Titanic - Una data da ricordare.

di Mia Swatt
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La partenza. ***
Capitolo 2: *** La tragedia. ***



Capitolo 1
*** La partenza. ***


Buon pomeriggio a tutti!
Per chi non mi conoscesse, diciamo che sono un'habitué di questo fandom, ma non è di Twilight che voglio parlarvi in questo momento. Prima di lasciarvi alla lettura, perciò, ci tengo a dirvi alcune cose... Per il primo centenario dell’affondamento del transatlantico Titanic, ho decido di fare un piccolo omaggio al suo ricordo.
Sono in pochi a sapere che questa tragedia non portò solo morte e dispiacere, ma segnò anche la fine di un’epoca. L’affondamento della nave RMS Titanic, ha influito in maniera piuttosto incisiva nella storia e sulla coscienza dell’Europa e dell’intero globo. Non a caso, alla vicenda del Titanic, sono stati dedicati innumerevoli titoli bibliografici e almeno una dozzina di pellicole cinematografiche. Ho deciso di ambientare la storia nel fandom di Twilight, solamente perché - a MIO parere - sarebbe stato un po' assurdo scrivere un'originale, quando la seguente flash-fic, è stata volutamente ispirata, non copiata, riadattata, all'indimenticabile film di James Cameron, prendendo informazioni REALI dell'accaduto.
Spero apprezzerete questo piccolo omaggio - a cui tengo davvero moltissimo - a questa triste, quanto evitabile, tragedie di cento anni fa.

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TITANIC
Una data da ricordare


« Sai qual è l'errore che si fa sempre?
Quello di credere che la vita sia immutabile,
che una volta preso un binario lo si debba percorrere fino in fondo.
Il destino invece ha molta più fantasia di noi.
Proprio quando credi di trovarti in una situazione senza via di scampo,
quando raggiungi il picco di disperazione massima,
con la velocità di una raffica di vento tutto cambia,
e da un momento all'altro ti trovi a vivere una nuova vita. »
Susanna Tamaro.



Era il 15 Aprile 1922 e come ogni anno, da dieci anni, tornavo nella mia città natale.
Southampton era una città della contea dell'Hampshire nella regione del Sud Est del Regno Unito. Situata sul bordo meridionale della Gran Bretagna, sul golfo del Solent di fronte all'isola di Wight, era sempre stata molto famosa per il suo grande porto – uno dei maggiori sulla costa meridionale. Fu proprio da qui che, il 10 Aprile 1912, salpò il transatlantico più grande al mondo: l’RMS Titanic.
Erano passati dieci anni, eppure ricordavo ancora tutto alla perfezione. La mia ricchezza, la mia testardaggine, la mia famiglia – troppo attaccata al denaro per comprendere altre cose. La maestosità di quella nave, il grande salone, i balli… Ma il dettaglio più vivido, che il tempo non aveva mutato di una virgola, era il colore dei suoi occhi. Due smeraldi liquidi. Era passato così tanto tempo, ormai, che era assurdo tutto quello che percepivo ancora quando chiudevo gli occhi: l’odore della vernice fresca, i servizi di porcellana mai stati usati, le lenzuola immacolate… Il Titanic era chiamato la nave dei sogni. E lo era, lo era davvero.
Cercai di riscuotermi da quella trance e di darmi un contegno. Il sole stava tramontando, dietro la linea dell’orizzonte, ed io dovevo tornare a casa.
Il fischio di una nave in partenza mi fece voltare di scatto e, come se fossi stata investita da una doccia fredda in pieno inverno, i ricordi tornarono con prepotenza, manifestandosi davanti ai miei occhi.

* * *

Mercoledì, 10 Aprile 1912.
Southampton, Inghilterra
.

Nonostante i miei capricci, non riuscii a far cambiare idea ai miei genitori.
Si erano convinti che, come famiglia ricca e benvista, fosse doveroso partecipare all’inaugurale viaggio del più grande transatlantico mai costruito prima di allora.
Arrivammo al porto di Southampton poco prima delle dodici, tempo accessibile perché i nostri bagagli potessero venire caricati sul Titanic.
Tutta l’Inghilterra – e non solo, da quel poco che avevo capito – era in agitazione per questo evento. La questione mi lasciava indifferente. Era una nave, non concepivo il motivo di tutto quel fracasso.
― Quindi è questo, il fantomatico Titanic. ― disse mio padre, scendendo dall’automobile.
― Sono impressionata. ― commentò mia madre, porgendo la mano a suo marito, affinché l’aiutasse a tornare con i piedi per terra.
― Non capisco il motivo di tutta questa meraviglia. ― esordii, visibilmente annoiata ― Non mi sembra molto più grande del Mauretania.
Si può essere blasé riguardo ad alcune cose, Bells, ma non riguardo al Titanic. ― mi rimproverò il mio futuro marito, tale Michael Newton ― È almeno trenta metri più lungo del Mauretania, e molto più lussuoso. Sua figlia è davvero impossibile da sbalordire, Renée. ― concluse, rivolgendosi a mia madre. Sbuffai accigliata. Erano molte le cose che odiavo, ma detestavo di gran lunga quando la gente parlava di me in mia presenza, senza però calcolarmi.
Presi un profondo respiro e mi concentrai sull’oggetto che mi era davanti.
Il Titanic era una nave passeggeri britannica dell’Olympic Class, costruito presso i cantieri Harland and Wolff di Belfast. Rappresentava la massima espressione della tecnologia navale ed era il più grande e lussuoso transatlantico del mondo, fino ad oggi, almeno, progettato e realizzato. Seconda, da quel che si diceva, di altre due navi gemelli, quali l’Olympic e il Brittanic. Fu progettato per offrire un collegamento settimanale di linea con l'America e garantire il dominio delle rotte oceaniche alla White Star Line.
Non lo avrei ammesso nemmeno sotto tortura, ma guardandolo meglio, e con occhio critico, risultava essere davvero mastodontico.
― Allora, Bells? ― domandò Mike, offrendomi il braccio sinistro ― Andiamo? ― annuii, e insieme ci incamminammo sul ponte, affinché salissimo a bordo.
Una volta entrati, ad attenderci, trovammo di tutto: dai più ricchi ai più poveri, e c’erano perfino dei cani. Mio padre si fece largo tra la gente e ci invitò a seguirlo. La prima classe era situata verso il ponte E.
― Le signore vogliono visitare la nave, prima della partenza? ― domandò Mike, richiamando il suo fidato Tyler Crowley, una sorta di guardia del corpo personale.
― Andate pure. ― disse mio padre ― Farò vedere io alla servitù dove sistemare i nostri bagagli. Mr. Crowley, venga con me e mi dia una mano. ― e detto ciò, sparirono tutti e due.
Io e mia madre, invece, seguimmo distrattamente Mike, che ci fece da guida.
L’interno era anche più splendido dell’esterno… L’arredamento era molto sfarzoso; sale, cabine e ponti erano davvero molto decorati. Il grande scalone di prima classe, una scala che collegava tutti i ponti riservati alla prima classe, dal ponte aperto al ponte E, era arredato in stile Luigi XVI ed era sormontato al ponte aperto da una grande cupola in vetro e ferro battuto che illuminava l'intero ambiente. Il corrimano del pianerottolo del ponte A era decorato da una grande lampada bronzea raffigurante un cherubino. Sui pannelli dei pianerottoli di mezzo ponte erano situati grandi quadri. La grande scala sfociava al ponte D nella sala della reception, con un grande candeliere di ventuno lampade. Sul retro della scala erano situati tre ascensori, decorati nello stesso stile. Un ambiente identico ma rivestito di pannelli di legno chiaro collegava i ponti A, B, e C, ed era utilizzato come sala di reception per i ristoranti del ponte B. Il salone, situato fra il secondo e il terzo fumaiolo, era stato ideato per i passeggeri che desideravano trascorrere il tempo leggendo, giocando a carte, bevendo il tea o ascoltando la musica dell'orchestra. La sala era decorata da grandi pannelli in quercia, secondo lo stile Luigi XV, i cui motivi ornamentali erano stati tratti dal palazzo di Versailles. Su un lato della sala era situato un piccolo camino in marmo, sul quale poggiava una statuetta di Artemide. Al centro, sul soffitto, un grande lampadario illuminava l'ambiente. La sala di scrittura e di lettura, era interamente ideata per le signore, che si potevano riunire a qualunque ora del giorno o della notte. Arredata in stile georgiano, era disposta in due ambienti separati da un grande arco sostenuto da colonne con capitelli corinzi. Non poteva mancare il salone per veri maschi, ovviamente. Essi potevano raggiungere la sala fumatori per tutta la giornata, ma soprattutto dopo cena. Era arredata in stile georgiano, con grandi pannelli in mogano scuro e intarsi di madreperla. A decorare la stanza vi erano anche grandi vetrate colorate, illuminate artificialmente. Le finestre, che davano sul ponte di passeggiata, erano ornate con scene di porti di tutto il mondo.
― Assolutamente sublime. ― disse mia madre, per l’ennesima volta.
― Adesso possiamo andare in camera? ― domandai, cominciando a sentire un doloroso fastidio ai piedi.
― Isabella, sei una guastafeste. ― mi accigliai. Ero una guastafeste? Insomma, stavamo andando su e giù per quella nave da almeno un’ora. Tra poco sarebbe partita, perfino! Non meritavamo un po’ di tranquillità, dopo aver fatto un lungo viaggio in automobile?
― Forse Bells è stanca, Renée. ― sussurrò Mike, baciandomi il dorso della mano.
― Esatto, sono solo molto stanca. ― affermai ― E credo di avere anche un leggero mal di testa, che non vorrei peggiorasse. Avremo molti giorni per visitare il Titanic, anche meglio di ora, perché non raggiungiamo la nostra suite?
― E va bene, Isabella. ― rispose Renée, sospirando. Il mio sorriso si allargò e ci apprestammo a raggiungere le nostre stanze.
Le cabine di prima classe erano le più eleganti di qualsiasi altro transatlantico. Erano arredate in vari stili – reggenza, olandese moderno, olandese antico, impero, Luigi XV, Luigi XVI, Regina Anna, georgiano e Rinascimento Italiano. Per i passeggeri più abbienti erano disponibili le suites: due Presidential suites e due Royal suites. La nostra, ovviamente, era la Royal suite. Decorata in stile Luigi XVI, comprendeva un soggiorno, tre camere da letto, due bagni privati, due guardaroba e un ponte di passeggiata privato.
Mentre camminavamo lungo i ponti e i lunghi corridoi, sentii il primo fischio della nave. Era un avvertimento per chi era ancora a terra, tra poco saremmo salpati.

Passata la giornata a cercare di rendere più accogliente la mia stanza, la sera era arrivata in un batter d’occhio. Mentre rimiravo l’oceano, dinanzi a me, attendevo che mia madre si decidesse ad uscire dalle sue stanze.
― Mike. ― chiamò mio padre, uscendo dalla suite ― Tu e Bells andate pure, io e mia moglie vi raggiungeremo a breve.
― La signora non trova il vestito, Charlie? ― lo punzecchiò il mio futuro marito, gentilmente. Mio padre lo adorava, come mia madre del resto. L’unica insoddisfatta di tutta quella situazione ero io.
Avevo diciassette anni, perciò ero in età da marito. Sposare Mike, però, non mi rendeva felice. D’altro canto, non potevo fare altrimenti. La mia famiglia aveva perso tutta la sua ricchezza e i Newton erano i magnati più ricchi di tutta la Gran Bretagna. Sposarmi con il loro primogenito – di diversi anni più grande di me – era risultata la scelta migliore e, secondo mia madre, più facile.
Eravamo fermi a Cherbourg, in Francia. Il Titanic stava sostando con tutte le luci accese davanti al grande porto, dopodiché sarebbe ripartito alla volta di Queenstown, in Irlanda.
Io e Mike ci stavamo dirigendo a cena, esattamente come aveva richiesto mio padre. A scortarci, come sempre, c’era Mr. Crowley – meglio conosciuto come scagnozzo tutto fare, o guardia privata, di Mike Newton.
Scendemmo dalla grande scalinata della prima classe, per dirigerci verso il salone ristorante.
Come tutta la nave, anche quella stanza era curata in ogni minimo dettaglio. Era lunga trentacinque metri, arredata in stile giacobiano e georgiano. L’ambiente era illuminato da una moltitudine di plafoniere; le sedie erano rivestite in pelle verde, mentre le pareti e il soffitto erano stuccati di bianco.
― È davvero bellissimo, tutto questo. ― dissi, sfortunatamente a voce alta. Mi morsi la lingua, maledicendomi per l’enorme errore. Dovetti ammettere a me stessa che il Titanic mi stava lasciando senza fiato.
― Noto che stai facendo trasparire finalmente il tuo apprezzamento, Bells. ― disse Mike, sorridendo a diversi uomini, mentre mi scortava al tavolo ― Ma comunque, tu sei molto più bella di questa nave, tesoro. ― arrossii leggermente. Nonostante non saltassi di gioia all’idea di sposarlo, dovevo ammettere che sapeva sempre cosa dire per elogiarmi e, di conseguenza, mettermi in imbarazzo.
Abbassai lo sguardo, per dare un’occhiata al mio abbigliamento. L’abito era intero, realizzato in seta giallo-oro con inserti in merletto verde scuro. L’acconciatura era curata; capelli arricciati alzati sulla nuca, tenuti fermi da una miriade di ferretti. Mike, invece, indossava uno smoking nero e una semplicissima camicia bianca, sotto. I capelli erano pettinati e tirati completamente all’indietro.
― Signor Newton! ― sentimmo chiamare. La voce proveniva da un tavolo circolare, piuttosto grande.
― Carlisle! Ma quale piacere trovarti qui! ― rispose Mike, dirigendosi verso l’uomo.
Era adulto, anche se dimostrava meno anni di quelli che realmente aveva. Alto, ben posato e di bell’aspetto, con capelli scuri e occhi chiari. Alla sua sinistra sedeva la signora Cullen, Esme, sua prima e unica moglie. Notai anche i figli: Mary Alice e Emmett Royce Cullen.
― C’è tutta l’alta borghesia, mio caro Mike. Come potevamo mancare? ― domandò Carlisle, invitandoci a sedere.
La famiglia Cullen era quella che mia madre considerava i “nuovi ricchi”. Persone nate povere che, dopo una grande fortuna, erano divenute molto ricche. A me non era mai importato nulla di tutto ciò. Al contrario, trovavo molto simpatici i loro figli – soprattutto la piccola Alice.
― Isabella, che piacere averla a bordo. ― disse Jasper Hale, spostandomi la sedia perché mi accomodassi ― Spero che il Titanic sia di vostro gradimento.
― Grazie mille, signor Hale. ― risposi, accomodandomi ― La nave è bellissima, davvero i miei complimenti. ― conclusi, ricambiando il suo sorriso.
Jasper Hale Jr. era un progettista irlandese, amministratore delegato e capo del reparto di architettura per la società di costruzioni navali Harland e Wolff di Belfast, Irlanda. Fu lui, infatti, il responsabile costruttore navale addetto alla realizzazione dei piani per la nave. Era a bordo con sua sorella minore, tale Rosalie Lillian Hale. Orfani di madre e padre, potevano contare solo su loro stessi e sull’enorme patrimonio che, proprio i genitori, gli avevano lasciato.
Pochi minuti dopo, anche mia madre e mio padre – seguiti da Mr. Crowley – riuscirono ad unirsi a noi. La tavola era, così, finalmente al completo.
Erano sempre pasti molto abbondanti, troppo forse. Come se avessimo bisogno di mangiare fino a scoppiare, con l’unico vero motivo di osteggiare in continuazione la nostra esorbitante ricchezza. Diversi tipi di antipasti, compresi di ostriche e caviale; una varietà eccessiva di portate principali, che andavano dall’agnello alla menta al filetto, controfiletto, pollo alla lyonnese, risotti; per non parlare, poi, delle innumerevoli varianti di contorni – dalle patate cucinare in qualsiasi modo possibile, fino alle creme di piselli - e di dessert.
― Dicono che questa nave sia inaffondabile, signor Hale. ― disse mio padre, mangiando il suo pudding.
― Ho cercato di creare una nave molto sicura. Il Titanic è stato varato e controllato con minuziosità… Si dice che nemmeno Dio in persona potrebbe affondare questa nave.
― E chi ha pensato al nome “Titanic”? ― domandò la signora Cullen, sorseggiando un bicchiere di punch ― È stato lei, vero Eric?
― Beh, a dire il vero, sì. ― rispose lui ― Volevo trasmettere grandezza pura. E grandezza significa stabilità, lusso, ma soprattutto, forza.
Ha mai sentito parlare del dottor Freud, signor Yorkie? ― domandai, palesemente annoiata da tutte quelle chiacchiere, ma soprattutto da tutta quella falsità ― Le sue teorie sulla preoccupazione del maschio riguardo alla grandezza potrebbero risultare particolarmente interessanti per lei. ― notai i miei genitori accigliarsi, soprattutto mia madre. Mentre a tutti gli altri, la mia piccola battuta sembrò essere stata particolarmente gradita. Emmett per poco non si strozzò col suo punch, mentre il signor Hale ridacchiava sotto i baffi.
― Isabella! ― mi riprese mio padre ― Ma cosa diavolo ti prende?
― Nulla. ― sussurrai, spostando la sedia all’indietro ― Con permesso.
Con la coda dell’occhio notai tutti i signori alzarsi, per galanteria e bon-ton; riuscii perfino a sentire la domanda più cretina che poteva essere fatta.
― Freud? E chi sarebbe, uno dei passeggeri? ― domandò il signor Yorkie, senza ricevere alcuna risposta.

