La luce, dopo il tramonto

di sese87
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Teras e Tamlen ***
Capitolo 2: *** Le rovine ***
Capitolo 3: *** Incontri Inaspettati ***
Capitolo 4: *** Avventura nelle Selve ***
Capitolo 5: *** Tra passato e presente ***



Capitolo 1
*** Teras e Tamlen ***


primo capitolo

                                                                         Teras e Tamlen


Ognuno di noi è una luna:

ha un lato oscuro che

non mostra mai a nessuno

                                                                                                                                                                  

 


Il vecchio allungò una mano callosa e tremante verso i due giovani dalla faccia dipinta. Afferrò il sacchetto di foglie e ritrasse subito il braccio, senza nemmeno avere il coraggio di guardarli negli occhi: erano elfi Dalish, conosceva le storie sul loro conto.
«Potresti almeno ringraziarci vecchio», proferì Teras, infastidito più dal comportamento scostante dell’uomo che dal fatto di respirare la sua stessa aria. Non odiava gli umani, almeno non più di quanto avrebbe odiato qualsiasi altro essere che avesse osato lo stesso atteggiamento nei suoi confronti; non più di quanto odiasse il fatto che la sua gente fosse stata schiava di un popolo che li aveva sempre temuti.
L’uomo alzò gli occhi opachi su quelli neri e lucenti dell’elfo, due pezzi d’ebano incastonati nel marmo di una pelle opalescente. Una creatura di un altro mondo, nelle cui vene, probabilmente, scorreva lo stesso sangue che aveva macchiato la spada dei suoi avi, durante la rivolta degli elfi.
Infatti, in un tempo non molto remoto, gli umani avevano ridotto in schiavitù gli abitanti della natura, illuminati dal volere indifferente del loro Creatore.
«Ci devi una ricompensa» annunciò all’improvviso l’altro Dalish, lasciando l’impronta di un pugno sul bancone polveroso. Il vecchio tornò alla realtà.
Tamlen non aveva cattive intenzioni, ma era poco avvezzo alla cordialità con gli umani: li odiava per tutto ciò che avevano fatto passare ai propri avi e per tutto quello a cui ancora li costringevano, nonostante la conquistata libertà.
I Dalish, infatti, vagavano nel regno come reietti, puniti per colpe che non avevano commesso; se non quella di essere protagonisti delle più terribili leggende. Erano continuamente in movimento, senza poter mettere radici nemmeno nella propria terra: la foresta.
«Cosa volete?» domandò l’umano, nascondendosi dietro un nastro di luce polverosa proveniente dalla finestra.
Tamlen fece scricchiolare il collo e gli si avvicinò, con un baleno di sfida nello sguardo; afferrò il vecchio per la collottola ingiallita dal sudore, e, alitandogli in faccia, proferì «Tu cosa daresti per aver salva la vita?»
Il vecchio strabuzzò gli occhi, mentre una goccia di sudore freddo gli scivolava sul pomo irsuto; s’irrigidì al punto da mollare la presa sul sacchetto, che gli cadde a terra.
Appena udito il tonfo sordo di quell’oggetto, Teras, fino a quel momento rimasto indifferente, decise di intervenire. «Tamlen!», richiamò l’amico poggiandogli una mano sulla spalla foderata di pelliccia. «Non siamo qui per fomentare le dicerie sul nostro conto».
«Lo so, volevo solo mostrarmi per come ci vedono.» Sfoderò una smorfia in direzione dell’umano che spinse contro lo scaffale alla sue spalle, urtando le numerose ampolle di vetro e liquidi sconosciuti.
Teras non aggiunse altro al suo rimprovero, capiva fin troppo bene lo stato d’animo dell’amico, ma, a differenza di quest’ultimo, riteneva più giusto restare al proprio posto. I guerrieri Dalish hanno l’onere di difendere i deboli; anche gli umani avrebbero difeso, se necessario. Tuttavia, se mai avesse dovuto, lo avrebbe fatto in silenzio: non avrebbe giovato della riconoscenza di chi, al contrario, lo avrebbe lasciato morire.
«Nel caso servissero altre radici elfiche, avete il permesso di chiedere» concluse, raccogliendo da terra il sacchetto e porgendolo allo speziale, che a stento si issò dal pavimento. «Andiamo Tamlen: è ora di tornare all’accampamento».
«Grazie» balbettò il vecchio, ancora più tremante.
Tamlen rivolse all’umano l’ultima smorfia intimidatoria; si coprì il capo con un gesto automatico e si gettò in strada, scontrandosi con la figlia dello speziale appena apparsa sull’uscio.
«Padre!» La donna, dai capelli biondi raccolti in una crocchia di trecce, poggiò lo sguardo preoccupato sull’elfo prima, sull’anziano poi, come a interrogarlo silenziosamente riguardo la situazione: i Dalish non promettevano mai nulla di buono.
«È tutto a posto, Giordie: sono qui per affari», la informò l’uomo, conficcando le unghie ingiallite nel sacchetto.
«Ma state tremendo» riprese la giovane, attraversando la stanza per accorrere in aiuto del genitore. «Se gli avete fatto del male, io…»
«No, figliola, non è successo nulla di grave.» Il vecchio si affrettò a precisare, bloccando la frase sul nascere: la tensione era soffocante e sarebbe stato da stupidi minacciare un Dalish i cui nervi erano stati già urtati.
Teras rivolse all’uomo un cenno di saluto, ignorando, invece, la nuova arrivata; si coprì anch’esso il capo e raggiunse l’amico all’esterno della bottega.
Lo trovò seduto su di una botte di legno, con il volto completamente oscurato dal cappuccio, dondolando una piccola ampolla davanti alla faccia, sulla quale formava delle strane ombre colorate.
«Dove l’hai presa quella?»
Il biondo scivolò dalla botte, fingendo di non aver sentito la sua domanda. «Non mi piace non poter sentire il sole sul viso» disse invece.
Tra gli umani è necessario, pensò Teras, ma tenne per sé la risposta: era scontato che fosse così. «Affrettiamoci a tornare» asserì, anch’egli desideroso di sentire il bacio del sole sulla propria pelle diafana e glabra.
I Dalish non erano mai i benvenuti tra gli umani; poiché dai tratti facilmente riconoscibili, erano indotti a nascondersi sotto un mantello di pelle di lupo. Almeno quelle poche volte in cui la Guardiana concedeva loro di avvicinarsi alle città di pietra.
Si trattava per lo più di piccole commissioni, come consegnare radici, unguenti o pellicce; giusto per quel tanto che bastava a mantenere buoni rapporti con gli abitanti limitrofi. Era, tuttavia, un equilibrio precario: quella cordialità forzata diventava sempre più difficile da mantenere, soprattutto tra i giovani Dalish. I quali, manchevoli della saggezza degli anziani, erano facili alle risse con l’altra razza, percependo nei loro occhi colorati soltanto disprezzo, anziché terrore.
«Guardali,Teras; osserva la loro indifferenza al mondo che li circonda» disse l’elfo dai capelli biondi, allargando le braccia con fare teatrale.
«Sono creature strane» osservò l’altro, pensando a quante persone potessero abitare la case ai lati della strada; gli vennero in mente le laboriose formiche, sempre intente a raccogliere il cibo, ignare del mondo in cui vivevano.
«Solo strane? Sono rivoltanti » precisò Tamlen, spostando con la punta del piede un ubriacone assonnato su una catasta di legna.
«Ognuno è libero di scegliere la vita che vuole», sentenziò Teras.
«Già, ma come può aver fatto un popolo così a ridurci in schiavitù? Voglio dire: ci temono, inventano leggende sul nostro conto, influenzano anche la nostra libertà!» continuò l’altro con enfasi, bloccando il passo davanti a una locanda.
Teras lo affiancò, riflettendo un istante su quelle parole, dure quanto vere. «Anche tu combatteresti ciò che temi» rispose conciso all’arringa dell’altro, che poteva vedere soltanto di striscio, per colpa dei bordi del cappuccio.
«Quindi, se non ci avessero temuto, ci avrebbero lasciato stare?»
In quel momento un umano uscì dalla locanda barcollando,  e un profumo d’arrosto, proveniente dall'interno dello stabile, portò i due guerrieri al silenzio.
«Sono stufo di aver la pancia vuota!»  Esclamò Tamlen, dopo aver assaporato avidamente quell’odore invitante . «E sono sicuro che quell’umano potrà aiutarci, con i suoi pezzi di metallo!»
«Tamlen!», Teras lo afferrò per un braccio, avendo percepito la sua mala intenzione.«Credi che sia giusto?» lo rimproverò.
«Che loro hanno tutto e noi niente?»
I due amici si guardarono in cagnesco.
Fu Tamlen il primo a distogliere lo sguardo: Teras non si riferiva a quello e lo sapeva. Si liberò dalla sua presa e silente raggiunse la strada per la foresta.
Nessuno dei due parlò fino all’accampamento del clan.

Appena raggiunta la propria tenda, Teras sospirò sollevato: alla fine era andata bene. Sfilò il mantello e si accasciò sul proprio giaciglio ma non per stanchezza, semplicemente per riordinare le idee, nel caldo abraccio del proprio silenzio.
I raggi del sole filtravano attraverso la stoffa fibrosa della piccola alcova, creando un sipario di minuscole stelle sopra la sua testa. C’era odore di muschio e di paglia, l’unico che potesse distendere i suoi nervi; il primo sentito e forse anche l’ultimo, che gli avrebbe percorso le membra nel giorno della sua morte.
Aveva conosciuto altri umani, oltre allo speziale; infatti era certo che, la prossima volta, quel vecchio li avrebbe accolti più cordialmente. Gli altri che avrebbe incontrato, però, avrebbero inscenato lo stesso teatrino: dapprima impavidi e provocatori, poi, tremolanti come foglie d’autunno. Anche la figlia dell’umano si era comportata così, ma aveva deciso di ignorarla: che credesse a ciò che voleva! Detestava dover sempre, tutte le volte, tranquillizzarli sul loro conto… E Tamlen aveva ragione, dannatamente ragione! Come aveva fatto un popolo così inetto a comandarli per secoli?
Non c’era, inoltre, motivo per cui gli umani avessero tutto, o quasi. Un Dalish, devoto ai propri dei non dovrebbe invidiare degli essere tanto lontani da essa, eppure in cuor suo non poteva che chiedersi perché.
Condivideva l’ideologia della propria stirpe, come la devozione per le creature del bosco e per gli alberi, ma talvolta la fame era davvero troppo grande da sopportare; e chissà se gli uomini l’avevano mai sentita, la fame. Loro, a cui bastava scambiare qualche moneta per evitare di mettere in pericolo la propria vita nei boschi, per procacciarsi un pasto decente senza dover sentire in bocca il sapore del proprio sangue.
Teras si strinse il volto tra le mani fino a farsi male: non doveva pensare quelle cose, si vergognava di se stesso. In fondo, non era nemmeno tanto sicuro che fossero vere.
Possibile che uno stomaco vuoto avesse il poter di far cedere la sua coscienza? Nelle narici aveva ancora l’odore di quell’arrosto; aveva evitato che Tamlen si macchiasse la coscienza per pochi pezzi d’argento, derubando quell’umano. Tuttavia, se l’amico non l’avesse ascoltato, se non avesse preso la strada per la foresta, lui avrebbe avuto la forza di farlo desistere di nuovo? Sì… forse.
La verità era che l’aveva fermato semplicemente per un blando ideale di giustizia; blando, sì. Perché quell’odore invitante lo aveva chiamato a sé, assopendo persino la sua ragione.
Il guerriero si addormentò, riempiendo la testa di tali pensieri.

 «Non ho intenzione di dividere quel poco che abbiamo con un orecchie piatte!»
«Tamlen! E’ un nostro fratello quanto te.»
«Fratello? Se così fosse, avrebbe i segni della natura. Sentite il suo odore: puzza di umano.»

 Teras si destò al suono vibrante di quelle parole iraconde. Non impiegò molto a capire cosa stesse accadendo, così si precipitò all’esterno per calmare l’irascibile compagno d’infanzia.
«Cosa sta succedendo?» chiese, alla volta degli elfi radunati intorno a un focolare, strizzando gli occhi poiché ancora non abituati alla luce.
«Ma come, non senti il suo fetore?» asserì l’amico, ispirando l’aria disgustato.
Era vero; i polmoni di Teras si impregnarono del profumo del fuoco, misto a un disgustoso olezzo fin troppo familiare.
«Tieni a freno la lingua,  Tamlen » lo richiamò uno degli altri, alzando un pungo minaccioso.
«Altrimenti?» lo provocò il ragazzo, il quale fu bloccato, per la seconda volta nell’arco di una giornata.
«Calmati, fratello.» L’amico lo reggeva per le spalle, con i suoi capelli in bocca.
Tamlen lo guardò paonazzo e, avendo ormai perso la propria lucidità, si divincolò malamente: era ingiusto! «A noi non è permesso andare liberamente nelle città di pietra, eppure ad alcuni di noi è concesso di andare e venire, giovando del meglio di entrambe le razze.»
Il discorso era riferito a Gadesh, l’orecchie piatte da poco giunto nel clan, oggetto di quell’ostinato diverbio.
Egli era cresciuto presso gli umani, ma nato da genitori elfi; i quali facevano parte di quelli che avevano preferito stanziarsi in città, piuttosto che onorare le proprie tradizioni, come i Dalish.
Tuttavia, non pochi erano i pentiti: molti “orecchie piatte”, elfi di città, riconoscibili per l’assenza di tatuaggi, avevano ripercorso la strada delle origini.
Teras ruotò incuriosito le pupille su Gadesh.
Sembrava uno di loro. Appunto, sembrava: aveva addosso i segni del proprio sangue spurio e nessun tatuaggio ad onorare gli dei, magari non aveva mai nemmeno dovuto cacciare, avendo in città ciò che gli umani chiamavano “empori”. E i suoi occhi non erano neri.
Tamlen approfittò dell’esitazione dell’amico per balzare addosso al nuovo arrivato e in un attimo fu accerchiato dagli altri elfi, che giustamente cercarono di sedare la rivolta. Uno contro quattro.
Due contro quattro. Teras si fiondò in aiuto del compagno: non era sicuro di condividere le sue idee, ma lo avrebbe difeso ugualmente.

«Cosa ti eri messo in messo di fare?»
La Guardiana si piazzò di fronte a Tamlen, livida in volto. Indossava degli abiti silvestri e i suoi capelli bianchi la rendevano molto più eterea che vecchia.
Non approvava la violenza tra i suoi “figli”.
Il giovane fuggì il suo sguardo velato dalla saggezza degli anziani, e lo abbassò sul pavimento di terra battuta. Tamlen abbaiava continuamente, ma alla fine sapeva tornare al proprio posto.
«Sono davvero delusa, dal’en; dovresti professare il rispetto per tutte le creature, non lasciarti avvelenare dal risentimento, soprattutto contro un tuo fratello!»
I fumi delle cortecce, bruciate a mo’ d’incenso, formavano fili sottili e densi, spezzandosi sul tetto della capanna di sterpi.
Il guerriero trovò in quell’incenso un balsamo per la propria ira.
«Vorrei che tu capissi che il clan ha già abbastanza problemi: non vorrei se ne creassero di nuovi», riprese l’anziana.
«Capisco, madre; vi prego di perdonarmi.»
La donna corrugò la fronte dipinta di verde; esitò sulla sua figura ancora qualche istante, prima di dargli le spalle. Si avvicinò ad uno dei nodosi rami della parete, sul quale era cresciuto un tenero bocciolo verdastro; dopo averlo accarezzato, annunciò: «da oggi mangerai da solo, tornerai a dividere i pasti con gli altri quando avrai imparato dalle tue azioni. Inoltre...» fece un passo verso il ragazzo, se credi che ciò che abbiamo non sia sufficiente, provvederai tu stesso a sfamarci tutti, da solo.»
«Madre!»Teras, fino ad allora rimasto in silenzio, s’intromise nel discorso.
«Sì, dal’en?»
«Non sarà da solo, merito anch’io la stessa punizione!»
La donna sorrise dolcemente. «La tua devozione ti fa onore, Teras.»
«Non è devozione» la corresse repentino, gesticolando animatamente. «Credo solo che sia una punizione ingiusta.»
L’espressione dell’anziana cambiò, accartocciandosi in una smorfia. «Ingiusto è insultare un fratello; ingiusto è insultare ciò che abbiamo»
«Ma anch’io ho partecipato alla rissa.»
«Solo per proteggere me» precisò Tamlen: si sentiva già abbastanza in colpa senza che un suo fratello patisse per colpa sua»
«Non dovresti pagare sofferenze che non hai causato»
Il rosso scosse la testa poiché meritava quella punizione quanto lui: in cuor suo serbava gli stessi pensieri che avevano fomentato la lite. Doveva essere punito, per non essere stato sincero con se stesso; per non aver ancora raggiunto la saggezza di un Dalish.
«I Dalish non nascono saggi» proferì la Guardiana, come se gli avesse letto nel pensiero. «Tamlen, tu puoi andare.»
Il biondo annuì, lasciandoli da soli, pieno di comprensione verso Teras.
«Madre, io…»
La donna lo zittì. «Credi forse che io non conosca i miei figli, dal’en?»
Teras rimase in silenzio: non occorreva rispondere.
«So bene quanto sia difficile accettare alcune condizioni: gli dei a volte ci pongono davanti a delle scelte e non sempre è facile fare quella giusta. Ti turba che avresti potuto compiere lo stesso sbaglio di Tamlen, non è così?»
Il ragazzo alzò la testa davanti a quella scomoda verità. L’aveva creduto: tornato dalla città aveva ammesso che avrebbe derubato l’uomo, se l’amico avesse insistito; persino il focolare, davanti al quale era scoppiata la discussione, avrebbe potuto illuminare il suo rancore nei confronti di Gadesh. Se solo fosse riuscito a farsi avanti.
Tuttavia, non avevo fatto nessuna delle due cose.
«La verità è che avresti potuto, ma l’hai evitato» continuò la donna.
«Ciò non toglie che ho pensato le stesse cose di Tamlen: sono stato vile a non esternarle.»
«Per questo credi di meritare una punizione? La saggezza va costruita: scegliere di fare la cosa giusta, nonostante non la si condivida, è già un piccolo passo verso di essa.» L’anziana lo accompagnò alla porta. «La cattiveria può nascondersi anche dietro la verità: Tamlen deve ancora impararlo. Ora va’, dal’en. Se vuoi potrai accompagnare tuo fratello durante la caccia».

