Starships

di Lilmon
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Invasore ***
Capitolo 2: *** Io ***
Capitolo 3: *** Casa ***
Capitolo 4: *** Ombre Cinesi ***
Capitolo 5: *** Δίκη ***
Capitolo 6: *** Attrazione ***
Capitolo 7: *** Cuore D'Ambra ***
Capitolo 8: *** Addestramento ***
Capitolo 9: *** Doppelgänger ***
Capitolo 10: *** Allegoria ***
Capitolo 11: *** Cavallo Di Troia ***
Capitolo 12: *** Res Publica? ***
Capitolo 13: *** Bionic ***
Capitolo 14: *** Belve ***
Capitolo 15: *** Morte ***
Capitolo 16: *** Fin ***
Capitolo 17: *** Extra 1 - Epitaph ***
Capitolo 18: *** Extra 2 - Capsula Del Tempo ***



Capitolo 1
*** Invasore ***


Ciao! Mi chiamo Emanuele ed ho 17 anni, è la prima volta che scrivo su questo sito; non sono mai andato bene in Italiano però era da un po' che volevo dar vita ad una mia storia con dei miei personaggi, e credo di essere sulla buona strada. Spero che l'episodio vi piaccia, e se sarà così ci vedremo al prossimo capitolo, altrimenti, chissà, alla prossima storia!
 
Invasore.
 
 
"Chi è l'invasore? L'invasore è un personaggio ostile, malvisto da qualunque popolazione. Giunge sulla terra degli altri, imponendo il suo potere e sottraendo ogni possibile bene riutilizzabile. L'invasore è crudele, l'invasore è un mostro."
 
 
Il Consiglio aveva deciso di spostare la battaglia dal Pianeta Madre al satellite più interno, cosicchè gli invasori fossero spinti su un pianeta a loro ostile e deserto. Ci erano volute dodici giornate di combattimento per far retrocedere i due battaglioni nemici dai cieli della capitale Rougen fino all'atmosfera del satellite, ma alla fine ottenemmo la loro ritirata. Pur avendo combattuto per tutte e dodici le giornate del conflitto, non avevo ancora mai visto in faccia quelle strane creature, esse infatti erano interamente coperte da buffe tute di colore giallastro scuro, il colore di alcuni minerali che compongono le sabbie del grande deserto di Dubhar. Sul capo, quegli esseri, avevano come dei caschi con la visiera scura, credo per contrastare i raggi luminosi del Dio Mur, con una lunga antenna nera, di cui non conoscevo la funzione. Quando mi arruolai nell'esercito di sua eccellenza il Gran Cancelliere Lian, avevo pressappoco passato le due rivoluzioni; ero ancora molto giovane e pieno di vitalità, avrei voluto viaggiare in lungo e in largo per ammirare le meraviglie di questo mondo. Ero molto ingenuo. Credevo infatti che l'esercito mi avrebbe garantito innanzitutto una buona e solida educazione e poi l'occasione di vedere ed ammirare posti inimmaginabili. Stolto. Ciò che ottenni fu solamente una faticosa e mera vita di allenamenti interminabili e di dure percosse. Non nego però che tutto ciò che passai all'accademia militare mi portò ad un grande sviluppo muscolare del corpo e delle facoltà motorie; e furono proprio queste caratteristiche a salvarmi nella battaglia di Rougen.
Era il dodicesimo giorno d'assedio e stavo camminando per una viuzza desolata della città, dove la battaglia sembrava essere solo una lieve eco lontana, intangibile e non una tragedia sanguinosa e fatale; i miei compagni di camerata non erano con me, c'era stata assegnata la ricognizione del distretto nord-est e dunque ci eravamo divisi per meglio sorvegliare la zona. Mi ero allontanato un po' troppo, arrivai infatti al tempio del Monte Poun, più una collina che un vero monte, ma gli abitanti del distretto stravedevano per questo luogo sacro affibbiandogli così la denominazione di monte. Il Monte Poun aveva in cima un tempio dedicato al culto del Dio Mur, unico e solo Dio del mio popolo; vi entrai. Appena entrato sentii il tipico odore dell'incenso che bruciava sul bianchissimo altare in fondo alla sala, e così nel silenzio (forse il primo vero silenzio che sentivo in dodici giorni di scontri armati) mi misi ad ammirare i meravigliosi affreschi, le grandiose statue e gli spigolosi ed arzigogolati intarsi di quel luogo. Ammaliato da quelle splendide visioni non mi accorsi subito che in un angolo, rannicchiata, giaceva una piccola e rachitica figura, che, non appena mi avvicinai, non tardò a balzarmi addosso assalendomi, avvinghiandosi a me coi suoi grossi piedi e urlando con disperazione -Invasore eretico! Maledetto profanatore! Ti pentirai di essere entrato nella casa del grande Mur!-. Questa focosa figura non era nient'altro che il sacerdote del tempio che mi aveva scambiato per un Rosa e aveva tentato di difendere le sue preziose reliquie. Calmatosi ed accortosi del suo errore mi chiese scusa più volte e mi invitò ad accomodarmi; io accettai. Parlai molto con quel vecchietto, mi raccontò quanto fosse diventata dura la vita da sacerdote perchè le affluenze al tempio erano drasticamente diminuite e dunque le offerte votive con esse; nelle sue parole riconobbi anche un aspro parere sulla guerra, come una giusta punizione del Dio Mur per le anime impudenti dei fedeli che preferivano "stare a casa a logorarsi di vizi e lussi effimeri, piuttosto che purificarsi al tempio". Verso sera mi congedai dal sacerdote (di cui tuttora mi sfugge il nome) e ritornai sui miei passi. Procedetti in fretta, ero in ritardo, e giunsi presto al punto di incontro con i miei compagni: non vi era anima viva. In quei pochi secondi che il mio cervello elaborò l'informazione dei miei occhi, sentii una fredda sensazione dietro la nuca, era un'arma, qualcuno mi stava puntando un'arma alla testa. Pochi istanti, in pochi infinitesimali istanti i miei muscoli iniziarono a contrarsi per sfuggire a quel tocco gelido, e subito mi ritrovai piegato e rigirato verso il nemico ancora incredulo della mia velocità. Era un Rosa. Il tempo in cui me ne accorsi bastò per estrarre l'arma ed uccidere il nemico, -Mira alla testa!- questa la tecnica suggerita dai comandanti, e così la sua visiera si infranse sotto l'impatto del colpo. Quella visione la ricorderò per sempre. Il Consiglio non aveva avuto tempo di capire e calcolare le mosse del nemico, non aveva nemmeno avuto tempo di studiarlo, ci era stato detto il loro nome, i Rosa, ci era stato detto che molto probabilmente venivano dal nostro stesso sistema planetario e ci era stato detto che erano bestie: volevano sterminarci, volevano le nostre risorse, volevano la nostra terra, volevano le nostre donne. Bene, il Consiglio aveva ragione! Il mostro che io vidi quel giorno, il demone nefando che mi fissò, morente, quel giorno io non potrò mai dimenticarlo. La pelle rosa chiara, liscia, flaccida, priva di qualunque difesa; quella protuberanza cartilaginosa in mezzo al volto; quegli occhi vitrei, atti a succhiarti l'anima; quella bocca, antro umido e mucoso, dotato come di un verme divoratore e strangolatore; ma più di tutto quel liquido rosso che dalla testa sgorgava fin sul collo; tutti questi elementi avrebbero fatto dei Rosa il mio incubo, l'incubo di tutto il mio popolo, l'incubo dello stesso Pianeta Madre.

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Capitolo 2
*** Io ***


Ciao! E così state leggendo il fatidico secondo capitolo (dico così perchè per la sua realizzazione ho dovuto cambiare la trama una decina di volte), sono contento! Ma bando alle ciance, in queste poche righe vorrei spiegarvi com'è strutturato l'esercito del Pianeta Madre. Al vertice si trova il Gran Cancelliere Liam, che detiene il comando dell'esercito affiancato dal Consiglio dei Cento. Subordinati ad essi sono gli Ammiragli delle navi, con i loro sottoposti Contrammiragli. Sotto a costoro infine ci sono i Comandanti; in battaglia però vi è un unico comandante a cui tutti gli altri, di norma ad un pari livello, sono subordinati; costui prende il nome di Comandante Scelto. I soldati semplici sono smistati (secodno capacità fisiche ed intellettive) in quattro divisioni: le Avanguardie, gli Incursori, la Sicurezza e le Retrovie. Ci sono inoltre tre divisioni speciali che fanno uso di mezzi di trasporto bellici: i Raiders, divisione speciale di terra; i Jumbo, divisione speciale d'aria; i Meltin, divisione speciale di mare.
 

Io.
 
 
"Nei tempi più remoti il padre di tutti gli uomini, Giove, si innamorò della sacerdotessa Io. Costei infatti era solita recarsi alla reggia divina sulla cima del Monte Olimpo, per incontrarsi con la saggia e onnisciente Giunone, sua precettrice. Il padre degli uomini si innamorò presto di questa bellissima fanciulla e, avendola rapita, la nascose in una nube d'oro, affinché nessuno potesse farla propria. Migliaia di anni dopo, su Io, satellite gravitante attorno al pianeta Giove, due popoli avrebbero dato avvio alla Grande Guerra."
 
 
Il cadavere era ancora steso davanti a me quando i miei amici arrivarono, si erano incontrati a metà del viale alberato che portava alla piazza e lì, vicino alla fontana della Concordia, si erano fermati a riposare; uno di loro aveva dovuto affrontare tre Rosa, ma ne era uscito praticamente indenne. Alla vista del corpo tutti e tre inorridirono. Spiegai loro ciò che era successo e mi guardarono increduli. Syr, il più anziano (con cui non andavo molto d'accordo), disse -Hai avuto una bella fortuna ragazzo! Per avere poca esperienza sei stato bravo!-, mentre i due fratelli si guardavano l'un l'altro stupiti dalle parole del vecchio. Ringraziai. Jubatar (che d'ora in poi chiamerò Jub) chiese a suo fratello Lavhii che ora fosse e questi rispose che erano quasi le sette. Capimmo tutti che il convoglio sarebbe presto giunto per portarci alla stazione di decollo, in quelle poche ore rimanenti infatti sarebbe scoppiata la controffensiva che il Consiglio pianificava con il Gran Cancelliere ormai da dieci giorni: i Rosa dovevano essere spinti inizialmente al centro della capitale di Rougen, dove erano atterrati dodici giorni prima; là poi i Raiders avrebbero pensato a decimare le loro fila, costringendoli ad un decollo di fortuna. Noi della divisione sicurezza dovevamo imbarcarci e partire per la prima orbita.
Il convoglio arrivò a recuperarci alle sette in punto e ci portò nella caserma militare del distretto est della città. Mangiammo in silenzio. La tensione si percepiva persino a livello visivo: funzionari correvano avanti e indietro per i corridoi della struttura e meccanici logori e sudici spossati dal duro lavoro non avevano nemmeno il tempo di riposare. Syr fu il primo ad alzarsi -Vado a prepararmi- disse -manca poco alla morte di quei vermi- e sputò per terra il cibo che gli era rimasto in bocca. Quando si era allontanato, prese parola Lavhii dicendomi -Syr non imparerà mai la buona educazione... Ora andiamo anche noi, non voglio essere la causa del fallimento della missione-. Quando giungemmo in stanza, Syr era già pronto, noi ci cambiammo in pochi minuti. Il primo battaglione della divisione sicurezza era così riunito e armato fino ai denti; il nostro compito? Affiancare il comandante come ombre e proteggerlo.
Appena usciti dalla stanza, sentimmo la chiamata -A tutti i soldati delle divisioni designate, recarsi alla piattaforma di lancio 3A, ripeto, recarsi alla piattaforma di lancio 3A. Dieci minuti alla partenza, destinazione prima orbita, ammiraglio della nave: sua eccellenza Byar Grande, comandante scelto delle divisioni: Sylen Grande-. Ci recammo senza esitazione alla Stealt. La Stealt era il modello di nave militare più grande in dotazione all'esercito, poteva contenere cinquemila uomini tra soldati e inservienti, era poi dotata di cannoni su entrambi i lati e di due navicelle di salvataggio. Queste imponenti navi potevano superare di quattro volte la velocità del suono. In questo caso però la Stealt era stata allestita in tutta fretta e dunque non era pronta ad un combattimento in orbita, ecco perchè i Rosa dovevano essere annientai sul primo satellite dalle milizie terrestri dell'esercito, che, come noi, in quel momento si stavano imbarcando.
Saliti a bordo della Stealt, raggiungemmo subito la sala comandi dove l'ammiraglio Byar stava riferendo a suo fratello, il comandante scelto Sylen, gli ordini giunti direttamente dal Consiglio. -Mentre stiamo parlando- disse l'ammiraglio -i Raiders staranno già decimando quei bastardi costringendoli al decollo-, il comandante lo interruppe subito domandando -Dispongono di due navi 
vero?- e il fratello rispose -Esatto. Appena giunti i loro due battaglioni contavano settemila uomini, tutt'ora si stima che i superstiti ammontino a circa cinquemila unità. La nostra missione si dividerà in due parti: io sposterò la battaglia dallo spazio al primo satellite; una volta sbarcati, tu e i tuoi uomini dovrete annientarli. Su quel pianeta deserto potrete usare tutti i mezzi a vostra disposizione, senza alcun ritegno. Il Consiglio spera vivamente che tu possa concludere tutto in una giornata-. Sylen, sprezzante, rispose -Senza i civili d'intralcio mi basteranno tre ore-.
Avevamo assistito alla scena in silenzio, fuori dalla porta della sala comandi; Syr, schiarendosi la voce, prese la parola ed azzardò -Col permesso di sua eccellenza; primo battaglione della divisione sicurezza signore, siamo qua per salvaguardare la sua vita, anche a costo della nostra-. Il comandante borbottò stizzito -Ah! E così il Consiglio crede che io ormai sia così vecchio da non poter più badare a me stesso, mandandomi qui questi sbarbatelli; Bene! Su andate, fate aria!-. Ammutoliti, non potendo fare altro, lasciammo quella stanza per dirigerci al ponte da cui saremmo dovuti sbarcare una volta atterrati.
La nave decollò senza troppi intoppi, d'altronde l'ammiraglio Byar era famoso per la sua bravura e destrezza con qualunque modello di nave spaziale, e, senza neanche essercene resi conto, eravamo già nei pressi della prima orbita, in vista del satellite. Le navi dei rosa sarebbero dovute arrivare da lì a momenti. Stavo sistemando la borraccia nello zaino quando Jub gridò -Eccole!-. All'orizzonte si vedevano due navi, di medie dimensioni, non avendone mai viste di così bizzarre pensai fossero dei Rosa. La mia ipotesi venne confermata quando iniziarono a far fuoco sulla Stealt. Mentre la battaglia s'infiammava, giunse sul ponte il comandante che procedette subito ad un appello delle truppe -Dunque dispongo di quattromila unità. Tremila incursori e circa mille avanguardie. Poi ho il primo battaglione della divisione sicurezza ad intralciarmi i piedi-. Rapido, con gli occhi, cercò tra la folla le divise dell divisione sicurezza e, scorgendoci, aggiunse  -Voi, venite qua!-. Ci avvicinammo. -Io sarò pure stato costretto a farmi guardare le spalle da voi, ma vi avverto, mettetemi i bastoni tra le ruote e vi considererò come dei pezzenti Rosa. Chiaro?-. Il comandante Grande era famoso sia per la sua grande forza, che quanto a freddezza e spietatezza; lui e suo fratello formavano "La Coppia Invincibile", e proprio per questo il Consiglio aveva puntato su di loro per questa missione. Quando poi i Rosa furono costretti a ripiegare sul satellite e tutti si prepararono allo sbarco, Sylen ci incitò così -Non concedo a nessuno di morire. Ognuno di voi dovrà portarmi almeno due teste di quei fottutissimi Rosa, poi potrà decidere di crepare in santa pace. Andiamo!-. Salimmo sulle navette di sbarco che ci portarono di fronte alle navi nemiche, da quella postazione potevamo già scorgere i Rosa. Erano molti meno di quello che sapevamo dalle informazioni del Consiglio e sembravano demoralizzati e spossati. Il comandante rideva (ricordo che rideva a gran voce e di gusto, e più rideva, più m'inquietava l'animo) e le milizie contavano di sbrigarla in poco tempo per poter ritornare sul Pianeta Madre il prima possibile. Così la battaglia iniziò. Una mezz'ora dopo l'inizio dello scontro eravamo già in discreto vantaggio, anche perchè potevamo finalmente utilizzare le armi pesanti e a lunga gittata; avremmo quindi vinto in due orette, ma la terrà iniziò a tremare. Il primo satellite era sempre stato famoso per la forte attività vulcanica del suo sottosuolo ed era stato scelto come punto decisivo della guerra anche per quel motivo. In pochi minuti tutto esplose con un fragore infernale. Mi risvegliai molto lontano da dov'ero prima dell'esplosione, tutt'intorno a me non riuscivo a scorgere nulla per via delle esalzioni di zolfo che avevano riempito l'aria di fumo giallo denso ed irrspirabile. Inoltre la terra sotto i miei piedi era bollente e spesso lasciava il posto a pozze di magma bollente. Il mio braccio sinistro era in condizioni pessime, ero stato fortunato. Cercai Jub, Lavhii e Syr ma nulla; più gridavo i loro nomi, più il silenzio intorno a me si faceva pesante. "Forse" pensai "sono semplicemente stordito, forse non sono davvero tutti morti!". Sentii dei passi, le sofferenze del mio animo svanirono, ero così felice che qualcuno fosse rimasto in vita. Dovevo essere davvero stordito per non accorgermi che quello ritto davanti a me non era un mio compagno, bensì un Rosa, che accortosi della mia presenza mi stava puntando il fucile in pieno petto. -Stupido ragazzo!- e il Rosa crollò in ginocchio. Era Syr, che avendomi sentito gridare aveva proceduto in direzione del suono della mia voce e mi aveva così salvato la vita. Dopo quegli attimi di disperazione in cui avevo creduto di morire, gli saltai addosso felice di vederlo, non pensando a tutte le scaramucce che avevamo avuto in passato. -E sta calmo! Ne hai ancora di cose da imparare!- mi disse. Ci mettemmo sulle tracce degli altri. Arrivammo al cratere, epicentro dell'eruzione, da dove la lava continuava ad uscire a fiotti. C'erano cadaveri dappertutto, di entrambe le fazioni. Mi rivolsi a Syr, incredulo -Credi che Jub e Lavhii possano essere ancora vivi?-, e lui rispose -Lo spero figliolo, lo spe-. Un colpo. Sentii la faccia umida, era sangue. Era il sangue di Syr quello che mi scorreva in faccia. La sua schiena si incurvò e io me lo ritrovai addosso, morente. Dalla sua bocca uscivano gli ultimi rantoli. Credo che in quel frangente il mio corpo agisse per istinto e, mentre il mio pensiero era assente e lontano, presi l'arma di Syr e giustuziai il porco Rosa che aveva ucciso il mio compagno. Piangendo crollai in ginocchio, con in braccio il corpo morto del mio ex-compagno di camerata.
Il mio odio verso i Rosa era divenuto il mio credo; distruggerli, annientarli, cancellarli dall'universo, io ero nato per questo.

