuscino bianco.

Non sapeva che quel momento di liberazione dalla propria frustrazione stava venendo osservato in silenzio dalla fronda dell’albero vicino alla finestra.

Non se ne accorse nemmeno quando, addormentatosi per lo sfinimento che le lacrime e la sofferenza acuta gli avevano provocato, la figura scivolò sinuosamente all’interno, immersa nello stesso silenzio con cui era venuta.

Facendo involontariamente frusciare la sua lunga veste nera, sulla superficie lucida della quale si riflettevano i pallidi raggi lunari, si sedette sul bordo del materasso, accarezzando appena la testa mora di Sasuke che dormiva prono.

Rimase lì, tutta la notte, spostando lo sguardo dal ragazzino di otto anni alla luna millenaria che compiva il suo abitudinario percorso sulla volta celeste, tinta di un intenso blu scuro e ammantata di stelle per fare compagnia a quel freddo satellite.

Forse messaggero di un Dio, che aveva ascoltato le preghiere di quell’anima distrutta.

Forse qualcos’altro, ma con medesime intenzioni.

Forse venuto a mostrare al ragazzino un futuro diverso da quello a cui ormai si era preparato.

Aspettava il mattino, che portava con sé il risveglio.

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Capitolo 2
*** away from my nightmare ***


La mattina di quel nuovo giorno giunse, spandendo per la casa la sua discreta luce, e, insieme ad essa, un alone sereno di speranza che da tempo quelle mura non avevano più avuto l’ardire di voler percepire

La mattina di quel nuovo giorno giunse, spandendo per la casa la sua discreta luce, e, insieme ad essa, un alone sereno di speranza che da tempo quelle mura non avevano più avuto l’ardire di voler percepire.

Un’atmosfera distesa, che sembrava dilatare lo spazio e perfino rendere quei tenui raggi spauriti più caldi, e l’aria che sapeva di statico più respirabile.

Ma colui che per molto era stato l’unico a sospingere i suoi rassegnati passi sui tatami, tra quelle vecchie pareti, inerti testimoni di una truculenta tragedia, non poteva percepire questa repentina mutazione.

La sua coscienza era pacificamente immersa nel primo, vero, sonno privo di incubi che godeva da un anno a quella parte.

Il suo effimero respiro infantile era trattenuto in quella lenta cadenza rilassante che aveva mantenuto per tutta la notte appena trascorsa dalle gentili carezze sul suo viso e tra i suoi sottili capelli.

Attenzioni e vezzeggiamenti teneri, per donare le quali si prodigavano delle affusolate dita bianche.

Le falangi erano ben articolate e scattanti, sostenute da tendini e terminazioni nervose che reagivano con prontezza cos’ da permettere una perfetta autonomia ad ogni dito.

Sarebbero facilmente potute appartenere ad un pianista, se non fosse stato per le lunghe unghie laccate di nero, totalmente inadatte per prendersi cura dei tasti di legno di tale strumento.

Un altro indizio, poi, restringeva ampiamente il campo: la giuntura tra falange e falangina presentava una sorta di callosità.

Caratteristica tipica di coloro che fin dalla più tenera età vengono abituati ad impugnare in quel modo e a sferrare attacchi con affilatissime armi da lancio, che proprio in quel punto delle dita vengono trattenute.

Pur nello stato di rilassamento in cui si trovava, il corpo snello poteva ben essere immaginato tonico e scattante, anche al di sotto della lunga coltre della cappa nera.

Infine, uno sguardo determinato illuminava le iridi rosse delle quali gli occhi allungati erano ricolmi.

Gemme rubidi, degna decorazione di quel volto perfetto e signorile, incorniciato da una cascata di setosi capelli corvini.

Volto fin troppo simile a quello che giaceva addormentato sul cuscino.

Il volto di un guerriero.

Ed al contempo il volto di un fratello.

Riconosciuto immediatamente dal ragazzino, non appena la figura altera si riflesse sulla sua retina.

Prima ancora che la razionalità sopravvenuta nel momento in cui le spire del sonno ritiratesi mettesse Sasuke di fronte all’amara verità che infranse la sua così repentina speranza e smorzò amaramente la gioia.

Sopraggiunse infatti pressoché immediata la triste consapevolezza che quel corpo addosso al quale si era gettato, come un naufrago si appiglia alla sua unica ancora di salvezza, e le braccia che lo avevano accolto immediatamente stringendolo forte, altro non erano che un’illusione.

Quel calore e quel profumo familiare, dentro ai quali si era ritrovato quasi soffocato, e che in una frazione di secondo avevano lenito lo squarcio sanguinante nel suo cuore, non esistevano.

Era il nome di un morto quello che pronunciava con voce strozzata, lasciandosi prendere in braccio come il bambino che era.