Quella sera era piuttosto mite e le stelle si mostravano chiare, in tutto il loro splendore.
Lasciato il ponte E, ero risalita fino alla prua. Davanti a me – a tutti noi –, c’era solo l’oceano scuro.
La nave dei sogni… ― mormorai sarcastica ― La nave dell’ipocrisia e della falsità acuta! Dannati tutti! Mi sono proprio scocciata di stare qui.
Avevo davanti agli occhi tutta la mia vita, come se l'avessi già vissuta. Un'infinita processione di feste, balli di società, yacht, partite di polo… Sempre la stessa gente gretta, lo stesso stupido cicaleccio. Mi sentivo sempre come sull'orlo di un precipizio, e non c'era nessuno a trattenermi; nessuno a cui la cosa importasse o che se ne rendesse almeno conto.
― Ed io che pensavo che le signore di alto rango avessero un’educazioni senza pari. ― sentii mormorare, e mi voltai di scatto.
Dinanzi a me, sdraiato su una panchina di legno, con solo una maglietta nera e un pantalone con bretelle marroni, c’era un ragazzo. Dimostrava poco più di vent’anni ed era di una bellezza devastante. I capelli erano di un insolito colore bronzeo, gli occhi di un inaudito verde smeraldo… La sigaretta tra le labbra, poi, gli donava un’aria molto attraente.
― E lei chi sarebbe? ― chiesi, indispettita dal suo commento ― Non le hanno mai detto che è maleducazione ascoltare i discorsi della gente?
― Io ero qui da prima, signorina. ― rispose, buttando fuori un po’ di fumo ― È lei che ha parlato a sproposito, senza prima accertarsi che ci fosse qualcuno o meno, nei paraggi. ― la sua risposta mi fece fumare il cervello. Insomma, chi diavolo era questo ragazzino arrogante?
― Non mi ha ancora detto chi è lei.
― Mi chiamo Edward Masen. ― rispose, alzandosi, e venne verso di me. Spense la sigaretta e mi porse la mano destra.
Restai a fissarla per un po’, indecisa sulla mossa successiva da fare. Potevo fidarmi?
― A questo punto lei dovrebbe stringere la mia mano e presentarsi. ― incalzò, sfoggiando un sorriso sghembo che mi lasciò senza fiato. Il cervello si scollegò e l’istinto prese il sopravvento.
― Isabella Marie Dwyer Swan. ― risposi, con una voce da ebete ― Piacere di conoscerla.
― Caspita, che nome! Non mi chieda di ripronunciarlo perché sarebbe impossibile, per me. Mi sono fermato ad “Isabella”! ― lo fissai per un breve istante, dopodiché scoppiai a ridere.
Non so perché lo feci, ma mi fermai a parlare su quel ponte, con quel giovane, per quasi tutto il resto della serata.
Scoprii che Edward era un poveraccio – esattamente come aveva detto lui – e che era originario dell’America, ecco perché si trovava sul Titanic: stava tornando a casa. Viaggiava con un suo amico di infanzia, un certo Jacob Black, che al momento se ne stava ad una festicciola in terza classe a rimorchiare qualche bella donna.
― È mai stata nel Wisconsin? ― domandò Edward, improvvisamente.
― Ehm no, non ho mai viaggiato molto.
― Io sono vissuto lì, vicino ad un piccolo paesino che mai nessuno conosce davvero. ― sorrise, forse a causa di ricordi felici ― Ricordo che una volta, da bambino, andai a fare pesca sul ghiaccio con mio padre… Ehm, la pesca sul ghiaccio è quando… ― l’unica pecca era che mi considerava una perfetta imbecille.
So cos’è la pesca sul ghiaccio! ― lo interruppi bruscamente ― Edward, nonostante la mia ricchezza e il mio non aver girato molto il mondo, so molte più cose di quello che pensa.
― Mi scusi, davvero. Solo che lei ha tanto l'aria di, come dire, di una timorata di Dio… ― spiegò, facendomi sgranare gli occhi per lo shock ― Comunque, il ghiaccio ha ceduto e io sono caduto in acqua. E mi creda, cadere in acque gelide, come quelle laggiù, è come avere tutto il corpo trafitto da mille lame. Non riesci a respirare. Non riesci a pensare a nulla. E il pensiero di viaggiare su acque ancora più fredde di quelle mi mette un po’ d’ansia. Ma sono su una nave inaffondabile, no? ― domandò, facendomi un sorriso che contagiò anche gli occhi.
― Perché mi sta raccontando tutto questo? ― chiesi, senza sapere il motivo.
― Sinceramente non lo so. Mi sembrava solo una persona che volesse distrarsi un po’ e ho pensato di darle una mano… Mia madre sosteneva che fossi un ottimo lettore di anime, che capivo al volo le persone. Spero di non aver sbagliato proprio con lei.
― No, non ha sbagliato. ― risposi, arrossendo leggermente ― Sua madre sembra una donna molto saggia. Come si chiama?
Chiamava. Si chiamava Elisabeth. ― mi corresse, prima di rispondere ― È morta di crepacuore dopo l’assassinio di mio padre, quando avevo quindici anni. È per questo che sono andato via di casa… Dovevo trovare un modo di racimolare qualche soldo e così ho cominciato a suonare in qualche bettola. Il salario non era mai troppo, ma almeno mi consentiva di non dormire sotto i ponti.
― Oh, mi scusi. Non lo sapevo.
― Cosa? Che fossi uno scapestrato? Direi che il termine “poveraccio” poteva farglielo capire, non trova? ― mi stuzzicò sorridendo.
― No, quello si vede… ― dissi, ma mi porsi la lingua ― Nel senso… ― mi ero incartata come una cretina!
― Ho capito! ― disse, scoppiando a ridere ― La sto solo prendendo in giro, non si preoccupi.
― Mi dispiace davvero per lei, Edward. ― sussurrai, abbassando lo sguardo sulle mani ― Immagino che non sia stata una vita facile.
― Immagina? ― domandò, non smettendo mai di ridere ― Con tutto il rispetto che merita, signorina, non credo che lei possa immaginare una cosa del genere. ― mi spiazzò, lasciandomi la bocca secca. Forse aveva ragione, navigando nell’oro non potevo capire alcune cose. Ma ci stavo provando, non contava forse qualcosa?
Povera ragazzina ricca, che ne sa lei della miseria? ― sussurrai, continuando a guardare altrove ― È questo che sta pensando, dico bene?
― Veramente no. ― rispose deciso, costringendomi a guardarlo negli occhi ― Sto pensando, più che altro, a cosa è potuto succede a questa ragazza per arrivare a farle avere una luce così spenta negli occhi, ad avere un’aria così triste e malinconica. ― lo fissai per qualche istante, cercando di capire come fosse possibile che uno sconosciuto mi comprendesse più di tutte le persone che mi vivevano tutti i santi giorni. Era così palese la mia infelicità? E se così era, perché solo questo giovane si stava preoccupando di chiedermi quale fosse il problema?
Praticamente tutto! ― scoppiai, alzandomi in piedi, e cominciai a camminare avanti e indietro sul ponte ― L'intero mondo in cui vivo, e tutta la gente che ne fa parte! E l'inerzia della mia vita, che si tuffa in avanti, e io che non sono capace di fermarla. ― tornai di fronte a lui, facendogli vedere il mio anello di fidanzamento. Era un enorme diamante nero, incastonato in un fiore fatto di piccole pietre preziose.
― Miseria! ― urlò Edward, afferrando le mie dita ― Non ho mai visto una cosa del genere da questa distanza.
Sono stati inviati cinquecento inviti. ― ripresi, ignorando il suo commento ― Sarà presente tutta l'alta società di Philadelphia. E tutto il tempo mi sento come se stessi in una stanza affollata, urlando a squarciagola, senza che nessuno alzi nemmeno lo sguardo.
― Lo ama? ― domandò sfacciato.
― Come dice?
― Lo ama o no?
― Ma che gran maleducato. Non dovrebbe pormela una domanda del genere!
― Perché no? È una domanda facile. Lo ama quest’uomo, sì o no?
― Questa conversazione è inopportuna!
― Ma non può semplicemente rispondere alla domanda? ― continuò imperterrito, sghignazzando, mentre io rasentavo l’imbarazzo più sfacciato.
― È ridicolo. ― dissi, una volta ripreso il mio abituale contegno ― Lei non conosce me e io non conosco lei, e questa conversazione non sta avendo luogo. Lei è maleducato, rozzo e presuntuoso, e ora me ne vado. Edward, signor Masen anzi, è stato un piacere. ― conclusi, porgendogli nuovamente la mano, che lui afferrò ― L’ha ringrazio per la conversazione avvenuta, ma ora che l'ho ringraziata…
― E anche insultato, direi. ― disse, continuando a sghignazzare.
― Beh, sì. Ma se l’è meritato!
― Ovviamente.
― Ecco! ― dissi, senza muovermi di un passo ― Si può sapere cosa la fa ridere?
― Beh, ad essere sincero, lei. ― rispose schietto, procurandosi una nuova onda di ilarità.
― Lei è irritante, Edward! ― dissi, non rendendomi conto che stavo ridendo anche io.
― Però la faccio ridere, signorina. ― replicò, tornando serio.
Lo fissai a lungo, cercando di calmarmi anche io. La mascella dritta, i denti bianchi, la pelle chiara… Era assolutamente perfetto. I suoi occhi, poi, erano pieni di vita. Dovevo ammetterlo: invidiavo quegli occhi; invidiavo la sua vita.
― Sua madre aveva ragione. ― dissi, qualche minuto dopo ― Lei ha dono: sente le persone. ― Sento lei. ― rispose serio, fissandomi negli occhi.
Non avevo mai provato quelle sensazioni, e consideravo assurdo che fosse uno sconosciuto a donarmele.
Distolsi lo sguardo, sentendo il mio cuore battere come mai prima, e cercai di spostare il discorso su qualcosa di più frivolo. Decisi, quindi, di stuzzicarlo.
― Ah sì? E quindi, cosa sente? ― lo sfidai, alzando il mento per darmi un’aria da nobildonna.
― Crede nel destino, Isabella? ― domandò, lasciandomi spiazzata ― Io sì. E credo che sia stato il destino a farci incontrare, stasera. ― passai il resto del tempo a fissarlo, senza sapere cosa rispondere.
― Bells! ― sentii chiamarmi, ma la voce mi sembrava così lontana ― Isabella, sta’ lontana da quel giovane! Non vedi che è uno straccione? Potrebbe farti del male!
― Lei ha visto troppi film, signore. ― rispose Edward, indietreggiando di qualche passo. Mi voltai in direzione dei suoi occhi e notai Mike, accanto a me.
― Mike. ― lo salutai, sperando che non avesse sentito il commento sarcastico di Edward.
― Ti stavo cercando dappertutto. ― disse, mettendomi la sua giacca addosso ― Pensavamo ti fosse successo qualcosa, zuccherino.
― Perché mai, scusa? ― domandai, non capendo la sua preoccupazione ― Sono venuta sul ponte e il signor Masen si è intrattenuto qualche minuto con me. ― spiegai, cercando di restare calma ― È stato molto gentile, non credi?
― Gentilissimo. ― disse ironico, alzando gli occhi al cielo ― Beh, andiamo in camera?
― Certo. ― risposi, avvilita. Sapevo che non avrei mai vinto contro di lui. Inoltre, Mike, aveva un potente ascendente sui miei genitori; se non fossi andata con lui, probabilmente, li avrebbe mandati a cercarmi. Non volevo fare figuracce.
― Allora ci vediamo, Isabella.
Signorina Isabella, prego. ― lo ammonì Mike, facendo alzare un sopracciglio al ragazzo dagli occhi verdi.
― Non è necessario, Mike. ― dissi, spingendolo via ― Ci si vede, Edward. ― lo salutai, camminando verso l’interno della nave, con Mike che borbottava tra sé e sé.
Sospirai, rassegnandomi al fatto che la breve vacanza dalla mia vita fosse appena finita.