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Capitolo 3
*** Casa ***


Ciao! Questo capitolo... Beh se volete potete saltarlo. E' molto artificioso e mentre lo scrivevo pensavo solo al prossimo capitolo, il quarto. Aspettatevi un quarto capitolo sorprendente e un terzo molto scadente (ma necessario, quanto questa inutile rima). Grazie ancora per leggere le mie fantasticherie! Al quarto!
 
 
Casa.
 
 
"Un militare ed un biologo, due spiriti completamente differenti, in due mondi completamente differenti. Seicento migliaia di milioni di chilometri non basteranno mai a separare un destino comune. Due corpi, una sola anima."
 
 
E così stavo ormai per abbandonare il mio pianeta natale, la mia amatissima Terra, che mi guardava attraverso i vetri panoramici della Imperial quasi dicendomi "Arrivederci!". Erano stati duri gli ultimi decenni, ed allontanarmi proprio in quel momento di crisi, mi pareva una sorta di tradimento nei confronti delle mie origini, del mio popolo; quando si ha un problema, si deve restare per cercare di risolverlo, e non scappare lasciandosi tutto alle spalle. Ma quella fu la mia decisione: partrire per Giove.
Verso l'inizio del XXIII secolo la popolazione sul pianeta aveva sfiorato i dieci miliardi di abitanti e la Lega Mondiale (al cui vertice in quei decenni c'erano U.S.A., Arabia Unita e Cina) aveva pensato ad un progetto di colonizzazione della Luna per diminuire la concentrazione di uomini sulla Terra, spropositata rispetto alle risorse disponibili sul pianeta. Questo progetto non riscosse molto successo tra i massimi scienziati, a cui sembrava più uno stupido sogno infantile che una concreta soluzione al problema del sovrappopolamento. Quando s'accese questo dibattito sul come e sul se trasferire alcuni uomini sulla Luna, io avevo solo sedici anni ed ero del tutto disinteressato verso questi aspetti della politica del mio paese. Essendo nato ed avendo sempre vissuto in un paesino di campagna in Texas, disperso nel nulla, ero cresciuto senza troppi contatti con il modo di vivere moderno e frenetico tipico della East Coast; ero solo un ragazzino a cui piaceva andare in bicicletta coi suoi amici, giocare a pallone e magari allevare qualche pesce o qualche rana pescati in precedenza chissadove. In quegli anni in cui andavo al liceo, una volta abrogato il progetto dell'esodo lunare e poichè il capitale destinato alla sua realizzazione era già stato investito, sulla faccia della Luna non visibile dalla Terra venne costruita un'imponente stazione militare di lancio dei mezzi spaziali; questo perché, essendo l'attrazione gravitazionale minore sul satellite, le navi decollano con maggiore facilità. Appena ultimata la costruzione, v'era da risolvere il problema di approvvigionamento dell'energia necessaria al corretto funzionamento degli apparecchi elettronici. Infatti, mentre i viveri e l'acqua potevano essere inviati sul satellite ogni tre mesi, per l'energia elettrica invece era impensabile questa soluzione. Venne così installato sulla faccia lunare che ci appare tutte le sere, meravigliosa, come una goccia di rugiada nel cielo notturno, un enorme numero di pannelli fotovoltaici al silicio. Se infatti si osserva bene la Luna con un cannocchiale in una sera in cui il cielo non sia troppo coperto, si possono distinguere gli impianti di pannelli che paiono delle "macchie" scintillanti. La base di lancio era un enorme edificio bianco di quattro piani, era dotato di dieci torrette di controllo ed altrettante piste di decollo ed atterraggio. Tra gli stati della Lega Monsiale, gli U.S.A. destinavano alla stazione dieci miliardi di dollari circa ogni trimestre, Cina e Arabia Unita circa venti miliardi a testa. Dalle piste partivano tutte le spedizioni spaziali, sia quelle militari che quelle per la ricerca. 
Mi ricordo ancora la prima missione a partire dalla base lunare. Era il 2207, erano passati cinque anni dall'inizio dei lavori sul satellite ed io, ormai studente universitario di biologia, ero maturato molto e mi ero trasferito a Chicago. Lì vivevo in un alloggio in affitto, con tre coinquilini, tutti molto simpatici; all'inizio dell'estate trovai anche una ragazza, bruna, alta e molto spigliata. La conobbi in una discoteca un sabato sera, era l'amica di un'amica di Matt (un mio coinquilino). Un drink, poi due e poi ancora. La mattina dopo mi risvegliai nudo nel mio letto, lei al mio fianco. Ci stetti insieme per sei mesi, poi lei partì per l'Europa, non so cosa l'attirasse in quel paese povero, ma sicuramente qualcosa più importante della mia persona. Due giorni dopo la sua partenza, il 21 novembre 2207, sentii al telegiornale che le tre Colonial (Nina, Pinta e Santa Maria in onore di Colombo, da cui la stessa missione prese il nome, Columbus) erano partite dalla stazione lunare per il "Pianeta Rosso". Mi ricordo di questa notizia, perchè tutti erano eccitati ed esaltati da quello che si prospettava essere l'inizio della colonizzazione del sistema solare. L'uomo aveva però già messo piede svariate volte su Marte, la prima nel lontano 2028 e l'ultima quasi duecento anni dopo, nel settembre 2205, ma tutte le spedizioni precedenti erano state di ricerca biologia o geologica. Dopo che infatti il progetto di colonizzazione della Luna era stato abbandonato, si spostò subito l'attenzione su Marte. Esso era dotato di un atmosfera (anche se scarsamente ossidante) e ai poli vi era presenza di ghiaccio. La colonizzazione di Marte sembrava poter non essere solo più un sogno irrealizzabile, ma un obbiettivo realmente raggiungibile. Venne così organizzata nel 2205 la spedizione (quella precedente a Columbus) denominata Chora; partirono per Marte un'equipe di piu di mille ricercatori tra cui botanici, biologi e geologi, e più di duemila operai. Questa missione fu la prima organizzata al fine di importare la vita su un altro pianeta. Si l'uomo, dopo aver distrutto quasi completamente il pianeta di cui era ospite, non avendo imparato nulla dalle proprie stupide azioni, ora si divertiva a gicare a fare Dio, portando rovina su un altro pianeta. Insomma, Chora consisteva nel trapianto di forme di vita vegetale create a tavolino in laboratorio, le ossigere, che consumassero i gas presenti nell'atmosfera marziana ed acqua, per poi liberare ossigeno. Per poter raccogliere l'ossigeno prodotto dalle piante, innanzitutto fu progettata e costruita la prima C.A.A. (Capsule for Artificial Atmosphere): un'enorme cupola di una speciale lega vitrea flessibile e allo stesso tempo resistentissima. Una volta ultimati i lavori, il terreno circoscritto da quest'enorme cupola venne bonificato, creando anche degli enormi bacini idrici sotterranei, delle vere e proprie falde acquifere artificiali. Quando gli operai ebbero portato a termine il tutto, entrarono in gioco i botanici: essi piantarono le ossigere. A distanza di due anni dalla partenza delle tre Colonial, sulle stesse due piste di decollo (quasi come un rito scaramantico) vennero preparate tre Imperial: trentamila famiglie stavano per lasciare il proprio pianeta madre per trasferirsi su Marte, lì avrebbero costruito una seconda C.A.A. per il trasferimento di altrettante famiglie. Questo progetto, chiamato New World, sarebbe dovuto durare cent'anni ed avrebbe visto il trasferimento sul Pianeta Rosso di circa un milione e mezzo di famiglie. Come potete capire, era una vera e propria follia. Trentamila famiglie costrette a vivere sotto una cupola trasparente, costrette a lavorare e faticare dentro tute spaziali costrittive, costrette a razionare cibo ed acqua, costrette a respirare un'atmosfera finta, lontane da casa, vivendo di una vita artificiale, di una vita fasulla... A distanza di tre mesi dalla partenza dei primi nuclei familiari, arrivò la notizia della conclusione della seconda C.A.A. e con essa la richiesta di rifornimento di cibo ed acqua. Ogni tre mesi infatti due Colonial partivano dalla stazione lunare per dirigersi su Marte e rifornire di viveri i coloni marziani. 
All'anno per questo progetto venivano spesi dalla Lega Mondiale duecento miliardi di dollari, dollari che provenivano dalle tasche dei cittadini. La popolazione presto insorse. I problemi di sovrappopolazione non erano infatti stati risolti, e nel giro di pochi anni le spese per il mantenimento di New World erano divenute insostenibili, una pazzia. I tre vertici della Lega Mondiale furono presto presi d'assalto dai media di ogni paese e l'Europa fece appoggio su tale questione per risollevare il prestigio politico perso negli anni. Con la crisi economica del XXI secolo e il crollo della borsa, gli stati europei si erano infatti riuniti tutti in un'unica federazione e l'Europa, da semplice organismo unicamente economico, era divenuto un vero e proprio stato. Ma il governo europeo non riuscì a saldare i debiti internazionali degli ex-paesi membri, e la crisi sembrò insormontabile. Così dal XXII secolo l'Europa entrò a far parte del terzo mondo, lasciando spazio sul mercato internazionale a nuove potenze emergenti come la Cina e l'Arabia Unita (nata dall'unificazione della Penisola Arabica, con capitale Dubhai). Poichè l'economia era vacillante anche negli altri paesi, il 2 febbraio 2156, questi due stati decisero assieme agli U.S.A. di unirsi in una confederazione, che venne chiamata Lega Mondiale. Al vertice di questa potente alleanza economica vi erano appunto i tre comandanti in carica delle tre rispettive nazioni membri. Siccome dunque le risorse energetiche del pianeta si andavano esaurendo, l'Arabia Unita, maggiore esportatrice di petrolio ed uranio, avrebbe presto perso il suo prestigio all'interno della Lega Mondiale; proprio per questo quindi l'Europa stava cercando di accusare questo paese del fallimento (ormai evidente a tutti) di New World. La tensione raggiunse l'apice con l'assassinio del vertice arabo: Dubhai, centosessantesimo piano del grattacielo più alto del mondo, il Burj Khalifa, nel suo studio a seicentotrentasei metri dal suolo; uno schizzo di sangue sulla parete nord della stanza, continuo, anche sulla Primavera del Botticelli; un cadavere ripiegato su una scrivania in noce, immobile in un lago di sangue con una penna serrata nella mano destra; Ahmed Rashed Al Nahayan, emirato arabo re dell'Arabia Unita, una pallottola in mezzo agli occhi. La guerra sembrava inevitabile, caduto il terzo uomo più potente al mondo, la guerra tra U.S.A. e Cina per il controllo della Lega Mondiale sembrava alle porte. Mi viene in mente la chiamata che mia madre mi fece alla notizia della morte del copresidente arabo; era molto spaventata e preoccupata, mi chiese come stavo e quando sarei tornato a casa da loro, mi disse che il mondo stava per incorrere in una Terza Guerra Mondiale e che forse saremmo dovuti scappare in Europa, che lì avremmo comprato un terreno ed avremmo vissuto dei frutti del nostro lavoro agreste. Non potei trattenermi dal ridacchiare, la rassicurai. Molto ansiosa di risentirmi, mi salutò e ci congedammo. La guerra per fortuna non scoppiò mai, anche perchè l'Europa non ottenne il posto come terza potenza membro della Lega Mondiale. Gli U.S.A. e la Cina infatti colsero l'occasione (qualche giornalista avventato parlò persino di complotto) per escludere l'Arabia Unita, ormai senza leader (e senza più risorse energetiche) nel caos più totale, e far divenire terzo paese membro l'India. Si proprio l'India. Primo produttore di biomassa al mondo, l'India era divenuta una grande potenza economica sul mercato internazionale, ed era così stata messa sotto scacco.
Durante questo periodo di crisi interna, la Lega Mondiale abbandonò il progetto New World. Oltre ad uno stupido progetto, la Lega Mondiale abbandonò su Marte anche trentamila famiglie.
Questo vero e proprio genocidio venne oscurato con una semplice frase:"Le due C.A.A. installate sul suolo marziano sono state danneggiate da una scossa tellurica piuttosto intensa e hanno avuto delle perdite, delle trentamila famiglie su Marte nessun superstite". Il mondo intellettuale s'infiammò. Ricordo che nella mia università a Chicago, i professori bruciarono tutti i documenti inneggiando alla rivolta per la ripresa dei valori tradizionali e per la fine della corruzione dei tre vertici della Lega. La Lega Mondiale si servì di pratiche molto repressive: gli oppositori politici e gli istigatori del popolo (tra cui proprio il mio professore) vennero tutti incarcerati e fu tappata loro la bocca. Ma spesso anche il popolo si era rivoltato, in Penynsilvania ad esempio ci fu una sommossa popolare che causò la morte di migliaia di persone, tra rivoltosi e funzionari del governo. Per riconquistare la fiducia del popolo serviva agire subito.
Il pretesto arrivò da una sonda che nel 2201 era stata inviata su Giove. Essa riportava che l'atmosfera del pianeta conteneva, anche se in minime quantità, ossigeno, vi era presenza d'acqua e di forme di vita intelligenti ed evolute. Un'immagine, abbastanza sfocata, un essere verde, ritto su due zampe, che protendeva uno dei due arti verso la telecamera. Dopo l'arrivo di quell'immagine, il contatto con la sonda spaziale venne interrotto. Il mondo cadde in panico. La scoperta di forme di vita intelligenti, in più all'interno del nostro stesso sistema solare, era un sogno antico quanto l'uomo, che in quei giorni si stava trasformando in un incubo. E se gli abitanti di Giove fossero stati più evoluti di noi? Se avessero preso il nostro messaggio come un messaggio di guerra? Se avessero voluto raggiungere la Terra per eliminarci? Tutti avevano paura. Mia madre mi chiamava in quel periodo anche quattro volte al giorno. Intanto io mi ero laureato e la mia voglia di sperimentare sul campo tutto ciò che avevo imparato in sei anni di università strabordava dalle punte dei miei capelli. Quando appresi che la Lega Mondiale si era preparata ad inviare due ambascerie sul pianeta Giove, corsi ad informarmi se avevano bisogno di ricercatori a bordo. Il militare che mi ricevette mi rispose negativamente, e io tornai a casa. Dopo tre giorni, la notizia della distruzione delle ambascerie. Il panico dilagò in tutto il mondo. Uno scenario post apocalittico prese tutta la nazione: persone che assalivano negozi accaparrandosi tutti i generi alimentari a lunga conservazione possibili, autostrade intasate, pazzi che incendiavano veicoli e case. La Lega non sapeva come reagire, ma capì che questa situazione aveva cancellato dalla mente dei civili il ricordo del disastro marziano. La decisione venne finalmente presa una settimana dopo: gli U.S.A. votarono contro l'intervento armato, la Cina e l'India, sempre in accordo su qualunque decisione, votarono a favore.
Eccomi qua. 1° febbraio 2208, Sylar Hewer, 26 anni, biologo dell'Università di Chicago, che, dalla terza Imperial delle venticinque in partenza dalla stazione lunare per la guerra su Giove, saluta la sua vecchia vita, portandosi nella borsa il suo taccuino per gli schizzi e nel cuore i volti delle persone care.

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Capitolo 4
*** Ombre Cinesi ***


Wow! Quarto capitolo! Ri-wow!
Oggi spiego l'ordinamento politico di Giove (con parametri umani s'intende). Oligarchia elettiva a stampo meritocratico, Giove non vede la suddivisione dei tre poteri in tre differenti organismi. Infatti il potere legislativo ed anche quello esecutivo sono entrambi di competenza del Consiglio Dei Cento, eletto dal popolo una volta ogni rivoluzione (la "rivoluzione" è un anno su Giove ovvero 12 anni terrestri circa). Esso è costituito, appunto, da cento membri distinti in quattro gruppi: venticinque filosofi, venticinque scienziati, venticinque giuristi e venticinque strateghi. Un abitante di Giove, alle urne, vota quindi per quattro persone. Ci si può candidare a membro del Consiglio, solamente essendosi distinto all'interno della società in almeno un ambito sociale dei quattro (ad esempio in ambito scientifico o nell'esercito) e dunque avendo vinto premi o medaglie. Il Consiglio è infatti tradizionalmente costituito sempre dalle solite persone, che di fatto godono di poteri quasi illimitati. Uno di essi è il diritto (e dovere) di eleggere il Gran Cancelliere, che ha carica vitalizia e detiene, insieme al Consiglio stesso, il comando dell'esercito. Una volta morto un Gran Cancelliere, il Consiglio designa un Ammiraglio come nuovo Gran Cancelliere. Infine il potere giudiziario è affidato alle varie corti, subordinate ai Dieci Saggi: dieci grandi giudici, eletti dal popolo ogni rivoluzione, che regolamentano la procedura penale e l'azione delle corti. Spesso chi viene eletto "Saggio", la rivoluzione dopo, se ha tenuto una condotta esemplare, viene eletto membro del Consiglio Dei Cento. Dunque di fatto il governo di Giove è piuttosto autoritario. Chissà che l'uomo non voglia "importare la democrazia" anche qua. Dopo questa provocazione vi lascio (finalmente!) alla lettura del capitolo. Au revoir!

 
Ombre Cinesi.