« Itachi…»

« Dimmi, Sasuke»

« Niisan…» un profondo sospiro sfiorò la spalla del maggiore, dove lui stava infossando il musetto « posso rimanere ancora qui, vero? Posso, niisan?».

« Qui dove, Sasuke?»

Non capiva se si riferisse a Konoha, alla loro casa, o al restare in braccio a lui.

« Qui  in questo sogno…se mi sveglio sarò di nuovo solo, e invece in questo sogno ci sei tu, aniki…»

Un lieve quanto amaro sorriso si aprì sul volto giovane, la cui espressione era tuttavia adulta, del quattordicenne.

Strinse più forte quel corpicino tremante, prima di rispondere.

« Questo non è un sogno, otooto-chan» un lieve bacio venne posato sulla fronte del suddetto « sono qui, sono qui sul serio…»

Sasuke saltò su come una molla.

« Davvero? Ma davvero davvero?»

Itachi sorrise all’espressione infantile, e annuì.

Al suo cenno d’assenso, il ragazzino sembrò eccitarsi.

« Sei tornato per me? Sei venuto a prendermi? Così potrò venire a raggiungere te e la mamma e il papà in paradiso?!».

Un pesante macigno si abbatté sul cuore del maggiore mentre accarezzava il bambino accoccolato su di lui, che gli si strusciava contro in cerca di quel calore umano che gli era mancato a lungo.

Cosa aveva fatto? si chiese, come aveva potuto?

All’improvviso, la decisione presa un anno prima mentre si ripuliva alla bene e meglio dal sangue non sembrava più così giusta.

Aveva lasciato il fratellino di otto anni da solo, immerso nel dolore di aver perso la sua famiglia, con la sensazione di essere stato da essa abbandonato.

L’aveva portato alla punto di sperare, trepidante, che prima o poi lo venissero a prendere, per condurlo con loro nella morte.

Cosa aveva fatto…?

Deglutendo a vuoto, sbottonò lentamente la cappa a nuvole rosse.

Il rumore dei bottoni che scattavano attirò l’attenzione di Sasuke.

« Che fai, oniisan?»

Senza rispondere, Itachi intrecciò le proprie dita con i capelli sulla nuca del fratellino, attirandolo di scatto a sé, per poi poggiare il piccolo orecchio sul suo torace, in alto a sinistra.

Sasuke spalancò gli occhi grandi e neri, al suono che fece ritmicamente vibrare il suo timpano.

Tu-tum…

Tu-tum…

Tu-tum…

Poteva percepire distintamente, da quella posizione, le pulsazioni regolari del cuore dell’altro.

Ma i fantasmi non hanno battito cardiaco…

Ora che ci pensava bene, i fantasmi non emanavano nemmeno calore, né avevano consistenza fisica…

« Omae wa…ikiru da ka…aniwe?»     (tu…sei vivo…fratello?)

Teso nell’aspettativa, il minore gli era definitivamente finito in braccio, tenendo strette tra i piccoli pugni due porzioni della maglietta dell’altro.

Temeva una risposta negativa, ma allo stesso tempo non osava sperare in una positiva, per non vedersi nuovamente ferito.

Tant’è che quando Itachi abbassò il capo in un cenno d’assenso, rimase pietrificato, limitandosi a puntare i grandi occhioni antracite in quelli carmini e a mandorla dell’altro.

E nel frattempo, ancora quel sottile pulsare sotto i suoi palmi infantili.

Tu-tum…

Tu-tum…

Tu-tum…

Il suono che si unì ai battiti rese improvvisamente cosciente sasuke che, unito a quello del fratello, c’era anche il proprio cuore in tripudio, il cui suono gli riecheggiava tra le vene dell’orecchio.

Lente lacrime presero a scivolare in silenzio su quelle guance paffute.

Un pianto di reale liberazione rasserenata che alleggerì il suo cuore molto più di quanto quello della notte appena trascorsa.

Non riusciva a crederci.

Poche ore, eppure lui si sentiva così diverso…così tranquillo…

Non era più solo…

Aveva qualcuno al mondo…

Non era più solo!

Aveva qualcuno al mondo!

Strinse Itachi, che costernato tentava di asciugare quei rivoli sul suo viso.

Lo strinse fino allo spasmo, mentre la vocina sussurrava, alzandosi poco a poco di tono: « ikiru da…ikiru da…ikiru da! Ikiru da, ikiru da!!!»

L’altro non poté fare a meno di sorridere a quell’eccitamento assurdo, mentre avvolgeva il minore nella calda e rassicurante stretta delle sue braccia.

Lo cullò a lungo, mormorandogli parole rassicuranti nell’orecchio in piccoli soffi che di tanto in tanto facevano tremare il piccolo, riuscendo infine a tranquillizzarlo del tutto.