 

 

Nda: perché sto prendendo tanto a cuore questa storia non lo so, probabilmente perché alcune scene di essa mi martellano in testa e non avrò pace finché non l’avrò finita di scrivere. Tuttavia, so perché ho deciso di cancellarla (sarei una pazza se non lo sapessi xD) e di riproporla riveduta e corretta.

Per prima cosa non ero del tutto soddisfatta, non come lo sono ora, della sua riuscita J Si tratta di una storia che ho abbondato per anni e ripreso dopo tanto tempo, forse troppo. Per cui molti degli indizi che avevo lasciato tra una riga e l’altra sono andati perduti nei meandri della mia mente bacata xD.

Secondo, non amo scrivere male e non sono mai pienamente soddisfatta quando si parla forma e di grafica (eh sì, anche l’occhio vuole la sua parte! Soprattutto il mio :P) per questo ho deciso di rivolgermi a qualcuno, il fantasmagorico beta reader, affinché i mie capitoli avessero la correttezza da me tanto ricercata J Per questo ringrazio di cuore chi ha svolto e sta svolgendo questo lavoro di correzione. Grazie infinte! :D Alle mie beta per essere tanto gentili, brave e pignole.

Terzo ed ultimo motivo, non mi piacciono le cose rimediate. Quindi, in tutta onestà non mi piaceva l’idea di scambiare i vecchi capitoli con quelli nuovi e corretti e lasciare gli altri, non corretti, al loro destino, finché non avessi modificato anche loro. Dunque, trovandomi davanti alla scelta, cancellare tutta la storia e riproporla, fino all’arrivo dei capitoli inediti e mai pubblicati; o modificare i vecchi lasciando metà storia corretta e metà no, ho deciso per la tabula rasa e ricominciare dall’inizio.

Prima che mi tiriate qualcosa contro per questo sproloquio, vorrei informare i vecchi (e i nuovi lettori se mai ci saranno) che i capitoli inediti verranno ripubblicati non appena i vecchi saranno belli e (quasi :P ) perfetti. Detto questo, ringrazio tutti coloro che avevano apprezzato la mia storia nei tempi addietro e che avevano avuto la voglia di lasciare un commento: thewhitefool, per tutte le belle parole che mi ha sempre rivolto e l’incoraggiamento che ne ho tratto, e spero di leggere ancora di Willard, il suo personaggio; Giulz87 e Yori, che dal fandom di Dragonball Z mi hanno seguita fin qui; Artemis-sama per le recensioni lasciate; Zafrina con la quale credo di condividere la passione per Morrigan xD; e infine ringrazio Justinian, il quale se non mi ha ucciso fin’ora, credo lo farà presto dopo questa mia ultima trovata! Ma non temere Matthew, i capitoli nuovi arriveranno presto e sono già in cantiere xD tanto ora non hai tempo per leggerli u.u.

Finisco col rigraziare la Sister che ha iniziato a leggere la mia storia.

Un saluto e un abbraccio a tutti voi, alla prossima!^w^

 

 

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Capitolo 2
*** Le rovine ***


2

                                                                      Le rovine
 
 

Un uomo è più veritiero

Rispetto a quando si riconosce un bugiardo


Si dice che la vita sia imprevedibile. Non è del tutto vero: ogni volta che si compie una scelta, un allarme ancestrale c’infastidisce all’altezza del petto. Istinto? Forse; oppure, è semplicemente il rimorso di aver fatto la scelta sbagliata.

 

 

Nulla di ciò che gli era stato detto, era riuscito a convincerlo. La guardiana Marethari aveva turbato ancora di più l’animo del giovane elfo: l’anziana donna aveva parlato di saggezza inconsapevole e di verità ancestrali ma Teras non vedeva nulla di tutto questo nelle proprie azioni. Era stato soltanto un vile. Sì, perché aveva partecipato alla rissa semplicemente per difendere l’amico, non per sedarla, come gli anziani avevano creduto, lodando persino la sua saggezza.
Teras, invero, non si sentiva per niente diverso da Tamlen. Eppure tutti lo vedevano così perché dei due era sempre lui a fare la scelta giusta, a riprenderlo e a dargli il buon esempio. In realtà, non si sentiva migliore di lui. Infatti, se lo fosse stato veramente, non avrebbe assecondato con il silenzio ciò che il clan pensava sul suo conto. Era perfettamente in grado di scindere il giusto e il non giusto, ma trovava ogni giorno più difficile seguire la retta via. Non che desiderasse agire male, ma aveva l’impressione di non scegliere mai con il cuore e di seguire polverosi dogmi di giustizia, piuttosto che il proprio istinto. Allo stesso tempo però, non aveva il coraggio di mostrare le proprie idee, perché non voleva che gli altri lo considerassero sbagliato come Tamlen.

Era poi così importante il giudizio altrui? Non sarebbe stato meglio assumersi la responsabilità di essere se stessi? Non era forse questo uno dei significati della Vallaslin, la scrittura di sangue?
La risposta era più che palese, ma davvero non ci riusciva! Tamlen era il suo migliore amico, ma non voleva essere trattato come trattavano lui, come se avesse sempre una lezione da imparare, come se si fosse guadagnato la scrittura sul viso solo grazie alla resistenza al dolore invece che per la pienezza di spirito.
L’elfo si portò le dita sull’incisione che aveva in fronte; a volte dimenticava di averla così dipinta, ma quel giorno sentiva quei disegni terribilmente pesanti come se gli dolessero ancora. Sapeva che nemmeno il suo era stato un comportamento saggio.
«Questa volta Tamlen l’ha fatta grossa, ma chissà perché ho l’impressione che possa superarsi», esordì Merrill, l’allieva della Guardiana. La donna salì in silenzio i gradini di pino fino alla porta della capanna, poi si fermò fissando Teras negli occhi. I capelli corti, color dell’ebano, le volteggiavano sugli occhi scuri, adombrandoli nonostante il sole maturo. «Sei stato bravo, oggi» gli poggiò una mano sulla spalla, «la violenza non è mai la risposta, qualunque sia la nostra bandiera. Mentre i ragazzi pensavano solo a picchiarsi, tu hai cercato di fermarli.»
Questa frase fu l’ennesima spina nel fianco per il giovane elfo. Così aveva ingannato anche l’incorruttibile Merrill! Si sentì tremendamente in colpa: verso tutti e principalmente con se stesso.
La consapevolezza di sé giunge all’improvviso, però, né per Teras, né per Merrill sarebbe stato quello il giorno. Così il vento soffiò, ignorato da entrambi, sui loro volti candidi. E, ancora una volta, il guerriero preferì il silenzio alla verità, senza aggiungere altro a un cenno del capo.
Si allontanò dalla elfo, che continuò a seguirlo con occhi pieni di ammirazione. Teras percepì il suo sguardo sulle proprie spalle e se mai si fosse voltato, non sarebbe stato in grado di sostenerlo.
«Vengo anch’io» disse avvicinandosi a Tamlen.

Quest’ultimo stava cercando un arco nel carrozzone delle armi, afferrò una cartucciera di piccoli pugnali. «Non capisco come tu faccia a preferire questi a questo!» concluse, sollevando, con l’altra mano, un lungo arco di legno ferro capolavoro d’arte elfica. «Sei l’unico elfo cui non interessi» riprese. Tirò la corda e la lasciò, scoccando una freccia immaginaria.
«Molla l’osso Tamlen, non è per te», lo rimproverò Serril,  il falegname. «Questo l’ho confezionato apposta per Ranahel», precisò e gli sfilò l’arma dalle mani con fare seccato. Al suo posto gli consegnò un piccolo arco di grezza fattura. «Ecco, questo è molto più adatto a te.»
«Oh, andiamo, Serril, perché non posso averne uno come l’altro?»
«Certo che puoi, ma non adesso: è già tanto se riesci scoccare una freccia a due passi da te»
«Beh devi riconoscere che non ha tutti i torti, lethallin» lo schernì, infine, Teras.
«Certo, certo, ma cosa vuoi saperne tu di archi e frecce: pensi solo ai tuoi pugnali!» rispose offeso l’amico. «Ad ogni modo, perché ci tieni tanto a venire? Marethari non ha punito anche te!»
«Dal’en, faresti meglio ad approfittare del suo aiuto, se non vuoi tornare a mani vuote», s’intromise Serril, «e fareste meglio ad affrettarvi: il sole sta già tagliano l’orizzonte e non aspetterà voi per andare a riposare», consigliò infine.
Tamlen tornò su Teras. «Fai pure come desideri, lathellin, ma sappi che non riporterò le tue carcasse.» 

 

Il sole infine calò, lasciando il posto alla luna che addormentò la foresta con il suo dolce canto. E i due elfi tornarono all’accampamento a mani vuote, com'era prevedibile accadesse: le bestie si erano nascoste nelle loro tane già ai primi accenni del vespro. Marethari lo sapeva, ma aveva voluto comunque mandare Tamlen, affinché capisse i tempi e le difficoltà della caccia e la smettesse di accusare i fratelli per la scarsezza di cibo.
«Accidenti, Tamlen, caccia grossa eh?» lo canzonò uno dei giovani elfi seduti intorno al grande fuoco.
«Non mi sembra che tu sia stato in grado di fare di meglio, Thabana, data la fame che ci perseguita da giorni» rispose l’offeso, e gettò a terra il proprio arco. Qualcuno gli porse una scodella di cortecce, ma Tamlen la scansò con disprezzo senza nemmeno guardarla.
Qualcun altro, invece, ridacchiò sotto i baffi, trovando divertente quell’atteggiamento immaturo.
«Che gli dei t’inculchino un po’ di buon senso» augurò il vecchio Serril, affondando le dita callose nel composto di radici e funghi che aveva nel piatto.
Teras sospirò in direzione dell’amico che si allontanava dal focolare. Capiva il suo stato d’animo e gli dispiaceva vederlo così. Tamlen, dopotutto, non era un elfo cattivo: si sforzava davvero di fare la cosa giusta, ma il suo istinto prevaricava sempre sulla ragione, portandolo a compiere ciò che gli altri consideravano nient’altro che sbagli.
«Tieni, sarai affamato». Merrill allungò a Teras la ciotola che aveva offerto all’altro, e lo invitò a sedersi al suo fianco.
Non era raro che mostrasse attenzioni particolari nei confronti di Teras. Infatti, più volte aveva elogiato la sua forza e confessato a poche intime il suo amore per lui. Tuttavia quest’ultimo, sebbene in un primo momento avesse assecondato quelle pulsioni, alla fine si era visto costretto a raffreddarle poiché non si riconosceva nelle descrizioni appassionate che la giovane faceva di lui. Le quali, invece di onorarlo, avevano il solo effetto di metterlo a disagio.
«Credi davvero che occorra un semplice disegno per diventare maturi?», le chiese Teras a bruciapelo, addentando un boccone.
«Beh, credo che Tamlen abbia una soglia del dolore molto alta», scherzò la donna, mostrando un sorriso da scoiattolo.
Il ragazzo, pensieroso, tornò a contemplare il fuoco. La sua domanda non era riferita all’amico ma a se stesso. Era però comprensibile che l’altra avesse frainteso giacché non era stato molto chiaro. Infatti, gli mancava ancora il coraggio di scoprirsi del tutto. «Fenarel è molto responsabile, meriterebbe di ripetere il rito» riprese dopo poco, sempre rivolto a Merrill.
«Oh no, non sono ancora pronto: ancora mi duole la fronte per l’ultima volta» s’intromise il diretto interessato, avendo sentito quel discorso; indicò ai due il suo abbozzo di Vallaslin.
Ed ecco l’ennesima spina nel fianco. Quando Teras a tredici anni aveva superato il rito, non si era per nulla posto il problema del suo significato, né si era chiesto, veramente, se fosse pronto a riceverlo; anzi, in quel momento la sua concentrazione era stata rivolta essenzialmente a controllare il dolore e, dopo, si era vantato con gli altri di essere diventato un adulto. Mentre Fenarel, che di strada ne aveva fatta da quel giorno, mostrava con orgoglio la sua mezza Vallaslin, aspettando di poter essere in grado di completare la scrittura, nonostante fosse pronto da un pezzo.
Teras si levò all’improvviso, i suoi lineamenti erano serrati in uno strano cipiglio; recuperò l’arco che Tamlen aveva gettato accanto al fuoco, lo strinse in mano e raggiunse l’amico. Il quale, esiliato dal gruppo, scrutava le stelle poco lontano da lì, sotto un grande albero dalle foglie azzurre.
«E’ inutile, tanto lo brucerò di nuovo.»
«Non è bruciandolo che imparerai a usarlo!»
«Sai sempre cosa dire, vero? Scusa, non volevo offenderti» si affrettò a precisare: Teras non c’entrava nulla. Poggiò la schiena contro il tronco, ma non riprese l’arco.
Con la coda dell’occhio vide l’amico occupare il posto al suo fianco.
Il silenzio si appropriò dei loro pensieri, fino a quando Tamlen decise di rivolere l’arma. Ne constatò le condizioni: a parte un’estremità annerita, il resto era perfettamente integro.
«Ti serve solo un po’ di concentrazione» arguì Teras.
«Per te è facile parlare: lo usi molto bene. In realtà non ho nulla in contrario al fatto tu prediliga i pugnali, t’invidio solo la facoltà di scelta», pizzicò rassegnato la corda di quel legno bruciacchiato «e non solo: tutti ti ammirano qui; ti lodano… ti amano», disse, puntando il mento in direzione del focolare, dove c’era Merrill.
Non sono nulla di tutto ciò, pensò Teras e per evitare di guardare l’altro, volse lo sguardo alla vallata.
«Ah, lathellin, almeno tu mi ritieni degno di questa Vallaslin?» gli chiese l’amico, sbattendo la nuca contro il tronco.
«Se ti poni il problema sei già a metà strada… Come ci riesci?» domandò, cambiando discorso.
«Oh non è difficile, mi pongo molti problemi. Sul serio, a fare cosa?»
«A… non importarti del giudizio degli altri»
«Ma certo che m’importa, non starei così altrimenti» rispose Tamlen perplesso.
Teras scostò la schiena dall’albero e precisò: «Sì, però continui a comportarti come sempre! Ti dispiace che gli anziani ti critichino, ma dici ugualmente quello che pensi, nonostante tu sappia cosa comporterebbe».
«Perché, tu non fai lo stesso?»
Di nuovo, Teras allungò di nuovo lo sguardo a valle ma questa volta rispose: «No, semplicemente so cosa vogliono sentire gli anziani; non dovresti prendermi come esempio»
«Ah ah, se non ti prendessi come esempio non saprei come sbagliare: vedi, mi basta fare il contrario di ciò fai tu! Dopotutto, non mi è mai piaciuto seguire la massa.»
Quando Teras tornò in tenda, si sentì leggermente sollevato. Non si sentiva cambiato, ma almeno era stato sincero con l’amico, al quale aveva confessato quasi tutto ciò che gli passava per la testa. Si ripromise che il giorno seguente avrebbe chiarito anche con Merrill.
Purtroppo la forza dei buoni propositi svanisce insieme ai sogni del mattino. Così, quando il giorno dopo ebbe l’occasione di parlare con la elfo, trovò solo la forza di respingere un suo bacio.
«Cos’hai?» chiese la donna.
«Nulla, Tamlen mi sta aspettando» tagliò corto. Non immaginava non avrebbe più avuto occasione di parlarle.

 

I due dalish procedevano nella foresta, cercando di far meno rumore possibile. Le foglie secche si spezzavano sotto i loro stivali di cuoio. Il sole, alto nel cielo, gli feriva gli occhi scuri, costringendoli a strizzarli; ma i due elfi non vi badavano e, con le mani strette sulle loro armi, si chiedevano quando gli dei avrebbero concesso loro di agire. Quel giorno erano partiti di buon ora, e speravano di poter portare al campo almeno un paio di cervi.
A un tratto, Tamlen bloccò il passo, ispirò l’aria fresca del mattino. «Guarda là», sussurrò, indicando un  enorme cervo che brucava tranquillo dietro un cespuglio. Sfilò una saetta dalla faretra e si inebriò del rumore della corda che si tende. Richiamò tutta la propria concentrazione, deciso a mandare il tiro a segno: per una volta sarebbe tornato vittorioso.