 
"Il destino è come un gioco tra luci ed ombre, è un rapporto casuale ma necessario tra bene e male, tra felicità e tristezza; non ci può essere ombra senza luce, nè così si può trovare la vera felicità senza prima essere risaliti dal baratro oscuro della tristezza"
 
 
La cerimonia stava per iniziare, un lungo tappeto rosso ornato di ghirigori dorati copriva il percorso dall'ingresso del cimitero di marmo nero sino ai loculi. Il corteo prese a camminare. In testa vi erano i parenti dei caduti. Al mio fianco sinistro, con in braccio l'urna eburnea contenente le ceneri del fratello, vi era l'ammiraglio Byar Grande. La famigerata "Coppia Invincibile" non si era confermata tale. Sulla mia destra invece c'era il mio amico e compagno Lavhii. Si, nella battaglia sul primo satellite era anche morto Jub. Mentre l'ammiraglio era molto contenuto, il viso di Lavhii invece era deformato dalla tristezza in una smorfia che non avevo mai visto prima. La morte del fratello l'aveva devastato. Sospinto via dall'eruzione, Lavhii si era risvegliato a ridosso di un grande masso, si era poi faticosamente rialzato e, procedendo a stento tra i vapori sulfurei, era incappato in un cadavere, il cadavere di suo fratello. Anche io mi trovavo in cima al corteo, anche io con un urna in mano, l'urna di Syr. Da quel giorno gli fui sempre debitore -mi aveva salvato la vita- ed oltre a portarlo nel cuore, volevo accompagnarlo ancora una volta, nel suo ultimo viaggio verso la vita eterna al fianco del nostro grande Dio Mur. Era e sarà ancora sempre nostra tradizione cremare i cadaveri dei defunti. Secondo la nostra religione infatti, quasi più una filosofia di vita che una vera religione, una volta morti, l'energia di cui ci si è serviti durante la vita dev'essere restituita a Mur, e la restituzione avviene attraverso la combustione dei nostri corpi. Mur infatti non è altro che la stella del nostro sistema solare, quella splendida forma di energia allo stato puro, da cui tutto proviene ed a cui tutto ritornerà dopo la morte. E' Mur che ci ha dato il nostro grande sistema planetare, è Mur che ci illumina ogni giorno scaldandoci le membra e l'animo, è Mur che ci dona parte della sua immensa energia affinchè la vita possa prendere forma e manifestarsi nelle sue più svariate forme.
Ma in quel mero giorno, nemmeno la Grande Stella poteva alleviare le nostre sofferenze. Raggiunta la sezione del cimitero dedicata ai caduti in guerra, il corteo si divise in diversi gruppi a seconda della posizione del loculo destinato a ciascun caduto. Io, con la famiglia e gli amici di Syr, procedetti verso il monumento funerario destinato alle ceneri del mio amico. Un obelisco nero era il tradizionale monumento di sepoltura dei caduti, altrimenti, potendo permetterselo, si poteva ricorrere ad una statua commemorativa del defunto. Fu la madre di Syr, piangente a deporre l'urna di terracotta rossa nel basamento cavo dell'obelisco. Da quella posizione potevo vedere la tomba del capitano Grande. Una imponente statua, il comandante Sylen decorato con  molte medaglie, in tenuta da parata, stava ritto in piedi sul piede destro appoggiato saldamente al suolo, mentre il sinistro toccava il terreno solo con la punta. Il braccio sinistro era ricurvo verso il petto, nella mano teneva saldamente una sfera, rappresentante il potere del comando. Il braccio destro era invece proteso molto pietosamente verso l'osservatore. Vidi che l'ammiraglio Byar stava sigillando la chiusura della tomba. Da dove mi trovavo la tomba di Jub non si vedeva. Ad un certo punto una persona del gruppo si voltò e rimase di stucco, me ne accorsi e mi voltai anche io. Due figure erano state scortate fino alla tomba del comandante da sei altri comandanti armati e impegnati a garantire l'incolumità dei due. Li riconobbi subito. La morte del comandante Sylen doveva aver portato un enorme scompiglio tra i vertici del paese, se ai funerali erano giunti persino il Gran Cancelliere Liam e l'anziano Bexthan, membro del Consiglio e mente più quotata sul Pianeta Madre. D'altronde il comandante Sylen era il più forte tra i comandanti in carica nell'esercito. Il Gran Cancelliere era un personaggio enorme. Molto più possente, sia come altezza che quanto a muscoli, dei miei amici più grandi. Era vestito di un manto color porpora con i bordi rifiniti d'oro, sotto una giacca nera e in testa l'elmo del potere. L'elmo del potere era il simbolo del comando dell'esercito. Veniva tramandato da più di un migliaio di rivoluzioni di Gran Cancelliere in Gran Cancelliere ed era in oro massiccio. Il peso di quell'elmo si diceva fosse la prova della forza del comandante, che per anni ed anni doveva recarlo sul capo. Esso consisteva nella riproduzione in miniatura della testa di un arricar. La leggenda narra che il primo re della mia gente, Mabous Primo detto il Totipotente, per il possesso della prima porzione di terra che poi venne denominata "regno", avesse dovuto sconfiggere un enorme arricar a mani nude in quanto a quell'epoca le armi non erano state ancora pensate. Gli arricar sono enormi carnivori quadrupedi dalla forza bruta, con dei denti affilatissimi; si dice che un arricar di media dimensione possa spezzare con i denti quasi l'ottanta per cento delle ossa in un solo morso. L'elmo raffigurava solo la parte superiore del teschio dell'animale, i denti dell'arcata superiore intrappolavano il capo del Gran Cancelliere, il muso sporgeva oltre la fronte e ai lati vi erano le due corna ricurve, tipiche dell'animale. Dietro, il famoso "terzo corno" presente solo nei maschi di arricar; una struttura ossea sporgente, ricoperta però da pelle, usata dall'animale per sedurre arricar di sesso opposto. Legate attorno alle corna, pendevano quattro collane, due per parte, di una speciale pietra che risplende se colpita dalla luce. Potete immaginare quanto facesse paura un Gran Cancelliere schierato in battaglia. L'anziano Bexthan invece era rachitico e ricurvo, a stento infatti camminava aggrappandosi con il braccio destro a un bastone nodoso. Portava la lunghissima palandrana e il cappello a punta neri tipici dei venticinque filosofi del Consiglio Dei Cento. Era un personaggio di un'intelligenza quasi sconfinata; ma tanto era brillante, quanto odioso. Sempre sprezzante ed altezzoso, disgustava tutto ciò che intralciava il suo passaggio, fossero state persone o cose. Dai suoi occhi incavati, attraverso piccoli occhialetti tondi, scrutava l'ambiente ed annoiato e stanco strattonava il mantello purpureo di Liam, e quando quello s'inginocchiava, il vecchio gli ordinava di sbrigare in fretta la faccenda per tornare al più presto a palazzo. Una bestia soggiogata da un moscerino.
Quando i due ebbero fatto le condoglianze, s'allontanarono. Congedatomi dai parenti di Syr mi allontanai anche io. Giunto nei pressi dell'uscita del cimitero, mi accorsi che Lavhii era seduto su una panchina di marmo. Mi sedetti al suo fianco. Non si voltò nemmeno, non proferì parola. Azzardai un -Mi dispiace-, lui prendendo un lungo respiro mi rispose -Tre rivoluzioni-, non capivo, -Aveva solamente tre rivoluzioni. Aveva una vita davanti. Aveva una fidanzata. L'amava, progettava persino di metter su famiglia. Io avevo lui, solamente lui. Da quando mio padre è mancato, lui ha preso il suo posto. Come farò? Dimmi, Sazàn, come farò? Maledetti bastardi. Prima che arrivassero loro... Quegli sporchi Rosa... La gente viveva in pace. Hanno portato distruzione, hanno portato morte. Mio fratello... Mio fratello!!- si portò la mano al volto, iniziò a singhiozzare; non ebbi il tempo nemmeno di accarezzargli la spalla che Lavhii si alzò e si mise a camminare verso il cancello. Prima di averlo varcato si girò e mi disse -L'altro giorno non è morto solamente Jub, sono morto anche io-. In quell'ultimo sguardo che mi lanciò, vidi odio; un odio profondo, che molto probabilmente stava soffocando il cuore del mio compagno. Uscì e io rimasi solo nel silenzio.
Dopo qualche minuto che fissavo ormai inesorabilmente il terreno, decisi di alzarmi. Avevo appena portato le mani sulla fredda pietra della panchina quando sentii dei passi. Erano i sei comandanti con il Gran Cancelliere Liam e il consigliere Bexthan. Portai le ginocchia sul terreno, abbassai lo sguardo timoroso e restai in silenzio aspettando che il gruppo mi superasse. Una volta che costoro mi avevano oltrepassato, girai la testa per sbirciarli da dietro. Il Gran Cancelliere Liam però si bloccò dicendo -Reverendo consigliere Bexthan, mi scusi un secondo-, il vecchio, avendo capito le sue intenzioni si voltò verso di me; il suo sguardo era penetrante e carico d'ira. Pietrificai. -Va bene Liam... Ma fa' in fretta- disse rispondendogli. Senza nemmeno girarsi il Gran Cancelliere disse -Complimenti, comandante-. Alzò la mano destra all'altezza della testa in segno di congedo e disse -Possiamo andare-, iniziando a camminare.
Subito non capii che cosa significassero quelle parole, e per tutta la sera pensai a chi potesse essere rivolto quel complimento. Le mie arzigogolate riflessioni si placarono la mattina dopo. Un messaggero arrivato direttamente da palazzo bussò alla mia porta. Aprii. Costui mi diede una busta bianca, chinò lievemente il capo e mi disse -Complimenti-. Sempre più stupito, sovrappensiero gli chiusi la porta in faccia, e mi ci appoggiai di schiena con la misteriosa busta in mano. La aprii e lessi la lettera che recitava all'incirca:

 
Egregio Signor Sazàn Radiwk,
Ci congratuliamo con lei per l'ottimo comportamento tenuto nella controffensiva sul primo satellite, si è distinto molto onorevolmente nella battaglia, difendendo valorosamente il defunto comandante scelto Sylen Grande. Sappiamo che lei ha rischiato la vita, uscendo non certo indenne dallo scontro. La sua camerata, primo battaglione della divisione sicurezza, ha perso il veterano Syr Rafzt e il soldato semplice Jubatar Oi'hij, e di questo noi ci duoliamo molto. Per tutte queste ragioni, con somma fierezza, siamo lieti di annunciarle la sua promozione a comandante. Complimenti. La aspettiamo a palazzo per conferirle ufficialmente il titolo e la medaglia al valore.
Distinti saluti,
Consiglio Dei Cento                                                                                                                                                                                  Gran Cancelliere
         An Hus                                                                                                                                                                                                  Liam S. Lodd'

 
Ero felice. Dopo molto tempo finalmente era giunta una notizia positiva, anzi positivissima. Mi sentivo uscito dal baratro oscuro dell'infelice piega che negli ultimi tempi la mia vita aveva preso. Da soldato semplice a comandante. Già mi immaginavo a guidare un battaglione sotto i colpi dei Rosa, fierissimo nella mia divisa, la medaglia al petto, imbattibile. Fantasticavo e fantasticavo. Stavo seriamente iniziando a pensare ad una possibile futura carriera militare. "Ora comandante, poi chissà, magari tra una rivoluzione o due Contrammiraglio... E poi... Poi be' Ammiraglio"; i miei occhi si illuminavano sempre più, sino all'apice: io, su una collina, mantello purpureo sulle spalle ed elmo del potere sul capo, nella mano destra l'effige del Pianeta Madre, l'orbit; dietro di me il mio esercito, il mio popolo; dietro di me: Gran Cancelliere Sazàn. Mi destai dai miei stupidi sogni quando un'altra persona bussò alla mia porta. Aprii e vidi Lavhii. Era arrabbiato, non mi lasciò nemmeno il tempo di salutarlo che urlò -Complimenti! Davvero! Tu brutto bastardo! Che hai fatto? Dimmelo! Che hai fatto? Te lo dico io che hai fatto. Oh si si, te lo dico io! Tu non hai fatto nulla-, il suo dito mi perforò il petto, -Tu-, sogghignò, -Ti sei fatto salvare la vita da Syr, e come l'hai ringraziato? L'hai distratto e l'hanno fatto secco! Stronzo! Io ho cercato di salvare mio fratello! Io ho chiamato i soccorsi! Io! Non tu! Io dovevo essere comandante, non tu!-. Mi saltò addosso, mi tirò un pugno, due, tre; cercai di difendermi ma era una furia, lui il leone, io l'agnellino. Quando si fu sfogato e la mia faccia fu ricoperta da abbastanza ematomi, si alzò da sopra di me, disse -Stronzo, è tutta colpa tua sto schifo-, mi sputò della saliva addosso e se ne andò. Entrai in casa, intanto qualche vicino stava sbirciando dalle finestre della propria abitazione allibito. Non uno che mi avesse aiutato. Medicai il volto come potei, poi quando il dolore si affievolì, mi misi addosso un cappotto ed incappucciato mi diressi a palazzo. Io abitavo nel distretto sud di Rougen mentre il palazzo, sede del Consiglio Dei Cento e dei Dieci Saggi, era nel cosiddetto Distretto Ricco, ovvero il più importante distretto della capitale, e anche quello centrale. Non ci misi molto a giungere a palazzo, non c'era così tanto traffico. Una volta entrato nell'atrio principale (mi fu ordinato di togliermi il cappuccio), una grossissima stanza tutta tappezzata di arazzi pregiati ed antichi raffiguranti importanti eventi storici, mi diressi verso il gabinetto del consigliere stratega An Hus, colui che avrebbe dovuto conferirmi il titolo di comandante. Giunto attraverso decine di corridoi davanti alla porta lignea intarsiata della stanza, esibii la missiva ai due secondini, che mi permisero di entrare. Il consigliere stava tutto chino sulla sua scrivania, sfogliando frettolosamente dei documenti. Quando alzò lo sguardo e disse -Oh buongiorno, lei è?-, mi inchinai e rialzatomi dissi -Soldato semplice Sazàn Radiwk, primo battaglione della divisione sicurezza signore-. Hus mi rispose -Non faccio più parte dell'esercito, giovanotto, la prego di attribuirmi diverso titolo. Comunque, bene bene, lei è qua per?-. Aveva un viso sgradevole, i capelli, i pochi che gli erano rimasti, erano lunghi neri ed unti, sembrava viscido. Sentii una voce possente -Lo perdoni reverendo Hus, è solo uno sbarbatello sprovveduto come può vedere dalla sua faccia piena di lividi, vero?-. Lo riconobbi anche senza vederlo. Mi inchinai senza esitazione. -Su su, abbandoniamo queste formalità e veniamo al sodo, il signor Radiwk è venuto qua sin dal distretto sud per prendersi il suo titolo di comandante e la sua medaglia al merito-. Il consigliere stanco di perdere tempo disse -Hai ragione Liam, l'esercito è caduto in basso, quando c'ero io come ammiraglio, quelli si che erano bei tempi; adesso un ragazzino a cui piace evidentemente menar le mani, viene promosso capitano da un giorno all'altro... Che pena. Su ragazzo, bene bene, prenditi questo foglio-, mi diede il certificato, -la tua medaglia-, me la lanciò proprio, -e ora va a rubar tempo agli altri! Io devo lavorare-. Mi alzai, ma rimanendo chino per non incrociare lo sguardo di nessuno dei due, ed uscii amareggiato dalla stanza. Come si era permesso il consigliere di trattarmi in quel modo? Ma non dissi nulla, non potevo, e non volevo nemmeno, siccome ormai ero capitano. Prima che la porta si richiudesse alle mie spalle, giurai d'aver sentito il consigliere Hus dire -Bene bene-. Mi avviai verso l'atrio. A metà del corridoio però mi raggiunse il Gran Cancelliere, io me ne accorsi solamente quando mi mise la mano sinistra sulla spalla. Stavo per inchinarmi quando lui mi disse -No no fermo, ora non c'è più quello stupido vecchio-, non osai mai girarmi, -stai tranquillo ragazzo, capito? I vecchi militari... Anzi i vecchi in genere, sono tutti uguali: gelosi della giovinezza altrui, esaltano la loro, ormai appassita ed irraggiungibile. Ci vediamo ragazzo, non morirmi-. Mi superò e, prima di svoltare a destra per un altro corridoio, fece quello stesso gesto del giorno prima. Credo fossimo ufficialmente entrati in confidenza.
Andai a dormire felice e convinto d'esser finalmente uscito dal baratro della depressione. Ma la tristezza, immonda bestia dagli zozzi artigli, t'afferra quando meno te l'aspetti, per farti precipitare nuovamente in quell'antro oscuro, sua lurida tana. L'indomani infatti ritrovai alla mia porta una seconda volta lo stesso messaggero del giorno precedente, quel giorno però, scuro in volto, mi consegnò una lettera nera, e sussurò -Condoglianze-. Scioccato, avendo cercato quasi istintivamente risposta ai miei dubbi nei suoi occhi, aprii la misteriosa busta e lessi il suo contenuto. 
Lavhii si era tolto la vita.

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Capitolo 5
*** Δίκη ***


Buondì! L'altro giorno notavo come mi sia affezionato molto al personaggio di Sazàn; mentre l'umano Sylar rimanga per me in secondo piano per ora (Lo so, sono un padre orribile). Forse è perché mi sta antipatico il terzo capitolo. Nel sesto posso assicurare che "rivedremo" Sylar in grande stile. Ma ora ecco a voi il super-quinto. Buona lettura!


Δίκη.