A Queenstown salirono altre persone, rendendo il Titanic finalmente completo di tutti i suoi passeggeri. Tra noi e l’equipaggio, a bordo, c’erano all’incirca 3550 persone.
Il Titanic era un gioiello di tecnologia ed era ritenuto “praticamente inaffondabile”– frase che avevo sentito più in due giorni che in tutta la mia vita. La sua stazione radio, poi, era considerata la più moderna e potente mai installata su un bastimento: la portata raggiungeva una distanza di quattrocento miglia e le antenne erano collocate sui due alberi maestri ad un'altezza di sessanta metri, distanti tra loro centottanta metri. La chiglia della nave aveva un doppio fondo cellulare e lo scafo era suddiviso in sedici compartimenti stagni, le cui porte a ghigliottina si potevano chiudere automaticamente dal ponte di comando. Questi comparti, però, non attraversavano tutta l'altezza dello scafo ma si fermavano al ponte E. Il Titanic, perciò, avrebbe potuto galleggiare anche con due dei compartimenti intermedi allagati, oppure con tutti i primi quattro compartimenti di prua allagati.
― Mi perdoni, signor Hale. ― dissi, rivolgendomi al mio cavaliere per quell’occasione. Stavamo visitando tutta la nave, insieme ai fratelli Hale, appunto ― Ho fatto un veloce calcolo del numero delle scialuppe moltiplicato per la capacità di ognuna. E mi perdoni, ma… Pare che non ce ne siano a sufficienza per tutti i passeggeri.
Solo per la metà. ― rispose, sorridendomi come se nulla fosse ― Ah, Bells, non le sfugge nulla, eh? Infatti feci installare questo nuovo tipo di gru – il modello "Welin", in grado di sostenere complessivamente trentadue scialuppe di salvataggio e ammainarne sessantaquattro – che può tenere una fila di scialuppe in più da questo lato. Ma c'era chi sosteneva che il ponte avrebbe avuto un aspetto troppo disordinato. Così la mia proposta fu bocciata, facendo montare soltanto sedici scialuppe.
― Uno spreco di spazio, infatti, signor Hale. ― intervenne Mike, con aria strafottente ― Questa nave è praticamente inaffondabile! ― questa frase stava cominciando a stancarmi.
― Dorma sogni tranquilla, piccola Bells. Le ho costruito un’ottima nave, forte e robusta. Ma la vera bellezza e il verso sostegno di essa e di questo viaggio inaugurale è lei, signorina. ― disse, sorridendomi caloroso.
― Fratello, ti dispiace se io e la giovane Isabella andiamo nella sala di lettura? ― domandò Rosalie, notando il mio improvviso malumore.
― Per me non vi è alcun problema. ― rispose il signor Hale, lasciandomi il braccio ― E lei, Mike? Lascerà andare la sua dolcissima futura sposa con mia sorella?
― Basta che non esca dalla prima classe. ― disse, lanciandomi uno sguardo piuttosto eloquente ― In quel caso, puoi andare tranquillamente, zuccherino.
Seguii Rosalie per i vari ponti e, anche se non ero una cima nell’orientarmi, capii che non ci stavamo dirigendo dove aveva detto.
― Stiamo andando al Café Parisien. ― disse, inaspettatamente ― Prima che mio fratello mi trascinasse in questo giro turistico, come se non conoscessi questa nave a memoria!, ho incontrato la signorina Cullen, Alice, e mi ha dato appuntamento qui per il tea delle cinque. Spero che non ti dispiaccia.
― Oh, no! Affatto. Anzi, ti devo molto.
― Lo sospettavo. ― disse, ridacchiando ― Non mi sembravi molto contenta nel fare il giro anche della sala macchine.
― Si vedeva molto? ― chiesi, cercando di ridarmi un tono. Erano un po’ troppe, ora, le persone che riuscivano a capirmi solo guardandomi in faccia. Che stessi diventando un libro aperto?
Il Caffè Parigino, era ideato per assomigliare ad una tipica passeggiata parigina, completa di piante rampicanti e mobili in vimini. L’ambienta era arioso e molto luminoso.
Raggiungemmo Alice ad un tavolino abbastanza in fondo. Era già lì e ci stava aspettando.
― Bene arrivate. ― disse, salutandoci ― Com’è stata la passeggiata sul ponte?
― Buon pomeriggio a te, Alice. ― salutò Rosalie, prendendo posto di fronte a lei ― Conosci mio fratello, quando comincia a parlare dei suoi gioielli non la smette più.
― Vero. Ma è adorabile. ― controbatté la ragazza che ricordava tanto un folletto.
Le due giovani donne, sedute ai miei lati, erano molto diverse l’una dall’altra. Mary Alice Cullen, era minuta; con un colorito chiaro e i capelli neri, i quali incorniciavano un viso rotondo, sul quale erano incastonati due occhi azzurri come il cielo. Rosalie Lillian Hale, invece, sembrava più matura per l’età che aveva. I capelli biondi, lunghi e lucenti, stavano alla perfezione su un viso lungo e sottile; gli occhi erano castani, e il sorriso di una tenerezza disarmante. Sotto quella debole parvenza di dolcezza, però, si avvertiva la presenza di una donna forte e temeraria.
― E lei, Isabella? ― mi domandò Alice, destandomi dai miei sciocchi pensieri ― Pronta per il gran giorno? Mio padre mi ha comunicato del vostro matrimonio con il venerante Newton. ― a quelle parole storsi il naso.
― Sì, pronta. Ma mi dia del “tu”, Alice, la prego.
― Come desideri, Isabella, ma questo vale anche per te. ― ribatté lei, sorridendomi.
― D’accordo, Alice.
Restammo a chiacchierare lì, nel Café Parisien, per almeno un’ora. Scoprii che la piccola Cullen era interessata al fratello di Rosalie, mentre quest’ultima aveva iniziato una frequentazione con Emmett, nonché fratello di Alice. Erano due persone particolarmente simpatiche, e mi piacque moltissimo stare in loro compagnia.
― Jake, stai attento!
― Non dovrei stare attento, se i passeggeri di prima classe evitassero di mandare qui giù i propri cani a fare le loro cagatine!
Mi bloccai all’istante, riconoscendo quella voce. Mi sporsi dal ponte e lo notai. Era al piano inferiore rispetto al mio. Sedeva su una panca, esattamente come la sera precedente, e aveva una sigaretta mezza consumata in bocca. I capelli sempre scompigliati e il sorriso in bella mostra.
― Isabella? Isabella? ― chiamò Rose, costringendomi a voltarmi ― Cosa stai guardando?
― Ehm, ecco… Sentite, ve la prendete se vi lascio qui? Ho visto una persona che conosco e vorrei andare a salutarla.
― Ma quello è il ponte di terza classe. ― disse Alice, senza ribrezzo nella voce ― Chi conosci in terza classe?
― Una persona. ― risposi, arrossendo.
― Non so se sia una buona idea. Mike mi ha pregato di… ― tentò Rosalie, ma la bloccai all’istante.
― Oh, e chissene frega di Mike! ― sbottai, vedendole sgranare gli occhi ― Voglio dire… Ho anche io una vita mia, no? Vorrei solo andare a salutare una persona che conosco, non mi sembra di commettere chissà quale affronto. ― Inoltre, lui mi soffoca, pensai, ma non lo dissi. Era vero, però. Per Mike ero una bambolina, un premio da osteggiare come il più importante o prezioso. Cominciavo ad esserne stufa.
― Va bene, Isabella. ― disse Rosalie, sospirando ― Ti aspettiamo nella sala di lettura, ma non metterci troppo. ― mi salutarono e si allontanarono, senza però smettere di lanciarmi occhiate interrogative.
Come una pazza, afferrai l’orlo della gonna del vestito, e mi precipitai verso il ponte di terza classe. La gente mi fissava stranita, chiedendosi dove stesse correndo una giovane altolocata come me. Non davo loro tutti i torti, il mio comportamento lasciava perplessa anche me.
― Questa sera suoni o no? Paul vuole saperlo. ― disse il ragazzo dai capelli neri, piuttosto abbronzato. Avevo sentito che Edward lo aveva chiamato Jake.
― Non lo so, Jake. Se mi va suono, altrimenti no. ― rispose Edward, dandogli le spalle.
Era appoggiato con i gomiti alla ringhiera e fissava le onde che, a causa della nostra velocità, si infrangevano contro la nave. La sua espressione era assorta e seria. Assolutamente affascinante.
― Devo mettermi a pregarti in cinese? ― domandò Jake, inginocchiandosi di fronte ad Edward ― Guarda che lo faccio! ― e dopo averlo detto, cominciò a mettere insieme parole senza senso. Il gesto, però, fece ridere Edward, che si voltò per parlare con il suo amico.
― E va bene, Jake! Adesso alzarti cortesemente!
― Fantastico! Vado subito a dirlo a Paul. Tu cosa fai? ― domandò, mentre si rimetteva in piedi.
― Vengo anche… Isabella? ― mi chiamò Edward, incrociando il mio sguardo.
― Chi? ― chiese Jake, voltandosi dalla mia direzione. Appena mi dive sgranò gli occhi, dopodiché fischio, dando una pacca sulla spalla al suo amico ― Bravo, amico! Così si fa! Adesso vi lascio. Signorina… ― sussurrò in saluto, mi superò e ci lasciò soli.
― Cosa porta una dama altolocata come te, qui nei bassifondi di terza classe? ― mi chiese Edward, appoggiandosi al cornicione bianco.
― Ti ho visto da sopra, stavo andando nella sala lettura e…
― Sala lettura? ― chiese fischiando ― Addirittura? Avete proprio un bel po’ di roba qui sopra, vero? ― arrossi, mordicchiandomi il labbro inferiore ― Scusa, non volevo mancarti di rispetto e… Oddio, le chiedo scusa! ― strillò quasi, dandosi una mana in faccia. Lo raggiungi, facendo tre grandi falcate, e gliela tolsi dal viso.
― Sono stata io la prima ad essere maleducata. Non siamo amici e mi sono rivolta a te, a lei!, come se ci conoscessimo da anni… Non so cosa mi sia preso, sono desolata.
Eravamo così assorti nel cercare di capire di chi fosse la colpa, che non ci accorgemmo che le nostre mani erano ancora intrecciate.
Le sue dita erano lunghe, affusolate e perfette, ma soprattutto calde. Le mie mani stavano alla perfezione nelle sue. Isabella!, mi ammonì la mia coscienza. Ma cosa diavolo stai facendo? Sei fidanzata con Mike, ti devi sposare con Mike! Inoltre, ai tuoi genitori verrebbe un infarto se sapessero che provi attrazione per un giovane squattrinato! A quel pensiero ritrassi le mie mani all’istante, come se mi fossi scottata.
― Mi perdoni. ― disse Edward, allontanandosi da me. Tornò a guardare l’oceano, e il suo viso assunse un’espressione che non riuscivo a decifrare. Dispiacere, forse?
― È immenso, non è vero? ― domandai, cercando di trovare un argomento di cui parlare.
― Ti fa sentire piccolo. ― rispose, mentre io speravo silenziosamente che continuasse a parlare.
― Cosa intendi? ― chiesi, ma questa volta evitai volontariamente il “lei”.
― Beh, guarda! ― disse, allungando la mano di fronte a lui ― È una distesa d’acqua infinita, e noi siamo solo degli esserini minuscoli che galleggiano su questa superficie. Eppure, nonostante tutto questo, ognuno di noi serve a qualcosa; ogni cosa serve a qualcosa. C’è chi offende il mondo ogni giorni, ma mi chiedo come non si rendano conto di quanto esso sia incredibile… Secondo me la vita è un dono, e non ho intenzione di sprecarla. Non sai mai quali carte ti capiteranno nella prossima mano. Impari ad accettare la vita come viene. Così ogni singolo giorno ha il suo valore.
― Come fai? ― gli chiesi improvvisamente.
― A fare cosa? ― domandò, voltandosi verso di me.
― A vivere con tutto questo ardore e tutta questa passione.
― È semplice, Bella. ― disse, chiamandomi in un modo tutto suo ― Quando non hai niente, non hai niente da perdere.
― Perché non posso essere come te, Edward? ― domandai, forse più a me stessa che a lui ― Dirigermi verso l'orizzonte quando ne ho voglia. Dimmi che un giorno faremo tutto quello che ci pare, che potrò fare tutto ciò che non ho mai potuto fare prima di adesso, anche se dovessero restare solo parole.
― No, lo faremo. ― rispose, sorridente ― Sei un’ottima compagnia, tralasciando alcune piccole pecche. ― sussurrò, sfiorando il mio orecchio con il suo fiato fresco ― Berremo della birra da quattro soldi, e andremo sulle montagne russe fino a vomitare! Poi cavalcheremo lungo la spiaggia, sopra le onde. Ma tu devi farlo da vero cowboy, niente cavalcata all'amazzone.
― Intendi con una gamba su ogni lato? ― domandai, non sapendo se ne fossi realmente capace ― E potremo anche aprire una pasticceria?
― Certo! Ma come mai quest’idea?
― Beh, amo cucinare dolci, anche se mia madre odia questa mia piccola passione. ― ammisi. Non lo avevo mai detto a nessuno… ― Sostiene che non sia nella nostra natura impastare e fare tutte queste cose, che cucinare sia qualcosa di molto frivolo che spetta solo alla servitù. ― non appena conclusi la frase, mi resi conto di quanto fosse sbagliato tutto quello. Era realmente possibile stabilire quali fossero le persone importanti o quali no, solo in base ai soldi che possedevano? La risposta era no, non c’era ombra di dubbio.
― Una tipetta decisa tua madre, eh?
― Perché non vieni a cenare con me? ― chiesi, quasi contemporaneamente alla sua domanda piuttosto sarcastica.
― Come, scusa?
― Ti invito a cena. Da me, in prima classe. ― ribadii, non consapevole del guaio in cui mi stavo per andare a cacciare ― Allora, ci stai?
― Certo, va bene. ― rispose sorridendo.
― Vieni allora, ti faccio fare un giro in prima classe! E ti mostro come raggiungere il ristorante.
Tra chiacchiere e risate, passò l’ennesima ora. Edward era uno spirito libero, una piuma nel vento, e il tempo in sua compagnia passava rapido, fino quasi a scivolare via dalle mani come acqua. Mi sentivo bene quando mi trovavo con lui; mi sentivo libera, come non mi ero mai sentita prima di allora. Come se fossi sempre stata malata e lui fosse la mia medicina, l’unica cosa che riuscisse realmente a farmi sentire me stessa.
― Isabella! ― mi sentii chiamare e mi voltai. Davanti a me, ritrovai la signora Cullen.
Era sempre molto bella, nella sua semplicità: indossava un lungo abito nero, abbinato al grande cappello che portava sul capo. Accanto a lei, c’era mia madre, insieme ad altre signore di alto rango.
― Signora Cullen. Mamma. ― salutai, notando lo sguardo terrorizzato di Edward, sentendo la seconda parola.
― Isabella, non eri con le ragazze? ― domandò Renée, squadrando il mio accompagnatore senza ritegno.
― Sì, ma ho incontrato un amico. ― risposi, con risolutezza ― Edward Masen, queste sono la signora Esme Cullen e mia madre, Renée Dwyer Swan.
Le altre erano cortesi e curiose verso l'uomo che consideravo all’altezza di starmi accanto – nonostante la classe sociale, visibilmente riconoscibile, anche a causa del suo poco curato abbigliamento. Ma mia madre lo guardava come se fosse un insetto. Un insetto pericoloso, che doveva essere schiacciato immediatamente.
― L’ho invitato a cena con noi, stasera. ― dissi di colpo, provocando un innaturale silenzio.
Stavo cercando di eludere lo sguardo di mia madre il più possibile, ma sapevo benissimo che non potevo evitarlo a lungo.
― Come hai detto, prego?
― Che ha invitato a cena con noi, questo bel giovanotto! ― rispose, al mio posto, Esme ― Sembra un tipo piuttosto interessante, Edward. Saremo contenti di averla tra di noi! Non è vero, Renée?
― Certamente. ― rispose mia madre, ovviamente sarcastica.
― Beh, noi andiamo a prepararci! ― urlai, cercando di smussare la tensione ― Edward, ci vediamo più tardi, ok? Signora Cullen. ― conclusi salutando, per poi trascinare via mia madre.