Scoccò.
La freccia vorticò nell’aria, fino a impalarsi su una grande quercia.
L’elfo imprecò giacché un rumore improvviso aveva spaventato l’animale facendolo fuggire. «Maledizione, l’avrei colpito!»
In quell’istante un gruppo di umani apparve da dietro i cespugli; uno di loro si appoggiò ansante a un albero, inconsapevoli riguardo all'occasione di riscatto che avevano fatto perdere a Tamlen.
«Shemlen» sibilò l’elfo biondo, particolarmente infastidito. La rabbia gli ribolliva nelle tempie; si calò dalla scarpata e raggiunse lo sventurato trio.

A Teras non restò che seguirlo.
«Bene, bene; guarda un po’ cos’abbiamo qui, lathellin: un bel gruppetto di schifosi shemlen»
«Da… dalish!» esclamò preoccupato uno di loro.
«Sapete, non è divertente tirare una freccia a vuoto: stavo cacciando e voi avete fatto fuggire il mio cervo»
«Noi non… volevamo»
«Voi non dovevate» parafrasò l’elfo, tirando la corda del proprio arco.
«Non vorrai ucciderli?» promulgò Teras.
«Perché no? Mi sento abbastanza frustato da farlo, dopotutto, non dovrebbero nemmeno essere qui», sputò a terra. «Dite, forse volevate accertavi che le leggende sul nostro conto fossero vere?»
«No…» azzardò uno sh’am, spinto in avanti dagli altri, «noi stavamo scappando!»
«Che proverete a farlo non ci sono dubbi, ma lasciatemi almeno scoccare la freccia» disse il biondo sarcastico, più intenzionato che mai a far loro del male.
«Non uccideteci vi prego!» supplicò l’umano, «stavamo scappando da… dei ragni enormi, da quella parte», si girò agitato indicando un punto nel bosco.
«Ma non mi dire, e scommetto che c’erano anche delle ragnatele enormi!»
«E’ la verità, erano spaventosi! Ci sono delle rovine laggiù, rovine molto strane.»
«Impossibile, conosciamo ogni anfratto di questi luoghi» fece presente Teras, fino a quel momento rimasto in silenzio.
«Le ho scoperte pochi giorni fa: erano nascoste dalle radici degli alberi.»
«Se è un luogo così spaventoso, allora perché  ci siete tornati?»
«Perché la prima volta erano disabitate! Ho voluto mostrarle ai miei amici: ci sono molti tesori laggiù!»
I dalish si scambiarono un’occhiata dubbiosa, subito dopo Tamlen sentenziò: «Non vi crediamo; io dico che siete qui per scovare il nostro accampamento in modo da poterci scacciare come siete soliti fare voi sh’amlen.»
L’umano lo guardò sentendo la morte vicina. Il destino quel giorno era stato davvero crudele: aveva concesso a lui e ai suoi compagni di scappare dai ragni, ma adesso li voleva morti per mano dei dalish. «Io… io…» balbettò, in preda al terrore.
«Che ne dici, Teras, quale di loro uccidiamo per primo?», chiese il più minaccioso dei due Dalish.
Lo sh’am approfittò di quell’attimo di distrazione per provare a scappare ma Tamlen gli piombò addosso, «Mi dispiace, mossa sbagliata!» E sotto lo sguardo stupefatto degli astanti, gli spezzò l’osso del collo.
«Tamlen, che cosa hai fatto?», si stupì Teras, sgranando gli occhi. Osservava il corpo vuoto ai piedi dell’amico: questa volta non era riuscito a fermarlo. O non aveva voluto farlo?
«Era soltanto un inutile sh’am». Tamlen si girò verso gli altri sopravvissuti, i quali stavano già scappando. «Ah ah, ma bravi, andate pure: codardi!» gli gridò dietro, «forza lathellin, andiamo a vedere se queste rovine esistono» e sparì, innalzando in aria un pugno di foglie al suo passaggio.
Teras lanciò un’ultima occhiata al cadavere, strinse i pugni e seguì l’amico. Questa volta non poteva fargliela passare liscia! Era la prima volta che Tamlen agiva in maniera così sconsiderata. Che cosa avrebbe pensato il clan? Un umano era stato ucciso, e lui non era riuscito a evitarlo! Che cosa avrebbe risposto agli anziani, se gli avessero chiesto perché non l’aveva fatto? Poco dopo raggiunse l’amico sotto un arco di pietra che non aveva mai visto in vita sua.
«Guarda, lathellin: avevano detto la verità! Chissà quanti tesori ci sono là dentro», esultò il biondo euforico.
«Perché hai ucciso quell’umano?» lo interrogò Teras, spegnendo il suo entusiasmo.
«Se lo meritava!»
«Per aver detto la verità?»
«Beh, non potevamo saperlo; a ogni, modo era uno sh’am!»
«Già, ma adesso incolperanno me per ciò che hai fatto!»
«Oh, già scusami, non ci avevo pensato: ho macchiato la tua immacolata reputazione!»
«L’hai macchiata il giorno stesso in cui ti ho conosciuto!»
«Quando tuo padre si è fatto uccidere da un branco di umani»
«Almeno il mio non è scappato chissà dove»
A quelle parole Tamlen lo spinse; l’altro rispose con un pugno. Iniziarono così a darsele senza un motivo preciso, spinti da un odio atavico a loro estraneo consapevoli che le mani avrebbero smesso di prudere solo quando uno dei due fosse morto. Così, tra pugni e insulti varcarono la soglia delle antiche rovine e l’ombra s’impossessò di loro. Teras cadde a terra, sbattendo la testa; il colpo fu così forte da farlo tornare in sé.
Dove mi trovo? Si chiese frastornato, come se avesse dormito fino a quel momento.
Tamlen gli si gettò addosso per sferrare il colpo di grazia, in preda a qualche istinto omicida.
Il rosso riuscì a spostarsi in tempo e lo immobilizzò.«Lathellin!» Lo richiamò, ma l’altro continuava a divincolarsi mostrando i denti. «Lathellin!» Riprovò, alzando la voce e strattonando l’amico.
«Teras, che stai facendo, perché mi sei sopra?» La nube di rabbia che aveva coperto gli occhi di Tamlen fino a quel momento si dissipò all’improvviso e tornò l’espressione di sempre.
«Mi stavi attaccando» rispose Teras, aiutandolo ad alzarsi. Sembrava confuso quanto il fratello.
«Perché?» chiese stranito.
«Non lo so… non ricordo come siamo finiti qui.» Il dalish si guardò intorno, ma nulla, di ciò che vedeva, lo aiutava a capire. Non ricordava dell’avvertimento riguardo i ragni giganti; dell’umano ucciso nel bosco; del bisticcio avuto poco prima di ruzzolare tra quelle rovine, le quali erano pervase da una strana e poco rassicurante aura.
«Sembrano mura molto antiche» constatò Tamlen, alzandosi in piedi. Tastò una colonna ricoperta di muschio. «Dici che dovremmo avvertire la Guardiana?»

 

 



 


 

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Capitolo 3
*** Incontri Inaspettati ***


3

Incontri inaspettati

 L’istinto detta il dovere e

L’intelligenza il pretesto per eluderlo
 

 

«Però prima dobbiamo uscire da qui».
Proferì Tamlen, ruotando le pupille per l’ampia sala circolare.
«E come facciamo, l’entrata è bloccata», constatò Teras, avvicinandosi all’amico; sul pavimento si disegnarono le impronte dei suoi passi: probabilmente erano secoli che nessuno calpestava quelle pietre ricoperte di muschio e polvere. E nulla lasciava intendere il contrario.
Persino le piante erano state impietose con quel luogo, diroccando le pareti con le proprie radici.
«Potremmo usare una di quelle, che ne dici?», suggerì Tamlen, sollevando l’estremità di quello che sembrava uno spesso nastro di seta, piangente dal soffitto.
«Che roba è?», promulgò l’altro, non avendo difficoltà a vedere nel buio grazie alla vista elfica.
«Non lo so, però è resistente!» Tamlen ispezionò lo strano nastro. «Potremmo arrampicarci da qui; salire su quell’enorme radice e raggiungere l’uscita.»
«Uhm.»
Teras affettò con lo sguardo il biondo, non molto convinto da quell’idea: odiava arrampicarsi poiché soffriva di vertigini. E quando gli altri fratelli dalish lo sfidavano a raggiungere la cima degli alberi più alti, riusciva sempre a esimersi con le scuse più attendibili; però questa volta sapeva di non poterlo farlo. A meno che, non avesse proposto un’alternativa più valida ma, in quel momento, non gli veniva nient’altro: la testa doleva al punto da non farlo ragionare.
Deglutì, seguendo con lo sguardo la fine della corda: era davvero molto in alto.
«Allora?», incalzò Tamlen.
«Va bene».
«Sicuro?»
«Sì perché?» promulgò, così velocemente da palesare la menzogna.
E Tamlen se ne accorse; sorrise a mezza bocca e rimarcò:
«Guarda che… se credi possa crearti fastidio, pensiamo ad altro.»
Trovava divertente mettere in difficoltà l’amico; soprattutto perché erano davvero poche le occasioni in cui poteva mostrarsi più forte di lui e, a quanto pareva, questa era una di quelle.
«Affatto», sentenziò con fermezza, «però vai prima tu.»
L’amico gli rivolse uno sguardo di sfida: «E perché mai?» domandò fintamente incuriosito.
«Perché l’idea è stata tua.»
«D’accordo, basta che lo ammetti.»
«Cosa?»
«Che… soffri di vertigini!», ridacchiò Tamlen.
 Se solo Merril, la sua Merril, avesse potuto vedere la scena; se solo avesse saputo la verità, sicuramente avrebbe smesso di considerarlo il più valoroso dei due e avrebbe scelto lui, anziché Teras.
Tamlen strizzò gli occhi, in attesa di una risposta.
Il rosso si portò una mano in fronte, sulla vallaslin; l’amico, come al solito, l’aveva scoperto e aveva iniziato a torturarlo. Tuttavia, non aveva intenzione di dargli soddisfazioni.
Così, pur di non ammettere la propria inadeguatezza, afferrò la corda; la annodò su una mano e, aiutandosi con l’altra, s'issò a mezz’aria, sforzandosi di non pensare al vuoto sotto di sé.
A Tamlen, la mascella serrata, deluso dallo sviluppo degli eventi, non restò che seguirlo.
Tuttavia, i due non percorsero molta strada che sentirono il suono sommesso di uno strappo.
Teras sgranò gli occhi; l’altro s’immobilizzò.
Questo fu tutto ciò che riuscirono a fare, prima di rovinare a terra da tre metri di altezza.
Qualcos’altro, però, cadde con loro: un corpo mummificato, avvolto in un bozzolo fibroso.
Teras e Tamlen scivolarono all’indietro sul pavimento, fino al muro alle loro spalle; pietrificati alla vista di quella cosa che stava loro di fronte. Poi, si voltarono e, specchiandosi l’uno nell’espressione di terrore dell’altro, scoppiarono a ridere.
«Ah ah, dovresti vedere la tua faccia, lethallin» dissero all’unisono e scoppiarono a ridere ancora più forte, più per inquietudine che per vero diletto.
Teras fu il primo ad alzarsi per ispezionare il bozzolo, rigirandolo con il piede.
Strabuzzò, quando scorse una figura umana: «Ѐ… è…»
Riprese fiato: «Sembra… il bozzolo… di un enorme…»
«Ragno!» Finì Tamlen per lui, urlando e indicando un punto dietro le spalle di Teras.
Quest’ultimo però non fece in tempo a voltarsi che si sentì sollevare da terra.
Il respiro gli si mozzò in gola vedendo il pavimento allontanarsi dai suoi piedi.
Iniziò a tastarsi il torace per afferrare una lama dalla cartucciera, ma era talmente agitato che quando ne prese una gli scivolò dalle mani.
Poi il buio più totale: il ragno lo stava trascinando lungo un cunicolo nel muro.
Tamlen  afferrò prontamente il pugnale caduto a terra, e si gettò all’inseguimento dell’animale, che vedeva nitido grazie alla propria vista elfica. Non fu arduo nemmeno distinguere il suo corpo bestiale da quello di Teras che individuò tra le sue zanne.
Quest’ultimo gridò il suo nome, allungando un braccio cui Tamlen si aggrappò.
Teras si sentì strattonare in avanti, lacerandosi i fianchi, sui quali forzava la presa del ragno.
Talmen, in una mano il braccio del fratello, nell’altra il pugnale, sferrò un colpo contro la pancia della bestia che guaì di dolore.
I colpi cessarono solo quando il mostro smise di gemere, in un mare di liquido viscoso e appiccicoso.
I ragazzi, ansanti, si poggiarono contro la parete del tunnel.
«Grazie », soffiò Teras «mi hai salvato la vita.»
«Figurati, lethallin
«Sul serio, quando torneremo al campo », fece una pausa deglutendo, «lo racconterò a Merrill.»
Il cuore di Tamlen mancò un battito, a sentire quel nome.
«Perché?» Domandò strozzando il fiato.
Perché. Per cominciare Teras aveva ormai capito di non essere interessato a Merrill, almeno non tanto quanto lei lo fosse di lui. Quindi, concedendola avrebbe dimostrato all’amico la sua gratitudine e lei, nel caso fosse riuscito a convincerla di scegliere Tamlen, non se la sarebbe presa più di tanto con lui.

«Da qualche parte dovrai pure iniziare», disse infine.
Il biondo arricciò la faccia in una smorfia, sbattendo la nuca contro il muro. «Oh accidenti, Teras, come hai fatto a capirlo?»

«Ultimamente la guardi spesso e in modo strano », sbuffò un risolino, che fece sentire Tamlen incredibilmente imbarazzato, oltre che in colpa: solo un attimo prima aveva provato invidia nei confronti dell’amico.
«Oh lathellin, mi dispiace: ti ho mancato di rispetto», ammise, sorprendendo l’altro che raramente aveva sentito delle scuse dalla bocca orgogliosa di Tamlen.
«Non scusarti; avrei dovuto lasciarti campo libero da un pezzo», cercò la sua spalla e la strinse; poi, insieme, sgattaiolarono fuori dal cunicolo fino al punto di partenza.
«Come facciamo adesso?» asserì il biondo.
Teras fece spallucce: «Non ci resta che trovare un’altra uscita.»
«Ci sarà?»
«Al limite torniamo qui e troviamo un’altra soluzione» sperò di non doversi alzare di nuovo in aria. Così, contento di sentire la terra sotto di sé, svoltò a destra, in un corridoio semibuio.


«Ehi, hai sentito?» fece a un tratto Teras, bloccandosi nel bel mezzo del corridoio.
Un lamento sommesso, quasi un singulto, raggiunse le loro orecchie appuntite.
«Che cosa pensi che sia?»
«Non lo so, ma proviene da là.»
Tamlen indicò un grande portone in legnoferro, incastonato in una loggia.
I due amici si scambiarono un'occhiata, prima di avvicinarsi.
Schiacciarono una guancia contro la testata, per ascoltare meglio.
«Sembra… un pianto? Forse è qualcuno che ha bisogno di aiuto!» Arguì Teras, sputando la polvere che dal portone gli era entrata in bocca.
A quelle parole Tamlen s’irrigidì; tutto ciò che desiderava era tornare a casa, e chiunque ci fosse stato oltre quella porta non gli interessava: aveva già compiuto la sua buona azione quotidiana e non avrebbe allungato il soggiorno in quelle maledette rovine.
«Coraggio, andiamo », disse afferrando Teras per allontanarlo da lì, il quale però si divincolò contrariato.
«Non possiamo» protestò con tono serio.
Tamlen sbuffò: «Certo che possiamo: un passo dopo l’altro », terminò sarcastico, mimando due gambe con le dita.
L’altro però non si mosse e lo guardò contrariato con le braccia incrociate.
«Oh accidenti, lethallin, voglio andarmene da questo posto: sono stanco; tra poco sarà buio e inoltre, ti assicuro che gli dei ti perdoneranno se per una volta non farai l’eroe.»
Teras non desiderava affatto fare l’eroe; semplicemente voleva dormire sonni tranquilli, senza che nessuno spirito infestasse i suoi sogni, rinfacciandogli di non essere stato salvato.
«Vorresti davvero tornare a casa, sapendo di averlo lasciato morire?»
«Sì, ebbene sì: non me ne importa niente!» Sbottò il biondo. «Non capisco per quale motivo dovrei fare il contrario! Senza contare che, probabilmente, si tratta di uno sh’am o magari chissà, è solo un'altro di quei dannati ragni.»