"Giustizia. Un termine antico quanto l'uomo. In greco Δίκη. Ma chi è che decide cosa sia giusto e cosa sia sbagliato, i comportamenti da lodare, o piuttosto quelli da condannare? Non potrà esistere mai un giudizio oggettivo; la soggettività è intrinseca nell'uomo, lo illude di essere libero, vincolando in realtà il suo spirito con catene di diamante"


Il vecchio primo battaglione della divisione sicurezza non esisteva più, Syr e Jub erano morti nella controffensiva sul primo satellite, io ero diventato comandante e Lavhii si era impiccato quella stessa mattina. Non ci potevo credere. Ma quell'infernale mattina non si era ancora totalemente conclusa. Mi ero deciso a recarmi all'abitazione di Lavhii dopo pranzo, ma ricevetti, mio malgrado, ancora una visita che ostacolò i miei progetti. Stavo infatti guardando delle vecchie foto dell'accademia militare, quando dovetti alzarmi per andare a ricevere qualcuno che aveva bussato alla mia porta. Aprii. Mi trovai di fronte a quattro soldati, dalle loro uniformi capii che erano della divisione sicurezza. C'erano tre uomini, di cui uno robusto, ed una donna. S'inchinarono, solo in quel momento mi ricordai che ero diventato comandante e dunque la genuflessione al mio incontro era strettamente consigliata per i soldati semplici; non c'ero ancora abituato, e la cosa mi dava un certo senso di potere. La donna, rialzatasi, prese a parlare -Lis Mittle, nuovo primo battaglione divisione sicurezza, signore-, con amarezza constatai che ci avevano già rimpiazzati, -Il Consiglio ci ha dato l'ordine di condurla a palazzo, in quanto principale sospettato dell'omicidio del soldato semplice Lavhii Oi'hij-, accortasi del mio stupore aggiunse -Nulla di personale signore, eseguiamo solamente gli ordini. Ha cinque minuti per prendere la sua roba-. Incredulo protestai. La soldatessa, lentamente ed accentuando il gesto affinchè io capissi, mise la mano sull'arma che portava alla vita e disse -Signore..-. Andai di sopra, presi uno zaino, ci misi dentro qualche maglietta, un paio di pantaloni e mi diressi verso l'uscio. Prima di chiuderlo mi voltai verso l'interno della mia abitazione e, sospirando, infine richiusi la porta. In soli due giorni ero passato da eroe a reo.
Nel tragitto (ormai diventato quasi familiare) da casa mia a palazzo, chiesi spiegazioni a Lis e lei mi disse che, appresa la notizia della morte del soldato Lavhii, un mio vicino di casa aveva subito chiamato la divisione sicurezza segnalando che la mattinata del giorno precedente era avvenuta una rissa tra me e lui, facendo cadere così su di me i sospetti per un ipotetico assassinio. -Inoltre-, mi spiegava Lis, -A casa del suo ex-commilitone sono stati trovati segni di effrazione che sembrerebbero confermare l'ipotesi dell'omicidio-. Quello alla guida della navetta rise. Lis lo zittì bruscamente, sottolineando il suo comportamento inadeguato; chiese venia. -Dicevo-, riprese la mia interlocutrice, -In quanto sospettato principale sarà trattenuto per qualche notte nei sotterranei del palazzo, e sarà giudicato dal tribunale per i reati militari, credo le sarà concesso di parlare in quanto comandante; tutto chiaro?-. Annuii. Dovevo confidare nella saggezza del giudice e soprattutto nella mia innocenza. Arrivato a palazzo, prima di entrare nell'atrio (iniziavo a detestare quel posto) mi ammanettarono, per garantire la sicurezza dei presenti. Mi sentivo insultato, trattato come una belva pericolosa e feroce. I quattro del primo battaglione mi scortarono alla mia cella. Era una stanzetta angusta, con un piccolo letto, un tavolo, uno sgabello e un lavabo. Il soldato robusto mi spinse dentro, e Lis disse scontrosa -Fa' piano Bulen! Vorrai mica spiaccicarlo contro il muro!-, l'altro, l'autista, rise un'altra volta. Quando se n'erano andati, mi coricai sul letto. Il soffitto era tutto scrostato. Ma come c'ero finito in quel posto infernale? Non avevo fatto nulla, non avevo ucciso nessuno, anzi, era stato persino Lavhii ad assalirmi. Lo dovevo dire al giudice, no anzi, lo dovevo dire al Gran Cancelliere, lui mi avrebbe sicuramente creduto. Pensai ad una soluzione per farmi scagionare, ma più ragionavo, più la rabbia mi annebbiava il pensiero. Iniziai ad odiare il mio ex-compagno; era colpa sua se mi trovavo lì, "Maledetto! Se non si fosse ammazzato a quest'ora sarei a casa mia a riposare su un letto decente... Stupido".
Stavo davvero impazzendo. In quella stanzetta a misura di bambola la follia stava prendendo il sopravvento. Fortunatamente ad un certo punto arrivò un secondino, che mi distolse dai miei subdoli pensieri, dicendo -Sveglia, hai visite-. Passi pesanti, rumore di ferraglia, uno strascichio perenne. Davanti ai miei occhi comparve il Gran Cancelliere Liam. Mi buttai ai suoi piedi implorando salvezza. Mi disse -Ragazzo calmati e staccati subito-, indietreggiai con un volto così pentito che il Cancelliere aggiunse -Non importa, rincominciamo da capo-. Lo stavo guardando negli occhi, i suoi profondi occhi neri erano come un intero universo per me, mi ci stavo perdendo dentro, appena me ne accorsi, distolsi subito lo sguardo ed abbassai la testa. -Ragazzo sono qua per darti alcune informazioni sul tuo processo; il giudice sarà uno dei Dieci Saggi-, pietrificai, mi guardai le mani che tremavano terrorizzate; a giudicarmi sarebbe stato uno dei Dieci Saggi, pensai che molto probabilmente sarei stato condannato a morte. Liam riprese -Il Saggio in questione sarà Seis-. Le mie mani cercarono qualcosa da stringere spasmodicamente, non potei non cercare conforto negli occhi del Gran Cancelliere, ero talmente agitato che il mio cuore batteva a mille ed avevo il fiatone. Dra' Seis era il Saggio più anziano dei dieci, aveva passato le sei rivoluzioni; tutti lo conoscevano come "Immortale", e forse proprio perchè tale era. Era un personaggio imperscrutabile, dei pochi da lui giudicati (spesso criminali di guerra di grande taglia)nessuno era mai riuscito a scampare la morte. Perchè capitava proprio a me? Io, un povero semplice comandante neoeletto. Perchè?. In quell'istante mi mancarono le forze e mi ricurvai verso il suolo: vedevo il mio cadavere senza vita, vedevo la fine di tutto, vedevo la morte a due passi da me, allungarmi la mano; ma ciò che più demoralizzava e faceva a brandelli il mio animo era la mia innocenza. Il Gran Cancelliere si chinò e mi disse -Ragazzo, io so che tu sei innocente, due compagni non si ammazzano così facilmente per una lite; solo chi è pasato da qua, dall'esercito, può capire. Il legame che si instaura tra noi, noi soldati del Pianeta Madre, è un legame insolubile. Una stupida disputa non ti avrebbe mai spinto ad agire così-, ripresi a respirare, -Ragazzo io ti voglio aiutare, non ce la potresti mai fare da solo-, la mia testa scattò all'insù, sentivo di nuovo la pace di quegli occhi infiniti, -Ma tu, Sazàn, tu me lo devi permettere-, iniziai ad annuire freneticamente col capo, lui scrutandomi l'anima disse -Me lo permetterai, Sazàn?-. Io balbettai -S... Si... Mio signore-. Liam abbassò la testa sorridendo, con una spinta della mano destra si rizzò nuovamente in piedi e disse -Molto bene-; chiamò il secondino che aprisse la cella, uscì e mi salutò, senza voltarsi, con quel suo solito gesto pacato.
Quella notte non dormii. Ero agitatissimo. Pensavo a milioni di cose contemporaneamente; e poi quel letto era qualcosa di indecente. Immagini di felice vita accademica si affollavano nella mia testa: giornate di duro e faticoso allenamento con gli altri novellini del dipartimento sicurezza, bevute di gruppo le poche sere che ci concedevano il permesso d’uscire dalla caserma, il mio maestro, il maestro di tutto il vecchio primo battaglione; “Chissà come se la passa ora il vecchio Jimba” (così era soprannominato da tutti) pensai. Di lì a poco, mi addormentai.
L'indomani il secondino mi svegliò -Sveglia, hai l'udienza-. Sgranatomi gli occhi distinsi, dietro al secondino, anche Lis e gli altri del nuovo primo battaglione. Lis mi salutò con un cenno della mano e mi disse -Si prepari e venga; la scorteremo fino al tribunale militare. L'udienza inizierà tra un'ora. Il giudice-, si fermò un istante abbassando lo sguardo e io la interruppi dicendole che sapevo già chi fosse. -Oh bene-, si interruppe una seconda volta, poi, stretto il pugno destro, mi disse con una tonalità di voce ora più combattiva, -Senta volevo dirle che mi dispiace comandante; capisco come si deve sentire... Incolpato dell'omicidio del suo unico compagno di battaglione; è verg-, la interruppi e la pregai di tacere, ero già abbastanza triste, -Mi scusi signore-.
Il battaglione mi condusse, ammanettato, al grande portone ligneo del tribunale militare, intarsiata vi era la figura in trono di Mabous Primo, il Totipotente. Incuteva un enorme paura: il suo sguardo severo e ligio alla legge, il suo scettro puntato verso l'osservatore e ai piedi il gigantesco arricar della leggenda, senza testa, la quale era raffigurata come il poggiapiedi del re. Sotto questa scena vi era la scritta "Sii colpevole e non leggerai queste parole una seconda volta". La mia agitazione si fece ancora più marcata.
Le porte vennero spalancate. Lis mi gridò -Buona fortuna!-, il bestione fece un cenno di saluto con la mano e l'altro, come sempre, ridacchiò. Il quarto stava sempre zitto e composto con le braccia conserte e con la testa china verso il petto. Il tribunale militare era una grande arena di combattimento ellittica. A destra del portone partivano le tribune popolari rialzate, che facendo tutto il giro, richiudevano l'arena quasi come la stessero abbracciando. Vi erano tre altri portoni, uno dal lato opposto del portone da cui avevo fatto il mio ingresso, gli altri due uno sull'ala est, l'altro su quella ovest. In centro all'arena c'era una piattaforma soprelevata. Sopra a questa, seduti su scanni, stavano di norma un giudice al centro, e in posizione predominante, un membro degli strateghi del Consiglio a sinistra e il Gran Cancelliere a destra. Nel mio caso, vi erano quindi il Saggio Seis, un consigliere che non riconobbi in quanto aveva la testa china (perchè molto probabilmente stava dormendo) e Liam. Quando mossi il primo passo terrorizzato, le decine di migliaia di spettatori iniziarono ad esultare e gridare; quando mi fui inoltrato abbastanza nell'arena il portone si richiuse e le mie manette si sciolsero. Ero libero. Solo a quel punto il Saggio Seis prese il fonotono (un attrezzo misto tra un microfono e un altoparlante) e urlò -Popolo di Rougen!-, il popolo, già in subbuglio, esplose; volavano nell'arena oggetti vari tra cui anche pietre; -Siamo qua oggi per decidere le sorti di un militare neocomandante, il signor Sazàn Radiwk, imputato dell'assassinio del compagno di camerata Lavhii Oi'hij; costoro infatti avevano avuto una discussione piuttosto animata, durante la quale il suddetto signore aveva aggredito l'ormai defunto Oi'hij-, tentai di urlare che non era accaduto nulla di simile, che anzi era proprio il contrario; le mie urla non arrivavano nemmeno alle mie di orecchie; -Il giorno dopo, il militare Lavhii è stato trovato dalla divisione sicurezza impiccato nella sua abitazione; dopo una prima ipotesi di suicidio, la divisione riscontrò sul posto segni d'effrazione e venne così avvalorata l'ipotesi di omicidio volontario-. Ero disperato e caddi in ginocchio. Il popolo iniziò a deridermi. Seis rise poi riprese a parlare -Popolo di Rougen, colpevole o innocente?-. Gli spettatori gridavano, e naturalmente non si capiva cosa dicessero, ma Seis disse -Il popolo dice-, una pausa enfatizzante e poi, -Colpevole!-. Il pubblico s'infiammò, credo che se fosse stato ad altezza del suolo mi avrebbe fatto a brandelli. Seis disse -Un voto su quattro è stato espresso. Mh. Mi avete convinto! Io dico colpevole-. Applausi. -E lei signor consigliere?-, un comandante svegliò il consigliere facendo attenzione a non essere troppo brusco. Il consigliere si ridestò e confuso e seccato disse -Si si colpevole-, il comandante allora allontanò il fonotono ma si riuscì ancora a sentire qualche parola (-Basta che si finisca- qualcosa del genere...). Seis gridò compiaciuto -Tre voti colpevole su quattro. Gran Cancelliere il popolo vorrebbe sentire il suo parere-. Prese la parola Liam -Io credo sia innocente-, il popolo stupito tacque e il Saggio trasalì e si girò confuso verso il Gran Cancelliere. Liam aggiunse -Il qui presente neocomandante Sazàn Radiwk, non ha ucciso il soldato semplice Lavhii Oi'hij; per questa ragione gli concedo l'uso di un'arma!-, il popolo sempre più allibito stava ancora a guardare tacendo, mentre il Saggio corrucciava la fronte. Seis riprese il fonotono e disse -Bene. Secondo le leggi vigenti sul Pianeta Madre, il consigliere presidiente all'udienza, se lo crede opportuno, può concedere la parola all'imputato-, il consigliere rispose con un cenno della mano che poteva significare tutto e nulla; capii che non mi sarebbe stata concessa la parola. Il Saggio riprese -Il Gran Cancelliere invece può concedere l'uso di un'arma; visto che ha già espresso il suo parere, quale arma vuole fargli usare?-; il Gran Cancelliere rispose -La spada-. Il popolo esultò. -Bene! In quanto giudice di questo processo, secondo le precedenti votazioni che davano la colpevolezza tre ad uno, mi accingo a decidere la punizione per il neocomandante Sazàn Radiwk-, i suoi occhi s'illuminarono, la sua bocca sorrise mostrando tutti i denti marci, le sue mani strinsero in una morsa fatale il fonotono e, molto lievemente, Seis disse -Liberate l'arricar-.
A quelle parole il pubblico ammutolì una seconda volta. Un secondino mi portò la spada. Io ero immobile, incredulo. Se prima sentivo la morte avvicinarsi, ora potevo toccarla. Stavo per morire. No anzi ero già morto. Guardai la spada: non era affilata. E come diavolo avrei fatto? Mi stavano per lanciare contro un demone, e io non avevo la minima idea di come poterlo affrontare dato che la mia stupida arma non aveva la lama. Era una mazza non una spada; però aveva dei piccoli fori in tutta la parte superiore. Ma a cosa potevano servire? "Ci devo scolare qualcosa con sto affare?" pensai. Ero sia spaventato, che furioso, soprattutto verso il Gran Cancelliere che, avendomi garantito aiuto, mi aveva rifilato quell'arma di quart'ordine, se così potevo chiamarla. Il portone nord si spalancò e un ruggito che mi squarciò l'anima ne fuoriuscì. Era l'arricar, più furioso che mai. Il popolo iniziò nuovamente a gridare. Un suono metallico, le spesse catene erano state sbloccate; capii che l'arricar era stato liberato e che stavo per morire. Dopo un secondo grido l'arricar uscì in corsa dalla gabbia. Giunto di fronte a me, furioso per chissà quali torture subite, mi individuò subito come nemico. Seis disse -Che la pena inizi; comandante Sazàn, lei ha il venticinque per cento di salvezza, come da voti. Se la scamperà, sarà libero di andare. Via ai giochi!-, alzò le braccia in segno di acclamazione.
L'arricar si scaraventò contro di me, per fortuna riuscii a schivarlo; una seconda carica, ma riuscii a schivare anche questa. Presto però capii che non potevo andare avanti così: ero stanco ed avevo già il fiatone. Alla terza carica dunque decisi che avrei tentato di saltargli in groppa. l'animale caricò ed io saltai. Avevo fatto leva sulle corna dell'animale ed una volta sul suo dorso avevo afferrato il terzo corno e a quello mi tenevo saldamente. Presi la "spada" e gli colpii la testa. L'animale si dimenò e la mia arma volò sulla sabbia. Stesso destino toccò a me pochi minuti dopo: la bestia continuò a contorcersi ed io persi la presa, e con essa anche l'equilibrio. Per terra sbattei la testa e rimasi un po' intontito. L'animale furioso era a pochi passi da me e presto mi ritrovai i suoi artigli sul petto, la sua bocca era vicina al mio naso, tanto che potevo sentire l'alito marcio e puzzolente di quella bestia. In quel preciso istante persi ogni speranza: io contro un arricar, un concetto che mi faceva quasi sorridere. -Impugnala con due mani!-. Il Gran Cancelliere si era alzato dal suo sedile, aveva preso il fonotono e mi aveva gridato quella frase. Tutti trasalirono, compreso Seis che guardò allibito Liam. Io stravolto pensai che effettivamente per tutto l'incontro avevo tenuto la spada con la sola mano destra. Mi voltai prima a sinistra e, non trovandola, mi voltai verso destra. Era lì, a pochi passi da me. Allungai il braccio destro, lo stirai più che potei ma non ci arrivai. L'arricar scocciato mi tirò un artigliata e mi fece volare via. I vestiti insanguinati ed a brandelli, le ossa che chiedevano pietà, il ventre sfregiato; aprii gli occhi, la spada era lì davanti a me. La presi con la mano destra e a stento mi alzai. L'arricar mi caricò e me lo ritrovai una seconda volta sopra me, ma questa volta il suo respiro si era affievolito, il suo sguardo da rabbioso si era fatto placido e la bava colava a fiotti dalla sua bocca spalancata. Quella non era bava, era sangue. La spada salda nelle mie mani, una luce a volte bianca a volte blu che mi feriva gli occhi, la gola dell'animale trapassata da parte a parte. Le mie forze mancarono, lasciai la presa e svenni.
Mi risvegliai. Una stanza bianca. Ero su un letto d'ospedale, attaccato a varie macchine. Non riuscii a muovermi. Vidi che in un angolo c'era il Gran Cancelliere Liam, si avvicinò e si chinò su di me. Io mi agitai, tentai di parlare, volevo spiegazioni, volevo ringraziarlo, volevo dire milioni di cose, ma non ci riuscii. -Sta calmo ragazzo. Hai visto? Ce l'abbiamo fatta-, sorrise, -So che magari ti senti in debito, e so che ora come ora non puoi offrirmi niente di mio interesse; ma un giorno, sta certo che sarai in condizioni di poterti sdebitare-, sorrise nuovamente, anche i suoi occhi neri sembravano sorridermi. Prese l'elmo, fece per andarsene, mi salutò col suo solito gesto, ma questa volta aggiunse -Arrivederci Sazàn-. Stremato, ma con l'animo salvo dagli orrori del giorno precedente, mi riaddormentai.
Sul mio corpo però erano rimaste le cicatrici dell'artigliata dell'arricar, a segno della giustizia del Pianeta Madre.
 
 
 

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Capitolo 6
*** Attrazione ***


Grazie mille a tutti. Sono arrivato al sesto e la voglia è ancora quella del primo capitolo (questo però, al contrario degli altri, mi è costato sette alla settima camicie). Il capitolo è prettamente scientifico, dunque scusate se è molto complesso, ma non potevo far molto altro per semplificarlo. Buona lettura!

 

Attrazione.