Mi trovavo dinanzi all’enorme specchiera della mia stanza. Jane, la mia cameriera personale, era riuscita a domare i miei ricci. Adesso avevo un’acconciatura perfetta, con un’infinità di boccoli curati, fissati sul capo con un leggero chignon. L’abito che indossavo era molto bello ed elegante, formato da due pezzi – corpino e gonna lunga – in velluto di seta e tulle, su fondo di taffetas, con ricami di perline di vetro e pailletes. Colore di fondo era un grigio tendente all’azzurro, come le rifiniture; la tinta vera e propria del vestito, invece, era blu cobalto.
― Sta’ benissimo, Miss.
― Grazie, Jane. ― risposi, mentre mi passavo un leggero strato di cipria sulle guance. Mi recai verso lo scrigno dei gioielli e ne estrassi un girocollo a festone, che sfoggiava – al centro del ciondolo ovale – una gemma di zaffiro lucentissima.
Proprio in quel momento la porta si aprì, venendo varcata dai miei genitori e Mike.
― Può andare. ― disse mia madre, congedando Jane in malo modo.
― Bells, sei incantevole, stasera. ― parlò Mike, avvicinandosi a me. Mi baciò la mano e mi sorrise, convinto che quello spettacolo fosse per lui.
― Grazie, Mike. ― risposi, sottraendomi alla sua presa ― Mamma, papà, anche voi siete un incanto.
― Come sempre, tesoro. ― rispose Charlie, sistemando i lunghi baffi neri – nello stesso colore di capelli.
― Siamo reali, Isabella. ― disse mia madre, perforandomi con lo sguardo ― Dobbiamo essere sempre presentabili e al meglio. Noi siamo la ricchezza di ogni paese, è nostro compito essere impeccabili. ― non risposi, percependo un brivido di freddo lungo la schiena.
― Com’è questa storia, zuccherino? ― mi domandò Mike ― Tua madre mi ha comunicato il tuo invito verso quel rozzo giovanotto di terza classe. Cosa ti ha spinta a concedergli il beneficio di sedere alla nostra tavola? Pietà, forse?
― Pietà. Certo, sarà stata sicuramente quella. ― dissi, in tono sarcastico. Ma nessuno lo notò.
― Visto, cara? ― si rivolse Charlie e mia madre ― Nostra figlia non ha perso il senno, ha voluto solo fare un’opera di carità! ― concluse, scoppiando a ridere. Io e Mike seguimmo la sua ilarità – ovviamente, io fingevo senza saperne il motivo. Mia madre, al contrario, non sorrise per niente e non mi spostò gli occhi di dosso nemmeno per un istante.
― Andiamo, Bells? ― chiese Mike, porgendomi il braccio. Annuii, non molto decisa, e lo seguii lungo quella miriade di corridoi, fino ad arrivare alla grandissima e lussuosa scalinata di prima classe.
― Io andrò al tavolo, ad intrattenermi col signor Yorkie e i fratelli Hale. ― annunciò mio padre, entrando nel salone.
― Spero che questo balordo sappia cosa sia la parola “puntualità”. ― sussurrò mia madre, rivolta a Mike. Stavo seriamente cominciando ad innervosirmi.
― Oh, guardate! ― disse Mike, indicando la scalinata ― Stanno arrivando anche i Cullen.
― Chissà dov’è Carlisle. ― commentò mia madre, vedendo solo Alice scortata da Emmett ed Esme sotto il braccio di… Non posso crederci!
Sotto i miei occhi sgranati, il suo sorriso sghembo concretizzò ogni mio dubbio. Era proprio lui, solo tirato a lucido. I capelli, sempre scompigliati, adesso erano ordinati e tirati indietro; i vestiti di strada, poi, erano stati sostituiti da uno smoking nero, che lasciava intravedere la camicia bianca. I due smeraldi liquidi, però, erano rimasti esattamente identici.
― Edward… ― mi sentii sussurrare, senza rendermene conto.
Come se avesse sentito quel sussurrò, Esme lasciò andare il ragazzo, prendendo sotto braccio suo figlio. Edward, dal canto suo, accelerò un po’ il passo e si parò di fronte a me; afferrò la mia mano destra e fece un perfetto baciamano.
L'ho visto fare una volta in un cinema di terza visione. ― disse, sollevandosi di poco ― Non vedevo l'ora di rifarlo. ― concluse, facendomi scoppiare a ridere.
― Sei irriconoscibile.
― Tutto merito di Esme. ― disse, indicandola con la testa ― Mi ha lasciato indossare un abito di suo marito, va un po’ largo, ma non mi lamento. ― sorrisi, ringraziando i Cullen con un cenno del capo, e lo trascinai da mia madre e Mike che, nel frattempo, si stavano intrattenendo con la contessa Lucille Duff-Gordon.
― Tesoro… ― dissi, chiamando Mike ― Ti ricordi del signor Masen, vero?
― Edward Masen? ― domandò strabuzzando gli occhi ― Stupefacente! Conciato così passa quasi per un gentiluomo.
― Ha detto bene. ― rispose Edward, sempre col sorriso ― Quasi.
Mike ribadì ancora uno “stupefacente”, dopodiché offrì il braccio a mia madre, e tutti entrammo nella sala da pranzo.
Notavo il nervosismo di Edward, nel cercare di essere all’altezza di quel posto. Per me era perfetto com’era. Decisi, però, di metterlo a suo agio.
Quella è la contessa di Rothes. ― dissi indicandola ― E quello, invece, è John Jacob Astor, l'uomo più facoltoso in viaggio su questa nave. La sua nuova mogliettina, Madeleine, ha la mia età ed è in dolce attesa. ― notai che, a differenza di tutte le altre dame, si copriva con la borsetta, o le mani, il ventre poco piatto ― Vedi come tenta di nasconderlo? A suo tempo fu uno scandalo. ― lo sentii sghignazzare, così continuai ― E quello è Benjamin Guggenheim, e la sua amante, Madame Aubert. Naturalmente la signora Guggenheim è rimasta a casa con i bambini. Da questa parte abbiamo Sir Cosmo e Lucille, Lady Duff-Gordon – la signora che stava intrattenendo mia madre e Mike, poco fa. Tra i suoi vari pregi c'è quello di disegnare biancheria audace. È molto popolare tra i reali. ― a questa ultima confessione, scoppiò sonoramente a ridere.
― E io che pensavo di annoiarmi! ― disse, tra le risa.
― Sapevo che erano informazioni che ti sarebbe piaciuto sapere.
Nonostante i miei numerosi tentativi di metterlo a suo agio, si capiva benissimo che fosse nervoso. Non mostrò la minima esitazione, però. Tutti erano convinti che fosse uno di loro, forse l'erede di qualche fortuna nel ramo ferroviario. Un nuovo ricco, ma, tuttavia degno di essere un membro del loro club. Naturalmente, mia madre non si lasciò sfuggire l'occasione per ricordargli chi fosse.
― E mi dica, signor Masen, come sono gli alloggi di terza classe? ― domandò Renée, prima di mordere una tartina con caviale.
― Niente male, signora. ― rispose Edward, che sedeva davanti a me ― Ho viaggiato molto, con mercantili e quant’altro, ma ammetto che nessuna camera è mai stata così pulita e ben curata.
― Il signor Masen si è unito a noi dalla terza classe. ― spiegò Mike, senza perdere tempo ― È stata la mia fidanzata, Isabella, a concedergli il privilegio di unirsi a noi, questa sera. ― lo fulminai con lo sguardo. Possibile che non riusciva a capire quando stare zitto? Insomma, al tavolo non c’eravamo solo noi, ma anche altre persone! A partire dai fratelli Hale, al signor Yorkie, la famiglia Cullen al completo, e molti altri. Non mi sembrava molto carino o educato, ricordare che Edward non fosse… ricco.
― Ancora complimenti per la sua nave, signor Hale. ― dissi, notando Esme che spiegava ad Edward come usare tutta quella varietà di posate ― Il Titanic è davvero incantevole.
― Grazie, Isabella. Incantevole come lei. ― rispose, sorridendomi.
― Dove vive con precisione, signor Masen? ― domandò mia madre, ancora, dal nulla.
― Per il momento il mio indirizzo è la terza classe del Titanic, signora. ― rispose lui, molto garbato. Non era uno stupido, capiva benissimo che le domande di mia madre erano poste solo al fine di schernirlo. Ma lui non si scompose mai, neppure per un secondo.
― E come ha trovato i soldi necessari per comprare il biglietto del Titanic? ― chiese mio padre che, fino a quel momento, lo aveva completamente ignorato.
― Beh, non ci crederà, signore, ma l’ho vinto con una mano fortunata a poker. ― rispose, per poi sposare il suo sguardo su di me ― Una mano molto fortuna. ― arrossii, senza capirne il motivo.
― E a lei piace quest'esistenza priva di radici, signor Masen? ― riprese mia madre.
Beh, sì, signora, mi piace. ― rispose Edward, assumendo la sua espressione seria ― Insomma, ho tutto quello che occorre proprio qui, con me. Ho aria nei polmoni, salute e un letto che posso definire immacolato. Mi piace svegliarmi la mattina e non sapere cosa mi capiterà, o chi incontrerò, dove mi ritroverò. Proprio l'altra notte ho dormito sotto un ponte, e ora mi trovo qui, sulla più imponente nave del mondo, a bere champagne insieme a delle persone raffinate come voi. ― disse, alzando il calice ― Come ho detto a sua figlia proprio oggi pomeriggio, io credo che la vita sia un dono. E non ho nessuna intenzione di sprecarlo. ― a quella risposta, nessuno replicò. Tutto il contrario, i commensali gli fecero i complimenti e mia madre fu costretta a desistere all’idea di metterlo in cattiva luce.
La serata passò tra ottime portate e fantastiche risate. Non mi ero mai divertita tanto, nel mio mondo, come quella sera. Nonostante volessi negarlo a me stessa, dovetti ammettere che il merito era completamente di Edward.
Una volta finita la cena, era solito degli uomini, ritirarsi nella sala fumatori e parlare di affari. Normalmente, a quel punto, me ne andavo in camera – stufa di sentir parlare mia madre del mio avvenente matrimonio – ma quella sera speravo che le cose procedessero diversamente.
― Viene anche lei, Edward? ― domandò Carlisle, salutando Esme.
― No, grazie lo stesso per l’invito, signore.
― Non vorrà restare qui, con le donne, mi auguro. ― lo schernì Mike, sogghignando.
― No, si figuri, Mike. ― rispose Edward, con suo stesso tono ― Penso che tornerò nella mia cabina. ― quella frase mi riportò alla realtà.
Speravo di passare una serata diversa, invece la realtà stava tornando prepotente a svegliarmi.
― Te ne vai davvero, Edward? ― piagnucolai, sperando che mi rispondesse che sarebbe rimasto con me.
― Devo andare, Bella. ― disse, alzandosi e venne davanti a me ― La mia piccola parentesi tra i reali è finita. Adesso devo tornare a remare con gli schiavi! ― concluse, ridendo.
― Mi sono divertita, Edward. ― ammisi, sottovoce ― Per la prima, mi sono divertita a stare nel mio mondo, senza sentirmi un pesce fuori dall’acqua.
― Buona notte, Bella. ― parlò, prima di farmi nuovamente il baciamano. Sorrise e lo sentii sussurrare ― Se vuoi venire ad una vera festa, ti aspetto all’orologio. ― si alzò di scatto e, continuando a fissarmi, sparì tra la gente.
Restai interdetta per diversi secondi, mentre le sue parole continuavano a vorticarmi in testa. Cosa intendeva dire con quella frase, quale vera festa? Ma la domanda da pormi era un’altra: volevo davvero saperlo? La risposta era no. Volevo separarmi da lui, già da ora? Ancora no. Lo avrei seguito, quindi? Assolutamente sì.

Il clima che si respirava in terza classe, era assolutamente diverso da quello a cui ero abituata tutti i giorni. Non c’era cattiveria nello sguardo delle persone, ognuno aiutava l’altro – anche in cose semplicissime, come dare una mano al compagno di bevute che, troppo sbronzo, cadeva a terra – senza volere nulla in cambio. I volti delle persone, poi, erano rilassati, sinceri e spensierati. Per la prima volta in tutta la mia vita, desiderai essere nata sotto un ponte.
― Quindi tu sei la famosa Bella! ― disse Jake, l’amico di Edward ― Eddy non smette mai di parlare di te, da quando ti ha conosciuta.
― Davvero? ― domandai, sorseggiando la mia birra.
― Giuro, principessina! Gli sei entrata dentro! Anche se penso che lui voglia entrare dentro di te, mmm… ― a quella frase sputai la bevanda, bagnando un signore che mi sedeva davanti.
― Mi scusi! ― urlai, cercando di sovrastare la musica con la mia voce.
― Jacob, cosa le hai fatto? ― domandò Edward, correndo verso di noi ― Bella, stai bene?
― Io? Non le ho fatto niente! Le ho solo detto che ti è entrata dentro e che… ― lo bloccai, prima che potesse dire altro.
― E che questa è una cosa bellissima! Edward, balliamo un po’? ― chiesi, alzandomi, e trascinai Edward sulla pista. Il problema, però, era che non sapevo come diamine si ballava! Non conoscevo quella musica, ottenuta da zampogne irlandesi, violini, e note così rumorose e ritmate.
― Allora? Non ti va più?
― Ehm, non so come si fa. ― ammisi, guardandomi intorno ― Non ho mai ballato questa musica! ― urlai, affinché mi sentisse.
― Fidati di me, ok? ― domandò, afferrando le mie mani ― Dovrei… ― sussurrò, facendo scivolare la mano sinistra sul mio fianco. Quel contatto mi fece tremare, provocandomi una marea di brividi. Prese la mia mano sinistra, nella sua destra, e mi attirò a sé con uno scatto deciso ― Dobbiamo avvicinarci di più. ― sussurrò al mio orecchio, e il suo fiato – a contatto con la mia pelle – mi incendiò le guance.
Senza rendermene conto, stavo ballando. Una danza vera, fatta di risate e passi divertenti. Mi sentivo libera, era come volare senza avere le ali; era come respirare sott’acqua, senza aver bisogno dell’ossigeno. Edward era il mio ossigeno; lui era la mia libertà.
― Allora, ti sei divertita? ― domandò il mio accompagnatore, mentre stavamo camminando sul ponte.
L’aria era fresca, quella sera, così mi aveva gentilmente offerto la “sua” giacca. La accettai senza riserve, e per tutto il tempo che la ebbi addosso ispirai vergognosamente il suo odore. Sapeva di mente piperita; deciso, forte e dannatamente sexy.
― Moltissimo, Edward. ― risposi, fermandomi davanti all’entrata della prima classe ― Grazie per questa serata. È stato tutto incantevole.
― Tu sei incantevole. ― sussurrò, guardandomi intensamente.
Non riuscivo a togliergli gli occhi di dosso. Era come se il suo sguardo fosse una calamita per il mio. Quello smeraldo brillante era come una droga, per me; una droga a cui non avrei mai voluto rinunciare.
― Non voglio andare. ― parlai flebile, facendomi scappare una risata isterica ― Non voglio che finisca, questa sera.
― Tutte le sere finiscono, Bella. ― rispose, sorridendomi amaramente ― Così vanno le cose. La luna sorge in cielo e poi scompare, per lasciare posto al sole e quindi al giorno. ― era la prima volta che lo vedevo così… rassegnato. Era strano vedergli quell’espressione sul viso; mi domandai se non ne fossi io la causa.
Alzai il volto e mi persi a guardare le stelle. Erano incredibili, belle e brillanti. Non tirava un soffio di vento, nonostante l’aria quasi gelida; di nuvole, poi, non ve n’era alcuna traccia.
― Guarda, Edward! Sono incredibili. ― dissi, avvicinandomi alla balaustra del ponte ― È così vasto e infinito quassù. I ricchi si credono chissà chi, ma sono solo polvere agli occhi di Dio. ― affermai, continuando a contemplare il cielo scuro.
― Una stella cadente! ― urlò lui, indicandomi una scia nel cielo ― Almeno credo. Che scia lunga… ― mormorò tra sé e sé ― Sai, mio padre sosteneva sempre che le stelle fossero le anime delle persone che ora non ci sono più, mentre le stelle cadenti rappresentassero le nuove nascite; una nuova vita che veniva al mondo.
― Davvero? ― domandai stupida da quella visione ― Sì, mi piace.
― Il blu ti dona. ― disse, cambiando argomento.
― Grazie… ― risposi, arrossendo. Il cuore aveva già preso a correre da solo, come un razzo ― Ehi, ma non dovremmo esprimere un desiderio?
― Un desiderio? ― chiese scettico, alzando un sopracciglio ― Cosa potrebbe mai desiderare una fanciulla altolocata come te? ― domandò, avvicinandosi pericolosamente al mio viso.
Te…, avrei voluto rispondere. Ma sapevo benissimo che era impossibile. C’erano troppe discrepanze tra di noi. Il mondo da cui provenivamo, soprattutto, era totalmente l’opposto. I miei genitori non mi avrebbero mai lasciata libera di seguire il mio cuore; di seguire qualcosa che, nonostante andasse contro tutto quello in cui credevano, mi rendesse felice. Qualunque cosa stessi provando per Edward, dovevo sopprimerla.
― Qualcosa che non posso avere. ― risposi, rendendomi conto che fosse ora di andare.
Feci qualche passo indietro e gli restituii la sua giacca. Lui l’afferrò, senza staccare per un secondo gli occhi dai miei, e mi sorrise in modo strano.
― Buona notte, Bella. ― sussurrò, molto lentamente. Non risposi, gli voltai le spalle e tornai nella mia stanza.

Fortunatamente, Mike e gli altri non erano ancora rientrati. Decisi quindi di cambiarmi, ma volevo farmi un bagno, prima. Chiamai perciò Jane, la mia fidata cameriera e consigliera. Una volta preparata la vasca, mi immersi, pregando che tutti i miei pensieri venissero portati via.

* Le parti in corsivo - eccezion fatta per i pensieri di Isabella e alcune parole - sono prese da film Titanic, di James Cameron.

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Finisce qui la prima parte di questa piccola falshfic di due pubblicazioni. Spero sia stata di vostro gradimento e che leggerete anche la parte conclusiva, che è il centro di questa tragedia. La seconda, e ultima parte, verrà pubblicata domani in giornata.
Inoltre, se a qucluno può interessare, sul mio blog, sempre domani in serata, pubblicherò un post con tutta la vicenda e i nomi delle persone che vissero realmente quel dramma.
Il mio blog si chiama
Violet Moon, se vi va... :)

Detto questo vi lascio, un abbraccio!

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Capitolo 2
*** La tragedia. ***


Buona Domenica a tutti!
Eccomi tornata con la seconda - e utlima - parte di questa flash commemorativa.
Innanzi tutto, vi ringrazio tutti per aver letto la prima parte, specialmente chi ha voluto lasciare un proprio commento, grazie davvero! A questa commemorazione ci ho sempre tenuto molto, infatti la sto preparando da svariate settimane. Come avevo preannunciato, ho creato un post sul mio blog personale per ricordare l'accaduto nei minimi dettagli, usando termini più tecnici e schematici che in una storia, comunque, starebbemo male. Per l'occazione, ho creato anche un video commemorativo, usando le immagini della nave del celebre film di James Cameron e le riprese del vero riletto. Come già detto, svariate volte, ho ideato questa storia - su questo fandom, soprattutto - perché ispirandomi alla storia d'amore di James Cameron, come filo conduttore per raccontare una storia ben più grande, non mi sembrava il caso di far spacciare per mia l'idea di un altro grande regista.
Prima di lasciarvi al capitolo, vi posto il link del post del blog e il video, che spero guarderete. (se pensate di vedere immagini d'amore tra Jack e Rose, non le troverete.)
Questo è il post: TITANIC - La fine di un'epoca

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Una data da ricordare :: RMS Titanic [ 15 Aprile 1912 - 15 Aprile 2012 ] from Marta89 on Vimeo.


Questo non è il mio canale, in quanto io ce l'ho, ma su YouTube.
Purtroppo, però, YT ha deciso che il video aveva contenuti che andavano contro il copyright, quindi ho creato questo canale "salvagente" su Vimeo.
Spero che la qualità del video resti ottimale.

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TITANIC
Una data da ricordare


« Nella notte ci furono molti atti di coraggio,
ma nessuno è stato più coraggioso di quei pochi uomini che suonavano,
minuto dopo minuto,
e che hanno suonato come per rendere il proprio requiem immortale
ed il loro diritto ad essere iscritti sulle tavole della gloria eterna. »
Testimonianza di Lawrence Beesley, passeggero di seconda classe.