«Come fai a esserne sicuro?», s’impuntòTeras.
«Perché non mi risulta che qualcuno del nostro clan sia disperso!»
«Non se nel frattempo ci sono venuti a cercare.»
Tamlen impastò la lingua nella bocca: perché doveva essere sempre così difficile persuaderlo?«Nessuno sh’am rischierebbe la vita per uno di no» tentò ancora, per dare vigore alla propria tesi.
Teras liberò i polmoni; girò sui tacchi e ghignando disse: «D’accordo, fa’ come vuoi: torna pure all'accampamento; non sarò io a trattenerti.»
E tornò al portone, deciso a restare: non avrebbe sopportato il senso di colpa.
Iniziò, così, a seguirne i contorni con i polpastrelli, che si annerirono a causa dello sporco.
Soprattutto, se si fosse trattato veramente di uno sh’am, avrebbe rinfacciato a se stesso di non aver fatto tutto il possibile per semplice razzismo; comportandosi esattamente come chi odiava: gli umani.
Ecco, mettersi al loro livello era ciò che più di tutto detestava, perché avrebbe voluto dire perdere il diritto di biasimo nei loro confronti e la legittimità di insultare chi aveva ucciso la sua gente.
Restando, invece, avrebbe onerato gli sh’am di un altro debito.
«Lathellin, aspetta!» Lo chiamò Tamlen, che aveva riconsiderato la propria posizione di fronte all’idea di dover rimanere da solo tra quei corridoi lugubri.
Teras si fermò, in attesa del seguito che non tardò ad arrivare: «Facciamo così: torniamo all’accampamento…»
«Non…»
«Aspetta, informiamo gli altri e ritorniamo con loro: sarebbe più sicuro.»
«Ma non sarebbe la scelta giusta. Potremmo non tornare in tempo!»

 «Ѐ probabile che accada, ma ragiona: sarebbe più conveniente!» 
«Va bene, allora va' a chiamare gli altri; io, intanto, resto qui.» Si intestardì.
Tamlen si voltò, fece un passo in avanti; poi un altro. Tornò indietro sbuffando.

«Non ti lascio qui da solo!»
«Allora, convieni anche tu che questa sia la scelta giusta.»

 
Il sole era calato da un pezzo, mentre una leggera bruma s'insinuava tra i fili d’erba e i cespugli del bosco. E c’era un assordante silenzio nell’aria.

Il cavallo nitrì, impuntando a terra gli zoccoli appesantiti dal fango.
«Te ne sei accorto anche tu, eh, vecchio mio: c’è troppo silenzio!» Constatò Duncan guardandosi intorno; annodò la briglia in una mano e con l’altra accarezzò il dorso color ciliegia del purosangue nordico, «ma dobbiamo restare calmi, Paladin», sussurrò all’orecchio peloso dell’animale.
L’uomo aguzzò i sensi per ispezionare anche il più recondito angolo della foresta.
Niente: forse era arrivato troppo tardi, poiché di prole oscura nemmeno l’ombra; solo una scia di morte a testimoniare il loro passaggio per quelle terre.
L’atmosfera, infatti, era pesante e ristagnava in un olezzo di sangue putrido e di cadaveri.
Duncan strattonò il cavallo per convincerlo a proseguire; la bestia riprese a trottare, nolente e timorosa.
Eppure, rifletté il cavaliere, avverto la loro presenza.
Fu alla fine di quel pensiero che scorse, ai piedi di un albero… il corpo di un uomo?
Difficile dirlo da quella distanza.
Scese dalla sella e si avvicinò al corpo dall’armatura sbrindellata e la carne lacerata da innumerevoli morsi e ferite.
«Buon Dio!» esclamò, poiché nonostante si trovasse in quelle condizioni, un flebile movimento del torace indicò che c’era ancora vita tra quelle ossa.
Repentino, recuperò dalla bisaccia una fiaschetta d’acqua e, inginocchiandosi sul terreno fangoso, la portò alle labbra di colui che gli sembrò essere un dalish, date le orecchie appuntite e i segni sulla fronte.
Il ragazzo tossì il liquido sulle gambe di Duncan; schiuse leggermente gli occhi e, con voce soffocata, biascicò alcune parole in elfico.
Era febbricitante: la sua fronte scottava più di un tizzone ardente e la sua bocca non riusciva a trattenere la saliva, che gli schiumava sul collo.
«Mi dispiace…» asserì sincero il cavaliere, immaginando il limbo di dolore in cui si trovava quel giovane sventurato: quei morsi non potevano che essergli stati inferti dalla prole oscura, per cui, senza dubbio, il cancro della corruzione scorreva già nelle sue vene.
Tuttavia, per lui poteva esserci ancora una speranza di salvezza, finché il suo organismo avrebbe risposto all’infezione con la febbre.
Con cautela, issò il ragazzo sul cavallo, deciso ad aiutarlo: se la fortuna avesse voluto, avrebbe trovato il suo accampamento.
Dopo alcune miglia, attraversate sotto la pioggia che lenta batteva sulla sua armatura di ghisa, Duncan scorse un fumo nero e denso: proveniva dalle ceneri di un falò, al centro di una radura coronata da capanne.
Scese a valle, col ragazzo moribondo caricato sul cavallo.
Più si avvicinava, più le immagini diventavano nitide; e quelli che sembravano spaventapasseri, altro non erano che teste mozzate e corpi mutilati.
Tutti morti. Nessun escluso.
L’uomo si guardò intorno, con il volto contrito dal rammarico di non essere giunto in tempo.
Disperse un sospiro nella pioggia, che via, via, diventava più fitta: anche il cielo partecipava a quel dolore.
Duncan passò il palmo di una mano sul viso di una donna per chiuderle gli occhi neri.
Non aveva armi con sé, ad eccezione di un lungo bastone di frassino: doveva essere stata una giovane maga.
Avrebbe voluto seppellirla; avrebbe voluto seppellirli tutti. Uno di quegli elfi, però, era ancora vivo, seppur moribondo sul suo cavallo.
Così infilò il piede sullo sperone d’ottone e tornò in sella; avrebbe pregato per la vita di quel giovane: non c’era tempo per i morti.
Trottò attento a non calpestare i cadaveri.
E chissà per quanto erano riusciti a resistere, i “guerrieri dipinti”, all’orda demoniaca che li aveva sorpresi nel sonno; sotto un indifferente spicchio di luna.
E chissà, ancora, se il ragazzo che aveva salvato era scappato, tentando una via di fuga, o aveva lottato fino allo stremo delle proprie forze.
Si voltò a guardarlo.
Aveva lottato, ne era sicuro.
Di strano, però, c’era il fatto di averlo trovato lontano dal suo accampamento: perché?
Inoltre era da solo, senza nemmeno la compagnia delle spoglie della prole oscura.
Duncan raggiunse un’altura e, per l’ultima volta, si voltò verso l’accampamento ormai in cenere; la pioggia aveva spento anche l’ultima fiamma del falò.
Tirò le briglie e riprese il cammino; strinse lo sguardo all’orizzonte: i demoni si stavano dirigendo a ovest. Erano in troppi.
Scosse la testa. E a malincuore, si diresse a sud, verso Ostagar e verso il suo re.
In fondo erano questi gli ordini.

 
Ostagar è uno sputo di pietre sulla sommità di una collina, ai confini delle selve Korcari.
La fortezza, antico orgoglio dell’Impero Tevinter, si erge in alto a graffiare il cielo.
Duncan arrivò dopo una notte e un giorno di viaggio.
«Chi va là?» Urlò la sentinella da sopra i bastioni.
«Duncan, il custode grigio comandate del Ferelden.»
Dopo alcuni istanti, il ponte levatoio si abbassò, accompagnato dal rumore ferroso delle catene degli argani.
Subito, Duncan lo oltrepassò tuonando:
«Ho bisogno di aiuto: questo ragazzo è ferito!»
E uno stuolo di servitori accorse, senza fare domande.
«Occorrono cure immediate: portatelo dai guaritori», ordinò, scendendo da cavallo, bagnato dalla luce forte del sole di mezzogiorno.
«Si, signore», si congedarono all’unisono, trasportando il moribondo, chi per i piedi e chi per le spalle.
Duncan li seguì con lo sguardo, augurandosi che non tutto fosse perduto. Aveva una strana sensazione riguardo quel dalish; inoltre, se non si fosse ripreso, non avrebbe potuto conoscere la sua storia.
Durante il viaggio, aveva fatto diverse congetture su quel fortuito incontro, concludendo che quel ragazzo doveva essere stato il primo ad incontrare quei barbari, data la sua posizione rispetto all’accampamento; ma com'era riuscito a sopravvivere, che lo avessero catturato e poi perso per i cespugli?
Sbuffò via quel pensiero insieme alla propria stanchezza: difficilmente la prole oscura perde i propri prigionieri, anche se si tratta di demoni senza intelletto, poco avvezzi finanche alle strategie di guerra. Sebbene, la loro forza aumentasse di secolo in secolo, si trattava solo di questo: soldati senz’anima, manipolati dal sovrumano spirito dell’Arcidemone.
Tuttavia, quella volta era diverso: diretto ad Ostagar aveva sentito la loro presenza solo in prossimità della foresta, come se fossero sbucati dal nulla; né, prima, aveva trovato loro tracce.
Doveva esserci una spiegazione; sicuramente il dalish avrebbe saputo rispondere, una volta guarito: il re non poteva permettersi lacune nei propri piani di battaglia.
Duncan levò il capo verso la finestra smerigliata dello studio di re Cailan; ancora una volta, il custode si augurò che il sovrano fosse all’altezza del compito, e non soltanto un giovane che giocava alla guerra, in cerca della grande battaglia. Come altri sostenevano.
«Il re è arrivato?» Chiese a una guardia.
«Non ancora comandante, mancano tre giorni di marcia.»
«Bene», tagliò corto e si congedò, diretto alla torre dei guaritori.

 
Sashar, il primo curatore, aveva dato sfogo a tutte le sue conoscenze in campo taumaturgico, ma la febbre del giovane non accennava a scendere, e le ferite non si rimarginavano.
Le lenzuola del letto, sul quale era stato adagiato, erano intrise di sangue rosso e denso e l’aria della stanza era diventata irrespirabile.
Il guaritore sentì un alito freddo sul collo: qualcuno aveva avuto l’ardire di aprire la finestra.
 Si voltò verso una notte senza stelle; una notte che parava senza fine.
Si asciugò la fronte sudata e raccolse alcune sanguisughe da un barattolo, affinché succhiassero via il sangue infetto; almeno fino a quando non avrebbe trovato l’incantesimo giusto.
Tuttavia, più continuava a provare invano, più le probabilità di salvezza diventavano esigue; nonostante fosse un guaritore esperto, non riusciva proprio a venirne a capo e doveva agire prima che la corruzione arrivasse al sistema nervoso. Altrimenti, l’avrebbero perso per sempre.
Ai primi bagliori dell’alba, quando ormai erano state provate e riprovate tutte le cure, solo una sembrò quella giusta: uccidere il ragazzo.
Il vecchio Sashar si strizzò gli occhi celesti, appesantiti dal sonno mancato.
Sentiva già il fallimento gravare sulle proprie spalle; ma cos’altro avrebbe potuto fare, se non far cessare la sofferenza di quel povero ragazzo?
Poi, un’idea malsana si palesò nella sua mente.
Raccolse il bastone da terra, lo strinse tra le mani e si alzò, fissando Duncan, rimasto tutta la notte al capezzale dell’elfo.
«Non esistono cure», sospirò, «qualsiasi incantesimo non allevia il suo dolore che per pochi minuti, né il delirio febbrile accenna ad acquietarsi.»

Il custode incastonò gli occhi in quelli del mago e, con fermezza disse: «Non possiamo ucciderlo, Sashar: dobbiamo sapere come la prole oscura è apparsa nella foresta dal nulla.»
Il vecchio piegò leggermente il capo; l’ombra della sua figura si allungava fino alla parete.
«Comandate, credo che voi sappiate già come fare»
Gli occhi del custode si allargarono impercettibilmente e ruotarono dal mago, al malato delirante nel letto.
Il vecchio Sashar, tra i ranghi dei custodi da molto prima di lui, aspettava in silenzio il verdetto, stringendo nel pugno l’ultima speranza: l’Unione.
«Non è stato sottoposto all’iniziazione» constatò il comandante.
«Ma, mio signore, credo che questo giovane abbia sopportato abbastanza da potersi considerare degno.»
Duncan si affacciò alla finestra e ispirò l’odore fresco del mattino; un tiepido sole, velato da una coltre sottile di nubi rosate, illuminava il nuovo giorno.
Aveva trovato quel dalish nella foresta, avrebbe potuto lasciarlo morire; ma troppi interrogativi erano nati nella sua mente.
Le regole sono regole, ma non l’aveva raccolto da terra per poi ucciderlo in seguito: se avesse saputo, avrebbe messo fine alle sue sofferenze da un pezzo.
Si avvicinò al ragazzo: aveva i capelli rossastri appiccicati sulla fronte sudata; gli occhi serrati in una costante smorfia di dolore e le mani aggrappate alle lenzuola, come a trovare un appiglio alle convulsioni che non gli davano pace.
Perché ci teneva tanto a salvarlo?
Non era stato il primo, né sarebbe stato l’ultimo infetto. Tuttavia, sentiva di non dover lasciare quella vita.
«E sia, lo sottoporremo all’Unione; sperando che ciò non lo porti alla morte.»
«Morirebbe comunque, comandante.»
Il custode si lisciò i capelli neri, tirati in una coda dietro la nuca.
«Dite ad Alistar di radunare le altre reclute: andranno oggi stesso nelle selve. Non possiamo esimere anche loro dall’iniziazione», decise con tono autoritario.
Sulla soglia si fermò, corrugò la fronte: «Procederemo con il rito non appena saranno tornati; fino a quel momento, continuate ad occuparvi del malato»
Il vecchio Sashar scattò la testa in un segno d’assenso e tornò ai suoi doveri.

 

 

:)

Ringrazio tutti quelli che leggono o che passano di qua e chi si occupa del betaggio^^.

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Capitolo 4
*** Avventura nelle Selve ***


3

Avventura nella Selve

 


In questo mondo  è importante

Non avere l’aria di ciò che si è.


 

«E’ assurdo, non capisco per quale motivo dobbiamo scomodarci così presto», asserì Ser Jory, esibendosi in strane contorsioni per infilare un paio di pantaloni in pelle marrone.
«Suvvia, cavaliere, non credevate mica di essere giunto fin qua per dormire», lo schernì Daveth, suo compagno di stanza da quando era arrivato a Ostagar, appena due giorni prima.
«Certo che no, ma buttarci giù dal letto all’improvviso», grugnì l’ultima parola, nello sforzo di coprirsi il sedere, «inoltre, l’iniziazione non era stata decisa per domani?»
«Eh amico mio, se frequentassi le serve come faccio io» asserì lascivo, alzandogli il mento con la punta di un coltello dalla lama serpeggiata, «sapresti che Duncan ha scovato un altro sventurato come noi, da qualche parte a ovest», fece un passo indietro e prese a pulirsi l’unghia del pollice con il pugnale.
Jory lo fissò aspettando il seguito che non arrivò.
«E questo che cosa c’entrerebbe, di grazia, con la nostra ultima prova?» Domandò a denti stretti, già pentito di avergli dato spago.
«C’entra; c’entra», buttò giù l’altro, fingendosi sovrappensiero, quel tanto che bastava per creare il giusto pathos.
«Oh, andate al diavolo, Daveth!» Esclamò perdendo la pazienza dopo l’ennesima pausa enfatica del compagno.
Pensò che dopotutto non avesse importanza, non era lì per dormire ma per diventare custode e combattere la Prole Oscura, come da tradizione.
E se il suo comandante aveva deciso di iniziarli all’alba, così sarebbe stato.
Infilò malamente anche la maglia di lana spessa, necessaria sotto l’armatura, e, a grandi passi, uscì dalla stanza, diretto al quartiermastro.
Daveth scosse la testa, seguendo con lo sguardo quella rossiccia e stempiata dell’amico sparire oltre la soglia; strinse l’ultima cinghia dello stivale di cuoio e scese, con tutta calma, al piano di sotto. Trovò anche il tempo di scherzare con una servetta dal seno pieno, strizzato nel corsetto.

 

«Finalmente, Daveth, credete forse che abbiamo tempo da perdere?» lo ammonì Alistar, un veterano dei custodi, nonostante la giovane età.
Il moro si limitò a un sorriso sghembo, sollevando da terra un piccolo scudo di legno con un piede.
Ser Jory rivolse ad Alistar un’espressione esasperata, mentre il mastro armaiolo gli chiudeva le giunture laterali dell’armatura.
Alistar ricambiò quello sguardo, infilando la spada nel fodero con un gesto secco.
A volte si chiedeva dove li pescasse, Duncan, tipi del genere! Di Daveth si sapeva solo che era uno scapestrato, un ex furfante che aveva avuto la fortuna di trovare il comandante sulla stessa strada.
Chissà, poi, perché riceveva tanta fiducia.
 «Allora», proferì.
Scacciò via i cattivi pensieri, e camminando davanti alle due reclute, continuò:
«Sapete già che dall’esito di questa missione dipenderà la vostra entrata nei ranghi dei custodi».
«Sì», risposero i due, l’uno convinto, l’altro annoiato.
Il custode si avvicinò a Daveth e, alitandogli in faccia, riprese il filo del discorso con tutta l’autorità che riuscì a raccogliere nel proprio animo.
«Quest’oggi dovremo recuperare delle antiche pergamene, che si trovano nella roccaforte assediata pochi giorni fa dalla prole oscura».
«Cosa c’è in quelle pergamene?»
«Lo saprete a tempo debito», asserì, girando solo il capo alla volta di Jory, il quale indietreggiò, raccogliendo le mani dietro la schiena.
«Siete stati allenati per combattere la prole oscura, oggi avrete la possibilità di mostrare il vostro valore!» continuò Alistar, camminando avanti e indietro davanti alle due reclute.
«Inutile dirvi che  non sono ammesse seconde possibilità», tagliò corto non sapendo più cosa aggiungere; decisamente, non era mai stato bravo con le parole.
«Voi sì che sapete come accattivarvi le folle, eh?», lo canzonò Daveth superandolo.
Alistar arricciò le labbra in una smorfia e seguì il moro al cancello del confine con le selve Korcari, nel cuore delle quali si trovavano le antiche pergamene.