 

"Come pioggia, metallo"

 

Le venticinque Imperial giunsero in vista di Giove dopo soli quattro giorni di viaggio. Il piano era abbandonare le grandi navi, che sicuramente sarebbero state avvistate dagli alieni, dietro il satellite Io. Si proprio così: le navi sarebbero rimaste nell'orbita del pianeta, seguendolo nella sua rotazione attorno a Giove come un'ombra e nascondendosi proprio dietro di esso. Così salimmo tutti sulle navette da sbarco e ci avvicinammo al pianeta. Era bellissimo. Non quanto la mia amata Terra, ma aveva un non so che di accattivante. La sua atmosfera conducente, il colore arancio brillante, il suo perenne e titanico tornado. Erano proprio quelle cose che mi avevano portato a scegliere un indirizzo scientifico all'università. E se il pianeta si prospettava un titanico gioiello del cosmo, chissà le sue forme di vita. Da bambino sognavo sempre pianeti esotici e lontani; ed ora ne avevo uno enorme davanti agli occhi. Entrammo in collisione con l'atmosfera e i vetri s'infiammarono. Tutta la nave iniziò a tremare e per la prima volta, lo ammetto, ebbi paura. I vetri naturalmente resistettero all'impatto e la nave si librò serena nel cielo del pianeta. Fin da subito restammo tutti abbastanza sconvolti: da lassù sembrava non esserci terra. Solo un'immensa distesa di magma e lava bollenti, che pareva essere il nucleo minerale fuso del pianeta. Eravamo sconvolti, tutti davano per scontato la presenza di terra siccome la sonda era atterrata sana e salva inviandoci immagini di forma di vita extraterrestre, e le ambascerie erano persino incorse proprio in quella civiltà evoluta che dominava il pianeta. Il pilota aprì la mappa virtuale tridimensionale del pianeta e cercò il punto di atterraggio della sonda e delle ambascerie, la mappa indicava un punto esattamente sotto di noi. Ma laggiù, con estrema evidenza, terra non c'era. Eravamo disperati. Nemmeno da cinque minuti su Giove e già dispersi nel nulla. Noi comunque non dovevamo atterrare nello stesso punto delle altre due missioni, altrimenti ci avrebbero senz'altro eliminati. Dovevamo spostarci di qualche chilometro in qualsiasi direzione, dovevamo trovare un posto disabitato, in mezzo al nulla; lì avremmo prima installato una base operativa. Noi scienziati della missione avremmo studiato il pianeta, la sua geologia e la sua meteorologia, la sua fauna e anche la flora; gli operai ed i soldati invece avrebbero preparato l'accampamento militare e l'infermeria. Quando il comandante della spedizione, Thomas Valliage, tentò di prendere parola attraverso la radio, il suono giunse a noi distorto. Eravamo infatti smistati in trenta navicelle differenti di medie dimensioni, mentre il capitano e i militari occupavano le prime venticinque, noi scienziati e medici occupavamo le ultime cinque. I piloti non sapevano più cosa fare. Pensai ad un modo per comunicare. Urlai -Trovato! Il buon vecchio codice Morse-; era un sistema ormai antiquato nel XXIII secolo, ma pur sempre utile in casi d'emergenza come quello. Il pilota mi guardò stupito e disse -Ma come ho fatto a non pensarci prima?-; prese la cloche e iniziò ad usare i fari per inviare il messaggio alle altre navicelle. Il dialogo era più o meno questo -Che facciamo?- -Scendiamo!- -No! Sarebbe troppo pericoloso, le temperature sono altissime!- -Procediamo a quest'altezza fin quando non avvisteremo terra- -Ci dividiamo?- -No! Non potremmo comunicare-. Così partimmo alla ricerca di terra; mi sentivo uno di quegli antichissimi esploratori che si studiano a scuola in cerca del Nuovo Mondo. Nella disperazione generale, ero felice ed elettrizzato. E scoprii mio malgrado che quest'ultimo termine era proprio quello giusto.
Dopo mezz'ora di ricerca una nave segnalò la presenza di uno strano oggetto volante, esso non emanava né calore, né radiazioni. Ci avvicinammo e più ci avvicinavamo, più avevamo tutti la stessa impressione: quella era terra. Era terra volante, cioè, un'isola fluttuante. Nessuno poteva credere ai propri occhi. Intanto che le navi discendevano verso quella fantastica zolla, io avevo tirato fuori dalla borsa il mio taccuino e stavo facendo qualche schizzo. Era un'enorme grande pezzo di roccia a tratti nera, a tratti marrone, a tratti anche sull'arancio. Il mio caposezione era rimasto a bocca aperta; nessuno sapeva cosa dire. Eravamo a qualche centinaia di metri dal suolo e potevamo vedere che sopra a questa meraviglia della natura vi era della flora; dunque molto probabilmente vi sarebbe anche stata della fauna. Un entusiasmo spropositato colpì tutta l'equipe. Gente che esultava, che saltava, che pregava: il caos. Toccammo infine il suolo, in quei secondi relativi all'atterraggio c'era un silenzio tombale all'interno delle nostre navi; in realtà all'interno di tutte, siccome il segnale radio aveva ripreso a funzionare. Indossammo le tute, entrammo nella camera di pressurizzazione, i portelloni si aprirono e saltammo fuori dalla navicella. La forza di gravità era davvero pesante, ma sostenibile grazie anche alle tute. Il termometro dava cinquantadue gradi centigradi e l'aria sembrava essere carica d'elettricità statica. Su Giove infatti ci avevano informato che le tempeste di scosse elettriche erano all'ordine del giorno, ma per ora non ne avevamo avvistata nemmeno una. Ero su Giove da poco più di un'ora e già lo amavo. La Terra era diventata così banale e sorpassata rispetto al paradiso che avevo davanti agli occhi. Mi ero innamorato del padre degli Dei.
Gli operai, che erano stati inviati con noi su Giove, iniziarono la costruzione di una C.A.A. (Capsule for Artificial Atmosphere) dello stesso modello di quelle marziane; i soldati aiutavano, senza però intralciare i lavori; gli ingegneri controllavano il problema delle trasmissioni radio, ma stranamente i macchinari sembravano tutti essere in ottime condizioni. Noi scienziati, sotto suggerimento del caposezione, una genetista indiana trentenne di nome Nur Arun, iniziammo subito le ricerche: e così i geologi cominciarono a raccogliere campioni del suolo terroso, i cartografi presero a definire la zona su carte di varie dimensioni e infine noi biologi e botanici ci aggirammo tra i vegetali lì presenti. Erano strane piante. Come mi avvicinai notai subito che nei loro canali scorreva un liquido luminoso, strappai una foglia, la luce scomparì. Ero affascinatissimo, ma anche molto confuso. Dopo una giornata di esplorazione all'interno della boscaglia non trovammo segni di vita animale, ma ricavammo vari campioni vegetali. L'unica cosa negativa del pianeta è che vi erano circa quattro ore e mezza di luce alternate ad altrettante di buio; così, passate circa quattro ore, facemmo ritorno sulle navette, e lì per ben cinque ore circa studiammo i reperti.
Passammo ore al microscopio a studiare quelle cellule vegetali. La loro clorofilla era molto differente da quella presente sulla terra: essa non reagiva alla luce. Non capivamo come i cloroplasti di quelle piante potessero produrre sostanze organiche senza utilizzare l'energia luminosa del Sole. La caposezione ci spronava a non demordere, ma le strutture erano talmente complesse e differenti rispetto a quelle Terrestri, che individuare la fonte di energia usata per sintetizzare il glucosio ci sembrava un'impresa impossibile; a un certo punto Nur disse -Perché non provate a sollecitare quelle molecole di clorofilla con qualche altra forma di energia?-. L'idea era tanto geniale, quanto semplice, e mi ripetei di essere stato uno stupido per non averci pensato prima. Io e il gruppo dei biologi e botanici cercammo di pensare grazie a quale altra fonte di energia naturale potessero sostentarsi quei vegetali. L'energia termica la scartammo subito poiché difficilmente trasformabile in qualunque altro tipo di energia, dunque pensammo all'energia per eccellenza: l'energia elettrica. Sembrava una pazzia, ma l'idea ci balenò in mente anche grazie all'energia statica presente nell'atmosfera (della quale presto avremmo scoperto la causa). Prendemmo delle molecole di quella clorofilla aliena, e le esponemmo all'energia elettrica: la clorofilla reagiva, cedendo elettroni eccitati all'ambiente. Tutti fummo stupiti, quelle piante non erano dunque fotosintetiche, ma piuttosto elettrosintetiche. Comunicammo la scoperta alla caposezione, che fu molto entusiasta del nostro lavoro e disse -E così questa clorofilla userebbe l'energia statica per eccitare i propri elettroni e farli passare a livelli energetici superiori? Fantastico. Una specie di robot naturale-. I geologi intanto avevano esaminato attentamente i campioni di roccia raccolti e avevano stilato una lista di componenti, Nur leggeva -Allora: ottanta per cento ferro, cinque per cento alluminio, cinque per cento carbonio, tre per cento azoto, tre per cento sodio, tre per cento magnesio. Accidenti. Quale minerale ferroso in più grande percentuale?-, e il portavoce dei geologi rispose -Magnetite, settanta per cento-; tutti restammo in silenzio; la genetista disse -Magnetite? Il materiale con più alto tenore di ferro?-, il geologo annuì, -Interessante, davvero; grazie a tutti per il duro lavoro, ora potete pranzare!-. Ci avviammo verso la sala cucina della navicella. Pranzare di notte aveva un non so che di affascinante. C'era che si cibava unicamente di pillole, io preferii un po' di carne secca, almeno in quell'alimento di vere proteine dovevano essercene per forza (almeno credo). Dopo un po' di riposo, circa un'ora o un'ora e mezza, i lavori ripresero.
Verso le tredici (contavamo un giorno ogni tre rotazioni, cioè circa ventisette ore, per non cambiare drasticamente le nostre abitudini di vita) e quindi dopo circa sette od otto ore di lavoro, la C.A.A. era stata completata. L'ultimo passo era installare un depuratore dell'atmosfera che, usando il metano libero nell'aria come fonte di energia combustibile, catturasse ossigeno (ve n'era grazie alle piante elettrosintetiche, ma non abbastanza da poter respirare liberamente) da immettere nella cupola. In circa un'ora e mezza fu installato e reso funzionante. I geologi intanto misurarono il campo magnetico del pianeta. Era cento volte superiore a quello terrestre. Erano allibiti. Noi biologi e botanici trapiantammo alcune piante in dei vasi, ma per quella notte le lasciammo ancora all'aria aperta. Quella sera tardammo un po' a rientrare nella navicella, erano circa le quindici e mezza e s'era già fatto buio. Tutti restammo stupiti: le piante emanavano luce. Quella stessa strana luce che notai il giorno precedente, quasi impercettibile, emanata dai canali di comunicazione delle foglie. Le piante stavano davvero brillando. Rimanemmo incantati, senza fiato: un 'orchestra di piante di ogni specie stava eseguendo la sua sinfonia luminosa, dal viola scuro di alcuni fiori, al lilla chiaro di una specie strana di frutti ricoperti di peli (simili ai kiwi per certi aspetti, ma appunto lilla); dal verde intenso, che predominava su tutte le altre sfumature, al giallognolo lieve che proveniva a stento ostacolato dalle spesse cortecce; dal rosso sangue di alcuni frutti ripiegati su se stessi a forma di spirale, all'arancio lieve di alcuni pomi che erano totalmente simili ad arance. Ci sentimmo in paradiso, qualcuno piangeva. Passammo un'ora circa a guardare quello spettacolo, poi vinti dalla stanchezza decidemmo di rientrare nelle navicelle a riposare. Prima di coricarmi sulla branda, aprii il cofanetto che avevo trasportato con me fin lassù; di tutti gli oggetti presi il cuore di ambra che mia madre mi aveva regalato per la mia laurea in biologia, vi era intrappolata dentro una Meganeura, una libellula preistorica variopinta. Lo guardai, pensando a ciò che avevo lasciato a casa, sulla Terra. Mi venne malinconia; poi ripensai al fantastico mondo su cui ero atterrato, l'eccitazione sopraffece la tristezza, posai il ciondolo e mi coricai.
L'indomani mi svegliai alle due circa del nuovo giorno, feci colazione e poi mi preparai per uscire sul gigante. Entrai nella cabina di pressurizzazione ed aprii il portellone. L'equipe di ricercatori era quasi tutta raggruppata pochi passi avanti. Li raggiunsi. Nur stava impartendo ordini, -Tu ti occuperai della raccolta dati riguardanti la superficie! Tu invece controllerai la forza magnetica esercitata dal nucleo esterno!-, smisi di ascoltare confuso e chiesi ad un mio compagno lì presente cosa stesse accadendo, lui mi disse che Nur aveva ipotizzato un concetto quella notte e che ora stava organizzando una spedizione verso il nucleo del pianeta, per raccogliere vari dati. Nur mi guardò, ma passò oltre con lo sguardo; non avrei fatto parte della spedizione, ma d'altronde ero un biologo, non servivo a nulla per una missione di quel genere. Finito di decidere il gruppo di ricercatori per la missione, disse agli altri -I militari stanno costruendo la caserma, l'infermeria e il laboratorio di ricerca assieme agli operai dentro la C.A.A.; l'atmosfera artificiale è pronta, una volta entrati vi toglierete le tute ed andrete ad aiutarli, chiaro? Dobbiamo impegnare tutta la forza lavoro possibile per l'edificazione di quei tre stabili. Su andate!-. Noi esclusi dalla missione dunque entrammo nella cupola e ci demmo ad un po' di sana manovalanza. Nur era con noi sotto la cupola, che comunicava con la navetta, ma c'erano problemi, urlava -Come sarebbe a dire che non riuscite ad avvicinarvi?-, risposta, -La forza magnetica ci spinge via! E' troppo forte!-, la caposezione, -Portate quel culo attaccato al nucleo chiaro?-, il povero geologo, -Ma signora...-, e lei interrompendo la comunicazione, -Buoni a nulla, mi hanno lasciato su Giove con dei buoni a nulla! Com'è possibile che il campo magnetico di questo stupido pianeta sia così forte da respingere una navet-, si bloccò come un videoclip in pausa, i suoi occhi brillarono e urlò puntando il dito al cielo rossastro (poiché vi erano nuvole di idrogeno allo stato liquido) -Ma certo!!! Settanta per cento ferro, magnetite, torna tutto!-. Corse via, si mise la tuta, uscì e tornò sulla navetta. Io ero molto confuso, ma un militare mi gridò -Muoviti, il cemento non si fa da solo!-, accorsi.
Quando i geologi tornarono paurosi (per la furia della "generalessa", così la soprannominavamo), Nur ci convocò tutti, ricercatori e non, in mezzo alla C.A.A., aveva con se degli oggetti. Disse -Seduti!- e si buttò lei stessa a terra, aprì le gambe e vi posò in mezzo i due oggetti; -Li vedete questi? Bene! Questo- e prese nella mano destra il primo attrezzo, una specie di disco tondo, composto da due anelli concentrici che giravano ad altissima temperatura e velocità in senso uno opposto all'altro; riprese -Questo è un piccolo marchingegno che ricrea un modesto campo magnetico, anche molto instabile- ed abbassò la testa e roteò la mano -Comunque... Ah si! Questo invece- e prese nella mano sinistra il secondo oggetto, un sasso nero -Questo è un campione di roccia di cui è composta questa "isola fluttuante", questa è magnetite, il minerale con la più grande concentrazione di ferro, se così vogliamo semplificare- e fece di nuovo quel gesto con la mano; aggiunse poi -Be' guardate cosa accade se metto questo sasso sopra il generatore di campo magnetico-; il sasso fluttuava. Eravamo tutti stupiti dalla genialità di Nur (almeno noi ricercatori, i soldati e gli operai sembravano molto confusi). Nur esplicò anche per questi ultimi, -Il nucleo di Giove è composto da due parti, sostanzialmente un po' come quello della Terra-, quel gesto stava divenendo un tormentone, -La parte esterna deve, per natura delle cose, contenere minerali allo stato semi-liquido; la parte interna a pressioni e temperature molto elevate contiene invece materiale roccioso semi-solido. Queste due sfere concentriche girano in una certa direzione grazie a dei moti convettivi interni a loro. Bene!-, si alzò in piedi, -Come questi due dischi-, ed indicò il piccolo generatore che teneva nella mano destra, -Ruotano in senso opposto creando un campo magnetico modesto che sostiene questo piccolo pezzettino di magnetite, così devono fare i due nuclei del pianeta, creando un campo magnetico cento, mille, milioni di volte più potente- (forse si era lasciata prendere un po' troppo la mano) -Sostenendo questa enorme zolla di magnetite!-. Tutti noi applaudimmo. E Nur si inchinò più e più volte, dicendo di essere molto imbarazzata. Ma un militare tra la folla, doveva essere davvero acuto, chiese alla professoressa -Scusi, ma da dove arriva questa zolla? E' caduta dal cielo?-. Nur rispose -Semplice! E' statisticamente probabile che la magnetite fusa, presente nel nucleo del pianeta in formazione, grazie alle incessanti spinte del campo magnetico si sia distaccata dalla massa di magma e lava del nucleo, portando con se anche altri materiali. Le piccole... Chiamiamole sfere di minerali fusi, chiamiamole pure bolle, anche se non è scientificamente corretto-, potete immaginare quale gesto fece con la mano, -Questi agglomerati di magnetite ed altri minerali si sarebbero poi attratti tra di loro come magneti, fondendosi; formatisi enormi blocchi di materiale fuso, questi poi avrebbero raggiunto pian piano una certa altezza altezza, l'altezza limite, oltre al quale la forza magnetica del nucleo non sarebbe riuscita a spingerli. E qui infine, lontane dalle elevate temperature del nucleo fuso, avrebbero iniziato a solidificarsi, creando questo gioiello della natura-. Il militare, rimasto di stucco, rispose con la semplice interazione -Wow!-. Un altro grande applauso risuonò in tutta la cupola, questa volta accompagnato da urla di acclamazione.
Quel giorno mi innamorai della mia caposezione, non un amore fisico, carnale, bensì un amore filosofico, un amore intellettivo, un amore profondo, radicato nel mio animo più di quanto pensassi. Un amore che non sarebbe stato soddisfatto.

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Capitolo 7
*** Cuore D'Ambra ***


Salve. Mi scuso anticipatamente per questo secondo capitolo tecnico. Voglio però che il mio mondo sia chiaro a voi lettori; con la fine di questo capitolo, e con l'ottavo, prometto che la narrazione riprenderà normalmente. Buona lettura!


Cuore D'Ambra.


«Ho trovato moltissime isole, popolate di innumerevoli abitanti ed animali […]. Il suolo contiene molte miniere di metallo e vi è una popolazione molto numerosa.»