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I giorni seguenti si susseguirono in modo molto strano.
Cercai di evitare Edward il più possibile; fortunatamente, non fu difficile. Essendo un passeggero di terza classe, non aveva libero acceso ai nostri ponti o sale. Io, dal canto mio, evitai di farmi trovare in posti “pericolosi”.
― Allora, Isabella, qual è il problema? ― domandò Esme, improvvisamente.
Stavamo passeggiando lungo il ponte privato della sua suite. Il sole, se pur freddo, ci colpiva senza indugio. Erano le sei del pomeriggio, del 13 Aprile.
― Nulla. ― risposi in fretta. Forse, troppo in fretta.
― Isabella, parlami. Sai che non sono come tua madre… Vengo da un ambiente diverso, non voglio giudicarti. Cos’è che ti affligge?
― Sul serio! Nulla, Esme. Dico davvero.
― C’entra quel ragazzo? ― domandò, stampandosi un piccolo sorrisetto sulla faccia ― Edward. Dico bene?
― No, ma certo che no! ― ribattei, arrossendo visibilmente.
― E allora perché sei diventata tutta rossa? ― chiese, fermandosi davanti ad un finestrone del ponte. Si appoggiò con i gomiti e cominciò a guardare l’orizzonte.
Il sole che si appoggiava sulla linea dell’oceano, era uno spettacolo incredibile. L’acqua era limpida, e il cielo aranciato si specchiava in esso.
― Non so più cosa fare o cosa pensare, Esme. ― dissi, togliendomi un peso dal cuore.
― Qual è il problema, cara?
― Come qual è il problema? ― domandai allucinata. Stava forse scherzando? ― Sono fidanzata, Esme. Inoltre Edward è… è un poveraccio! Alla mia famiglia prenderebbe un colpo. Non voglio vedere morire mia madre di crepacuore; specialmente, non per colpa mia.
― Ti svelo un segreto, cara. ― sussurrò, attirandomi a lei ― Io provengo da una famiglia ricca, a differenza di Carlisle che dormiva per strada. Mia madre era una donna molto esigente, con schemi prestabiliti in testa. Per lei tutto era bianco o nero, i colori, le sfumature, non erano accettati come alternative. Avevo sedici anni quando mi comunicò che, a breve, sarei diventata la moglie di un tale signorotto McCarty – non ricordo più neppure il nome. Fatto sta, Isabella, che non avevo la minima intenzione di essere piazzata come un premio in palio per unire due grandi dinastie reali. ― disse a voce più alta, assumendo un’aria fiera e decisa ― Una notte scappai di casa. È stato allora che conobbi Carlisle. E da quel momento non l’ho più lasciato… Mi ero innamorata di lui dal primo istante i cui i miei occhi si persero nei suoi azzurri… ― sospirò sognante.
― E vostra madre?
― Mi ha diseredato! ― rispose, scoppiando a ridere. Era un’ilarità tanto fresca e sincera che contagiò anche me ― Ma a me non importava niente. Sai quel era il mio desiderio? Abitare in una cantina o soffitta polverosa, ma essere libera! La mia famiglia, è questo che mi ha sempre negato…
― …la libertà. ― conclusi, al suo posto.
― Non permettere a nessuno di metterti in catene, Isabella. Nemmeno alla tua famiglia. ― la osservai, notando in lei una sincera gentilezza.
Esme Cullen – donna adulta, che come il marito non dimostrava affatto la sua età, aveva dei fantastici capelli castani, esattamente come i suoi occhi – era l’eccezione della classe alta. Non c’era superiorità nel suo sguardo o nelle sue parole; non vi era arroganza nei suoi gesti o nella sua postura; non ti guardava dall’alto in basso, facendoti sentire piccolo, un insetto da schiacciare. Lei era diversa, come tutta la sua famiglia. Ce n’erano poche di persone come i Cullen, nell’alta aristocrazia.
― Grazie, Esme! ― urlai, baciandole una guancia di slancio ― Mi è stata davvero utile. Grazie infinte ancora! ― gridai, dirigendomi come una pazza in terza classe.
Andai a sbattere contro diverse persone – sia di prima che di seconda classe – finché non trovai, finalmente, l’entrata per la terza classe.
Dopo qualche esitazione, mi decisi a varcare la soglia. Mi ritrovai di fronte una piccola scala bianca, e scesi. Il pavimento era rivestito interamente dal parquet. Per tutta la lunghezza della piccola sala, facevano bella mostra parecchie file di panche, piuttosto larghe e lunghe. I bambini, seduti in cerchio – al centro della stanza – giocavano con piccoli ratti grigi. Trattenni un urlo; non avrei dovuto sorprendermi di trovarmi davanti tutta quella miseria.
― Signorina, signorina! ― mi chiamò una bambina, tirandomi la gonna del vestito.
― Ehi, ciao… ― risposi, un po’ incerta. Con i bambini non sapevo farci per niente!
― Lei è una principessa? ― domandò, guardandomi con i suoi grandi occhi celesti ― È così bella, e il suo vestito mi piace moltissimo!
Non doveva avere più di sei, sette, anni. Indossava un vestito piuttosto malridotto, marrone, con sotto una camicia di flanella bianca – tendente al giallognolo. I lunghi capelli neri erano crespi, se pur abbastanza puliti. Sul capo, poi, si posava una retina bianca – come quella che usava Jane, per capire che non fosse una nobile.
― Anche tu sei molto bella. ― risposi, piegandomi sulle ginocchia ― Come ti chiami?
― Io mi chiamo Bianca. E tu?
― Isabella Marie… ― mi interruppi all’istante. Era solo una bambina, santo cielo! ― Bella, puoi chiamarmi Bella. ― dimenticai Edward per qualche minuto.
Bianca era una bambina dolcissima. Viaggiava sul Titanic con il padre, che era un semplice operaio. Avevano racimolato i soldi per il biglietto, così da poter provare a cercare la fortuna in America. A New York, inoltre, avrebbe rincontrato sua madre.
― Bianca! Vieni qui, ti porto da tuo padre. ― disse una voce alle mie spalle, che riconobbi essere quella di Jacob Black.
― Ciao Jacob. ― dissi, tirandomi su ― Stavo cercando Edward, sai per caso dov’è?
― Perché dovrei dirvelo, signorina? ― domandò sfacciato ― Da quello che so lo avete ignorato tutto il giorno, ieri. Non è all’altezza delle vostre ricche aspettative? ― mi sentii accusata ingiustamente. Io non avevo mai pensato ad Edward come qualcuno di inferiore; come qualcuno di inferiore a me, soprattutto.
― Ma come osa? ― replicai, visibilmente nervosa ― Lei non può permettersi di giudicarmi, ha capito? Lei non mi conosce!
― Ma conosco Edward, signorina. ― rispose, sputando ai miei piedi ― E ha già sofferto abbastanza. Perciò voglio darle un consiglio: se è qui per torturarlo ancora, facendolo innamorare di un’illusione, beh… sparisca! Se al contrario vuole dargli una possibilità, classi sociali a parte, può trovarlo sul ponte. ― mi fece un inchino sarcastico, prese in braccio Bianca, e sparì su per la scala dalla quale ero venuta.
Seguendo le indicazioni di Jacob, trovai Edward nel giro di pochi minuti. Come al solito, fissava l’oceano serio, ma anche in modo molto posato. Ero una patita d’arte, lo sapevano tutti in famiglia, ma nessun quadro comprato fino a quel momento, possedeva la sua bellezza. Indossava gli stessi abiti di quando lo aveva conosciuto: la maglietta nera, i pantaloni con le bretelle marroni, e dei mocassini piuttosto usurati. I capelli erano lasciati al vento, sbarazzini come al solito; gli donavano un’aria selvaggia, libera. Tra le labbra, aveva una sigaretta fumata a metà. Il fumo del tabacco acceso formava delle piccole nuvolette sul suo viso giovane e perfetto.
― Edward… ― chiamai, avvicinandomi lentamente.
Lui si voltò di scatto, come se fosse stato svegliato improvvisamente, nel cuore della notte.
― Bella. ― sussurrò lui, buttando la sigaretta in mare. Dopodiché buttò fuori il residuo di fumo che aveva in bocca. Era davvero affascinante.
― Ciao… Come stai?
― Cosa vuoi, Bella? ― domandò di slancio, senza neppure farmi finire la frase.
― Sapere come stai. Non ci siamo visti per quasi due giorni e…
― Siamo su una nave, Bella. ― disse, interrompendomi ― Se la gente non si incontra non è a causa dell’enorme spazio – anche se devo ammettere che il Titanic ne ha da vendere, di spazio –, ma della non volontà di incontrarsi. Non credi?
― D’accordo, hai ragione! ― urlai, stanca di fingere ― Ti ho evitato, ok? Ho fatto di tutto per evitare di incontrarti, per…
― Perché?
― Ma tu la gente non la lasci mai finire di parlare?
― Perché? ― domandò nuovamente, avvicinandosi a me con un paio di lunghe falcate.
In un battito di ciglia, si era parato davanti a me. Le punte dei miei piedi toccavano le sue, e riuscivo a percepire il calore del suo corpo. I suoi occhi, poi, erano due magneti per i miei. Le mani sudavano, il cuore pompava così tanto sangue da far male… La respirazione, infine, era inesistente.
― Respira, Bella. ― sussurrò, a pochi centimetri dalle mie labbra ― E rispondi alla domanda. Allora, perché mi hai evitato? ― ero arrivata al capolinea. Quella, era l’ora della verità.
― Oh, beh… Tu sei così sfacciato! ― urlai, sottrandomi a quella situazione ― Insomma, sono venuta fin qui a cercarti e mi metti in agitazione!
― Ti metto in agitazione? ― domandò, appoggiandosi con un gomito alla balaustra del ponte ― Interessante. Molto interessante, aggiungerei.
― Non nel senso che pensi tu!
― Perché, in che senso pensi che io stia pensando? ― chiese con la sua solita sfacciataggine. Sbuffai, gonfiando il petto. Possibile che riuscisse sempre a rivoltare la frittata?
― Non riesco a smettere di pensarti. ― ammisi, finalmente anche a me stessa. Con la coda dell’occhio, notai che il suo sorrisetto sghembo aveva lasciato il posto ad un’aria seria, attenta ― Da quando ti ho conosciuto, non riesco a non pensare a te. È più forte di me. È come la gravità! Posso provare ad allontanarmi da te quanto voglio, ma alla fine devo venirti a cercare. È come se percepissi i tuoi spostamenti, i tuoi respiri… Tu ti muovi ed io mi muovo con te; come i magneti.
― Bella, cosa…
― Sto cercando di dirti che mi piaci, Edward! ― sbottai, interrompendolo ― E non riesco più a capire cosa è giusto e cosa… ― non lo è, pensai. Ma non potei finire di parlare.
Le labbra di Edward erano premute contro le mie, mentre le sue mani erano appoggiate alle mie guance. Di slancio, mi alzai sulle punte e gli allacciai al collo le braccia. Edward, dal canto suo, mi cinse le vita, rendendo il bacio unico e passionale. Dimenticai ogni cosa. Mi arresi a lui, a me stessa. Mi arresi alla realtà, ma anche al sogno. Mi arresi ai miei sentimenti, ma soprattutto ai suoi.
― È una pazzia. ― mormorai, quando ci staccammo per respirare.
― Lo so, ma io sono pazzo di te.
Passammo l’ora successiva a baciarci, fin quando il sole non decise di sparire, dietro alla linea dell’orizzonte.
Eravamo tornati a prua, seduti sulla stessa panchina che era stata il luogo del nostro primo incontro. Raccontai quello che avevo fatto il giorno prima, ed Edward fece lo stesso.
― Ti piacerebbe suonare alla messa, domattina? ― gli chiesi, baciandogli le dita lunghe e affusolate.
― Come? ― domandò, convinto di avere capito male.
― Hai capito. Il signor Hale è molto amico del capitano Smith, se ti va di omaggiare noi poveri e comuni mortali di prima classe con le tue soavi note…
― Stai dicendo davvero? ― chiese, scattando in piedi ― Vorresti davvero farmi suonare un vero organo? Accordato alla perfezione! E non il solito pianoforte rotto o accordato male?
― Esatto, l’idea era proprio quella. ― affermai, sorridendo.
Gli occhi di Edward diventarono almeno cinque volte più grandi del normale, dopodiché urlò di gioia e mi prese in braccio. Mi fece volteggiare sulla prua per almeno mezzora, tanto che alla fine avvertii un senso di nausea. Ma nulla mi avrebbe fatto allontanare da lui. Restammo insieme tutta la notte.
Inventai una scusa poco credibile con mia madre, un malessere improvviso. Dalla mia parte, tuttavia, avevo due grandi alleate. Alice e Rosalie avevano capito tutto, perciò mi tennero il gioco. Passai l’intera notte a festeggiare con Edward, in terza classe.
Feci amicizia con tutti – perfino con Jacob, organizzandogli un incontro con una ragazza molto bella dai capelli castano-rossicci e dagli occhi del color del cioccolato. Le persone che facevano parte di quel mondo erano fantastiche. A loro non importava il denaro o l’apparenza; a loro importava la felicità e la gioia, lo stare bene insieme.
Sorrisi, pensando ad una frase di Edward che, in quel momento, mi sembrava parecchio azzeccata: forse era vero, la cicogna aveva sbagliato indirizzo, con me.

Il mattino dopo, mi trovavo sul ponte privato della mia cabina. A farmi compagnia, c’era Mike. Mi sentivo a disagio con lui. Non lo amavo, era vero, ma mi sentivo sporca nei suoi confronti. Tutto sommato, però, poteva realmente essere considerato tradimento il mio amore verso un altro uomo?
― Tua madre mi ha detto che ti sei sentita poco bene, ieri sera. ― disse, leggendo il suo giornale ― Sono venuto a trovarti, stanotte, ma non mi hai aperto.
― Ero stanca, non ti ho nemmeno sentito. ― risposi, sorseggiando il mio tea al limone ― Inoltre, mia madre te lo aveva detto che non stavo bene. Non capisco cosa tu sia venuto a fare.
― A controllare che tu fossi realmente in camera. ― parlò duramente, mettendo via il giornale ― Visto che ti hanno vista tutti, o quasi, rientrare a mattina inoltrata nelle tue stanze, con quello squattrinato.
― Mi hai fatto seguire! ― urlai, appoggiando la mia tazza sul tavolino in vimini ― Assurdo, ma tipico per te.
― Non oserai mai più comportanti in quel modo. ― sibilò tra i denti ― Sono stato abbastanza chiaro, Bells?
― Non osare darmi ordini! Non puoi comandarmi a bacchetta, mi hai capito? Sono la tua fidanzata, non uno dei tuoi sottoposti.
― La mia fidanzata? ― domandò calmo, per poi alzarsi di colpo e far volare il tavolino dall’altro lato della stanza ― Sì, lo sei, sei anche mia moglie! Praticamente lo sei, pur non essendolo ancora per legge. Perciò mi rispetterai. Mi rispetterai come si richiede a una moglie di rispettare il marito. Perché non farò la figura del pagliaccio, Bells. Qualcosa non ti è chiaro? ― rimasi lì ferma, impietrita. Il viso di Mike era a pochi centimetri dal mio, mentre i suoi occhi mi fissavano con aria ostile, cattiva. Non lo avevo mai visto in quelle vesti.
― Rispondi, sgualdrina! ― urlò, colpendomi alla guancia. Il rumore dello schiaffo riecheggiò per tutta la stanza, lasciandomi ancora più impaurita e scioccata ― È tutto chiaro, sì o no?
― S…sì.
― Fantastico! ― strillò, ricomponendosi ― Con permesso. ― disse sorridente ed uscì dalla stanza.
Rimasi a fissare quel disastro per diversi minuti. Possibile che non mi fossi mai resa conto di quanto Mike fosse mentalmente disturbato? Mi toccai la guancia sinistra, percependo ancora il calore dello schiaffo. Mi alzai a fatica, scivolando sul pavimento in ginocchio. Fu allora che cominciai a piangere. Era un pianto liberatorio, disperato. Diciassette anni troppo pesanti da portare sulle spalle da sola. Ero stufa della mia vita, stufa di tutto.
A fatica, cercai di ridarmi un contegno. Mi alzai e mi diressi in camera per vestirmi. Era Domenica mattina, il 14 Aprile per l’esattezza, dovevamo recarci alla messa. Edward sarà lì…, pensai. Quella era l’unica cosa che riusciva a darmi forza.
― Non dovrai più rivedere quel ragazzo. ― disse mia madre, entrando nella mia stanza.
― Come, scusa? ― domandai, mentre mi passavo un leggero strato di cipria sulle guance.
― Hai capito, Bells. Te lo proibisco!
― Oh, mamma… ― mi lamentai, voltandomi nella sua direzione ― Smettila, o ti farai venire un’emorragia nasale.
― Isabella! ― strillò, facendomi saltare per aria ― Questo non è un gioco, intesi? La nostra è una situazione precaria. Tuo padre ha perso tutto, la nostra famiglia ha perso tutto. Non abbiamo più denaro.
― Lo so, lo so. ― risposi, annoiata ― Me lo ripeti tutti i santi giorni.
― Tuo padre è la causa del suo interminabile elenco di debiti, celato dal suo buon nome. E quel nome è l'unica carta che ci rimane da giocare! Non ti capisco. ― disse, scuotendo il capo ― Tu e Newton siete una coppia perfetta. Questo assicurerà la nostra sopravvivenza.
― Come puoi mettermi un tale peso sulle spalle, quando è visibile a tutti la mia infelicità nello sposare quell’uomo? ― le domandai, facendole notare il rossore sulla guancia ― Mi ha schiaffeggiata, questa mattina.
― Beh, te lo sei meritato! ― urlò lei, spiazzandomi ― Cosa ti è saltato in mente di fingerti malata per… per… Isabella, come puoi essere così egoista?
― Io egoista? ― domandai, non credendo alle mie orecchie. Adesso ero io l’egoista, qui?
Vuoi vedermi lavorare come cucitrice? ― chiese, cominciando a piangere ― È questo che vuoi? Vuoi vedere le nostre belle cose messe all'asta? I nostri ricordi buttati al vento? ― concluse, prendendo un fazzoletto immacolato, che usò per tamponarsi gli occhi.
― È così ingiusto. ― sussurrai, capendo che non c’era altra via d’uscita.
Non avrei mai più rivisto Edward; non avrei mai più potuto vederlo. Ero tornata in gabbia. E i miei carcerieri non mi avrebbero mai più permesso di trasgredire alle regole. Alle loro regole.
Certo che è ingiusto. ― sussurrò, accarezzandomi una guancia ― Siamo donne. Le nostre non sono mai scelte facili. ― e detto quello, mi lasciò sola per qualche minuto.