 

Le selve dovevano essere viste dall’alto, per essere apprezzate in tutto il loro decadente fascino: la palude laccata dai pallidi raggi del sole; gli aironi indolenti che con il becco lungo increspavano l’acqua; le gemme di brina che, all’alba, impreziosivano le ragnatele tra gli alberi, cui la nebbia faceva da chioma…
Un grosso corvo nero, dalle lucenti piume, si appollaiò sul ramo di una quercia dal tronco marcio.
Poco distante, sullo stesso ramo, una piccola larva gialla usciva, tranquilla, da un foro.
Il grosso corvo la osservò indifferente per alcuni istanti e, poi, tlack!
Affondò il suo becco sulla povera bestiola e, con aria tronfia e soddisfatta, la fece scendere nel gargarozzo. Pulì infine il becco sotto l’ala.
In quel momento, un curioso trio di soldati catturò la sua attenzione; aguzzò la vista: erano proprio umani, non Prole Oscura; ma che curioso incontro: cosa ci facevano lì, nel cuore delle selve?
Solitamente, infatti, si limitavano a fare la ronda lungo i confini.
Decise che voleva saperne di più, perciò volò sull’albero accanto e così via, fino ad averli vicino.
Allungò il collo, girando la testa per meglio sentire le loro parole.
«… e poi questo posto non mi piace per niente.»
Disse uno di loro.
«Ah, ah! Daveth, a quanto pare avete finito di fare lo spavaldo!»
Lo canzonò un cavaliere tarchiato, con un grosso naso a patata e i capelli rosso scuro.
«Parlate voi, che siete il primo dei fifoni! E poi perché non conoscete le leggende su questo posto: dicono sia abitato da strane creature.»
«Non più strane della prole oscura con cui dovrete combattere!».
Un ragazzo biondo, di bell’aspetto, zittì il piccolo teatrino, arrestando il passo; cacciò dallo zaino una mappa malridotta. La studiò un po’ e riprese il cammino, indicando la strada con l’indice.
«Già, ma potrebbero non esserci.»
Constatò il moro con fare saccente.
«E invece vi dico di stare in guardia, Daveth.»
«Sembrate sicuro di ciò che affermate.»
«Più che sicuro!»
«E come fate a…»
«Ehi guardate là!»
Li interruppe il rosso, fermandosi nel bel mezzo del sentiero.
«Quella sì che è una strana creatura: mai visto corvo più grasso!» esclamò, fissando la bestiola.
La quale si arruffò, gonfiando tutte le piume.
Il moro scoppiò a ridere: «Ah ah, a quanto pare, sembra che l’abbiate offeso.»
 Alistar li fissò in cagnesco. Non era un musone, ma c’era un tempo e un luogo per tutto; e le selve Korcari, piene zeppe di Prole Oscura, di certo era il meno adatto per simili perdite di tempo.
Alzò un pugno in aria e, riempiendo i polmoni richiamò le due reclute all’ordine, mentre il corvo si gustava la scena: divertito che giustizia fosse stata fatta.
Ciò che diverte, però, finisce sempre in fretta, e ben presto, l’uccello, fu costretto a librarsi nuovamente, per non perdere di vista quel mal riunito trio.
La sua curiosità cresceva ad ogni frase sentita: parlavano di  una missione da svolgere; ma in cosa consistesse non era ancora molto chiaro.
Certo che, il biondo aveva intuito bene. Infatti, non lontano da lì, c’era proprio un accampamento di demoni.
E il corvo sapeva cosa avrebbe comportato tutto ciò, per questo seguiva con interesse quel pugno di uomini.
«Fermi!» ordinò poi il biondo, allargando le braccia per bloccare i compagni.
«Ci sono dei Prole Oscura, a circa un miglio da qui.»
Il corvo, incredulo, alzò la testa all’orizzonte e con sua somma sorpresa scoprì che era vero: esattamente a un miglio da lì, c’era un accampamento di Prole; proprio al di là del ponte di pietra.
Planò su di un ramo sopra la testa dei tre soldati.
Anche prima, quell’Alistar, aveva giurato di sentire la presenza dei demoni; ma la bestiola l’aveva creduto un semplice sfoggio di arroganza. Invece, quell’uomo sapeva per certo della loro presenza, finanche la distanza.
Com’era possibile? Che si trattasse di un Custode?
Questo avrebbe cambiato ogni cosa.
Giorni fa, infatti, quegli stessi demoni avevano occupato una vecchia roccaforte; all’interno della quale erano custoditi dei documenti molto importanti per l’ordine dei grigi.
«Ascoltate, da adesso non sono ammesse distrazioni.»
Alistar staccò dall’albero un piccolo ramo e, con quello, iniziò a tracciare dei segni sul terreno limaccioso.
«Prima di questo ponte, ci sono delle file di alberi… proprio qui; voi Daveth, che sapete usare l’arco, vi nasconderete in questo punto e ucciderete i…»
Il guerriero alzò la testa volgendosi a nord, e riprese:
«Quattro Prole Oscura.»
«Sapete addirittura quanti ne sono?»
Alistar fulminò Daveth con lo sguardo, e tornò alla strategia di attacco.
«Il vostro obiettivo sarà di ucciderli al primo colpo, quindi cercate di mirare ai punti vitali.»
«Mentre voi, Jory, verrete con me: faremo il giro da qui e…»
Il corvo, annoiato da tutte quelle chiacchiere, decise di lasciarli ai loro piani e di precederli al ponte.
Poco dopo,  scorse il trio avvicinarsi quatto al ponticello.

 

Daveth rivolse agli altri un segno di assenso e si schiacciò contro il tronco di un albero ricoperto di muschio; fece un grande respiro e, quando i polmoni furono pieni della nebbiolina della palude, li svuotò, posizionando la freccia.
Li vedeva: erano in quattro, proprio come aveva anticipato Alistar; ma nessuno si era preso la briga di descriverglieli.
Daveth il furfante immaginava a cosa sarebbe andato incontro, unendosi ai custodi; ma il giorno in cui aveva ricevuto la proposta, non era stato in grado di dire di no all’uomo che gli aveva appena salvato la vita: Duncan.
Tuttavia, se solo avesse saputo… se solo…
Le mani gli iniziarono a sudare; la bocca a seccarsi, al punto da non riuscire nemmeno a deglutire.
Tornò a nascondersi dietro l’albero per recuperare il controllo, ma il cuore non voleva saperne.
Fu un attimo: quando tornò in posizione, un mostro tarchiato gli apparve  dal nulla, urlandogli in faccia e brandendo una mazza.
Aveva un guscio duro al posto dei capelli, e gli occhi erano quanto di più terrificante potesse esistere.
Il ragazzo non ci pensò due volte e scappò, scoprendosi completamente.
La corsa, tuttavia, non durò molto: incespicò su una radice e rovinò in un laghetto melmoso.
Il mostro lo seguì in acqua. Così Daveth cercò di camminare fino a riva ma le alghe gli bloccavano le gambe. E il fondo paludoso era talmente molle da non sentirlo sotto i piedi.
Il giovane si portò istintivamente le mani al viso, in attesa del colpo di grazia.
Uno schianto; un urlo; un’onda d’acqua. Poi nulla: era ancora vivo.
Quando riaprì gli occhi, vide Jory che gli sorrideva beffardo, con il pesante scudo ancora parato in avanti.
Alistar, nel frattempo, era alle prese con un emissario harlock: un prole oscura dall’aspetto simile a quello di un essere umano, se non fosse stato per la bocca e gli occhi cuciti da filamenti membranosi.
La lama della sua spada sfavillò a contatto con l’altra, che riuscì a sopraffare.
Il prole oscura tentò di colpirlo ad un fianco ma, prontamente, Alistar si parò con lo scudo.
Digrignando i denti, spinse il demone a terra, a mezzo metro da lui.
Si gettò per sferrare l’ultimo colpo ma un altro mostro gli rovinò addosso, conficcandogli un pugnale tra il collo e la spalla.
Alistar urlò di dolore e cadde in ginocchio; afferrò il mostro per un braccio e lo tirò di fronte a sé. Appena lo vide toccare terra, gli fracassò la testa con il bordo dello scudo. E tornò poi, sull’emissario; mentre una pioggia di frecce oscurava il cielo.
I tre custodi combatterono strenuamente fino a sera; quando Ser Jory gettò a terra lo scudo, decretando la fine della battaglia.
Con una smorfia di dolore si cacciò una freccia dal costato; sputò a terra un grumo di sangue.
Alistar si accasciò su una pietra; e si pulì la fronte sudata e sporca di sangue con il dorso della mano, rivestita di maglie metalliche.

 

Il corvo, allora, si acciambellò su un muro diroccato, alle spalle dei tre uomini.
Vide il biondo alzarsi a fatica dalla propria seduta; mentre il moro, sebbene fosse malridotto, aveva ancora la forza di rovistare tra i cadaveri, in cerca di oggetti di valore.
«Coraggio, Daveth, non perdiamo tempo: Duncan si è raccomandato di tornare il più presto possibile», gli urlò Alistar, raccogliendo da terra le proprie armi.
«Perché tanta fretta, ormai il grosso è fatto: le pergamene sono già in mano nostra.»

 

 Dopo aver proferito quelle parole, Daveth sentì un grosso corvo gracchiare sopra la sua testa e i capelli scompigliarsi, sfiorati dalle ali dell’animale.
La bestiola, una volta superato l’uomo scomparve in una nube scura; e quando questa si dissipò, al suo posto apparve una donna dai capelli neri e gli occhi gialli.
«Una strega», constatò Alistar a denti stretti, stringendo i pugni «che cosa volete?»
La donna si avvicinò dissoluta al ragazzo, incastrando gli occhi nei suoi.
«Vedete una povera fanciulla dispersa nella palude e la chiamate subito “strega”; siete davvero un uomo originale», proferì sarcastica, alitandogli in volto con le labbra carnose.
«Non fate la leziosa con me, strega, e rispondete alla domanda», tuonò il biondo.
«State attento, Alistar, o ci trasformerà in ranocchi: è una strega delle selve», fremette Daveth.
«Ah ah», la ragazza proruppe in una risata argentina, piegando indietro il collo sottile e bianco  «e non vi piacerebbe? Almeno sareste in grado di nuotare nello stagno, invece d’annodarvi le caviglie con le alghe», lo schernì, riferendosi al suo tentativo di fuga.
Il moro indietreggiò risentito.
La giovane calciò una pietruzza con la punta dello stivale che le arrivava alle cosce: «Ad ogni modo, ciò che cercate non è qui».
«Che cosa intendete dire?»
«Esattamente ciò che ho detto», asserì seccata: detestava doversi ripetere.
«Uno stolto e un pavido», riprese, guardando Alistar »qual è, invece, la vostra qualità? La bravura nello scegliere i compagni?»
«Credete di essere divertente?» domandò il diretto interessato.
«Uhm, a dire il vero», si osservò le unghie corte e vi passò sopra un pollice , «sì!».
Il custode approfittò di quell’attimo di distrazione e la ghermì per un braccio, tirandoglielo dietro la schiena.
Il viso della donna si contrasse in una silenziosa smorfia di dolore.
«Non provocatemi, strega, o dovrete vedervela con me.»
«Me lo promettete?» ansimò con un filo di voce.
Alistar la scagliò a terra: «Sappiate che sono in grado di controllare i vostri poteri quindi, se fossi in voi, inizierei a collaborare.»
La donna si rialzò, massaggiandosi il polso; con un’espressione livida in volto.
Parve rimuginare su quell'avvertimento, come a constatarne la veridicità. Infine, pulendosi la gonna sfilacciata, annunciò.
«Le pergamene non sono qui: mia madre le ha prese tempo fa per proteggerle dai prole oscura», parlò con voce atona, portandosi un ciuffo di capelli dietro le orecchie.
«Vostra madre?»
«Sì.»
«Chi sarebbe?»
«Rivolgetele a lei le vostre domande», sentenziò, seccata: quel gioco aveva smesso di piacerle nell’istante esatto in cui aveva perso il controllo della situazione.
Per quanto le riguardava, aveva finito: non avrebbe detto altro a quell’arrogante uomo.
Girò sui tacchi e prese la strada per casa, senza aspettare una risposta, né preoccuparsi che la stessero seguendo.
Si era fatta sera, quando la strega si fermò davanti a una capanna di mattoni bianchi, dal tetto di sterpi.
Torturò il batacchio fino a quando la madre non le aprì la porta. E apparve una vecchia donna, dai capelli bianchi scomposti sulle spalle, e un bastone stretto nella mano ossuta.
«Ragazza, chi sono i tuoi ospiti?» domandò tranquilla, affettando lo sguardo su ognuno di loro.
«Custodi, madre.»
«Ah, suppongo che siate qui per le pergamene», e mostrò una fila di denti ingrigiti dall’età.
«Quindi avete detto la verità!» esclamò Jory, rivolto alla giovane.
«Ne dubitavate, forse?» lo riprese quest’ultima, «Sono stanca di questi inetti, madre, consegnategli ciò che vogliono e facciamola finita.»
La vecchia rise di gusto all’atteggiamento della figlia.
«Scusatela, signori, a Morrigan non sono mai piaciuti gli inutili convenevoli.»
Jory fece un passo avanti: «Nemmeno a noi, in simili circostanze.»
«Dovrei dedurre che la nostra conoscenza non vi ha fatto piacere, cavaliere?» lo schernì la vecchia.
«Siete uno stolto, Ser: non si fanno certe allusioni in presenza delle streghe delle selve!» sussurrò Daveth, credendo di non essere stato sentito.
«Ah ah, “streghe delle selve”! Che appellativo pittoresco: è stata Morrigan a mettervelo in testa?» tirò la faccia in un sorriso bambinesco e riprese «Benedetta ragazza, le è sempre piaciuto dar spago a simili leggende; e dovreste vederla ballare al chiaro di luna!»
«Madre!» la riprese Morrigan, colta nel vivo.
«Oh, sarebbe fantastico!» asserì Alistar sarcastico, «Magari un’altra volta! Adesso ridateci le pergamene, vecchia: non abbiamo tempo da perdere.»
«Siete davvero noioso lo sapete?» lo contestò la ragazza.
«Già, perché tanta fretta, custode?» domandò, invece, la vecchia.
«Ciò non v'interessa.»
L’anziana assottigliò lo sguardo sul ragazzo, con il volto serrato in un’espressione severa.
Quell’uomo insolente stava tirando imprudentemente la corda; troppo, per i suoi gusti… ma l’avrebbe lasciato fare, almeno quel giorno.
Distese le rughe e, sorridendo melliflua, ordinò alla figlia di portare le pergamene.
La giovane tornò poco dopo, con i documenti stretti nella mano affusolata.
«Sono proprio queste: a quanto pare ho sbagliato a dubitare di voi», sentenziò Alistar, afferrandole.
«Posso sapere per quale motivo le tenevate?»
«Semplicemente, per proteggerle; ve l’ho detto», rispose l’anziana,  «ora che sono tornate nelle mani dei custodi, posso anche congedarmi e godere di sonni tranquilli; Morrigan vi accompagnerà ai confini.»
«Che cosa?» chiese quest’ultima, contrariata.
«Non fare la difficile, ragazza: sono tuoi ospiti», ricordò la donna, chiudendosi rumorosamente dentro casa.
«Tsk; a quanto pare vi farò compagnia ancora per un po’: non è ironico?» sorrise, mal celando lo scontento per il compito affidatole.