Passati tre giorni (ottantuno ore circa, di cui circa ventiquattro di lavoro), avevamo completato la base militare e l'infermeria. Nur aveva organizzato varie spedizioni all'interno dell'isola; i geologi avevano studiato le caratteristiche del campo magnetico prodotto dal nucleo: era stato proprio quello la causa dell'interferenza degli apparecchi radio delle navicelle, interferenza che si era interrotta in prossimità dell'isola, poiché essa respingeva il campo creando una specie di cappa. Un mio amico geologo, Amir Rubbash, mi spiegò tale concetto con un semplice esempio, -Pensa ad un telo, un lenzuolo che levita orizzontale nell'aria, questo rappresenterà il campo magnetico generato dal nucleo di Giove. Qualche centimetro sopra a questo ora poni un grosso piatto di qualsiasi materiale, insomma un qualunque oggetto che possa rappresentare quest'isola. Ora in quest'ambiente ideale, poni sotto al lenzuolo un ventilatore acceso, rappresentante la forza elettromagnetica del nucleo di minerali fusi. Cosa accadrà?-; i miei occhi si illuminarono, capii e risposi -Ma certo!! Il lenzuolo, cioè il campo magnetico, a contatto col piatto, l'isola, si ripiega su se stesso creando una vera e propria zona dove l'interferenza elettro-magnetica non agisce; sei un genio Amir!-. Mi sorrise. Poi aggiunse qualche dettaglio -Questo campo elettromagnetico eccita gli atomi di idrogeno presenti nell'aria, che, perdendo l'elettrone di cui dispongono, diventano protoni. È questa la causa dell'elettricità statica, ovvero la causa della presenza di elettroni liberi nell'atmosfera del pianeta-. Io mi opposi, -Ma la forza magnetica dell'isola di magnetite, non dovrebbe proteggere anche gli atomi di idrogeno presenti entro i suoi confini?-, Amir ridacchiò e rispose -Naturalmente, ma solo se gli atomi di idrogeno non fossero liberi di muoversi, e cioè fossero allo stato liquido o solido; ma sono allo stato aeriforme, e quindi gli ioni di idrogeno, o più semplicemente protoni, e i loro relativi ex-elettroni, che ora sono qua- ed indicò il cielo che dalla C.A.A. si tingeva di un colorito più scuro -Quei protoni ed elettroni chissà da che parte del pianeta provengono, probabilmente trasportati dal vento sono giunti qua da lontano-; capii che la mia domanda era stata stupida, non avevo calcolato che solo gli oggetti generati sopra l'isola, o comunque giunti protetti dal campo elettromagnetico del nucleo (come noi stessi), potevano essersi conservati integri. Dunque questa volta pensai ad una domanda più intelligente della precedente; ma ciò che pronunciai era più una curiosità -Però Giove è famoso per le sue tempeste incessanti; come mai non ne abbiamo ancora viste?-, Amir si mise a sedere, prese una penna e rigirandola tra le mani disse -Noi non abbiamo visto ancora tempeste elettriche perché essenzialmente non si verificano in prossimità delle isole. Mi devo scusare con te per le risposte che ti ho fornito prima, erano piuttosto imprecise e semplicistiche. Il campo magnetico non è composto da una sola grande onda, se così possiamo chiamarla, ma piuttosto da un'insieme di onde incessanti... Quasi come una “sfoglia”... Prima ti ho chiesto di pensare ad un solo lenzuolo, per semplificare la questione, ma forse avresti dovuto pensare ad una pila di lenzuoli-, non capivo, lui continuò, -Di questi lenzuoli impilati uno sull'altro, pensane per comodità anche solo cinque, sotto l'azione del ventilatore alcuni tenderanno a piegarsi di più, altri meno, altri magari persino formeranno strani rigonfiamenti. La natura del campo elettromagnetico, per quanto intensa, è poi molto simile a quest'esempio; stiamo comunque parlando infatti di onde con un altissima frequenza, forza e velocità, e dunque molto instabili. In conclusione come quei lenzuoli, anche le onde magnetiche non si piegano all'unanimità, ma prendono forme e direzioni diverse. La forma che racchiude l'isola non immaginarla tanto come una solida campana, quanto più come i petali di un bocciolo di rosa-, ero perplesso, ma meravigliato. Amir prese un foglio e facendo un disegnino mi spiegò -Ecco. La concentrazione di elettroni fuori dall'isola cambia molto gradualmente rispetto a quella nell'isola, se per esempio dividiamo la zona tra il fuori (a sinistra) e il dentro i confini dell'isola (a destra) in quattro parti, e facciamo finta che queste tre righe di separazione siano le onde del campo elettromagnetico, (procedendo da sinistra verso destra) se nella prima sezione avremo cento elettroni, nella successiva ne avremmo settantacinque, perché venticinque saranno stati trattenuti dalla prima onda del campo elettromagnetico, nella terza sezione ne avremo solo più cinquanta, e dentro l'isola circa venticinque-, avevo capito che Amir era un genio, -Per concludere dunque le tempeste elettriche, i fulmini insomma, si verificano solo nelle zone più lontane dall'isola, dove la concentrazione di elettroni è maggiore, e dunque l'energia statica dell'aria diventa molto instabile, tanto da doversi liberare violentemente-. Lo ringraziai molto. In dieci minuti Amir mi aveva spiegato tantissime cose e così me ne andai soddisfatto.
Finita la costruzione dei due edifici iniziammo quella del laboratorio di ricerca. In quei giorni Nur era piuttosto nervosa; colsi l'occasione e andai a parlarci. Avevano costruito per lei una specie di capanno, che lei pretendeva fosse chiamato “gabinetto” (ma quel luogo della parola forse prendeva il significato più sgradevole). Bussai e, aperta la porta, mi fece entrare. Le chiesi cosa avesse e lei mi rispose -Non capisco Sylar, abbiamo organizzato tre spedizioni su questa maledetta isola, l'abbiamo setacciata da cima a fondo, ma non abbiamo trovato nessuna forma di vita animale. Sono disperata. Non voglio tornarmene a casa solo con delle stupide piantine da "regalo all'ultimo minuto"-, le risposi, -Magari su quest'isola non ci sono, magari questa è un'isola deserta-, lei si girò di scatto, i suoi occhi spalancati sembravano in procinto di fuoriuscirle dalle orbite; rispose -Quest'isola? Questa? Tu... Dunque tu ritieni esserci altre isole su questo pianetucolo. Ma certo! Ma certo!-, stava scatenando le braccia in aria come se qualcuno dall'alto dovesse vedere la sua eccitazione, -Ma certo! Tante piccole Madagascar, tante piccole Australie! Sei un genio, sono un genio! Va', preparati! Andremo ad esplorare questo gigante gassoso e troveremo tutte le sue maledette isole volanti!-. Mi trascinò con lei fuori dal suo “gabinetto”, e poi urlando fece un annuncio in grande stile, -Fermate i lavori!-.
Tutti squadravano la "generalessa" molto perplessi. -Ho detto, fermate i lavori! Non voglio un inutile laboratorio su un'isola fluttuante sprovvista di fauna!-. Nessuno capiva le parole della genetista, che continuava imperterrita -Ci saranno altre isole di magnetite su questo immenso pianeta. Ognuna deve possedere necessariamente una sua flora ed una sua fauna caratteristiche, che sulle altre isole non si ritrovano, a meno che due isole siano in comunicazione ma questo è un dettaglio. E' un po' lo stesso concetto del Madagascar o dell'Australia: Queste isole completamente isolate, appunto, dal resto del pianeta hanno permesso il mantenimento e lo sviluppo di certe razze di flora e di fauna che sul resto del pianeta non sono presenti; pensate al canguro australiano o al lemure del Madagascar. Il caso ha voluto che noi atterrassimo proprio su un'isola deserta-, ridacchiò portandosi la mano davanti alla bocca ma poi riprese, -Io voglio, pretendo, esigo che il mio laboratorio di ricerca sia installato su un'isola provvista di fauna!-. Tutti erano allibiti. Il primo a prendere parola fu il capitano Thomas -Signora, mi scusi se la contraddico, ma ciò significherebbe la costruzione di una seconda C.A.A. e la spesa di energie e tempo utili per-, Nur lo interruppe, -Caro signor Valliage, non capisce l'importanza che avrebbe per voi se noi riuscissimo a studiare alcune forme di vita animale? Potremmo indicarvi la loro composizione organica, potremmo indicarvi il loro punto debole, voi potreste imparare con che mezzi scalfire il nemico che le due ambascerie non sono riuscite nemmeno a contenere. Una dose di arsenico stende qualunque essere terrestre-. Il capitano Valliage portò la mano destra al mento, con la sinistra si asciugò la fronte corrucciata e poi disse -E va bene, troviamo questa “Nuova Australia”-. Nur sorrise compiaciuta.
In esplorazione partirono dieci delle trenta scialuppe, tre con tutti i ricercatori stipati come acciughe (io ero ancora riuscito a sedermi), due con i militari, tra cui il capitano, e le ultime cinque con la totalità degli operai e degli ultimi materiali rimasti per l'edificazione di una seconda C.A.A. (che rimase più piccola rispetto alla prima). Una volta decollati potevamo comunicare solo attraverso il codice Morse. Dopo un'ora di viaggio avvistammo un'isola, questa disponeva di una immensa foresta, quasi una giungla. Mentre atterravamo un biologo sulla mia nave urlò -Un uccello!-; mi raccontarono poi che in quell'istante Nur aveva sussurrato -Lo sapevo io!-. Sorvolammo con la nave la boscaglia sino a trovare un luogo adatto alla costruzione della seconda cupola. Dopo venti minuti di ricerche, la terza nave trovò una radura, ci segnalò la sua posizione, e ci ritrovammo tutti in quel luogo. Subito appurammo che la fauna era realmente presente su quell'isola: un gruppo di animali stava pascolando in quel punto. Erano molto simili in grandezza a dei maiali e di essi avevano anche il caratteristico naso, ma erano completamente ricoperti da una folta peluria che ricadeva persino sui loro occhi, ostacolandone, credo, la vista. Come mettemmo piede sull'isola, questi strani esseri fiutarono il nostro odore extraplanetare (chissà che odore avessero sentito) e scapparono a gambe levate verso l'interno del bosco. Nur prese la parola, ed attraverso il microfono installato nella tuta disse -Questo luogo è perfetto! Cominciamo i lavori! Lavoreremo anche di notte ed una volta completata la C.A.A. voi militari potrete tornarvene sulla vostra isola deserta-. Il comandante Valliage rispose ironicamente -Sissignora-. Così i lavori di edificazione iniziarono e, con turni anche di dieci ore consecutive, la cupola fu pronta in un giorno e mezzo (cinquanta ore circa). L'installazione del depuratore era come sempre l'ultimo passo. All'inizio del terzo giorno infine potemmo respirare liberamente all'interno della cupola. Nei due giorni successivi ci adoperammo per costruire il laboratorio di ricerca e i dormitori degli scienziati. Completato, l'edificio pareva un grande cubo ricoperto di pannelli solari, che servivano per l'approvvigionamento dell'energia elettrica. Passati cinque giorni, alla mattina del sesto, salutammo i soldati (rimasero con noi venti unità) e gli operai (di questi ne trattenemmo solamente cinque o sei); ci lasciarono a disposizione due navette con quattro piloti. Nur alla vista delle navette che decollavano disse -Finalmente quello scorbutico di Valliage e i suoi tirapiedi levano le tende-; i venti soldati rimasti sull'isola la fulminarono con gli occhi.
Ci preparammo per l'esplorazione e lo studio della seconda isola. I cartografi ci dissero che necessitavano almeno, in quel frangente, dei nomi delle due isole, Nur disse -Dunque la prima la potremmo chiamare...-, ci pensammo tutti su, e, dopo esserci confrontati, battezzammo la prima isola "Alfa Giovia" (letteralmente:"La prima di Giove"), poiché la prima isola su cui era approdata la missione; per la seconda scegliemmo "Zògera" (Letteralmente:"Ospitante animali"), poiché quella era la sua caratteristica fondamentale. Dopo queste formalità, partimmo in esplorazione della foresta. Ad ognuno di noi venne data un'arma da fuoco, per difenderci da potenziali attacchi di animali feroci. A metà del primo giorno d'esplorazione potevamo concludere che su Zògera la specie dominante era quella dei mammiferi. Non vi era infatti ombra di altre tipologie di animali, se non alcuni uccelli ovipari che concludemmo essere emigrati lì da una terza ipotetica, ma quasi certa, isola. Durante la serata di quel sesto giorno, sezionammo qualche animale. Io mi concentrai sull'osservazione delle cellule. Erano molto simili a quelle degli animali terrestri: membrana fosfolipidica, nucleo contenente informazioni ereditarie, citosol, organuli ed apparati interni circondati da membrana del tutto analoghi ai nostri. Un'importante scoperta arrivò da un mio collega biologo, un trentenne di origine francese, che si accorse di una stranezza nel sistema nervoso delle specie di mammiferi che aveva analizzato. Il loro sistema nervoso poteva condurre segnali elettrici molto più potenti di quelli umani. Per la precisione cento volte più potenti, e se dunque il sistema nervoso di un essere umano ha una potenza media di settanta millivolt, il sistema nervoso di quei mammiferi raggiungeva i sette volt. Una scarica elettrica improponibile per qualsiasi animale terrestre. Nur era pensierosa; capii che stava elaborando qualcosa. Una seconda importante scoperta ci venne comunicata da un biologo sudafricano, analizzando l'epidermide di alcuni di quei mammiferi aveva scoperto che creava una resistenza all'energia elettrica, inoltre nei punti in cui le cellule formavano i pori, presenti anche negli animali terrestri, vi erano speciali proteine di membrana capaci di scambiare elettroni con l'esterno; in conclusione i mammiferi di quell'isola non sembravano solo capaci di resistere all'energia elettrica, ma anche di poterla assorbire, e forse anche utilizzare. Il come questi animali impegnassero gli elettroni catturati nell'ambiente circostante, venne ipotizzato da Nur che collegò le due scoperte; ci spiegò -Molto probabilmente il sistema nervoso di questi animali, con un potenziale elettrico di sette volt, si serve oltre che dei segnali prodotti dal cervello, molto deboli, anche di quei famosi elettroni presenti nell'atmosfera e provenienti dall'eccitamento degli atomi di idrogeno provocato dal campo elettro-magnetico del pianeta-, piano piano tutte le tessere, prima confuse e disordinate, stavano componendo un interessantissimo mosaico, -Questo processo deve essere naturale per gli animali, quanto la respirazione, o il battito del cuore. Questo pianeta è un gioiello del Darwinismo! Se questi animali non si fossero infatti adattati in qualche modo all'energia elettrostatica a cui questo pianeta li sottopone incessantemente, sarebbero ora tutti morti! Anzi, forse la vita non si sarebbe proprio sviluppata! Invece sia vegetali che animali riescono a sopravvivere in queste condizioni, pessime per noi, ma vitali per loro. Un qualsiasi essere vivente che da qua si spostasse senza un'adeguata protezione sulla Terra, morirebbe in poco meno di un giorno!-. Eravamo tutti estasiati. E con quelle fondamentali scoperte, concludemmo il primo giorno d'esplorazione (sesto da quando eravamo atterrati). Prima di coricarmi io, sentitomi solo, misi al collo il mio cuore d'ambra.
Il giorno dopo organizzammo altre spedizioni, addentrandoci sempre più nella boscaglia. Io mi ritrovavo in un gruppetto di quattro persone, compreso il mio amico Amir. Durante l'esplorazione parlammo; mi chiese -Ehi, Sylar, a te ogni tanto manca la Terra?-, io risposi, -La scorsa notte molto-, sentivo il cuore d'ambra premuto sul petto, sotto la tuta; lui mi disse -Io per nulla, ho lasciato laggiù una vita triste e monotona, e cos'ho ricevuto in cambio? Questo!- e spalancò le braccia. In quello stesso istante un animale gigante, con degli artigli enormi, saltò giù da una pianta ed aggredì uno di noi quattro. Ero terrorizzato, mi buttai in un cespuglio, iniziammo a sparare sull'animale; il ricercatore assalito giaceva in una pozza di sangue, il suo casco era rotto e il suo volto era arso per la temperatura e l'energia elettrostatica dell'ambiente. Credetti di star per vomitare, mi rialzai, stolto, dando la schiena all'animale che scaraventandosi contro di me mi fece schiantare contro un albero; caddi supino per terra. L'animale mi tirò un'artigliata sul petto. La mia tuta si lacerò. Quel poco che capii in quegli attimi: il mio petto s'infiammò, sentivo le ferite cuocersi, qualcosa che mi strattonava il collo, era il cordino del ciondolo d'ambra, poi una luce bianca. Svenni. Aprii gli occhi, intontito, persone in camice bianco. Svenni una seconda volta.
Mi risvegliai in un letto d'ospedale (erano passati due giorni ma per me potevano essere trascorsi due minuti come cent'anni). Intorno a me degli strani esseri eretti, sembravano rettili, cinque. La mia attenzione si focalizzò su un essere con una maschera nera, dei tubi ai lati di essa. In una mano, con il braccio teso spasmodicamente, una spada luminosa. Parlavano, ma una strana lingua.
Svenni un terza ed ultima volta.

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Capitolo 8
*** Addestramento ***


Siamo giunti al capitolo centrale, a metà del racconto! I miei amici dicono che corro troppo, ma non ce la faccio, la storia mi prende così tanto da costringermi a scrivere praticamente ogni giorno. Continuerei anche senza lettori (effettivamente però queste note non avrebbero più alcun senso). Va be'! Buona lettura!

 

 

Addestramento.


 

"Ogni illustre eroe ha superato un addestramento. Dal più antico Gilgamesh; passando per gli eroi d'età classica come Achille, Odisseo, Enea e per quelli cavallereschi come Orlando e Goffredo di Buglione; fino al più moderno, il quale potrebbe essere Goku, per esempio. Tutti costoro hanno dunque una cosa in comune: un continuo addestramento al combattimento."