« Protect them by Thy guiding hand / From every peril on the land /
O spirit whome the Father sent / To spread abroad the firmament /
O wind of Heaven, by Thy might / Save all who dare the eagle's flight /
And keep them by Thy watchful…
»

Tutta la prima classe era riunita nella grande sala, a cantare Eternal Father, Strong to Save. L’inno era associato alla Royal Navy, ed era stato scritto da William Whiting di Winchester, in Inghilterra, nel 1860.
Alzai per qualche secondo lo sguardo dal libricino che tenevo in mano e mi guardai in giro, c’erano tutti: dai fratelli Hale, alla famiglia Cullen al completo; Eric Yorkie, la maggior parte degli ufficiali e, perfino, il capitano Smith. Con la coda dell’occhio, poi, seguii la musica, fermando ad ammirare il pianista. Notando che mi stava fissando, però, tornai immediatamente a leggere il libro che tenevo in mano.
Finita la messa, ognuno riprese i propri interessi. Io e la mia famiglia, ad esempio, saremmo andati a passeggiare sui ponti all’aperto. Il sole era alto nel cielo, l’atmosfera era perfetta.
― Bella! ― urlò Edward, venendomi incontro. Cercai di evitare il suo sguardo il più possibile.
― La signorina ha smesso di interessarsi a lei, giovanotto. ― rispose Mike, al mio posto, passandomi a mio padre – nemmeno fossi stata una valigia.
― Come, prego? ― domandò Edward, visibilmente confuso ― Devo solo parlare un momento con Bella.
― Isabella. ― puntualizzò Mr. Corwley, dopo un cenno di Mike ― La signorina Dwyer Swan, comincia a non apprezzare più la sua insistenza. Mi ha pregato, quindi, di farle capire che non è più gradito in prima classe né in qualsiasi altro posto che lei frequenti.
― È vero, Bella? ― domandò lui, rivolgendosi direttamente a me ― È questo che vuoi?
― Ora basta! Tyler, scortalo in terza classe. ― ordinò Mike ― Subito!
― Voglio solo parlare un momento con Isabella! ― urlò Edward, facendo voltare tutti gli altri passeggeri che, come noi, stavano passeggiando sul ponte.
― Va bene, va bene. ― dissi, cercando la mia migliore maschera di risolutezza e falsità ― Tutto quello che ti hanno detto è vero, Edward. È stato uno sbaglio… Tutto ciò che hai capito, o frainteso, è stato un enorme sbaglio. Apparteniamo a due classi sociali diversi, non c’è alcun futuro per noi. Non voglio vederti mai più, Edward.
― Devo parlarti.
― No, Edward, no! ― urlai, sapendo che l’unico modo per allontanarlo da me fosse ferirlo ― Sono fidanzata. Sto per sposarmi con Mike… Amo Mike.
― Bella, non sei certo uno zuccherino, va bene? ― domandò, lasciandomi spiazzata, come suo solito ― Anzi, direi persino che sei una bisbetica viziata.
― Ma come osa? ― si intromise mio padre, ma nessuno lo degnò di uno sguardo.
Ma, sotto questa facciata sei la più fantastica, la più straordinaria, la creatura più splendente che abbia mai conosciuto. ― concluse Edward, fissandomi dritto negli occhi che, purtroppo, sentivo pungermi di lacrime ― Non sono un idiota. So come funziona il mondo. Ho dieci dollari in tasca. Non ho niente da offrirti, e questo lo so. Lo capisco. Ma ormai ci sono troppo dentro. Io mi muovo, tu ti muovi, ricordi? Non posso voltarti le spalle senza avere la certezza che starai bene. Desidero solo questo.
― Sto bene, Edward. ― risposi, pregando di non scoppiare a piangere ― Starò benissimo. Dico davvero.
― Non credo proprio. ― replicò, spingendo via Mike e mio padre, e mi afferrò il viso tra le mani ― Ti tengono in gabbia, Bella! E morirai se non ti liberi.
Non spetta a te salvarmi, Edward. ― sapevo che quelle parole lo avrebbero ferito, ma dovetti pronunciarle lo stesso ― Non te l’ho mai chiesto. Hai sempre fatto tutto da solo. Non posso sognare davvero una vita con te. Sei… sei un poveraccio senza futuro. ― e ottenni quello che volevo.
I suoi occhi, sempre brillanti e vitali, si spensero come fari colpiti dalla luce del giorno. Non vi era più alcuna traccia dello spensierato ragazzo che avevo incontrato. Lo avevo ucciso, annientato, distrutto… Esattamente come la mia famiglia aveva sempre fatto con me.
Le ore seguenti passarono lente, interminabili. A pranzo non toccai cibo. Alice e Rosalie, mi chiesero più volte di andare con loro, anche solo a fare una passeggiata, ma rifiutai. Volevo punirmi, per questo decisi di passare l’intera giornata con mia madre, a parlare del mio imminente matrimonio.
Ci trovavamo nel ristorante chiamato A la carte, un ambiente esclusivo situato sul ponte B, decorato in stile georgiano. Qui, i passeggeri, potevano recarsi ad ogni ora, ed ordinare qualsiasi tipo di piatto. Il dirigente di questo ristorante era l'italiano Gaspare Pietro Antonio Luigi Gatti.
― Ha una figlia splendida, Renée. ― disse Lady Lucille ― Davvero una discendenza ammirevole.
― Deve concedercelo, mia cara. ― disse Esme, lanciando diverse occhiate, forse per dirmi qualcosa ― È una donna molto fortunata.
― Lo so, signore. ― rispose mia madre, esibendomi ancora una volta come un trofeo ― Lo so.
I miei occhi erano vitrei, spenti. Cercavo di evitare lo sguardo altrui il più possibile. Una bambina, seduta al tavolo di fianco al nostro, però, catturò la mia attenzione.
Doveva avere pressappoco l’età di Bianca, ma a differenza sua, quella che avevo davanti ai miei occhi non aveva nulla di innocente. Ricordavo bene cos’era stata la mia infanzia… Interminabili giornate di studio, di buone maniere… Di qualunque idiozia che mi educasse ad essere una bambolina totalmente accondiscendente ai voleri altrui. Quello fu troppo.
― Basta. ― sussurrai, attirando l’attenzione.
― Cosa hai detto, tesoro? ― domandò mia madre, abbassando la sua tazza di tea.
― Ho detto “basta”. ― ripetei a voce più alta, alzandomi ― Sono stufa di questa vita, mamma. Stufa di te e di tutto il peso che mi avete sempre messo sulle spalle, sia tu che papà. Io non tollerò più Mike! Non sposerò Mike. È un uomo violento che, per di più, non amo; che mai amerò.
― Isabella!
― Isabella un corno! ― strillai, facendo voltare tutta la sala ― E al diavolo anche le buone maniere! Sono una persona, mamma, non un premio in palio. Adesso, se voleste scusarmi.
― Non andrai da lui. ― disse, in tono minaccioso.
― Prova a fermarmi. ― la sfidai. Dopodiché mi tolsi quelle odiosissime e fastidiosissime scarpe e cominciai a correre, seguita solo dalle urla della donna che, nonostante tutto, consideravo ancora una madre.

― Largo! Pista, pista! ― urlai, correndo come una pazza negli alloggi di terza classe ― Edward? Edward Masen! Sto cercando Edward Masen! Edward, dove sei? ― sentivo la gente che, in diverse lingue, si domandasse se fossi pazza o cos’altro.
Quando vidi Jacob, baciarsi con la ragazza che gli avevo trovato, mi fermai di colpo.
― Jacob! Dov’è Edward?
― Ancora tu? Sentimi un po’…
― Sentimi tu, invece! ― dissi, interrompendolo bruscamente ― So già quello che vuoi dirmi e sì, hai tutte le ragioni del mondo! Ma ho mandato al diavolo tutto, va bene? Penso di essere appena diventata povera! Allora, adesso vuoi dirmi dove si trova Edward? ― il mio discorso spiazzò Jacob, lo capii dal sopracciglio alzato e dagli occhi sbarrati.
― Non so dove sia. Prima era in camera, ma ora non c’è più.
― Grazie lo stesso! ― dissi, ricominciando a correre. Dovevo trovarlo, a qualsiasi costo!
Un’ora e mezza dopo, era ancora in cerca di Edward. Avevo perlustrato ogni singolo angolo di quella nave, cercando di non farmi beccare da tutte quelle persone che, mandate dalla mia famiglia, mi stavano cercando.
Una lampadina si accese nel mio cervello. La prua!, pensai. Io andrei lì, e anche lui. Ne sono certa! Corsi a perdi fiato, precipitandomi dall’altra parte del Titanic.
Esattamente come avevo pensato, lo trovai lì. Aveva una sigarette tra le labbra, mezza consumata. Era sdraiato sulla solita panchina, con addosso una giacca di lana, e aveva gli occhi chiusi. Mi avvicinai a lui piano, davvero molto lentamente. Gli tolsi la sigarette e premetti le mie labbra sulle sue.
La reazione di Edward fu molto divertente: si scansò velocemente, finendo a terra; dopodiché mi fissò con occhi sgranati.
― Sei stata tu?
― Già. ― risposi, mordendomi il labbro inferiore ― Ti devo delle scuse. Io non penso quello che ti ho detto, davvero credimi. Ma Mike mi ha schiaffeggiata questa mattina e mia madre aveva scoperto di noi e…
― Cos’ha fatto, quel verme?! ― gridò, scattando in piedi.
― Non è successo niente, Edward. Sono qui, adesso. Se mi vuoi ancora.
― Se ti voglio ancora? ― domandò, accarezzandomi la guancia, dolcemente ― Io ti vorrò sempre, Bella. ― affermò con decisione, prima di attirarmi a sé e baciarmi con foga.
Non seppi dire se era il nostro bacio a fare da sfondo al tramonto, o se fosse il tramonto a fare da sfondo al nostro bacio. Ma una cosa era certa: quella fu l’ultima che il Titanic vide la luce del giorno.
Restammo a goderci il panorama per diverse ore, ma l’aria stava cominciando ad essere davvero fredda. Viaggiavamo sull’Atlantico, dopo tutto, come poteva essere altrimenti?
Erano su per giù le nove di sera, quando convinsi Edward ad accompagnarmi in camera mia, per prendere un soprabito. Indossavo un abito piuttosto leggero, di sera lilla, intero. I capelli erano sciolti, senza alcun fermaglio o cianfrusaglie varie.
― Mare piatto come una tavola, capitano. ― sentii dire dal secondo ufficiale Charles Lightoller.
― Non tira nemmeno un soffio di vento. ― ribatté il capitano Smith. Quando mi dive, mi sorrise, accennando un debole inchino.
― Conosci proprio tutti, eh? ― sussurrò Edward, baciandomi il collo.
― A quanto pare… ― risposi, senza “staccare le orecchie” dalla plancia.
Da quello che avevo capito, il capitano Smith, aveva ordinato di tenere rotta e velocità, nonostante l’oceano fosse fin troppo calmo per avvistare problemi.

* * *

Mi riscossi da quei pensieri, quando un uomo mi venne addosso. Non mi ero neppure accorta che era cominciato a piovere. Forse era questa la commemorazione del cielo… Forse gli angeli stavano piangendo, ricordato ciò che era avvenuto dieci anni prima.
Durante il processo che seguì quella disgrazia, molte persone vennero chiamate a testimoniare, e tra quelle c’ero anche io. Era tutto totalmente assurdo… Come poteva essere accaduto realmente, quello sfacelo, quel disastro?
Alle dieci di sera, il primo ufficiale Murdoch subentrò a Lightoller, dal quale ricevette gli ordini del comandante. Mezz'ora più tardi, Murdoch rispose ad un messaggio per mezzo di una lampada morse proveniente dal piroscafo Rappahannock, che incrociò il Titanic alle dieci e mezza, nel quale lo informava di essere appena uscito da una banchisa circondata da iceberg. Lo stesso Murdoch ordinò al lampista di chiudere i boccaporti sul castello di prua, in modo che la luce non ostacolasse la visuale delle vedette, senza però risolversi a ridurre la velocità della nave – in condizioni normali, infatti, una massa di ghiaccio era visibile grazie alle onde che si increspavano alla sua base. Tuttavia, con un mare assolutamente piatto come in quel momento, il margine di sicurezza era molto ridotto.
Per anni mi chiesi come era stato possibile tutto quello. Ancora oggi, dopo svariati anni, mi domandavo perché il capitano Smith non avesse cambiato gli ordini, facendo diminuire la velocità del Titanic. Ma la risposta era sempre la stessa. C’erano ventisei anni di esperienza che lavorano contro di lui. Era convinto che avrebbero virato in tempo, non appena avrebbero avvistato qualcosa di voluminoso. Ma il timone era troppo piccolo per una nave di quella stazza. Non era in grado di virare in tempo… Tutte le sue informazioni era semplicemente errate.
Mi asciugai le lacrime che, irrimediabilmente, erano sgorgate come un fiume in piena. Mi strinsi nella giacca e mi preparai per il ritorno a casa.
I ricordi, tuttavia, non avevano alcuna intenzione di lasciarmi stare…