Ci fu un momento di fervida stasi, in cui solo il viso dell’uno era riflesso negli occhi dell’altro, e due sorrisi pressoché speculari si riflettevano da  un volto dell’altro.

Sasuke affondò nuovamente la testolina nel collo profumato di suo fratello, strusciandovi il naso.

Dal canto sui, il quattordicenne non disse nulla, rifiutandosi di togliergli quel momento di pace a lungo agognato ed ampiamente meritato.

Fu lui stesso, ad un certo punto, a spezzare tutto ciò, con il suo improvviso proruppero in un « Pappa!»

Itachi lo fissò, per un attimo stranito.

«Pappa, niisan, pappa!» ripeté, aggrappandosi alla maglia e tirandolo per avvalorare la sua richiesta.

Questi si riscosse a tutta questa insistenza e lo prese in braccio, permettendogli di aggrapparsi al suo corpo snello con le braccia e gambe.

Scesero così al piano di sotto, dove, tutto contento, Sasuke, seduto con le gambe a penzoloni sullo tsukue, guardava Itachi affaccendarsi in cucina.

Così simile alla loro madre, eppure così diverso…

Il pensiero lo rese un po’ triste, ma riuscì repentinamente a scacciare la sensazione aggiungendo un altro ragionamento al precedente.

Era vero…mamma non c’era più…papà non c’era più…il loro clan non esisteva più come tale, però suo fratello era lì!

Seppur dopo un anno, Itachi si era ripresentato!

Era tornato solo per lui!

E se aveva Itachi lui stava bene!

Col niisan affianco lui era felice! Veramente felice!

Nonostante tutto.

Il suo viso aveva un che di felino, in particolare dalle parti del labbro superiore, mentre sgranocchiava i biscotti con cannella e cioccolato nell’attesa che il latte fosse adeguatamente scaldato e Itachi si sedesse con lui.

Si concesse pigramente di farsi totalmente servire, per la prima volta da trecentosessantacinque giorni a quella parte.

Arrivò perfino a farsi imboccare, accoccolatosi sulla perfetta seiza del fratello, che gli conferica un portamento incredibile, tenendo la sua schiena in una posizione di elegante compostezza, pienamente adatta a lui.

Inspirò ed espirò profondamente, inalando l’odore lieve di mandorle che, da quando aveva memoria, quella pelle candida aveva sempre emanato.

Itachi non trattenne un sospiro.

Era giunto il momento di giocarsi il tutto per tutto, e fare la propria proposta.

Avevano già perso troppo tempo.

Non fu facile, ma il discorso andava cominciato.

« Allora, Sasuke…»

subito sentì quegli occhioni scuri puntarsi nella sua figura, quasi fosse la sua fonte di verità qualsiasi cosa dicesse.

Alla fin fine, cosa poteva illuderlo di non esserlo? Era così piccolo…

« Vuoi venire come me?»

Sasuke sbatté le palpebre, non capendo. « Non capisco…avevi detto che mamma e papà non c’erano più…» il solo pensiero lo intristì « se non mi porti da loro, dove mi porti?»

« in un posto sicuro che ho trovato per noi due nel corso di quest’anno»

La sua risposta fu ferma, perché, se non ne era certo lui, come poteva sperare di convincere Sasuke?

Il piccolo sembrò perplesso. Allontanarsi da casa sembrava come abbandonare qualsiasi parvenza di “famiglia” gli fosse rimasto.

«…e dov’è?»

« è un po’ lontano…ma staremo sempre insieme, non ti va?»

infingardo, e cosciente di esserlo. Come poteva effettuare giochetti psicologici sul suo adorato fratellino?

« sì…»

Però aveva ottenuto ciò che voleva.

Lo strinse, quando, in cerca di rassicurazione, lui gli si accucciò addosso.

« ma perché non resti qui?»

eccola, la domanda fatidica.

Sasuke, per quanto bambino, non era mai stato stupido. Era scontato che se lo chiedesse.

Ed era il momento di fare ciò per cui nel corso degli anni si sarebbe sentito peggio del demonio.

Era il momento di intavolare la menzogna più pura.

« Sasuke…l’assassino di mamma e papà non è stato ancora trovato, vero?»

« no…» il dolore era palpabile nei suoi occhi, rabbuiatisi appena il nome dei genitori era uscito dalla bocca.

« ecco, vedi…» la tentazione di dirgli la verità è quanto di più forte tu abbia mai avuto, non è vero?

Ma pensa, pensa adesso. Cosa perderesti con la verità? E cosa invece resterebbe con una bugia?

Tu sei un grande ninja, ma di fronte a questo bambino il coraggio che era proverbialmente abbinato alla tua figura viene meno.

E la frase dell’altro, sussurrata con odio, ebbe il potere di incrinare ancor di più il cuore del quanto esso già non sia.

Perché sussurrata con un astio che non si sarebbe mai aspettato da quella piccola bocca.