 

Camminavo appoggiato ad una stampella tra i corridoi di quello strano ospedale e, mentre procedevo a stento, la gente che incontravo, fossero civili o personale, tutta quanta si scansava al mio passaggio, appoggiandosi alle pareti il più lontano possibile da me. Sentii in un atrio una madre dire al proprio figlio, che mi guardava stranamente, -Non guardarlo, Mutir! Quello è il comandante rinnegato di cui tutti parlano. Ha ucciso un proprio compagno per un litigio ed è riuscito a sopravvivere alla pena capitale del sommo Seis; fa' attenzione bambino mio, quello è una belva- e quando il bambino tentava di guardarmi, la madre severa diceva -Ti ho detto di non guardarlo!- mettendogli una mano sugli occhi. Sentivo sotto la pelle l'odio delle persone nei miei confronti; aver abbattuto l'arricar mi poteva aver anche liberato dalla morte, però aveva tramutato la mia vita in un inferno. Che senso aveva dunque essere scampato alla pena capitale?

Finalmente giunsi all'uscita della struttura, quando una voce tuonò -Dove credi di andare, ragazzo, in quelle condizioni?-. Era Liam. Io cercai di inginocchiarmi, ma non riuscendoci, lui mi fermò. Disse -Devi riposare Sazàn, ti devi rimettere in forze. potrai uscire di qua, quando ti sarai rimesso del tutto-. Avevo milioni di dubbi e domande, non ragionai in quei secondi in cui mi aggrappai al suo mantello per fermarlo (avevo compiuto un atto gravissimo, io semplice comandante, che strattona le vesti di un Gran Cancelliere). Stavo per riversare su di lui tutte le mie frustrazioni, ma Liam se ne accorse, si girò e disse -Saprai tutto a suo tempo, ora staccati, non vorrai far prendere un infarto a queste povere persone?-. Mi girai. Le persone stavano inginocchiate ammutolite dalla paura per la possibile reazione del Gran Cancelliere alle mie azioni tracotanti. Lasciai la presa; Liam disse -Non preoccupatevi gente, non mi adiro per così poco, buona giornata- ed uscì dall'ospedale. Una settimana dopo ero come nuovo. Presi il borsone e mi avviai verso l'uscita, ad attendermi c'era il primo battaglione della divisione sicurezza al completo. Lis mi disse -Buongiorno, la trovo in forma signor capitano!-, io la salutai; -Deve venire con noi-, non capivo, aggiunse -Il Gran Cancelliere desidera parlarle-, dal mio sguardo doveva aver capito che non mi fidavo e sorridendo mi disse -Capitano Sazàn, siamo disarmati, su non faccia il timido-. Convintomi, salii a bordo e partimmo. Domandai -Dove andiamo?-, mi rispose Bulen, era la prima volta che lo sentivo parlare, -Andiamo alla residenza del Gran Cancelliere Liam-. I miei nervi saltarono dalla sorpresa, era da poco che io ed il Gran Cancelliere ci eravamo incontrati e si era scomodato sino al punto d'aiutarmi in tribunale, di venire a trovarmi in ospedale, ed ora aveva mandato il primo battaglione per accompagnarmi alla sua stessa abitazione. Ero nervoso, ero curioso, non capivo; il ragazzo sempre composto dovette accorgersene e mi disse -Sta' calmo, ti sembra il caso di agitarti così?-, Lis si girò e lo sgridò, -Come ti permetti Glax? Sei in presenza di un comandante, scampato alla furia di un arricar, scampato alla legge, alla pena capitale! Porta un minimo di rispetto!-; Glax sbuffò e girò la testa per evitare di incrociare un qualsiasi sguardo. L'autista ridacchiò. Dopo circa un'ora di viaggio, giungemmo dinnanzi un enorme cancello, sorvegliato da quattro guardie. Lis si sporse dall'abitacolo e parlò con una di esse. Ci lasciarono passare. Bulen mi disse -Questa è la residenza privata del signor Liam-. Rimasi di stucco. Un enorme edificio rettangolare violaceo, una ventina di cupole formavano il tetto, mentre quattro altissime torri nere segnavano i punti cardinali, di queste ultime non si notava il culmine, bucavano le nuvole purpuree. Scendemmo davanti ad un'enorme scalinata, in cima a questa stava Liam con una seconda figura al fianco.

Non ci potevo credere. L'avevo riconosciuto, quella postura amichevole, quello sguardo pacato, quei profondi solchi sotto gli occhi. Era Jimba, il mio vecchio maestro all'accademia militare.

Mi vennero in mente tutte le vecchie missioni del mio battaglione, avevo le lacrime agli occhi; mi inginocchiai senza esitare. Jimba disse -Sazàn ti trovo molto bene! Sei maturato e il tuo corpo si è sviluppato grandemente. Ho saputo di Syr e dei due fratelli, povere anime- ed abbassò la testa sconsolato, poi, riprendendo fiato dopo un lungo respiro, disse -Comunque, alzati, non c'è più bisogno che tu ti inginocchi davanti a me, sarò pure un ammiraglio in pensione, ma ormai tu sei un gran comandante; alzati Sazàn-. Jimba era un grande ammiraglio della vecchia generazione piuttosto conosciuto sul Pianeta Madre; vantava innumerevoli missioni portate a termine eccellentemente, tra cui la cattura del più grande criminale del nostro popolo: Avendii Sasox.

Questo criminale, processato quando io ero solo un piccolo bambino, fu accusato dell'uccisione di sette consiglieri e di tredici militari tra comandanti ed ammiragli che avevano tentato di catturarlo. Cominciò a spargere terrore all'età di circa due rivoluzioni e mezza, con il suo primo assassinio: l'assassinio di suo padre, il consigliere filosofo Bemph Sasox. Fuggiasco per molto tempo, continuò ad eliminare tutti gli stretti collaboratori del padre e tutte le truppe inviate dal Consiglio e dal Gran Cancelliere predecessore di Liam. Fino a quando un giorno venne avvistato sulle montagne del nord da una truppa dei Jumbo; in un imboscata attraverso uno stretto valico, fu catturato dall'ammiraglio Jimba, deportato fino a palazzo, e giustiziato immediatamente dal Gran Cancelliere in persona. Del come mai una così grande personalità come Jimba fosse davanti ai miei occhi non riuscivo a capacitarmene.

Mi rialzai. Stavo zitto e non osavo salire sulla gradinata. Arrivarono anche Lis e gli altri che avevano parcheggiato il veicolo. Lis salendo sul primo gradino si volse verso di me e mi disse -Che fa, non viene? Non si sente ancora a suo agio dopo tutto ciò che è successo? Lei è davvero timido Sazàn!- ridacchiò, mi prese la mano e salimmo insieme la gradinata.

Giunti davanti ai due, Liam disse -Buongiorno Sazàn, come ti senti? Avrai molti dubbi, ma tempo al tempo! Ora entriamo-. Due secondini spalancarono l'enorme portone in pietra nera ed entrammo nel grandioso atrio circolare. Tutto era dello stesso colore violaceo dell'esterno del palazzo, sei grandi finestre permettevano l'ingresso della luce, per terra un vastissimo tappeto rosso e alle pareti i dipinti di alcune delle più grandi personalità del passato. Dirimpetto al portone una scala che portava al primo piano della costruzione. Jimba mi disse molto ironicamente -Benvenuto nella mia umile dimora Sazàn-. Mi scandalizzai, "Questa non doveva essere la residenza privata del Gran Cancelliere?" pensai. Lis ridacchiò e diede una gomitata maliziosa a Bulen che stava sorridendo con gran gusto. Il Gran Cancelliere sorridendo, appoggiò la mano sinistra sulla spalla di Jimba e disse -Esatto Sazàn, Jimba è mio padre-. Mi prese un colpo al cuore. Nessun abitante solitamente sapeva la genealogia dei Gran Cancellieri, questa era una norma comune: essendo il Gran Cancelliere la figura più importante del pianeta, e dunque anche la più mirata da attentati, la sua famiglia d'origine doveva rimanere un segreto condiviso con i pochi amici e parenti affinché potesse essere adeguatamente protetta. Nella storia del nostro popolo infatti furono molti i criminali che, non potendosi avvicinare al Gran Cancelliere in persona, avevano mirato alla sua famiglia, provocando spesso anche delle vittime. Dunque, circa cento rivoluzioni fa, fu promulgata una legge che condannasse chiunque divulgasse informazioni riguardo la vita privata di questa figura politica, attorniandola così in un velo di mistero. Il mio cervello dunque realizzò in quell'istante che, oltre ad esser venuto a conoscenza dei legami famigliari del Gran Cancelliere Liam, avevo appena scoperto che il mio vecchio maestro Jimba, a cui ero solito insieme a Jub fare qualche scherzo, era proprio il padre di costui. Tutto tornava: il soprannome, il ritiro forzato dall'esercito proprio lo stesso anno della nomina di Liam; tutto era più chiaro, ma allo stesso tempo più incredibile. Così balbettai qualche parola insulsa. Jimba disse -Su su Sazàn! Io rimarrò sempre un buon vecchio maestro ai tuoi occhi, non un tronfio e fiero padre che si serve del potere del figlio per farsi rispettare. Tranquillo-. Io stavo ancora zitto, osservando sempre più le immense autorità che in quella stanza erano confluite. Fu come sempre il Gran Cancelliere a rompere il ghiaccio -Quarto battaglione, potete lasciarci-; Lis e gli altri si inchinarono ed uscirono dalla stanza, recandosi in un'altra zona della villa. Liam riprese -Padre, cominci tu od io?-; Jimba rispose al figlio -Procedo io-, poi voltatosi verso di me mi disse -Avrai capito anche tu caro Sazàn che c'è un motivo se ti abbiamo convocato qua con urgenza, so che hai molte questioni, ma lasciami spiegare. Innanzitutto devi sapere che qua, sul Pianeta Madre, ogni essere vivente si può servire dell'energia elettrostatica dell'atmosfera per svolgere determinate funzioni: i vegetali per organicare, gli animali per la locomozione. Bene, gli unici esseri viventi sprovvisti di tale capacità siamo noi, o meglio, la maggior parte di noi-, non capivo, Liam allungò al padre un cuscino su cui era posata una frusta, Jimba la prese nella mano destra e questa si illuminò ed iniziò ad agitarsi elettrizzata. Io ero meravigliato, ad un certo punto mi venne in mente dello scontro con l'arricar e prorompetti dicendo -Anche la mia spada emanava quel bagliore!-. Jimba posò la sua frusta e sorridendo disse -Vedo che sei ancora arguto come una volta figliolo. Esatto. Io e te possediamo questa capacità: noi possiamo usare l'energia dell'ambiente per sfruttarla a nostro piacimento. Questi oggetti, la mia frusta o la tua spada, sfogano l'energia elettrica che noi immagazziniamo, facendola fluire violentemente dalle nostre braccia, attraverso loro. Di persone come noi, con questa capacità, ne nascono massimo tre ogni rivoluzione, è una benedizione questo potere Sazàn-; si interruppe esaltato, poi riprese, -Ma prima di saltare alle conclusioni; lascia che io ti spieghi ancora una cosa, tre rivoluzioni fa, prima che tu nascessi, esisteva una quinta divisione dell'esercito: i cosiddetti Neuro. Eccomi: Jimbesa Lodd' ex-veterano della divisione neuro dell'esercito del Pianeta Madre-. Se prima rispettavo enormemente il mio vecchio maestro, tutto ciò ora lo circondava di un aura mistica e quasi sacra, che ai miei occhi lo rendeva quasi un santone; -Il mio battaglione consisteva in un gruppo di quattro persone, ognuno di essi con quattro armi differenti: la frusta a me, la lancia a Me' Hivi che ora riposa in pace, insieme al possessore del martello Lat Pervy-; poi abbassò lo sguardo. Sempre più impaziente chiesi -E il quarto?-; il mio maestro rispose -Il quarto... Il quarto, possessore della spada, la stessa spada che tu hai usato nel tribunale militare, era Avendii Sasox, il Rivoluzionario-. Trasalii, il peggior criminale del mio popolo, la macchia del Pianeta Madre, un ex-compagno del mio maestro. -Già-, abbassò lo sguardo, pensando chissà quali cose, poi riprese -Ma non facciamo troppe digressioni; ora l'importante è che tu capisca perché sei qua. Seguimi-. Dall'atrio passammo, insieme a Liam, attraverso vari corridoi, poi, lungo una rampa di scale discendente, giungemmo davanti alla porta di un grande stanzone, enorme, esteso quanto tutto il perimetro della casa. Jimba prima di entrarvi mi disse -Questo edificio, che ora è la mia dimora, era la sede della divisione Neuro. Questa è la palestra o altrimenti stanza d'addestramento. Bene. Ora tu ti allenerai qui con me fino a quando non imparerai a destreggiarti con questa tua capacità. Ora ti chiederai "Ma perché proprio in questa stanza?". Avrai sicuramente notato, giungendo qua, le quattro torri altissime, giusto?-, annuii, -Quelle torri mettono in comunicazione questa stanza con la parte più alta dell'atmosfera, sono dei grandi catalizzatori di elettroni, li catturano al di fuori del campo magnetico dell'isola, trasportandoli in questa stanza. Questo ci permetterà di poter usare un maggior numero di elettroni rispetto ad una qualsiasi zona dell'isola. Quando entrerai, Sazàn, ti sentirai assalito da un'energia insormontabile, la prima cosa che ti chiedo è di prendere questa-, Liam porse la spada a Jimba, che me la diede, -E sfogare tutta la tua energia, altrimenti, non essendo abituato a quella concentrazione così alta di energia elettrostatica, imploderai letteralmente. Sei pronto figliolo?-. Presi la spada saldamente con entrambe le mani e dissi fieramente -Si!-; d'altronde ero uno dei pochi Neuro, e ciò mi esaltava ed eccitava parecchio. Liam mi disse -Buona fortuna Sazàn- ed a quel punto fui davvero pronto ad entrare nella stanza. Jimba aprì la porta e varcammo la soglia. C'era una anticamera, ma la tensione dell'aria era già più che tangibile. Quando fui all'interno della vera e propria stanza d'addestramento, iniziarono a mancarmi i sensi, Jimba se ne accorse e mi disse -Ragazzo so che è dura, e questo perché è anche la tua prima volta, ma stringi i denti e resisti- poi la fatidica domanda -Li vogliamo schiacciare questi Rosa o no?-. A quel punto il mio animo esplose, e con esso anche la spada. La lama divampò e notai con mio grande piacere che era più lunga e spessa della prima volta. Jimba mi gridava frasi di incoraggiamento. Sentivo i miei muscoli spasmodici sotto la grandissima corrente elettrica che dal cervello viaggiava per tutto il mio sistema nervoso sino alle mie mani, provocando violente e continue contrizioni delle mie braccia. Dopo due minuti fui obbligato a lasciare la spada; ma Jimba mi rimproverò -Pazzo! Vorrai mica implodere! Riprendi la tua arma, è l'unico oggetto che ti permette di sfogare l'energia che ti fluisce inesorabilmente nel corpo-. Ripresi subito la spada, sudavo ed ansimavo, la lama s'accese una seconda volta. Andammo avanti così per tre giorni, io facevo una pausa ogni tanto uscendo dalla stanza, mentre Jimba continuava a rimanerci, tranquillo. Riuscito a capire il meccanismo con cui sfogare l'energia, Jimba passò a spiegarmi la parte teorica: come controllare la quantità d'energia assorbita ed emessa. In questa parte dell'addestramento mi spiegò inoltre che l'energia catturata dall'ambiente poteva essere utilizzata, oltre che per il potenziamento muscolare, anche per inviare segnali elettrici ad altre persone. Telepatia insomma. Mi mostrò come fare; prima mi inviò un segnale lui, che quando giunse al mio cervello mi pizzicò le tempie, ma capii ciò che diceva; in quei pochi secondi mi aveva trasmesso tutto il sapere riguardante questa pratica, aveva instillato il suo sapere nella mia mente. Dovevo insomma pensare intensamente a ciò che volevo comunicare (non c'erano limiti di lunghezza, ma messaggi corposi comportavano grandi dolori per chi li avesse ricevuti, soprattutto se non fosse stato abituato), poi concentrarmi sulla persona a cui comunicarlo, concentrarmi sulla sua posizione ed infine inviare il segnale elettrico dal mio cervello a quello del destinatario. Dopo un solo giorno imparai. Così riprendemmo la teoria del combattimento corpo a corpo con la spada e dopo altri due giorni la maneggiavo già discretamente; mi bastava solo più una mano per tenerla saldamente e la lama sembrava stabile ed aveva acquistato una forma definita. Il settimo giorno di addestramento Jimba disse -Bene ora che riesci a controllare discretamente la spada con una sola mano, sconfiggimi-. Mi prese lo sconforto, io che sfidavo un ammiraglio, in più con poteri neuro: una sola parola balenava nella mia mente, follia. Jimba estrasse la frusta, che fino a quel momento aveva tenuta sempre legata alla vita; essa iniziò ad incendiarsi e a dimenarsi, come controllasse quella potenza elettrica non riuscii mai a spiegarmelo. Mi disse -Ragazzo questa è l'arma più difficile da controllare, come vedi in sei rivoluzioni non sono mai riuscito a domarla completamente ed ora sono anche molto arrugginito. Ci andrò piano inizialmente, ma di volta in volta aumenterò la forza dei miei colpi-. Ai primi scontri non riuscii nemmeno a contarle, tante erano le volte in cui la mia spada volò dall'altro lato della stanza, avvinghiata dalla sua frusta elettrica; ma dopo circa tre giorni di allenamento riuscivo a stargli dietro. I suoi movimenti, dapprima veloci e difficili da percepire ora s'erano fatti più chiari e distinti ai miei occhi, sentivo d'essere diventato più forte. Se non che un giorno, il decimo, Jimba mi sferrò una frustata talmente forte e veloce che mi ferì l'occhio destro; tale offesa mi fece così trasalire che, poiché infuriato, la mia spada s'ingrandì: Jimba rimase alquanto sorpreso, quando per la prima volta dopo tre giorni, riuscii a ferirlo al braccio. Dopo quell'episodio continuammo ancora ad allenarci per un giorno o due. Dopo quei dodici giorni faticati e sudati, ero divenuto un Neuro provetto.