 

Ser Jory stiracchiò il collo, avvolto nella maglia di lana che portava sotto l’armatura steccata; sebbene ben coperto, l’umidità era riuscita a penetrargli nelle ossa e il freddo gli mordeva la nuca.
Alzò il viso al cielo coperto di nubi.
Raccolse da terra un bastone umido; ne constatò la robustezza e decise di adoperarlo come ausilio: non ricordava di aver mai camminato tanto, e gli dolevano i piedi, forse più delle ferite che aveva sul corpo.
«Ser, la vecchiaia avanza, eh?» lo canzonò Daveth che lo sorpassò saltellando, per poi tornare a zoppicare due metri più in là.
Il cavaliere scosse la testa; quel Daveth: che stolto! Prima aveva persino dovuto salvarlo, e adesso faceva lo spavaldo, come se stesse in gita di piacere. E, nonostante fosse così malridotto aveva ancora l’energia per prenderlo in giro.
Riprese il passo e si affiancò ad Alistar, il più esperto dei tre: si era lanciato senza paura contro tutti i nemici. Chi l’avrebbe mai detto, nonostante la giovane età, si era rivelato un ottimo stratega e combattente.
«Devo confessarvi di aver avuto qualche remora nei vostri confronti!» gli disse Jory.
<> sorrise Alistar a fatica, reggendosi un punto sulla spalla sanguinante,«Ve la siete cavata bene anche voi, per essere stato il vostro primo incontro con i prole oscura.»
«A dire il vero, ne avevo già incontrati alcuni quando, con Duncan, sono partito da Highever
«Già, è da lì che venite… so che avete una moglie.»
Jory assottigliò le labbra in un sorriso sognante: »Sì: aspetta il mio ritorno insieme al figlio che porta nel grembo.»
Annunciò con gli occhi lucidi, proiettati verso chissà quale fantasia.
«Allora vi auguro di riabbracciare i vostri cari; sempre se riusciremo a uscire da qui.»
«Che intendete dire?» si agitò il cavaliere.
«Non mi sembra di aver percorso questa strada all’andata, voi che ne pensate?»
La recluta si guardò intorno.
«La vegetazione è più fitta», arguì.
«Già, quindi o la strega ha sbagliato strada o ha qualcosa in mente.»
Jory si fermò e deglutì agitato.
«Non è la strada per la fortezza, dove ci state portando?» domandò il custode a gran voce.
L’etere fu scosso dalla risata piena di Morrigan:  «Come siete perspicace.»
I tre uomini si fermarono.
«Che intenzioni avete?» promulgò Alistar, con la mano pronta sull’elsa.
La donna si voltò lentamente, a braccia conserte e, con voce suadente, proferì:
«Uhm… sto disperdendo le vostre tracce per poi uccidervi.»
A quelle parole il ragazzo brandì la spada, seguito da Ser Jory, pronto all’attacco. Solo Daveth rimase immobile, a riflettere se fosse conveniente o no, fingersi morto: quella era una dannata strega delle selve!
«Ah ah, ma guardatevi, bastano due piante fuori posto per mettervi in agitazione, guerrieri.»
Li canzonò la donna, sorridendo melliflua.
«Non scherzare, strega», l’ammonì Alistar.
«In tre contro una povera fanciulla indifesa, questo sì che si chiama valore.»
«Non siate sciocco, e riponete le armi», aggiunse subito dopo, seria in volto, «questa è una scorciatoia: non ho intenzione di passare la notte a scarrozzarvi per le selve.»
E si rimise in viaggio.
Alistar la seguì con lo sguardo, fino a quando non la vide svoltare dietro un cespuglio.
Fece un sospiro di sollievo, e ripose la lama sotto al mantello rosso.
«Coraggio, andiamo», incitò gli altri e ripresero il sentiero.
Quell’arrogante strega non gli piaceva per niente; peggio per lei se avesse deciso di inguaiarli!
Prima aveva mentito, poiché in realtà non sapeva come placare i suoi poteri, ma di una cosa era sicuro: sapeva usare molto bene la spada e di certo, quella lì, non era la prima maga con cui aveva a che fare; avrebbe trovato pane per i suoi denti, se solo avesse osato sfidarlo.
Morrigan, però, era stata di parola: grazie a quel sentiero arrivarono a destinazione in meno tempo del previsto. Mentre all’andata avevano impiegato un giorno intero.
«Quella è la vostra fortezza; prendete il sentiero alla destra del ceppo e vi ritroverete al cancello nord.»
Alistar annuì: «Detesto doverlo dire, ma… grazie .»
«Ah, finalmente un po’ di educazione: dite la verità, non siete abituato a trattare con le signore.»
«E voi sareste una signora?»
La strega sorrise beffarda: «Allora ho detto bene: non ne avete mai vista una!»
Ciò detto, balzò in aria in una nube nerastra; al suo posto apparve un grosso corvo che, sbattendo le ali, volò via.

 

 Sashar affacciava alla finestra, in attesa di scorgere i tre guerrieri di ritorno dalle selve.
Il vento gli alitava sul viso rugoso, torturandogli la lunga barba canuta; ma la vera tortura era sentire i lamenti di dolore del moribondo alle sue spalle.
 Si voltò a guardarlo: era contorto dal dolore impietoso della lacerazione dell’anima.
Il vecchio curatore, infatti, sebbene fosse riuscito a suturargli le ferite, nulla aveva potuto contro la corruzione che, implacabile, scorreva sotto quella sua pelle sottile.
L’ultima possibilità sembrava essere solo l’unione: l’antico rito per diventare custode, tramandato in gran segreto da secoli.
Sashar si allontanò dal davanzale per tornare al capezzale del malato; immerse una pezza nell’acqua fredda e gli umettò la fronte bollente.
Si domandò, se davvero, proprio quel rito avesse potuto salvarlo; in fondo non era altro che una bevuta di sangue corrotto, misto ad altre sostanze.
Tuttavia, perché non avrebbe dovuto funzionare? Non era, forse, l’ingestione di quell’intruglio che rendeva i custodi grigi immuni da tale contagio?
Il vecchio sfiatò i propri polmoni, tornando ad agitare le lunghe dita sopra il corpo sudato del ragazzo.

 

Un soldato correva per i corridoi della fortezza, calpestando la scacchiera di luce proiettata sul pavimento dal sole del mattino.
Si fermò di fronte allo studio del comandante dei custodi. Poggiò una mano sullo stipite della porta e riprese fiato prima di varcarla.
«Mio signore, le reclute sono tornate», annunciò.
Duncan scompose solo la testa, mantenendo un dito sopra una mappa.
«Signori, continueremo più tardi», promulgò ai custodi intorno al tavolo, lì per discutere i preparativi riguardo la battaglia contro la prole oscura, che marciavano verso nord.
I guerrieri annuirono e si diressero all’uscita, con i pesanti mantelli carmini che svolazzavano contro le loro caviglie.
«Dove sono le pergamene?»
«Consegnate al siniscalco, che provvederà ad attestarne l’autenticità.»
La fronte del comandante si corrugò in un’espressione perplessa, che fu colta dal giovane come una domanda.
«Ahm… Alistar ha detto che gli sono state date dalle streghe delle selve.»
«Dalle streghe delle selve?», incalzò Duncan.
«Sì, così ha detto», terminò il giovane.

 

«A quanto pare sono autentiche», constatò il siniscalco, con un occhio ingigantito da un spessa lente di vetro.
«Bene, Duncan ne sarà contento.»
«Già, se qualcuno mi spiegasse cosa sta accadendo» promulgò proprio il comandante, apparendo dietro le spalle di Alistar che s’irrigidì.
«Per quale motivo erano in mano alle streghe delle selve?»
«Ahm… perché hanno voluto proteggerle dalla Prole Oscura.»
Duncan ragionò su quelle parole, non sicuro di averle comprese bene.
«E per quale motivo, di grazia, avrebbero dovuto?»
«La strega ha…»
«Suppongo abbia un nome», lo interruppe il comandante con sguardo severo.
«Ecco… una di loro si chiama Morrigan.»
«Una di loro, perché quante erano?»
«Due: una giovane e una vecchia», rispose titubante il ragazzo, iniziando a sospettare di aver sbagliato qualcosa.
«Una giovane e una vecchia», echeggiò Duncan, la cui calma era tradita dallo sguardo adirato, chiedendosi se Alistar avesse fatto il possibile per valutare la situazione.
Infatti, conoscendo l’avversione del ragazzo per la magia, temeva che avesse agito frettolosamente, né le sue risposte lasciavano presagire il contrario.
«E di grazia, l’anziana ha detto il suo nome?»
Il giovane custode deglutì, con le gote leggermente arrossate, maledicendosi di aver agito come aveva agito.
«No... non gliel’ho chiesto», ammise, sperando che, per una volta, Duncan lasciasse correre; ma così non sarebbe stato, s’illudeva soltanto: quell’uomo esigeva sempre la massima attenzione da lui. Da quando aveva saputo della sua identità.
Di fatto, lo fissava livido in volto o, semplicemente, deluso.
Proprio non capiva perché Alistar fosse tanto restio a comportarsi come si confaceva a un uomo del suo intelletto, perdendosi spesso in un bicchiere d’acqua.
«Alistar, spero voi abbiate considerato, durante il vostro colloquio con quelle donne, che c’è una guerra in atto e inimicarsi delle streghe tanto potenti sarebbe davvero da stolti; soprattutto se si sono mostrate interessate a venirci in contro, preservando l’incolumità di tali documenti», proferì.
La mente del giovane si annebbiò all’improvviso e una goccia di sudore freddo gli scivolò dalla fronte.
Duncan scosse la testa: «Tornerete oggi stesso da quelle donne, e chiederete loro di unirsi a noi in battaglia.»
Alistar sgranò gli occhi, passando mentalmente in rassegna i comportamenti tenuti la sera prima, trovandoli tutti discutibili.
«Oggi?» sillabò preoccupato: le sue ferite non si erano ancora rimarginate.
«Certamente, ragazzo; credete forse che la Prole Oscura aspetti i vostri comodi? E a proposito di questo, ci sono nuove reclute da sottoporre all’unione», tagliò corto, lasciando la stanza.
Alistar si umettò le labbra e lo seguì, attraverso la sala dalle grandi finestre broccate.

 

 
Daveth camminava avanti e indietro, sotto il porticato circolare, dove si sarebbe svolta l’unione.
Si sentiva agitato, come uno scolaretto che aspetta la punizione del proprio mentore.
Afferrò la borraccia che portava alla cintola, e bevve un sorso.
Ci ripensò, poco prima di riporla, e si attaccò ancora, tracannando il contenuto.
Raggiunse il centro del porticato, in cui convergevano le ombre delle colonne, e alzò il viso al cielo.
Che cosa ci faccio qui?
L’uomo chiuse i pugni, per via del formicolio che gli torturava le mani sudaticce.
Pensava e ripensava al motivo per cui aveva accettato di unirsi ai custodi; l’aveva fatto semplicemente per riconoscenza, non essendo stato in grado, per l’unica volta nella sua vita, di dire “no”.
Tuttavia, che senso aveva avuto salvare la pelle quella volta, se con i custodi l’avrebbe rischiata ogni giorno?
Certo, i curatori erano stati bravi con la sua gamba: una sutura perfetta, quasi invisibile, palesata solo da una sottile linea rosata.
Persino il respiro era tornato regolare… appunto, era!
Giacchè da un’ora a quella parte diventava sempre più veloce e irregolare, con l’aumentare dell’attesa.
Probabilmente se fosse stata una cosa immediata, non avrebbe nemmeno avuto il tempo di farsi tutti quei problemi; di ripensare… di pentirsi.
Ecco, l’aveva ammesso: era pentito di aver seguito Duncan.
Il ragazzo si accomodò su un gradino; il contatto con la pietra fredda gli gelò il sedere.
Puntò le mani dietro di sé e si rivolse, nuovamente, al creato, quel giorno di un vaniglia pallido.
Solo poco tempo prima aveva visto la morte in faccia, letteralmente: quei mostri andavano al di là di ogni immaginazione; l’incarnazione perfetta della nera signora.
In seguito aveva combattuto e vinto, ma solo perché Jory glielo aveva reso possibile, salvandogli la vita; e se fosse stato da solo in quel momento? Avrebbe finito i suoi giorni in quel luogo inospitale e il suo corpo sarebbe marcito nella putrida melma che gli aveva incatenato i malleoli.
Voleva davvero vivere la vita in un costante campo da battaglia?
Perché era a questo ciò a cui sarebbe andato incontro, e non era più tanto sicuro di volerlo.
Desiderava una vita di agi e un letto comodo, non una brandina scalcinata.
«Vi vedo pensieroso», promulgò Ser Jory, salendo i gradini; accompagnato dal rumore argenteo dei suoi stivali sul marmo.
«Pensavo, già.»
«Vi capisco, sapete: anch’io sono agitato e curioso di sottopormi all’antico rito. Non siete orgoglioso di essere stato scelto, fra mille, a beare di un simile privilegio?»
«Certo, m'invidieranno da ogni dove», fece tristemente raccogliendo la testa in una mano.
Comportamento che stupì notevolmente il cavaliere; non conosceva molto quel suo compagno di stanza, a dir la verità, eppure era la prima volta che si mostrava così diversamente dal solito, così “non Daveth”.
«Dite la verità, c’è per caso qualcosa che vi turba?» azzardò a chiedere.
«Ah ah, ma state scherzando? Sono solo annoiato: sono un tipo attivo e tutta questa attesa mi snerva!»
Mentì, senza sapere di essere appena stato sbugiardato da un velo di mestizia negli occhi.
Tuttavia, Ser Jory non disse nulla e si limitò a far finta di credergli: forse aveva sbagliato giudizio sul quel ragazzo.
Passò una mano sui capelli cortissimi color vino, e pensò di trasmettergli un po’ di conforto dicendo:
«Ad essere onesti, qualcosa l’ho sentita; ma le vostre “servette” vi hanno detto nulla?»
«Nulla.»
Jory si assicurò di non essere sentito da orecchie indiscrete, poi continuò, con l’aria di chi la sapeva lunga:
«Ho sentito dire che il rito serve a mostrare il nostro valore.»
«Sarebbe?» chiese Daveth svogliatamente.
«Non so bene come funzioni ma pare che solo chi ha il cuore di un custode possa farlo.»
«Che intendete dire?» volle sapere Daveth, la cui curiosità fu svegliata da quella frase.
«Forse che bisogna sentirselo dentro», buttò giù Jory, che aveva iniziato a parlare solo per tranquillizzare l’amico, non era nemmeno sicuro di dire il vero.
«Io per esempio, credo di sentirmelo!» esclamò poi, sorridendo, «Entrare tra i ranghi di un esercito così glorioso da fare la storia!»
Un esercito che fa la storia, si ripeté Daveth. Non l’aveva mai visto sotto quell’ottica.
«Allora siete pronti?» proferì d’un tratto Alistar.

 

Ringrazio tutti coloro che ti trovano a passare di qui, chi lascia un commento e anche coloro che (ogni riferimenti è puramente casuale :P ) si ritrovano a rileggere queste pagine in attese delle nuove. :)

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Capitolo 5
*** Tra passato e presente ***


6mod

Tra passato e presente

Mentire è il talento

di chi non ne ha nessuno

 