« spero che un giorno lo prendano»

La risposta è obbligata.

« anch’io…» e ora che sei in gioco, gioca fino alla fine. Menti, menti, e menti ancora come solo tu sai fare « ma nel frattempo sta cercando noi. Non possiamo restare qui otooto-chan…»

Il ragionamento è logico, non c’è nulla da obbiettare.

È per questo che Sasuke ti stringe più forte, poggiando la fronte contro la tua.

La tua esistenza avrà sempre un che di dubbio per quella piccola stella, che si è vista portare via tutto.

La tua esistenza sarà sempre un miracolo.

Fino al giorno il cui non ne scoprirà la maledizione…

« non mi lascerai più?»

« Mai più, piccolo»

E di questo sei assolutamente certo, perché hai rischiato il tutto per tutto per ottenerlo.

« te lo prometto»

Il mignolo di Itachi si stese, in un invito per accettare un patto, il più lieve fra tutti quelli che nel corso degli anni avrebbero generato.

Ma Sasuke lo strinse con sicurezza insieme al proprio piccolo dito.

E un sorriso vero e sincero si aprì sul suo volto, al pensiero che Itachi aveva promesso.

E Itachi è perfetto, quindi ciò che Itachi promette, è sacro.

E il ragazzo riusciva quasi a leggerli, quei pensieri.

Gli voleva bene, era inutile negarlo.

Era stato capace di distruggere tutto ciò che aveva fatto parte della sua vita fino a quel momento, tranne lui.

Lui era rimasto incolume.

Lui…suo fratello…

Lentamente, le sue labbra si posarono su quelle del bambino, in una fraterna carezza che per molto tempo avrebbe continuato ad esprimere innocentemente il loro attaccamento nei confronti dell’altro.

Gesto che fece, e avrebbe sempre fatto, felice Sasuke, tanto da spingerlo a chiedere: « allora, andiamo?».

« vai a prendere la tua roba, e poi partiamo subito»

Itachi l’osservò sciogliersi dall’abbraccio, e salire al piano di sopra per riunire la sua poca roba.

Il suo sguardo vagò per la camera che da quando era nato lo aveva sempre accolto, e guardato dormire, crescere, giocare…semplicemente, vivere.

E si apprestava a lasciarla, ora, perché, per quanto non lo avesse mai tradito e avesse sempre assolto il suo compito, ora non era più in grado di dargli nulla.

Il suo posto era col quattordicenne che era sempre stato il faro delle sue ambizioni.

Vide un sorriso aprirsi su quel volto, mentre trotterellava giù dalle scale col fagotto tra le braccia, e si fermò davanti a lui in attesa.

Si sentì afferrare da sotto le ascelle, e prendere in braccio insieme alle sue esigue “valige”, pronto a essere portato in giro tra le braccia del maggiore.

Il suo bel faccino si contrasse in una smorfia quasi buffa di disapprovazione a quel gesto.

« so camminare! Sono un bimbo grande!»

una frase quantomai classica, soprattutto in bocca ad un esserino di otto anni, tant’è che l’altro non se ne stupì affatto.

Comprensivo, lo rassicurò riguardo alla sua opinione in proposito.

« Lo so che sai camminare, piccolo. Fra un po’ ti lascio andare.»

le palpebre dalle lunghe ciglia si richiusero sugli occhi a mandorla, mentre, dal nulla, comparivano decine di foglie che avvolsero le due figure in un tornado verde.

Il vortice della foglia, tipica arte magica di Konoha, spesso usata da anbu e jonin per lunghi spostamenti.

Richiedeva un ottimo controllo del chakra e una concentrazione non indifferente.

Doti, quelle, delle quali il primogenito del capofamiglia Uchiha aveva sempre avuto non in difetto, cosa che permise ai due fratelli di arrivare incolumi alla destinazione prefissata.

Stretto tra due folte foreste, un burrone a precipizio dava il meglio di sé.

Il rumore dell’acqua gorgogliante ai piedi dell’ampia cascata era quasi fastidioso nelle orecchie per la sua forza.

Un luogo che aveva sempre segnato grandi scelte, quello.

Un luogo impregnato di passato, non sempre felice.

Due imponenti figure erano scolpite da abili mani nelle rocce che fungevano da sostegno per la cascata.

Riproduzioni fedelissime e gigantesche di due grandi del passato, che le loro scelte le avevano compiute senza paura del cambiamento.

Un atteggiamento ammirevole, ritenuto degno di memoria, tanto da essere impresso a vita nel nome altisonante di quel luogo.

La Valle dell’Epilogo.

Che quel giorno, per quelle due figure snelle, così piccole in confronto a tutta quella magnificenza, segnava l’epilogo di una vita.

E l’Inizio, forse in grande stile, di un’altra.

 

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