* * *

― Si gela stasera. ― disse Edward, abbracciandomi da dietro. Stavamo tornando sul ponte.
― Siamo sull’Atlantico, genio. ― lo stuzzicai, dandogli una gomitata.
― Quindi sei una poveraccia, adesso.
― Credo di sì, ma sai che è una fantastica sensazione? ― chiesi, notando Mr. Crowley ― Scusi, sa dirmi l’ora? ― domandai al primo signore che incontrai, solamente per voltarmi di spalle e nascondermi tra lui ed Edward.
― Certo, signorina. Sono le undici e trenta.
― Grazie mille. ― afferrai Edward per il polso e lo trascinai via ― Corri! C’è la guardia di Mike! ― lo informai, mentre stavamo già correndo per i corridoio.
― Tu sei pazza!
― Cosa?
― Sei pazza! ― ribadì, scoppiando a ridere. Ed io lo seguii a ruota.
Ci ritrovammo sulla poppa, invece che nel posto dal quale eravamo partiti.
― Credo che abbiamo sbagliato lato. ― mormorai, stringendomi nel suo abbraccio.
― E allora? Guarda che panorama! È fantastico. ― disse Edward, guardando l’oceano piatto e scuro dinanzi a noi ― Ti va di ballare?
― Come?
― Hai capito. ― ribadì, allontanandosi da me e mi fece un ampio inchino ― Vuoi ballare con me?
― Ma non c’è la musica.
― Andiamo, Bella! Seguiremo quella del nostri cuori, che battono insieme. ― lo guardai di sottecchi, ma mi avvicinai a lui senza esitazione.
Edward strinse la mia mano destra nella sua sinistra, e posò la sua destra sulla mia schiena, per attirarmi a sé. Io appoggia la sinistra sulla sua spalla e cominciai a seguirlo in quella follia.
Non ero mai stata così vicina ad uomo, in ogni senso. Quello che era sbocciato tra me ed Edward era un qualcosa di travolgente, di devastante. Non volevo rinunciarci.
― Quando la nave attraccherà, io scenderò con te, Edward.
― Ma è da pazzi!
― Lo so. ― ammisi, accarezzandogli il viso ― Come noi. Per questo sono convinta che sia la cosa più giusta da fare. ― non appena conclusi la frase, tornai a sentire le sue labbra premute contro le mie. Era il paradiso… Non sapevo che a breve ci saremmo trovati all’inferno.
― Iceberg! ― urlò qualcuno, improvvisamente ― Dritto davanti a noi! ― il resto, accadde tutto in fretta. Qualcuno, come me, pensò che fosse arrivata la fine. Invece, era solo l’inizio della fine. Davanti a noi, c’era un’enorme montagna di ghiaccio.
― Oh, mio Dio. ― sussurrai, atterrita.
L’iceberg strisciò tutta la fiancata del Titanic a destra, provocando moltissimi sussulti. I pezzi di ghiaccio, staccatisi dall’enorme massa ghiacciata, si scagliarono sul ponte, colpendoci quasi in faccia.
― Attenta! ― urlò Edward, spingendomi indietro.
Tutta la gente fuori dalle proprie cabine, corse sul ponte. Mi accorsi, solo qualche momento dopo, che era soprattutto persone del terza classe. Ovvio, pensai sarcastica, fa troppo freddo per quelli di prima.
― Stiamo imbarcando acqua. ― sussurrò Edward al mio orecchio.
― Cosa? ― gli chiesi, preoccupata.
― Dobbiamo trovare Jacob, vieni con me! ― disse, afferrandomi la mano e mi trascinò via con lui.
Correndo per i corridoio, notai molte facce che conoscevo, recarsi nella stanza del capitano Smith. Vidi Carlisle dirigersi con Emmett sul ponte, in signor Yorkie correre in vestaglia e pantofole, seguito dai fratelli Hale.
― Qualcuno ha già constatato i danni? ― disse il signor Hale, parlando con qualcuno davanti a sé ― Quanti compartimenti stagni sono allagati?
― Quando potremmo riprendere la navigazione? ― domandò, quasi nello stesso istante, in signor Yorkie.
― Aspetta! ― urlai, affinché Edward si fermasse.
― Cosa c’è?
― Vieni, e sta’ dietro di me. Voglio capirci qualcosa. ― lo avvertii ― Voglio scoprire quant’è grave tutto questo. ― affermai decisa, e seguii il signor Hale.
Tutti erano troppo presi dal caos generato dall’iceberg, per accorgersi di due giovani spioni come noi.
Sono già cinque i comportamenti allagati. ― disse il signor Hale, parlando col capitano Smith ― Può sopportare uno squarcio e rimanere comunque a galla con quattro compartimenti allagati, ma non cinque. Non cinque. Mentre affonda a prua, l'acqua passerà sopra le paratie del ponte E, arrivando fino a poppa. E non c'è alcun modo di impedirlo. ― quel discorso mi fece venire la pelle d’oca.
― Le pompe. ― replicò calmo, il capitano Smith ― Se apriamo le paratie, possiamo…
― No, no! ― lo interruppe il signor Hale, disperato ― Le pompe fanno sì guadagnare tempo, ma solo pochi minuti. Da questo momento, qualunque cosa facciamo, il Titanic affonderà.
― Ma questa nave non può affondare. ― controbatté il signor Yorkie, come un bambino a cui fossero state appena negate le montagne russe.
― È fatta di ferro, signore. ― rispose il signor Hale ― E le assicuro che può affondare.
― Quanto tempo abbiamo? ― domandò il capitano Smith, guardando il vasto oceano intorno a sé – intorno a tutti noi.
― Un’ora, due al massimo. ― rispose il signor Hale, accasciandosi sulla sedia.
Restammo lì, in silenzio, l’una stretta all’altro, per diversi minuti. Il Titanic sarebbe affondato. Quanto era ironico tutto quello, oltreché tragico? Un brivido mi percorse la schiena, rendendomi conto di quello che aveva detto il signor Hale, qualche giorno indietro. Le scialuppe era abbastanza solo per la metà dei passeggeri, l’altra metà sarebbe morta.
― Andiamo da Jacob, poi andiamo a cercare i miei genitori.
― No, andiamo prima dai tuoi genitori, poi scendiamo da Jacob. ― disse Edward, alzandosi per poi aiutare me a fare lo stesso.
Nessuno dei due parlò per tutto il tragitto.
Eravamo frastornati, ammutoliti, atterriti. Era quella, la fine che avremmo fatto? Il nostro amore, sarebbe nato e morto su quella stessa nave? Non avevo mai pensato alla mia morte. Nonostante tutto, però, non mi pentivo delle scelte fatte. Se fossi morta quella stessa notte, non avrei avuto alcun rimpianto. Avevo amato ed ero stata amata davvero, per quella che ero. Avevo avuto la fortuna di trovare un uomo, degno di quel termine, che mi aveva regalato emozioni uniche, speciali. Indimenticabili. Salire sul Titanic era stata la cosa più intelligente che avessi fatto in vita mia, perché mi aveva portato ad Edward.
― Bella, siamo arrivati. ― disse Edward, risvegliandomi dai miei pensieri.
Non risposi, ma annuii, aprendo la porta della nostra suite. Ritrovai davanti a me tutti quei volti che, fino a qualche ora prima, volevo abbandonare, convinta che la mia vita senza di loro sarebbe stata migliore. Ma lo pensavo ancora, adesso? Li detestavo, era vero. Mi avevano tenuta in gabbia, segregata, ma non per questo volevo la loro morte.
― Dio santo, Bells! ― disse mio padre ― Dove ti eri cacciata? E perché sei con quel tipo?
― Papà, non è il momento. ― lo bloccai subito ― È successa una cosa gravissima…
― Già! ― disse Mike, interrompendomi ― Te ne sei andata con quello straccione! Mi hai fatto fare la figura del fesso. Hai ridicolizzato la tua famiglia, Bells.
― La nave sta affondando! ― urlai, per attirare l’attenzione e farli smettere di sparare stronzate. Edward, dopo la mia rivelazione, fischiò.
― Cosa stai dicendo? ― domandò mia madre ― Siamo sul Titanic, cara. E questa nave è inaffondabile!
― Non è così, mamma! Dobbiamo piantarla con questi discorsi assurdi. Dobbiamo andare tutti alle scialuppe di salvataggio, avete capito?
― Stiamo davvero affondando? ― domandò mio padre, livido in volto.
― Sì, papà. E dobbiamo sbrigarci…
― Le scialuppe saranno divise per classi? ― domandò mia madre, improvvisamente.
― Che mi venga un colpo. ― borbottò Edward, al mio fianco.
― Cosa hai detto, mamma?
― Mi chiedo se le scialuppe siano divise per classi. ― continuò lei ― Saranno molto affollate? Non vorrei stare troppo stretta.
― Mamma, mamma, ma sta’ zitta! ― urlai, indietreggiando schifata ― Non capisci? L'acqua è gelida e non ci sono scialuppe a sufficienza: bastano appena per una metà. L'altra metà della gente che è su questa nave morirà.
― Non la metà che conta. ― disse mio padre, guadagnando l’assenso di Mike.
― Mi fate schifo. ― affermai, afferrando la mano di Edward e lo trascinai via.
La mia corsa durò poco, perché una mano mi afferrò il braccio, costringendomi a voltami. Non impiegai molto tempo per capire a chi appartenesse. Una presa così violenta, poteva essere sola di Mike.
― Dove credi di andare?
― Lasciami!
― Non ti azzardare a toccarla!
― Non sto parlando con te, pidocchio! ― urlò Mike, spingendo a terra Edward.
― Sei forse impazzito?
― Non ci credo, hai scelto davvero lui? ― mi chiese, fissandomi negli occhi ― Per fare cosa? La puttana di un topo di fogna?
Preferisco essere la sua puttana piuttosto che tua moglie. ― sputai fuori quelle parole, e mi sentii più leggera.
Mike, purtroppo, non apprezzò quella verità. Notai la sua mascella contrassi e, prima che potessi sottrarmi alla sua presa, percepii l’urto della sua mano sulla mia guancia. Usò una tale forza che mi sbatté a terra, sotto lo sguardo incredulo di diversi ufficiale che, purtroppo, dovevano pensare a cose ben più gravi.
― Lurido verme! ― urlò Edward, alzandosi, e si gettò addosso a Mike, dandogli un pugno in faccia ― Questo è per lo schiaffo di stamattina! ― gridò, dandogliene poi un altro ― Questo è per quello di adesso! ― disse ancora, facendo accasciare Mike a terra. Gli sferrò un calcio nello stomaco e sibilò infine ― E questo perché mi stai semplicemente sulle palle da quando ti conosco. ― gli sputò sulla giacca e tornò vicino a me.
― Stai bene? ― gli domandai, afferrando le sue mani.
― Dovrei chiedertelo io. ― replicò sorridente ― Tutto a posto? ― annuii, stringendomi a lui.
― Andiamo a cercare Jacob. ― dissi, prendendogli la mano ― Addio, mamma; addio, papà. ― sussurrai, prima di correre verso l’ascensore.
Scendemmo giù, dal ponte B fino al ponte F, dove si trovavano le cabine di terza classe. L’ascensorista non volle scortarci per nessun motivo, così fummo costretti a fare tutto da soli. Arrivati in terza classe, però, venimmo investiti dall’acqua gelida.
― Cazzo! ― urlò Edward, aprendo i cancelli neri dell’ascensore ― Stiamo già imbarcando acqua! Bella, sbrighiamoci! Dobbiamo trovare Jacob e tornare subito sul ponte lance. ― mi afferrò il polso e riprendemmo a correre.
Era una totale corsa infinita contro il tempo. Avevamo due ore – o forse poco meno, adesso – per salvarci la vita. Tra poco, tutto quel ben di Dio, si sarebbe ritrovato sul fondo dell’oceano Atlantico.
A differenza dei corridoio di prima e seconda classe, che erano totalmente vuoti, quelli di terza erano stracolmi di persone. Come mai questa gente non saliva? Perché non tentava di mettersi in salvo?
― Jacob?! ― continuava a chiamare Edward, ma del suo amico non c’era alcuna traccia.
― Bianca! ― urlai, riconoscendo la bambina ― Dov’è tuo padre? E Jacob? ― lei non parlò, ma ci indicò un punto col dito. Era visibilmente assonnata, e quando si passò le manine sugli occhietti mi fece una tenerezza unica.
Seguimmo la sua indicazione e, nel giro di pochi minuti, ci trovammo davanti ad un cancello – quello che collegava le scale, per salire sui ponti, e quindi alla salvezza. Il problema, però, era che fosse totalmente chiuso a chiave.
― Mettete il salvagente. ― ordinò qualcuno, dalla parte opposta delle sbarre nere ― E state indietro, avete capito bene? Quando il capitano darà l’ordinò aprirò, ma dovranno passare solo le donne e i bambini!
― Ci stai togliendo la possibilità di metterci in salvo! ― urlò qualcuno, un uomo sulla sessantina.
― Faremo imbarcare donne e bambini sulle scialuppe, ma non potete tenerci chiusi qui! ― urlò quello che, dalla voce, riconobbi come Jacob ― Ci state condannando a morte!
― Jacob! ― urlammo sia io che Edward, costringendolo a voltarsi.
Non appena ci vide, lasciò la sua postazione e corse verso di noi. Ci abbracciò, entrambi, tenendoci stretti a lui.
― Vi ho cercati dappertutto! ― disse, una volta staccatici.
― Eravamo dai genitori di Bella. ― rispose Edward, guardandosi intorno.
― Abbiamo visto l’iceberg. ― sussurrai, evitando di fomentare il panico ― E abbiamo sentito il signor Hale parlare col capitano… La nave affonderà. Tra meno di due ore il Titanic si ritroverà sul fondo dell’oceano! Dobbiamo salire sui ponti, tutti e subito!
― Merda! ― sibilò Jake, tra i denti ― Non possiamo! Vedi? Ci sono ufficiali su tutte le scale, hanno chiuso le uscite!
― Noi siamo venuti con l’ascensore! ― disse Edward, indicando il corridoio ― Jake, avvisa solo chi devi, ma sbrighiamoci! ― a quelle parole, il suo migliore amico annuì e si dileguò in fretta.
Tornò con la sua ragazza, che si chiamava Angela – soprannominata Nessie –, e con altri loro amici, tra cui la piccola Bianca e suo padre.
Non compresi mai fino in fondo perché vollero bloccare le persone di terza classe nella loro zona, ma alla fine poco importava il motivo; importava, invece, che fu quello che fecero.
Arrivati agli ascensori, infatti, li trovammo inagibili. Nessuno sarebbe potuto risalire da lì. Eravamo spacciati; tutta la terza classe lo era.
― Cazzo, cazzo, cazzo! ― urlò Edward, dando calci ai cancelli dell’ascensore davanti a noi.
― Amico, calmati! ― disse Jake, cercando di farlo tornare con i piedi per terra.
― Dobbiamo cercare un’altra uscita. Alla svelta! ― riprese Edward, tornando in sé.
Passammo una buona mezzora a correre come forsennati per quei corridoi, ma non vi era nessuna via d’uscita. Molte persone, capendo che non sarebbero mai sopravvissuti, si recarono nelle loro cabine, chiudendosi dentro. Per morire… in pace.
Notai una madre, con due figli, che stava raccontando loro una fiaba per farli addormentare; un uomo e una donna, abbracciati l’uno all’altra, stavano dirigendosi sul loro letto, in attesa della fine. Era uno scempio. Una tragedia. Un disastro di dimensioni epiche. Il Titanic passerà lo stesso allo storia…, pensai amaramente.
― L’acqua sta salendo! ― urlò Angela, presa dal panico.
― Maledizione! ― sibilò Jacob, mentre l’uomo che era con noi prendeva in braccio sua figlia.
― Dobbiamo crearci una via d’uscita. ― disse Edward, parlando tranquillamente.
Non capii subito ciò che intendesse, ma non fu necessario comprendere. Ci trascinò nuovamente davanti al primo cancello chiuso che trovò, facendosi largo tra la gente.
L’ufficiale, per la centesima volta, ci informò che non appena le persone di prima e seconda classe sarebbero state imbarcate sulle scialuppe, anche noi saremmo stati liberi di metterci in salvo.
― È ovvio, adesso. ― mormorai, notando gli occhi di Edward puntati su di me ― Non ci sono abbastanza scialuppe, e loro lo sanno. Siamo bestie sacrificali.
― Apri il cancello. ― disse minaccio, avendo compreso le mie parole ― Apri questo cazzo di cancello! Maledetto bastardo, apri! ― fu così che l’intera terza classe si rivolse all’intero equipaggio.
C’era chi urlava, chi piangeva, chi imprecava… Tutta quella gente era terrorizzata, impaurita fino alle ossa. Come dargli torto? Mi risvegliai dai miei pensieri, giusto in tempo per vedere Edward, Jacob e qualcun altro, staccare una panca e sfondare il cancello. L’ufficiale, impauritosi da quella presa di posizione, strillò come una femminuccia e scappò a gambe levate.
― Andiamo, forza! ― urlò Jacob, mentre Edward mi aiutò a scavalcare.
L’acqua, almeno in terza classe, aveva raggiunto quasi il soffitto. Non c’era più tempo da perdere, dovevamo abbandonare quella nave.
Raggiungemmo il ponte dopo una ventina di minuti. Era il caos più totale: gente che urlava, che piangeva. I balli avevano lasciato spazio alle urla; la felicità aveva ceduto il passo al terrore; il paradiso aveva lasciato il posto all’inferno.
― Signor Lightoller! ― sentii la voce di Mr. Hale, così bloccai Edward, affinché ci direzionassimo verso quel lato ― Perché le scialuppe vengono a messe in acqua mezze vuote? ― chiese furente ― Guardi lì, dannazione! La prima scialuppa è stata lasciata andare con solo ventotto persone a bordo! E la seconda? Dodici! Mi ha capito? Con sole dodici persone, quando è stata collaudata a Belfast con il peso di settanta uomini!
― Beh, noi non sapevamo se…
― La capienza è di sessantacinque persone, signor Lightoller! ― urlò il signor Hale, ancora più forte di poco prima ― Carichi al massimo queste scialuppe, per l’amor di Dio!
Rimasi di sasso ad osservare la reazione dei passeggeri di prima classe. Tendevano a considerare la faccenda uno scherzo: se qualcuno aveva il salvagente veniva preso in giro, mentre altri esibivano blocchetti di ghiaccio come souvenir. L'orchestra si posizionò addirittura nel salone di prima classe e cominciò a suonare musica sincopata; si spostò, poi, all'ingresso dello scalone sul ponte lance. Tutto avveniva in termini così formali che era difficile rendersi conto della situazione. Uomini e donne, in piedi, a gruppetti, conversavano. Era uno spettacolo irreale, sembrava un dramma recitato per divertimento. Gli uomini, dopo aver fatto accomodare una signora sulla lancia, dicevano "Dopo di lei!" e facevano un passo indietro. Molti fumavano, altri passeggiavano.
― Signora Isabella! ― urlò il signor Hale, vedendo me ed Edward lì, fermi ad osservare quel disastro ― Cosa ci fa qui? Deve salire sulla scialuppa, presto! Si ricorda cose le ho detto sulle scialuppe, non è vero?
― Sì, signor Hale. ― risposi atona, senza alcuna emozione nella voce.
― Figliolo, faccia qualcosa! ― urlò ad Edward, affinché mi spronasse a muovere un passo. Non mi ero resa conto di aver perso di vista Jacob e tutti gli altri della terza classe.
― Bella! Il signor Hale ha ragione. ― disse Edward, scuotendomi per le spalle ― Forza, andiamo! ― urlò e mi strascinò all’imbarco più vicino.
― Avanti! ― urlò il primo ufficiale Murdoch, facendo salire i passeggeri sulle altre scialuppe ― State calmi! Prima le donne i bambini. Ripeto: vengano avanti prima donne e bambini! ― urlò, bloccando un uomo che tentò di salire a bordo ― Ordini del capitano signore, prima le donne e i bambini. Sulle scialuppe che rimarranno salirete anche voi, ma solo più tardi.
― Tocca a te, Bella. ― sussurrò Edward, dietro di me, spingendomi avanti.
― Io non vado senza di te. ― affermai decisa, capendo che sarei morta lì, tra il freddo di quelle acque scure, piuttosto che salvarmi, vivendo il resto della mia vita senza di lui.
― Io prenderò la prossima, ora vai.
― Edward, non ci sono scialuppe! ― sibilai, cercando un tono severo ― Preferisco morire, che stare lontana da te.
― Tu non morirai. ― disse, spingendomi avanti ― Qui! C’è una donna qui!
― Prego, venga! ― disse l’ufficiale Murdoch, spingendomi sulla scialuppa.
― No! Edward, no!
― Bella! ― urlò qualcuno dalla scialuppa.
Notai Alice, terrorizzata e spaventata, accanto a Rosalie e a sua madre, Esme. Non avevo visto Emmett, però, né Carlisle. Sulla scialuppe, infatti, c’erano solo donne.
― Ce la farà, vedrai. ― disse Esme, mentre la scialuppa veniva calata in acqua ― Se è destino, ce la farà. ― sussurrò infine.
Mi voltai, incrociando gli occhi raggianti e sereni di Edward. Lui era felice; felice per la mia assicurata salvezza. Ma c’era qualcosa di fortemente sbagliato in tutto quello. Perché dovevamo essere soltanto noi i fortunati? Perché non era possibile salvare tutti quanti?
Mi guardai intorno, notando i visi delle donne che condividevano quella salvezza con me. Erano tutti rigati dalle lacrime, dalla paura… Erano volti disperati, arrendevoli. Nonostante la forza d’animo di Esme, anche lei era a conoscenza del fatto che – fato o non fato – non vi era alcuna sicurezza che le avrebbe ridato suo marito.
Un boato mi fece alzare gli occhi al cielo. L’oscurità, adesso, era stata illuminata da razzi bianchi.
― I razzi sono del colore sbagliato. ― sussurrò Rosalie, tra le lacrime ― Sono rossi quelli del SOS, non bianchi. Jasper… Fratello mio, ti prego non mi lasciare. ― concluse, scoppiando in lacrime. In quel momento, tutti mi fu chiaro.
Mi alzai in piedi, e mi avvicinai al bordo della scialuppa. Ignorai le mani che mi tenevano giù, ignorai le grida di rimprovero. Io dovevo tornare su quella nave.
― Bella, che stai facendo? ― sentii dire da Edward ― No! Bella, per favore, no! ― ma non lo ascoltai. Mi lanciai, afferrando la balaustra del ponte. Fortunatamente, qualcuno sulla nave, mi afferrò, aiutandomi a tornare a bordo.
Mi misi a correre come una disperata, capendo che non era la morta o la vita, quella che temevo; la scialuppa di salvataggio non era la mia salvezza, Edward lo era.
Ripercorsi tutti i ponti, come una miserabile. Ero una pazza, lo sapevo, ma dovevo trovare il mio ossigeno, la mia vita. Arrivata allo scalone di prima classe lo vidi, e mi gettai tra le sue grandi e forti braccia.
― Che hai fatto? ― domandò, con gli occhi pieni di lacrime ― Sei pazza, sei pazza! Perché lo hai fatto?
― Tu ti muovi, io mi muovo, ricordi? ― risposi, scoppiando a piangere ― Ti amo, Edward! Non voglio vivere se tu non sei al mio fianco!
― Ti amo anche io, Bella. ― disse, baciandomi le labbra, il naso, la fronte, le guance, il mento ― Ti amo, ti amo, ti amo!
Era passata più di un’ora dall’impatto con l’iceberg, il dramma si stava manifestando sotto i nostri occhi impotenti. Quando Edward notò che non vi erano più scialuppe, affermò che avremmo dovuto rimanere sulla nave il più tempo possibile.
Il ponte di prua si stava inondando e tutte le scialuppe tranne due si erano già allontanate. A bordo rimanevano ancora più di millecinquecento persone. Alcuni passeggeri tentarono di assaltare le ultime lance e il quinto ufficiale Lowe si vide costretto a sparare alcuni colpi di pistola in aria per allontanare la folla. Anche il commissario di bordo sparò due colpi d’amara da fuoco in aria, mentre Murdoch sventava i continui assalti. Era il caos. E più il tempo passava, più la situazione sarebbe peggiorata.
L’orchestra era fuori, sul ponte lance, e continuava a suonare imperterrita. Li invidiai. Avevano un’aria così calma e rilassata. Solo dopo mi resi conto che mi sbagliavo. Non erano affatto rilassati, era rassegnanti.
La poppa era quasi totalmente sommersa, e la nave si stava sollevando pericolosamente sulla linea dell’acqua. Sentii qualcuno urlare, sostenendo di vedere perfino le eliche.
Erano le due e dieci di mattina quando la poppa si sollevò al punto di formare un angolo di trenta gradi con la superficie del mare, stagliandosi contro il cielo stellato. La forza terrificante generata dall'emergere dello scafo provocò lo schiacciamento della chiglia e la dilatazione delle sovrastrutture, che portarono lo scafo quasi al punto di rottura. La ciminiera di prua si staccò poco dopo, mentre l'acqua ruppe i vetri della cupola e inondò lo scalone riversandosi nella nave.
Successivamente, tutte le luci della nave si spensero e si udirono rumori cupi di "strappi e fratture", come se le caldaie e le macchine si fossero staccate dalle loro sedi precipitando in avanti. Era un pianto straziante. Era come se l’intera nave stesse piangendo la sua morte. La poppa sembrò improvvisamente ruotare e precipitare in mare, evidente segno che lo scafo si era spezzato in due tronconi.
― Bella, scavalca! ― urlò Edward, mentre la situazione stava diventando sempre più drammatica ― Dammi la mano, coraggio!
― Non ce la faccio. ― sussurrai ― Se mi muovo, cadrò.
― Ti tengo io, Bella. Fidati di me. ― affermò deciso, ed incrociai i suoi occhi. Afferrai la sua mano e mi aiutò a scavalcare il parapetto.
L'acqua penetrò all'interno della crepa di spezzamento e velocizzò l'affondamento del troncone di prua – nonostante non si fosse ancora completamente staccato dal troncone di poppa –, consentendo a quest’ultima di rialzarsi perpendicolarmente; nel frattempo la prua si staccò e si inabissò, lasciando galleggiare la poppa per qualche minuto. Dopodiché finimmo tutti quanti in acqua.
Mentre affogavo, sentendomi il corpo attraversare da miliardi di lame gelide, notai il Titanic inabissarsi sempre di più, e ancora… Finché sparì completamente nelle profondità dell’oceano. Millecinquecento persone finirono in mare, quando il Titanic sparì sotto i nostri piedi.
Riemersi qualche istante dopo, forse solo grazie al salvagente che Edward mi aveva obbligato ad indossare.
― Edward! ― chiamai, cercando di sovrastare le urla delle persone che, come me, era disperse in quelle acque gelide ― Edward?! Edward, Edward? ― continuai per interi minuti a chiamarlo, ma del mio amore non c’era alcuna traccia.
― Bella! ― sentii urlare, tra la folla.
― Edward!
― Bella, sono Angela! ― sentii rispondermi, e il mio cuore si frantumò in mille pezzi ― Bella, devi nuotare! Vieni con me, c’è Jacob lì! Vieni. ― disse, trascinandomi su un pezzo di legno piuttosto grosso.
Quando arrivai, notai che Jacob aveva tra le braccia la piccola Bianca che piangeva disperata. Suo padre era morto… Nessuno me lo aveva detto, ma lo avevo capito da sola.
― Dov’è Edward? ― domandò Jacob, battendo i denti per il freddo.
― Non lo so! Era con me quando la nave è affondata, io non…
― Non è riuscito a riemergere. ― sussurrò Jake, scoppiando a piangere ― La nave deve averlo trascinato giù con sé. ― fu allora che percepii qualcosa andare definitivamente in frantumi. Il mio cuore. Restammo tutti in silenzio, ascoltano le urla delle persone che, man mano, si spensero nelle gelide acque dell’Atlantico.
C'erano venti scialuppe nelle vicinanze, solo una di loro tornò indietro. Una. Sei persone furono salvate dall'acqua. Una di queste ero io. Sei su millecinquecento.
In seguito, le settecento persone sulle scialuppe non poterono far altro che aspettare. Aspettare di morire, aspettare di vivere. Aspettare un perdono che non sarebbe mai arrivato
.
Erano le otto di mattina quando la Carpathia arrivò sul luogo del naufragio, recuperando le settecento persone che riuscirono a sopravvivere al disastro.
Arrivammo a New York il 18 Aprile dello stesso anno, svuotati. Spaventati. Infelici.
― Il suo nome. ― disse qualcuno, accanto a me.
― Cosa?
― Il suo nome, prego.
― Masen. ― risposi di slancio ― Isabella Masen.