C’era una finestra lunga e stretta, unica apertura nel muro da cui trapelava il respiro del vento.
Duncan, Comandante dei Custodi del Ferelden, osservava il fuoco, quello tiepido della legna ormai carbone.
Gli ultimi, tremuli, scintillii delle fiamme si posavano simili a polvere di luce sulle maglie metalliche della sua armatura.
Fu così che l’elfo Dalish lo trovò, quando varcò la soglia di quello studio.
Uno studio spoglio, i cui unici addobbi erano una scrivania di legno nel mezzo e il cavaliere che era solito sedervi. Persino quelle pareti fredde, invero fregiate di precarietà, non credevano nella vittoria sulla battaglia da combattere, da lì a pochi giorni.
E intanto la Prole Oscura avanzava, mentre gli umani preparavano strategie di guerra, mentre gli elfi, da sempre abili combattenti, pulivano, invece, posate e lucidavano scudi; mentre ricordi, dalla consistenza onirica, si ammassavano nell’animo del giovane Teras, quell’elfo Dalish appena apparso sull’uscio.
Non disse nulla, il respiro irregolare nel petto asciutto; solo gli occhi, fermi e decisi, sulla figura solenne di quell’umano a cui, dicevano, doveva la vita. A cui, egli si diceva, doveva la spiegazione di un inganno: egli non meritava di far parte della vita terrena. Che gli spiriti lo prendessero subito per aver tradito ciò in cui credeva, l’idea che aveva dato di sé; ciò che aveva lasciato morire: Tamlen, amico e fratello.
Scegliere di fare la cosa giusta, nonostante non la si condivida, è già un piccolo passo verso di essa, lo aveva tranquillizzato la guardiana, un tempo non molto remoto che pareva inverni fa. Tuttavia, egli sapeva bene di non aver compiuto nulla di giusto alle rovine, all’infuori di ciò che era giusto per sé.
-Hai dormito per tre giorni, è stata una sorpresa sapere che ce l’hai fatta; non credevo avessi molte opportunità di salvezza quando ti ho trovato nella foresta-, finalmente l’umano parlò. Su di lui si levarono due occhi nero pece, lucenti come solo quelli elfici potevano esserlo, talmente scuri da coprire ogni emozione.
Fu un attimo, e l’elfo distolse lo sguardo, posandolo ovunque nella stanza tranne che sull’umano. Non osava: temeva fosse scoperta la verità sul proprio conto.
Quanto poteva valere la vita di un vigliacco?
Uno scoppiettio dal fuoco calamitò la sua attenzione sull’elsa di uno spadone lucente, la cui lama era stata zigrinata da innumerevoli battaglie.
Quanto potevano valere la vita di un vigliacco e la testa di un dalish?
-Allora vi ringrazio-, rispose dunque, garbato, sforzandosi di sorridere, sempre senza guardare Duncan negli occhi.
-Non serve-, sentenziò l’uomo e rilassò le braccia ai fianchi. Non era il suo primo incontro con un elfo dalish, ma ognuno di loro era diverso: ogni clan aveva una propria storia, così come… -Non conosco il vostro nome-
Prima di allora nessun umano gli aveva chiesto il suo, -Teras- e prima che il comandante aggiungesse altro: -Non è servito!-, sputò fuori, in un vomito di coscienza. Cosa sapeva l’umano? Pensò il vigliacco, come lo aveva trovato e cosa aveva visto?
Non era servito a nulla essere stato salvato, se poi, una volta essersi rivelato inutile, quell’uomo lo avrebbe ucciso comunque.
Demone o uomo, sempre morte gli avrebbe reso.
-Ho combattuto-, continuò Teras per se stesso, in un tono che parve di domanda, suo malgrado.
-E non è servito!- esclamò l’altro, -So bene che quei mostri paiono moltiplicarsi in battaglia- quello sboccio di empatia fu invero dovuto a un malinteso.
Il dalish notò in quel momento di aver pensato ad alta voce. Avrebbe dovuto fidarsi del suo comandante e raccontare la verità. Invece, in quei giorni Teras ignorava cosa fiducia volesse realmente significare, e che verità l’avrebbe sempre accompagnata.
E allora non mentì, ma nemmeno confessò: al solito seguì il ragionamento del prossimo, nascondendosi tra le righe di una mezza verità.
-E’ accaduto che mi sono piombati addosso-, raccontò, evitando di menzionare Tamlen per non ferirsi ancora. -Ho combattuto, sudando la mia paura e alla fine ho temuto di esser morto. E ho l’impressione che gli spiriti stiano ancora succhiando le mie ossa-, si strinse tra le braccia scarne, istintivamente. Sul petto, sfiorato dai bordi della camicia, sbucarono cicatrici di morsi. Duncan le vide, mostrando pietà col suo silenzio.
Quell’uomo aveva patito più di chiunque altri avesse mai saputo. La corruzione, non la morte, gli stava succhiando le ossa fino all’anima; l’avrebbe poi strappato alla vita e lo avrebbe portato a raggiungere la propria tomba nelle Vie Profonde.
Lo compatì, al punto da dolersi di averlo salvato: di quale esistenza gli aveva fatto dono? Senza che alcuno lo chiedesse. Aveva persino dubitato che quel giovane sarebbe stato in grado di resistere all’Unione: già difficile da superare con uno animo sereno, impossibile con il turbamento di un dolore che mai si sarebbe rimarginato.
Provò ad immaginare come si sentisse, quel ragazzo tanto gracile da sembrare un bambino: straniero nella terra in cui era nato; solo per sempre.
Il comandante allungò una mano a poggiarla sulla spalla scarna del dalish, il quale si scostò come fosse stato toccato da carbone ardente.
A mezz’aria rimase un pugno coperto di metallo, che scintillò nel proprio rumore tornando al suo posto, contro la coscia corazzata.
-Da oggi servirai una grande causa-, Duncan riprese, -come Custode Grigio avanzerai per garantire al regno la salvezza-, concluse con solennità, decidendo di cambiare discorso e andare subito al sodo. Considerò che, rendendo l’unione fragile la mente, sarebbe stato opportuno non riaccendere nell’elfo il ricordo della fine del suo clan. Così quella decisione lo portò a valutare il dalish, il quale stava ostentando una grande forza nell’accettare tutto quel dispiacere.
Lo ammirò. Se prima lo aveva compatito, passò dopo ad ammirarne la risolutezza con cui stava affrontando il proprio destino.
Non aveva capito che Teras nulla sapeva della morte dei propri cari.
-I Custodi Grigi?-, chiese quest’ultimo.
-Sì, il nostro è un ordine antico quanto lo sono le origini dei demoni contro cui hai combattuto. Noi…-
-Uniti vigiliamo le ombre che ci ergiamo, affinché Equilibrio sia in tutte le cose- una voce ferma e avvolgente si aprì nella stanza, seguita da passi risoluti: sua maestà il re aveva appena varcato la soglia.
-Spero, Duncan, di non aver offeso il vostro ordine, recitandone il giuramento in modo imperfetto-
Duncan si chinò verso il re, mentre Teras, non capendo quella riverenza rimase immobile.
-Non vi aspettavamo così presto, maestà, -
-Oh un mago e qualche scorciatoia possono fare grandi cose, amico mio, cosa posso dirvi: non vedevo l’ora di raggiungere il campo di battaglia!-
-Battaglia?-, proruppe allora Teras, con singhiozzante sorpresa. Non sapeva cosa stesse accadendo, ma sapeva abbastanza da non volerne far parte: tornare a casa e liberarsi la coscienza, era tutto ciò che desiderava.
Fu allora che sua maestà notò trattarsi di un elfo, -oh… ah! Un dalish! Che gradita sorpresa avervi qui- proferì entusiasta Cailan, che da bambino giocava alla guerra, -è una nuova recluta?- e gli si parò davanti, in tutta la sua scintillante armatura mai usata. Sulla quale, egli sognava, si sarebbe specchiato l’Arcidemone negli ultimi istanti di vita.
-E’ stato salvato pochi giorni fa nella foresta, scampato da un attacco della Prole Oscura. Lo stavo interrogando sull’accaduto e informando riguardo il nostro ordine-
-Il vostro glorioso ordine-, rimarcò sua maestà, - so che i Dalish sono piuttosto rari tra le vostre schiere, ma sono sicuro che – volse gli occhi castani su di Teras, - anche tu colmerai di gloria la tradizione-
Il dalish si sentì preso in contro piede, ignorava come comportarsi, cosa dire e, per la prima volta, cosa fare.
Infine decise per il silenzio, ma non Duncan, il quale avrebbe voluto prolungare il loro colloquio.
-Credo sia abbastanza, Teras - proferì, a malincuore, il comandante –sono certo che Alistair, il tuo compagno di stanza, e Sasha risponderanno volentieri alle tue domande- e con ciò, intendeva chiudere il discorso, dando per scontato troppe cose: non per avventatezza, quanto per elisione del superfluo, -discuteremo il resto quando sarà opportuno-
-Nel frattempo, ti consiglio di procurarti un’armatura, la battaglia inizierà presto-, suggerì, benevolo, il re il quale ottenne di rimando un’occhiata confusa.
Nemmeno Teras aveva voglia di concludere lì il loro discorso, erano troppi gli interrogativi nati dalla curiosità; ma poi si rassegnò all’idea di lasciare quegli umani da soli, del resto, avrebbe abbandonato anche quel posto molto presto: mai avrebbe dato la propria carne in una battaglia di cui non gli importava!
Casa era la sua unica meta, il clan l’abbraccio che desiderava: sicuramente erano tutti in pensiero e in attesa del suo… del loro ritorno.
Inoltre… inoltre questa volta avrebbe detto la verità a tutti. Oramai era deciso fino in fondo: si sarebbe confessato come lo sciagurato che era stato. Sì! Lo doveva a tutti: al clan, a se stesso e, soprattutto, a Tamlen.
Egli, invero, sperava che la verità gli avrebbe lavato la coscienza e rischiarato, con la sua forte luce, i suoi sensi di colpa. Doveva solo trovare il modo di scappare.

La pioggia scendeva così sottile che sembrava essersi cristallizzata nell’aria; un leggero drappo d’acqua portava odore di muschio e di bosco al naso del re.
Non sembrava essere stato bel tempo quel giorno e, paradossalmente, il brutto era iniziato con le angherie di Teyrn Loghain, le cui gesta meravigliavano il regno da anni. 
-Maestà, perdonatemi se oso dubitare del vostro piano-, disse il cavaliere, senza nascondere il proprio sarcasmo. 
-Oh no, dubitate pure! Farò orecchie da mercante, ma ciò non vi toglie il diritto di esprimervi-, sua maestà si allontanò dalla finestra, tornando a guardare la stanza, -lungi da me il mancarvi di rispetto: in fondo se oggi sono qui, in veste di re, è anche merito vostro oltre che di mio padre-, alluse a re Maric, il quale aveva liberato il Ferelden dagli imbellettati Orlesiani.
-Tuttavia, non capisco cosa di sbagliato possa avere il mio piano: è perfetto-, sentenziò l’arroganza di Cailan, il quale osservava la mappa sul tavolo accarezzando la vittoria, ma prima di essa, l’idea di fronteggiare l’arcidemone. Sollevò una statuina d’ottone raffigurante se stesso: la rigirò tra le dita un paio di volte; la posò sulla mappa,
-Non avete mai nascosto la vostra sfiducia nei Custodi, soprattutto nei Custodi di Orlais-, continuò sua maestà, togliendo la parola al Teyrn.
E il rumore della pioggia entrò per un istante tra quelle mura.
Non era affatto per i Custodi, né per gli Orlesiani, i quali già una volta avevano assaggiato le spade del Ferelden. Semplicemente, Loghain non avrebbe permesso alla boria di un inetto di mandare a morte certa i suoi soldati.
Non avrebbe permesso a Cailan di mandare alla malora il regno che aveva impiegato anni a riconquistare!
Già gli pareva di vederlo, Cailan, inesperto d’armi, avanzare verso il nemico, brandendo una spada più di rappresentanza che di vera utilità; il viso arrossato dalla fatica e i gli occhi infiammati di testardaggine. Con quell’espressione sarebbe caduto sul campo, inesorabilmente, come tutti gli altri.
In realtà, anche se tutte le terre conosciute fossero scese in battaglia al loro fianco, la vittoria sarebbe stata comunque lontana.
-Fronteggeremo un orda di demoni, non umani!-, parlò Loghain.
-Motivo per cui sarà memorabile!-, replicò Cailan, nella piena fiducia delle proprie capacità, -inoltre, è proprio compito dei Custodi combattere la Prole Oscura-
I Custodi Grigi: a detta di molti solo un branco di disperati che millantava eroiche epopee.
-Maestà,- mai quella parola fu così pesante alla lingua del cavaliere. - Stiamo investendo troppe energie in una causa persa: l’Arcidemone non è stato avvistato, segno che l’attacco finale è lungi dall’essere sferrato; mentre questo servirà solo a condannare il morale del regno e la vita dei suoi figli!-
-Non se vinceremo!-, s’impuntò ancora sua maestà.  -Abbiamo un’ottima strategia.-
-Siamo inferiori numericamente, la strategia non basterà!-
-Allora improvviseremo!-, sbottò a quel punto Cailan.  -Ciò non ha impedito alle truppe di mio padre di fronteggiare e sconfiggere il numeroso esercito di Orlais.-
Loghain picchiò un pugno sul tavolo, gli occhi azzurri ostili. Era pronto a controbattere: nulla lasciava intendere il contrario.
Nell’istante, però, in cui Ser Cauthrien rivolse una silenziosa richiesta d’aiuto a Duncan, l’ira di Loghain si era già misteriosamente spenta. La giovane donna, baldanzosa nella propria armatura, tirò un respiro di sollievo quando vide il cavaliere rivolgere un riverente inchino al re. Respiro che però il Teyrin le mozzò non appena uscirono dalla stanza.
-Nessuno distruggerà il mio regno-, disse l’eroe del fiume Dane.

Di certo un Dalish sa come non farsi notare, soprattutto in un luogo in cui non vale nemmeno la pena osservare un elfo: “sono solo servi, andranno a pulire da qualche parte”.

Così Teras aveva raggiunto il muro di cinta; strisciando nell’erba, costeggiando muri, attento ad attutire i propri passi. Del resto, l’arte del nascondersi, dell’agguato, viene imparata molto presto dagli elfi della foresta.
Più difficile non guardare in basso, nel tentativo di scavalcare un muro, nel caso si soffrisse di vertigini; ma la voglia di libertà lo aveva aiutato anche in questo, nonostante la paura gli avesse reciso la sua solita abilità.
Precipitò a terra, dall’altra parte, in un tonfo sordo; masticò una bestemmia in bocca e strinse gli occhi nel dolore della caduta. Si massaggiò la spalla dolente. Il dolore impiegò davvero poco a spegnersi.
L’elfo non badò a quel particolare e iniziò subito a correre.
O meglio, a scappare, poiché di fatto era quello il suo piano. E per la prima volta, forse, stava scappando da se stesso per tornare a se stesso. Giacché si era deciso più che mai a raccontare la verità: i sensi di colpa per la morte dell’amico lo stavano annegando e sperava che raccontare tutto al clan lo avrebbe salvato.
Dunque, non per amore della verità, ma sempre per amor proprio scappava.
Non aveva ben capito cosa i Custodi facessero, tuttavia non sarebbe rimasto a scoprirlo, ancora di più se si stavano preparando ad affrontare una battaglia. Di cosa e per cosa, non gli era ben chiaro: non gli importava, né aveva voglia di chiedere spiegazioni.
Gli era stato detto di aver dormito per tre giorni e tanto era bastato per insospettire un elfo in terra umana.
Perché non lo avevano lasciato morire? Perché era stato portato lì e non dal suo clan?
Continuava a ripeterselo, incespicando in pensieri sempre meno nitidi e sempre più contorti. Anche il suo umore cambiava ad ogni falcata nel terriccio umido di pioggia, i capelli rossi ormai appiccicati in fronte per via dell’umidità e del sudore.
E il cuore gli batteva all’impazzata, nonostante il respiro regolare. Tutti segni della corruzione che ormai gli circolava nelle vene, ma non poteva immaginarlo, giacché, testardo, non aveva voluto saperlo.
Correva dunque, a più non posso, lasciando indietro pezzi dei propri pensieri. Aveva smesso di porsi domande.
Sentiva il vomito gorgogliargli in gola; soffocava nell’aria che a stento riusciva a respirare. A quel punto, Teras arrestò il passo e, nel bel mezzo delle Selve Korcari, si piegò sulle ginocchia, stringendosi una mano al petto.
Sentiva in testa di essere stanco, ma il suo fisico non stava avvertendo nulla; o era il contrario?
E il cuore gli stava scoppiando: Teras sentiva il proprio battito come tamburi da guerra, mentre nello stomaco gli ribolliva la fame che non aveva mai colmato da quando sveglio. Prima che potesse rendersene conto, la bile gli esplose in bocca.
Si accorse di vomitare anche sangue quando un puzzo ferroso gli raggiunse le narici. Rigurgitò l’ultima goccia di dignità e stramazzò al suolo, in una strano limbo di dolore.
Se solo non fosse stato così precipitoso, se soltanto avesse chiesto, avrebbe ottenuto una spiegazione a tutto questo.
Avrebbe saputo, infatti, che la corruzione, grazie al rito dell’Unione gli stava schiumando nel corpo, trasformandolo per sempre. Il suo fisico, eccitato dalla lunga corsa, stava ora rispondendo a quella metamorfosi, per la quale non ci sarebbe stata cura all’infuori della morte.
In quel momento, l’anima dell’elfo si stava legando indissolubilmente a quella della Prole Oscura,  per cui egli ne avrebbe sempre avvertito la presenza, e viceversa.
Il Dalish percepì l’olfatto affinarsi, l’udito acuirsi e il tutto mischiarsi a una pesante angoscia. 
Per tutto il tempo, da quanto era stato sottoposto all’antico rito, era stato in balia di quel processo. Solo ora lo sforzo impiegato nella fuga lo aveva reso più evidente: la sua struttura corporea stava abituandosi a una nuova potenza, sollecitata dalla folle corsa.
Le palpebre diventarono pesanti e tra il sonno e la veglia vide draghi e cadaveri, e si agitò per urla che in realtà non udiva. Credette di vomitare ancora; rigirandosi nella terra, riempì i polmoni di nebbia.
Stava morendo, o forse era già morto. Pensò di levitare, quando qualcuno lo sollevò per le braccia.


*Madre Ailis gli accarezzò distrattamente i capelli biondi con la mano segnata dal tempo, “Sì, hanno vinto. Loghain guidò l’armata a una grande vittoria, decimando le forze orlesiane in modo così pesante che l’Imperatore Florian si rifiutò di inviare dei nuovi rinforzi all’Usurpatore. Perdemmo anche molti dei nostri. Persino tua madre rischiò la vita. Ma fu una giornata memorabile per Ferelden.”
Cailan diede una scorsa al libro posato sulle sue ginocchia, un volume prezioso corredato da molte raffinate illustrazioni,
Fermò la propria attenzione sull’immagine fulgente di re Maric il Salvatore, suo padre: il mantello carminio svolazzava al vento della vittoria e la spada era levata in cielo in un bagliore di fierezza.
Richiuse il tomo e lo ripose con cura nel baule al suo fianco.
All’epoca di quelle illustrazioni suo padre, poco più che ventenne, aveva riunito un grande regno sotto l’egida della Regina Ribella. Le terre verdi di Ferelden erano state concimate con lo stesso sangue che scorreva nelle sue vene. Sangue non solo…

*-…di Calenahd il Grande , ma anche di Moira, la Regina Ribelle, e di Maric il Salvatore.-
Madre Ailis lo osservò per qualche istante, poi allungò la mano e gli scostò i capelli dalla fronte. Non c’erano altri rumori nella biblioteca, se non il sibilo del vento d’autunno dalle finestre.
-Non c’è nulla che tu non possa fare, se ti ci dedichi con tutto te stesso-
Il ragazzo roteò gli occhi e si lasciò scappare un sospiro esasperato. -E’ quel che mi dice sempre…  Non credo che..