* * *

Tornata a New York, mi resi conto di aver passato tutto il viaggio a pensare al Titanic e, ovviamente, ad Edward. Non avevo mai parlato di lui con nessuno – eccezion fatta per le persone che lo conoscevano. Lui mi aveva salvata… In tutti i modi in cui una persona poteva essere salvata. Non possedevo niente di lui, nemmeno una foto. Ma non importava più di tanto… Il suo ricordo sarebbe sempre vissuto vivido nella mia mente, ma soprattutto nel mio cuore.
― Bella? ― mi sentii chiamare, e mi direzionai verso quegli occhi scuri.
― Ciao Jacob.
― Com’è andato il viaggio?
― Piuttosto bene, grazie. ― risposi, dandogli il mio piccolo bagaglio ― Angela ha combinato qualche danno, in pasticceria?
― Ovviamente! ― rispose, scoppiando a ridere ― Ma ho pensato a tutto io.
― Non è carino prendere in giro una donna incinta, lo sai? ― lo stuzzicai, salendo in macchina.
― Beh sì, se l’ho messa incinta io. ― rispose, scoppiando a ridere ― Comunque c’è una visita per te, a casa.
― Chi? ― domandai, ma non mi rispose.
Almeno una cosa l’avevo ottenuta: la mia pasticceria a New York.
Non seppi più nulla della mia famiglia, né di Mike. Lessi sui giornali di quel periodo che, nel disastro, morirono sia il capitano Smith – che decise di affondare con la sua nave –, che il signor Hale. Non seppi più nulla nemmeno della famiglia Cullen… Tuttavia, dovevo aspettarmelo. Loro erano ricchi io, invece, non più.
― Siamo arrivati, Bella. ― disse Jake, aprendomi la portiere dell’auto ― Vai, corri! ― feci quello che mi aveva detto e, inaspettatamente, trovai nel piccolo salone proprio Carlisle.
― Signor Cullen? ― lo chiamai, incredula ― Cosa ci fa qui? Sono dieci anni che non la vedo. È salvo? Ed Emmett?
― Purtroppo sono sopravvissuto solo io. ― rispose, notando un velo di tristezza nei suoi occhi ― E mia moglie, con le mie figlie. ― disse, indicando Esme, Alice e… Rosalie, sedute sul modesto divano verde.
― Cosa vi ha portato nella nostra umile dimora?
― Presumo io. ― sentii dire ad una voce alle mie spalle.
Era impossibile. Doveva essere impossibile.
Mi voltai piano, ritrovandomi due pozze verdi liquide davanti agli occhi. Mi mancò il fiato, mentre il cuore cominciò a galopparmi nel petto.
― Edward… ― sussurrai, avvicinandomi piano ― Ma come… Tu sei…
― È un miracolo, amore mio. ― disse, stringendomi a sé ― Mi hanno ritrovato privo di sensi, non so nemmeno io come sono sopravvissuto. Per anni sono stato in un letto di ospedale, devi ringraziare Carlisle che ha pagato tutte le cure.
― Sei vivo. ― continuai a ripetere, stringendomi spasmodicamente a lui.
― Sì, sono vivo, amore mio. E ti amo. ― sussurrò, a pochi centimetri dalle mie labbra ― Ti amo come allora, forse anche di più. ― e mi baciò.
Il bacio fu esattamente come lo ricordavo: passionale, dolce, eterno. Avevo milioni di domande in testa: perché avesse aspettato dieci anni prima di tornare da me, perché nessuno mi venne a dire che era salvo, come avesse fatto a trovarmi…
― Non capisco. ― sussurrai, ridendo isterica ― Dove sei stato in tutto questo tempo? Perché non mi hai cercata prima? Non…
― Posso spiegarti io, Isabella. ― si intromise Carlisle, gentilmente. Annuii, senza staccarmi un attimo dall’uomo che amavo, che avevo sempre amato ― Ho trovato Edward solo un paio d’anni fa, in un ospedale della Nuova Scozia. Non ricordava nulla… Decisi di prendermi carico delle sue spese sanitarie, perché Esme lo riconobbe. A fatica – molti, addirittura, sostengono tutt’oggi, per miracolo – recuperò i suoi ricordi. Ti abbiamo cercata dappertutto, per molto tempo, ma nessuno sapeva dove tu fossi finita. Nemmeno tua madre…
― Mia madre? ― chiesi di getto ― È viva?
― Sì, anche tuo padre e Mike. ― rispose, e notai i suoi occhi colmi di rabbia. Evidentemente, erano riusciti a pagare qualcuno per la loro salvezza. A differenza loro, Emmett non era così abbietto.
― Ci avevano detto che eri morta, Isabella. ― disse Esme ― Che non vi era nessuna Isabella Marie Dwyer Swan tra i superstiti di prima classe, né tra quelli di terza.
― Ho cambiato cognome. ― sussurrai, voltandomi verso Edward ― Diedi il tuo. Era l’unica cosa che mi restava.
― Ti amo. ― sussurrò, stringendomi a sé ― Abbiamo una vita da recuperare. Siamo insieme, adesso. E nessuno potrà più separarci.
― Ti amo anche io. ― risposi, abbracciandolo ancora più forte ― Adesso e per sempre. ― ed era vero. Niente ci avrebbe più divisi. Mai più.

La vita con Edward fu esattamente come l’avevo sempre immaginata e, forse, anche meglio di ogni più pazzesca fantasia. Ero felice, adesso. Possedevo tutto ciò che avevo sempre desiderato. Avevo trovato il mio posto nel mondo, trovando serenità nella miseria.

Non dimenticai mai il Titanic. Quell’accaduto segnò molte persone, molte vite… Causò la fine di un’epoca, il sogno infranto della Belle époque. L’affondamento del Titanic, passò allo storia come la tragedia più grande di tutti i mari.

Molte cose cambiarono dopo il 15 Aprile 1912, ma la coscienza collettiva avrebbe sempre ricordato quella nave, quella disgrazia, e i suoi passeggeri… La gente potrebbe trovarla noiosa, ripetitiva, come frase, ma io avrei sempre continuato a pensarla in quel modo: non si può capire il Titanic vivendolo con razionalità, lo si può capire solo vivendolo col cuore. Sarebbero potuti passare decenni, secoli, millenni… Ma se qualcuno mi avesse chiesto di tornare su quella nave, la mia risposta sarebbe sempre la stessa. Sarebbe sempre stata sì.

* Le parti in corsivo - eccezion fatta per i pensieri di Isabella e alcune parole - sono prese da film Titanic, di James Cameron.

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Se qualcuno di voi se lo sta chiedendo, perché non lo sapesse... Sì, le persone in terza classe vennero realmente rinchiuse nel loro settore per poter permettere alla prima e alla seconda classe di avere più possibilità di salvezza.
In questa piccola storia, non mi sono solo ispirata alla storia d'amore di Jack e Rose - che tra l'altro è stata ispirata a Cameron dal racconto di una storia realmente accaduta, lui ci ha solo messo del suo -, ma soprattutto è stata scritta per riflettere e ricordare le innumerevoli vittime di quella tragedia.
Jasper Hale Jr = Thomas Andrews Jr.: costruttore navale della Harland e Wolff, di Belfast. Fu realmente un passeggero del Titanic e morì nel disastro. Secondo le testimonianze non tentò nemmeno di salvarsi.
Eric Yorkie = Bruce Ismay: imprenditore britannico. Realmente passeggero sulla nave, per il suo viaggio di inaugurazione. Diedi lui il nome "Titanic". Sopravvissuto.
Esme Cullen = ispirata a Margaret "Molly" Brown: fu ribattezzata l'inaffondabile Mollt Brown. Anche lei, realmente esistita sul Titanic, e sopravvissuta alla vicenda.
Edward Smith: il capitano del Titanic. Affondò con la sua nave.
Citati nella storia altri personaggi realmente esistiti, quali: Benjamin Guggenheim, Sir Cosmo Duff-Gordon e sua moglie, la contessa Lady Lucille Duff-Gordon, John Jacob Astor.
Tutti gli altri sono personaggi di proprietà di Stephenie Meyer, che ho utilizzato per un creare un filo conduttore con la storia.


Grazie a tutti per aver letto.

15 Aprile 1912

15 Aprile 2012

PER NON DIMENTICARE,
MAI.

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