-…Sarò mai in gamba quanto lui-, proferì ad alta voce, lo sguardo sulle figure rialzate della copertina del vecchio libro.
Cailan era il Re di Ferelden, ma soltanto “re”: non aveva salvato la sua patria, né era stato un grande.
“Più gloriosi sono stati i tuoi avi, più glorioso dovrà essere il tuo regno”, citazione che lo colpì in volto come uno schiaffo; ce l’aveva sempre in mente, dal giorno in cui l’aveva trovata incisa sulla testata di uno dei tanti volumi regalatogli da sua madre.
E, nolente, gli ritornava alla memoria tutte le volte che, da bambino, guardava suo padre; tutte le volte che, da adulto, leggeva delle sue gesta.
E, volente, Loghain gli ricordava quanto era stato sacrificato, per permettergli di regnare su una terra che non aveva dovuto conquistarsi.
Cailan non era un re in cerca di mera fama, ma dell’affermazione di sé attraverso di essa. Desideroso di dimostrare e di dimostrarsi all’altezza dei propri antenati, non chiedeva altro che fronteggiare il nemico: la Prole Oscura; versare il proprio sangue e mischiarlo, sul campo di battaglia, allo stesso versato da suo padre, da Loghain e da tanti altri che avevano servito la liberazione del Ferelden.
Non era uno sciocco: era ben conscio di quanto sarebbe stato difficile ottenere la vittoria, tuttavia, era forte dei risultati ottenuti dai Cavalieri della Polvere, dai Custodi e dagli altri schieramenti radunatisi contro la Prole nei mesi precedenti.
Non aveva motivo di perdere, perché ci credeva con tutto se stesso. Le sue truppe avrebbero affrontato i demoni nella valle; arcieri e catapulte avrebbero attaccato dall’alto e, infine, quando l’avversario avrebbe iniziato ad accarezzare il trionfo, le truppe di Loghain l’avrebbero circondato e concluso lo scontro a proprio favore.
La stessa strategia usata molte da suo padre e dallo stesso Teyrn, nelle loro rivolte. L’unico a non crederci restava il Teyrn stesso, il quale più volte aveva mostrato un atteggiamento di ambigua stima nei confronti del nuovo re.

*-Se desideri davvero che io rimanga-, cominciò il giovane, alzando lo sguardo verso il compagno, -rimarrò. E se intendi affidarmi la tua armata e fidarti di me fino a questo punto, allora ne sono onorato. Forse non sarò di nobili origini, e non so il valore che può avere per te la mia parola… ma ce l’hai. Sei un mio amico, e il mio Principe: giuro di servirti lealmente-.
Maric deglutì a fatica. –La tua parola vale moltissimo per me, Lo…

-…ghain!-, lo chiamò Ser Cauthrien, con l’intenzione di seguirlo fin dentro la sua tenda; ma il Teyrn non le rispose: oltrepassò il telone dell’entrata con un gesto sprezzante della mano, e sparì alla sua vista.
La donna rimase immobile, chiedendosi cosa fosse giusto fare. Spesso il rispetto per quella figura autorevole frenava l’affetto che lei provava nei suoi confronti. Ancora più spesso, Catherin mortificava i sentimenti che la legavano, segretamente, a quell’uomo. Il quale certamente non ricambiava né avrebbe mai ricambiato, anche se avesse saputo.
Così, Ser Catherin mascherava di rispetto ciò che serbava nel cuore; sempre combattuta tra ciò che la donna in lei avrebbe voluto e ciò che il suo rango le imponeva. Strinse le affusolate dita nel pugno, protetto dalla lastre metalliche dell’armatura; roteò gli occhi grigi.
Lo lasciò solo, com’era dovuto e decoroso fare. 
Loghain sfilò i guanti e li gettò a terra con disprezzo. Con una falcata raggiunse il tavolo e lo spinse con foga fino a che non si arrestò contro un albero, al di là della tenda.
Dire che era furioso sarebbe stato dire poco. 
Quel Cailan non aveva un briciolo del senno di sua madre, la Regina Rowan, e del padre aveva preso la capacità di incaponirsi in imprese folli.
Erano finiti i tempi in cui bastava brandire una spada fino al calar del sole, tempo in cui i nemici si sarebbero ritirati per riposare. Era la fine degli agguati notturni, di quelli che si poteva immaginare come e dove sarebbero stati sferrati.
Il Ferelden prima di ogni cosa, si era sempre fatto promettere Maric.
-Penseresti lo stesso anche oggi? Passeresti sopra tuo figlio, Maric?-, sussurò quel nome come si sussurra una bestemmia, tra la liberazione di averla proferita e il rimorso per averla detta.
C’erano state vittorie, era vero: le altre truppe avevano lottato senza sosta per sconfiggere la Prole, lì dove era apparsa. Ma tutto ciò al prezzo di conoscere le vere abilità di un nemico che mai e poi mai avrebbero avuto la capacità di fronteggiare alla pari.
Almeno non quel tempo.
Loghain aveva ascoltato i racconti dei superstiti, degli eroi, che erano riusciti a narrare di ciò che avevano visto. Ma la fortuna non porta la vittoria, solo un’effimera speranza di salvezza.
Per quelle vittorie, infatti, i guerrieri avevano lottato senza sosta, giorno e notte.
Giorno e notte.
Avevano vinto solo grazie a qualche stregoneria e perché di gran lunga superiori di numero; e tutto questo non era bastato a riportare un trionfo netto su un pugno di carcasse indemoniate!
Appunto, solo fortuna.
Cosa sarebbe accaduto, nell’affrontare la Prole in un vera e propria guerra? Avevano strategia, avevano un buon piano, non abbastanza uomini. Non ancora.
E gli Orlesiani (quei maledetti! Loghain sputò a terra), erano in ritardo sulla tabella di marcia. 
Se poi si fosse aggiunto l’Arcidemone, nemmeno la disfatta avrebbe avuto bocche per essere narrata.

* La strega diede un altro morso con uno scrocchio sonoro e masticò pensosamente, accomodandosi meglio nella sedia a dondolo.
-Le sorti cambiano-, lo sguardo della strega vagò in lontananza. –Un minuto sei innamorata, talmente innamorata che non riesci ad immaginare che possa accadere qualcosa di male, e quello dopo vieni tradita; il tuo amore ti viene strappato come fosse una parte del tuo corpo, e giuri a te stessa che farai qualsiasi cosa, qualsiasi cosa, perché i responsabili paghino-. I suoi occhi si concentrarono su Maric, e la voce divenne dolce, carezzevole.
-A volte la vendetta cambia il mondo. Cosa farà la tua, giovanotto?-
Lui non rispose, guardandola incerto.
Loghain si fece avanti di rabbia. –Lascialo in pace-.
La vecchia si voltò a considerarlo, con uno sguardo divertito. 
-E che mi dici della tua di vendetta? Hai rabbia quanto basta dentro di te, temprata in una lama d’acciaio puro. Mi domando in quale cuore l’affonderai, un giorno-. 

-Signore!-, lo chiamò una voce alle sue spalle.
-Che cosa vuoi?-, Loghain non si prese la briga di voltarsi, osservava, cupo, la superficie della propria scrivania.
Il soldato compì un passo in avanti, porgendo una pergamena.
-E’ giunta questa lettera da parte di vostra figlia, la Regina Anora- 


-Sapete, esiste un termine che ben descrive ciò che avete appena fatto, ma per pudore non lo dico-, trillò l’umano che stava cercando di accendere il fuoco. Si trovavano sotto il porticato dei resti di un’antica fortezza, mentre nelle selve imperversavano la notte e la pioggia ormai copiosa. Sarebbero rimasti al riparo finché la pioggia non avesse cessato di cadere. Teras sbatté le palpebre più volte, cercando di riprendersi da un incubo di cui non ricordava la forma, eccetto un paio di occhi gialli che brillavano come il sole in una notte cupa.
-Chi siete?-, domandò.
-Se volessi vantarmi direi che sono il vostro salvatore e che mi dovete un favore, - lasciò perdere il fuoco, rassegnato, -ma giacché non mi piace vantarmi, potete chiamarmi Alistar-. Si passò una mano sulla zazzera bionda. -Mentre scommetto che voi siete il Dalish che Duncan ha portato con sé,-sbuffò un risolino, -certo che state collezionando un bel po’ di favori da queste parti!-
Il Dalish non raccolse la battuta, sistemandosi a sedere; aveva un terribile sapore in bocca, che tolse bevendo dell’acqua da una borraccia che trovò lì vicino.
-Ma prego, non c’è bisogno di chiedere -lo apostrofò il giovane.
L’elfo si pulì il muso con il dorso della mano, e puntò gli occhi neri su quell’umano dal discutibile sarcasmo.
-Alistar-, ripeté il suo nome, -siete stato voi a trovarmi dunque.-
-La perspicacia non è il vostro forte-, scherzò lo shem, -ma vi perdono, perché onestamente non so come sia riuscito a trovarvi. Sembra che gli alberi di questo posto cambino posizione!-
Teras, di poche parole da quando era stato sbranato nelle rovine, si limitò ad un’occhiata interrogativa.
Il Custode riprese il racconto. -L’ultima volta che sono stato qui-, si trattava, infatti, del luogo in cui lui e i suoi compagni, poco tempo prima, si erano recati alla ricerca degli antichi trattati, -era ad ovest della fortezza, e dal momento che vengo da sud, è quasi impossibile che a metà strada mi sia ritrovato tra queste rovine, non trovate?-
L’altro non rispose, per quel che ne sapeva, dato il suo pessimo senso dell’orientamento, poteva trovarsi in capo al mondo. Tuttavia, si voltò a guardare quanto distante fosse la fortezza che aveva lasciato: non riusciva a scorgerla; non ricordava di aver percorso così tanta strada.
Alistar considerò per un attimo la figura di quell’essere tanto simile a sé eppure così sconosciuto. Non si era mai trovato al cospetto di un Dalish: rimase sorpreso dai suoi lineamenti. Non che avesse mai creduto alle storie riguardanti gli elfi della foresta, raccontate dalla sua gente, ma non si sarebbe mai aspettato di scorgere un volto così aggraziato.
Pareva quasi una donna! Certo, una brutta donna… O almeno, questo era ciò he aveva pensato trovandolo steso a terra.
-Quando vi ho visto, ho creduto di scorgere una fanciulla, e volevo portarvi in salvo. Non sapete che delusione quando mi sono accorto che in realtà eravate un uomo; ma dato che avete la faccia simpatica, ho deciso infine di aiutarvi-, spiattellò, nella sua solita parlantina.
Teras lo guardò sconcertato, il labbro superiore arricciato in una smorfia di disgusto.
-Sapete che potreste essere considerato come un disertore?-, lo ammonì il Custode, questa volta serio. -I Custodi non possono allontanarsi senza permesso.-
-Quindi mi ucciderete per questo?-, domandò, allora, l’elfo. Gli umani avevano ucciso elfi per molto meno. Avrebbe voluto mentire, ma riflettendoci, cosa avrebbe potuto inventare? Infatti, avrebbe potuto azzardare dicendo che qualcuno lo aveva mandato tra quelle selve, già... ma in cerca di che? E poi, chi aveva deciso di inviarlo lì? E quel Custode sicuramente conosceva  i nomi di coloro che erano al campo. Né avrebbe potuto spiegare di come Duncan il generale lo aveva mandato in perlustrazione, magari a cercare proprio quell'Alistar... già perché se poi quell'Alistar avesse chiesto qualcosa a qualcuno, come l'avrebbe messa Teras? Avrebbe perso la facoltà di raccontare future bugie, giacché nessuno avrebbe più creduto alle sue parole. Bel problema  sarebbe stato... avrebbe dovuto dire la verità, dunque. Avrebbe dovuto spiegare di essere scappato. O comunque lasciar intendere qualcosa del genere.
Alistar, del canto suo, si trovò invece a studiare la situazione in cui era venuto a trovarsi: non avrebbe voluto sovvertire il regolamento, ma qualcosa gli stava suggerendo non tanto rigore, quanto comprensione. Quel ragazzo non era un semplice elfo, bensì un Dalish. Un essere della foresta non avvezzo alle usanze umane, alla legge e alla buona creanza in generale.
Inoltre, era logico che, spaurito, avesse tentato di allontanarsi dagli umani. Duncan gli aveva raccontato la sua storia: sopravvissuto alla Prole, orfano di origini e di famiglia, giacché tutti morti per mano degli stessi demoni che avevano sbrindellato la sua carne.
Inoltre, uccidere un Dalish… Si sentiva sempre in imbarazzo a prendere decisioni che riguardassero gli elfi, essendo al corrente degli antichi asti.
Pensò ancora alcuni istanti, prima di proferire:  -La paura e la disperazione portano a fare grandi sciocchezze. E’ la vostra prima volta tra gli umani, non dirò nulla-, sentì di aver preso la decisione giusta.
La stessa sensazione l’aveva pervaso quando aveva deciso di caricarlo in spalla e portarlo con sé. Era stato tutto terribilmente automatico che nemmeno si era soffermato a pensarci su. 
Non immaginava che altri avessero mosso il suo cammino verso il Dalish. Flemeth , la strega delle Selve, aveva infatti deciso che quello era il momento per far sì che l’elfo e l’umano legassero. La battaglia, dopotutto, era vicina ed era necessario che Alistar diventasse amico di Teras al punto da sceglierlo al suo fianco, quando sarebbe stato opportuno; e che Teras si fidasse di Alistar al punto da seguirlo e proteggerlo.
Né sapeva che Teras era più avvezzo agli umani di quanto credesse, ma il Dalish si sfiorò la Vallaslin in fronte e non lo corresse.
-Stavo cercando di tornare a casa, - confessò, dunque l’elfo, d'accordo con i propri propositi.

-E se pensate che resterò qui a combattere, al fianco di voi shem, vi sbagliate: fuggirò di nuovo.-
-Allora perché siete ancora qui?-
-Aspetto il momento giusto, per uccidervi e riprendere il mio cammino.-
Alistar si rivolse a lui divertito. -Ne avete davvero l’energia?-
No. Sarebbe stata la giusta replica. -Il mio clan mi starà cercando, non posso restare-, disse, invece, l’elfo, ancora all’oscuro riguardo la sorte della propria gente.
Quell’affermazione colpì Alistar, il quale aveva creduto, come anche Duncan prima di lui, che quell’elfo sapesse che la sua famiglia era stata sterminata dalla Prole Oscura. Si chiese, allora, come si fossero svolti i fatti, lì dove Duncan lo aveva trovato. -Il vostro… clan?-, domandò, quasi retoricamente; ma in un istante si accorse di non avere il cuore di raccontargli come erano andate le cose. -Ah… mi dispiace, ma adesso non potete raggiungerli-
-Perché, no? Sarete voi ad impedirmelo?-
-Beh, nelle vostre condizioni non potete nemmeno permettervi di impedire a me di impedirvelo!-
-Siete davvero pieno di spirito-, lo canzonò l’elfo, riferendosi all’infelice battuta; studiava lo scempio di focolare che Alistar aveva tentato invano di far ardere, non guardò l’umano negli occhi.
-Scommetto che Duncan vi avrà spiegato cosa vuol dire essere un Custode, e cosa rappresenta. Volete davvero abbandonare tutto questo?-
In realtà, non gli era stato spiegato nulla. -So solo che mi sono ritrovato a vomitare il mio stesso sangue e ancora adesso fatico a respirare, cosa mi avete fatto?-, domandò Teras, senza nascondere il proprio astio.
-Non vi è stato fatto nulla che non sia servito a salvarvi la vita; ed anzi, dovreste essere grato a Duncan, se adesso vi trovate qui!-, rimbeccò Alistar.
-Grato? Dovrei essere grato?-, si agitò e tossì leggermente, ritrovandosi sul palmo ancora alcune gocce di sangue; sputò. -Non riesco a sentire il mio corpo, prima ho creduto di morire come quando…-
Come quando era riuscito a raggiungere l’esterno delle rovine, mentre quei demoni erano occupati a sbranare Tamlen.
-In cosa consiste, essere un Custode?-, chiese, infine, rassegnato: il ricordo dell’amico lo portò a trovare un argomento di conversazione che lo distraesse dal proprio dolore.
Allora Alistar gli spiegò tutto; gli parlò della corruzione, della Prole Oscura e dell’Arcidemone. Rispose ad altre domande e chiarì altrettanti dubbi.
E più Teras sentiva quell’umano parlare, più l’idea della redenzione prendeva forme che non comprendessero il ritorno a casa, non ancora. Sentì, in cuor suo, che poteva trovare la strada per diventare sul serio colui che il clan credeva che fosse. Aiutare gli umani; cercare di aiutare qualcuno avrebbe in qualche modo appianato i suoi sensi di colpa e gli avrebbe anche evitato di confessarsi, perché sarebbe diventato ciò che gli altri vedevano: un eroe.
In realtà, qualcos’altro gli stava impedendo di riprendere la via di casa. Una forza sconosciuta si stava impadronendo del suo giudizio, convincendolo a restare.
Qualcun altro stava scegliendo al posto suo. 
Qualcun altro aveva già scelto per tutti.

-Non è ancora tempo di conoscere la verità, mio caro-, Flemeth sfiorò con la mano la superficie dello stagno, e aiutandosi con un bastone si levò da terra, mentre la sua premonizione svaniva nel fondo. -La saprai quando nell’inseguirla avrai qualcosa da perdere. -

 



*Queste parti sono state prese dal libro “Dragon Age: Il trono usurpato”
di David Gaider..

Ringrazio tutti coloro che passano di qui e che leggono :) se volete, lasciate pure un commento, mi farebbe piacere sapere cosa ne pensate ^-^

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