Prima che lasciassi la sua abitazione, Jimba mi ammonì -Ragazzo l'arma puoi tenerla con te, puoi anche usarla in missione. Inoltre ti affido questa maschera con annesso questa batteria-. Mi porse una maschera nera, congiunta con dei tubi ad uno strano marchingegno da portare a spalle dietro la schiena, come uno zaino. Era di dimensioni abbastanza contenute e quindi non molto scomodo. -Questa batteria ti consentirà di immagazzinare un po' dell'energia che non utilizzerai, e da cui dunque potrai attingere quando sarai in un ambiente privo di elettricità statica. La maschera inoltre ti aiuterà a prendere respiri più lenti e meno intensi. Mio figlio ha già provveduto ad informare il Consiglio su tutto. Ma non fare menzione alcuna di ciò che hai visto in questi giorni con qualsivoglia persona; la sai meglio di me la punizione prevista Sazàn, e questa volta non ci saranno "armi magiche" a salvarti-. Ringraziai, mi inchinai e mi congedai. Ad accompagnarmi c'erano come al solito Lis e gli altri. Lei, non appena fui salito sulla vettura mi disse -Noi sappiamo tutto Sazàn, Liam ci ha nominati primo battaglione della divisione sicurezza perché siamo quelli a lui più fedeli. Con noi non ti dovrai mai preoccupare, siamo qui per te- e mi sorrise. Per la prima volta guardai bene il suo volto, era davvero bella. Ma abbassato lo sguardo, pensai che non era il caso di fantasticare oltre. Sceso davanti alla mia abitazione, Lis prima di congedarsi mi disse ancora -Ciao Sazàn, stammi bene-. La salutai. A quel punto mi venne in mente che, sebbene fossi un comandante, quel giorno mi aveva dato del tu. Andai a coricarmi felice.

L'indomani fui svegliato bruscamente da qualcuno che bussava fortemente al mio portone. Aprii. Erano Lis e gli altri. Lei mi prese una mano e mi disse -Sazàn, non c'è tempo per le domande, preparati alla battaglia, prendi spada, maschera e salta su-. Non potei nemmeno obbiettare che lei gridò -Dai Sazàn ti spiego durante il tragitto!-. Fui pronto in un batter d'occhio e partimmo. Chiesi dove stavamo andando e Lis mi spiegò tutto -C'è stata un'esplosione stamane sul presto, su una delle isole dell'arcipelago Mozhen. I venticinque scienziati del consiglio non capivano di cosa si trattasse e dunque hanno inviato una pattuglia sul posto. Ci sono degli accampamenti dei Rosa, Sazàn!-. Sbiancai. Da dove erano arrivati? Quando erano arrivati? A nulla valsero le mie domande; -Non so nulla Sazàn. Comunque il consiglio ha deciso di distruggere questo accampamento segreto, Liam nella scelta del comandante ha designato te-. La mia prima missione da comandante scelto, ero eccitato ed allo stesso tempo agitato. Bulen, rozzo come sempre, disse -Noi ti pariamo il-; Lis lo interruppe e rimproverò bruscamente. Arrivammo alla base, subito organizzai le truppe a mia disposizione come meglio credevo: ero stato disposto della divisione speciale dei Jumbo, che ci avrebbe accompagnato attraverso i cieli del Pianeta Madre fino all'accampamento, che a quanto mi avevano spiegato era protetto da uno speciale strano scudo trasparente. I Jumbo avrebbero prima rotto tale scudo bombardandolo, poi noi avremmo fatto incursione nell'accampamento. Avevo quindici battaglioni, oltre a due della sicurezza, tra cui il primo, erano stati armati tredici battaglioni di incursori; circa cinquecento uomini. Smistai i vari soldati in cinque gruppi, affidando ognuno di essi ad un Jumbo. Io decisi di seguire il gruppo in cui v'erano Lis e gli altri. Quando sul cielo si stagliavano le prime ombre serali, partimmo. Arrivammo alla cupola in poco tempo. Era enorme e lucida, potevo vedere l'interno: un enorme cubo rilucente. Decine e decine di rosa vestiti di bianco che viaggiavano di qua e di là. I Jumbo iniziarono a bombardare la cupola, con cinque colpi era già quasi tutta infranta. Entrammo in azione noi; come frase d'incoraggiamento gridai -Forza uomini, facciamo levare le tende a questi vermi!-. Indossai la maschera che mi rendeva molto inquietante, e ammetto che l'idea in fondo mi piacesse. Penetrammo in ciò che restava della cupola; quei rosa non erano preparati ad uno scontro armato, avevano piccole armi da fuoco, di breve gittata; non sembravano i militari che avevamo affrontato sul primo satellite. Con quella cupola avevano dovuto ricreare delle condizioni favorevoli alla loro vita; lo capii dal fatto che chi era morto durante le esplosioni giaceva ora a terra carbonizzato, mentre chi era sopravvissuto si era dotato di quella stessa tuta bizzarra che vidi nel primo scontro. Ma non era ora di pensare, ma piuttosto agire. Attorniato da Lis e i suoi che mi guardavano le spalle, uccidevo ogni Rosa che mi capitasse a tiro: una stoccata e aprivo un ventre, un'altra e ne tranciavo uno a metà, un'ultima e mozzavo una testa. Entrammo nello stabile. Andava tutto a fuoco e fu difficile addentrarsi. Ad un certo punto un proiettile colpì Glax alla spalla che urlando crollò per terra. Era stata una donna, potevo vedere discretamente i suoi lineamenti attraverso la scura visiera che le adombrava il volto. Infuriato mi diressi verso di lei. Urlava qualcosa nella sua strana lingua, mentre scaricava il suo caricatore sulla mia persona; io paravo i colpi con la spada. La lasciai sfogare, poi, accortasi di aver finito i proiettili, indietreggiò fino ad una parete. A quel punto la presi per il collo e l'alzai. Era spaventata, tremava e si contorceva. Avvicinai il mio volto al suo. Vidi i suoi occhi quasi creparsi, poi le sussurrai -Avevi solo da startene a casa- e la trapassai con la spada. Infine dopo due ore la struttura sembrava completamente debellata, quando ad un certo punto però arrivammo in una stanza. Vidi qualcosa muoversi ed entrai. Uno strano Rosa giaceva su un letto, attaccato a varie macchine; era diverso dagli altri, non aveva lo stesso volto, non lo stesso naso, non la stessa bocca, sembrava altro. Aprì gli occhi e mi guardò, poi svenne. Ero stranamente incuriosito da quella creatura, e la mia curiosità divampò quando notai sul suo ventre, una cicatrice del tutto simile alla mia.

Quel giorno presi una decisione che cambiò la mia vita, poiché a quel Rosa, salvai la sua.

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Capitolo 9
*** Doppelgänger ***


Nono capitolo! Ancora non ci credo. Che dire? Un capitolo molto -almeno spero- patetico (nel senso etimologico della parola), l'azione narrativa è davvero ridotta ai minimi termini, ma l'evoluzione psicologica dei vari personaggi è molto vasta. Buona lettura e grazie!

 

Doppelgänger.


"Il doppio ha sempre suscitato paura ed ansia nelle culture europee dal Medioevo in poi. Basti pensare a Guy de Maupassant. Nell'età classica questa figura mistica era considerata poi come un'apparizione annunciatrice dell'imminente morte. Vedere la propria figura, riconoscersi in un altro essere estraneo a se, o al contrario non riconoscersi per nulla nel proprio riflesso, vedere in uno specchio un'immagine distorta del proprio aspetto. E' questo che terrorizza l'uomo, affascinandolo allo stesso tempo: la negazione del concetto di unicità."


E così vestimmo il Rosa della sua tuta, appesa al fianco del letto. Aprimmo il bocchettone che permetteva il flusso dei gas che garantivano lui una corretta respirazione, io me lo caricai su una spalla, non facendo troppo caso alla violenza con cui lo sballottavo; era pur sempre un nemico. Dovevamo uscire prima dal rudere di quella che era la base operativa dei Rosa, poi anche dalla cupola, sino a giungere al punto destinato al decollo. Glax aveva la spalla ferita, quindi procedevamo piuttosto impacciati. Lungo la strada Lis mi chiese -Perché l'hai fatto Sazàn? Liam potrà anche accettarlo, ma Il Consiglio ti farà pagare caro questo tuo ghiribizzo!-; io stavo zitto. Quella cicatrice simile alla mia, non so quale stregoneria mi avesse fatto, ma nell'istante in cui la vidi, mi rispecchiai in qualche modo in quel Rosa morente. Uscimmo dalla struttura e ci congiungemmo con gli altri soldati dinnanzi alla breccia da cui avevamo fatto irruzione. Una veloce rassegna delle truppe, dovevamo fare in fretta; io gridai -Andiamo soldati! Al punto di decollo!-, così iniziammo a marciare ed in poco tempo fummo in vista dei Jumbo. Ognuno si diresse verso il velivolo con cui era partito in missione dalla base di Rougen, quando fu tutto pronto, decollammo. Tutti sulla nave mi guardavano malevolmente; avevano riconosciuto che la persona che portavo sulla spalla non era un nostro compagno, bensì un nemico. Io cercai di rassicurarli, inventandomi qualche scusa; decisi d'averlo salvato perchè ci avrebbe giovato in futuro avere qualcuno per contrattare con i Rosa. Alcuni dei soldati però mi fecero notare che gli alieni erano stati completamente debellati con quella stessa missione. Io imbarazzato dissi che avrebbero potuto giungere una terza volta; così tutti furono spaventati dalle mie parole, ammutolirono e la questione si chiuse. Giunti alla base mi congedai frettolosamente da tutti, poi gridai -Primo battaglione divisione sicurezza!-, Lis e gli altri si girarono verso di me, -Voi non avete ancora finito, con me!- e feci cenno di seguirmi; mi ero però scordato che Glax era ferito, e dunque mi dovetti accontentare della sola presenza di Lis. Effettivamente quel mio gesto, di farmi accompagnare dal primo battaglione, risultava alquanto superfluo, ma ormai per me erano compagni, mi ricordavano il mio vecchio battaglione, i miei vecchi amici. Allora io e Lis restammo sul Jumbo, io parlai al pilota e gli dissi di portarci urgentemente alla base di sviluppo e ricerca militare del distretto Sud-Ovest. Il pilota non fece domande ed in un batter d'occhio fummo in vista della struttura. Prima di scendere Lis mi disse -Sazàn, Sazàn aspetta! Sono sempre meno convinta di questa cosa! Non puoi giocare a fare Dio e salvare chi ti va! Il Consiglio è stato chiaro:"Eliminare tutti i Rosa"-. Io per la prima volta dalla fine della missione mi tolsi la maschera nera, inquietante, le presi la mano e, sorridendo nel modo più dolce che conoscevo, le risposi -Lis, sono o no un comandante rinnegato?-. Lis ridacchiò, ed io fui soddisfatto.

Entrammo nell'impianto. I ricercatori ed i medici procedevano qua e là per i corridoi, squadrandoci con molta curiosità per "il pacco" che avevamo recato dalla missione. Giunti all'atrio chiesi ad una segretaria dove fosse il direttore e le dissi che desideravo vederlo con urgenza. Alle sue esitazioni, mostrai la medaglia sul petto, e lei lo chiamò subito. In pochi attimi arrivò un medico alto, ricoperto da capo a piedi di uno scafandro protettivo. La segretaria fece cenno di avvicinarmi, e mi disse nell'orecchio -Il direttore è ipocondriaco- ridacchiando. Gli andai incontro. Lui mi disse -Capitano...- poi, leggendo il nome ricamato sulla mia divisa, -Sazàn Radiwk, che posso fare per lei?-. Senza parlare presi il rosa per le spalle e facendogli vedere le condizioni in cui versava dissi -Curatelo-. Il dottore indietreggiò nervosamente, cadendo anche sul suolo. Disse balbettando -Cos'è quest'essere? Un... Un Rosa... No. No io non posso farlo-. Più insistevo e più sottolineavo l'urgenza di quelle cure, più il medico si rifiutava categoricamente. Allora mi balenò in testa un'idea, seppure avventata, e gli dissi -Bene chiami il Gran Cancelliere Liam e chieda a lui-. Pensai infatti che Liam mi avrebbe sicuramente appoggiato, ma a quel punto il dottore sbiancò totalmente e disse -Io non posso-. Avevo sfoderato la spada, il mio sguardo s'era fatto feroce, tutte le persone intorno a me si erano bloccate ed ammutolite; dissi severamente -Lo chiami, signor...-, lessi il suo cartellino, -Saphir-. Lis allora mi prese il braccio e mi disse dolcemente -Sazàn ritira la spada, sta andando a chiamarlo-; la mia ira si spense e riposi l'arma.

Dopo poco tempo sentii dei forti rumori fuori dall'edificio, la porta si spalancò. Entrò il Gran Cancelliere Liam che parlava molto seccato e con un tono di voce alto a Bulen, il quale l'aveva fin lì scortato. Diceva -Come gliel'avete potuto permettere, Bulen? Siete stupidi o cosa? Il Consiglio prima spaccherà le ossa a lui, poi farà la pelle anche a me, cosa credi? E voi, si voi, mica crederete di passarla liscia, vero?-; Bulen pesto in volto rispondeva -Ma sua eccellenza, lui era il capitano scelto, cosa potevamo fare?- e a quelle parole Liam s'infiammava ancora di più ribattendo -Ah adesso sarebbe colpa mia? Zitto Bulen! Stai solo zitto se non vuoi che la mia ira si sfoghi anche su di te-. Subito non avevo capito quel "anche", poi appena arrivò in mia vista, Liam si tolse il mantello e l'elmo, dandoli a Bulen, accelerò il suo cammino, io non ebbi nemmeno il tempo di dire -Salve- che mi ritrovai scaraventato a terra da un montante; ero dolorante in tutto il volto. Non ero molto cosciente, sentivo Liam che diceva -Deficiente d'un comandante-, poi intravidi Lis che si metteva davanti a me dicendo qualcosa per cercare di placare la sua furia, poi sentii solo più -Va bene! Cercate di capire se questo Rosa è ancora vivo o meno, se lo è cercate di curarlo. Io vado ad avvisare il Consiglio Dei Cento- poi sentii un calcio allo sterno e con esso -Maledetto Sazàn, se quei vecchiacci si arrabbieranno con me, ti darò milioni di quei pugni e vedrai cosa può l'ira di un Gran Cancelliere-. Poi svenni, o mi addormentai, non so.

Mi risvegliai quel giorno stesso in una branda. Era notte. Mi girai a sinistra, su una sedia stava Lis, dormiva. Rigiratomi verso destra notai il letto d'ospedale a fianco, con il Rosa disteso sopra. Era così come lo avevo portato, i medici non avevano fatto nulla, forse perché non sapevano cosa fare. Capii che quel Rosa se fosse sopravvissuto, l'avrebbe fatto con le sue sole forze. Ma, rigiratomi supino, mi venne in mente un'idea. Sarebbe bastato recuperare un cadavere, anche uno solo. I ricercatori avrebbero potuto così studiarlo e poi, con le scoperte fatte, curare il Rosa. Tutto filava, il mio ragionamento stava prendendo forma, quando, vinto dal sonno, mi addormentai.

Il mattino dopo fummo (io e Lis) svegliati bruscamente da una visita. Il Consigliere Bexthan, il severo anziano che vidi il giorno dei funerali militari, fece violenta irruzione nella stanza. Dietro lo seguiva Liam. Appena entrato disse -Dov'è? Voglio vederlo!-. Non sembrava molto adirato, quanto più eccitato. E scoprii che, sì, lo stato d'animo che trapelava da quel vecchietto non era ira, né preoccupazione, era proprio eccitazione. Si avvicinò al letto dove giaceva inerme il Rosa, e disse -Meraviglioso-. Dopo un attimo di pausa, in cui Liam mi si avvicinò e disse -Come sempre, hai avuto fortuna ragazzo- (anche se notavo nel suo sguardo una vena intimidatoria, quasi dicesse -Questa volta t'è andata ancora bene, ma la prossima...-), Bexthan disse -Fantastico! Superlativo! Questo progetto ora passa sotto la mia ala protettiva. Diverrà un progetto segreto, comune solo al Consiglio e ai militari che qua hanno portato il Rosa. Dove sono? Voglio complimentarmi con loro-. Capii che non si era nemmeno accorto della nostra presenza, tanto era preso dalla vista dell'alieno. Liam disse -Sono qua dietro, signore-. Bexthan si rigirò tutto fino a che non ci notò e disse compiaciuto -Eccovi! Complimenti a lei comandante e anche alla signorina della divisione sicurezza, questa vostra idea ci porterà un passo avanti a loro-; ed indicò sul letto il Rosa, poi si rivolse unicamente a me, -Comandante, mi hanno informato che lei dispone dei poteri Neuro. Bene! Come nuovo supervisore di questo progetto, che chiamerò- fece una pausa di riflessione poi riprese -Che chiamerò Progetto Testimone, per prima cosa le ordino, quando il Rosa si riprenderà, di inviare al suo cervello un segnale elettrico contenente tutto il suo sapere sulla nostra lingua-. L'idea era geniale, questo denotava anche l'acutezza delle menti del Consiglio, che certo non facevano parte di quell'organismo per puro caso. Io annuii e mi inchinai. -Bene... Bene! Ora parlerò con il direttore di questo centro ricerca per le cure a cui sottoporre il nostro soggetto-. Io preso dalla foga non esitai a parlare, dicendo -Mi scusi sommo Consigliere Bexthan, e mi scusi anche Lei altissimo Gran Cancelliere Liam- (Che mi squadrava come per dire -Cosa stai facendo Ragazzo? Sta attento, guarda che t'ammazzo-), Bexthan intanto si era girato quasi stizzito, infatti finché era lui a parlare tutto quadrava, ma quando qualcun altro s'azzardava ad esprimere il proprio parere, questi si irritava; io proseguii -La scorsa notte ho pensato che forse sarebbe bene anche recuperare un cadavere di questi esseri, cosicché i ricercatori possano studiarlo e capire il funzionamento dei loro organi e provvedere a-, il vecchio fece cenno con la mano di zittirmi, poi rispose -Ho capito, ho capito... L'idea è buona. Partirai oggi stesso per l'accampamento dei Rosa, e recupererai un cadavere. Ora lasciatemi andare-. L'idea era piaciuta al Consigliere ed io mi sentii sollevato. Uscito Bexthan dalla stanza, Liam disse a Lis -Accompagnalo tu, controlla che questa volta non faccia stupidaggini-, poi uscì pure lui.

Partimmo dunque quello stesso pomeriggio per l'arcipelago Mozhen, dove erano situati i resti della base dei Rosa. Giungemmo in vista dell'isola a bordo di un Jumbo e fummo tutti stupiti del fatto che si avvistava ancora del fumo da quella distanza. Il nostro stupore si trasformò in sgomento, in vero terrore quando, ormai sopra l'isola, potevamo chiaramente distinguere che c'era qualcuno laggiù, tra i resti dell'accampamento nemico. E quelli non erano certo soldati del Pianeta Madre, ma piuttosto soldati dei Rosa. Nel velivolo calò un profondo silenzio. La prima a parlare fu Lis che disse -Dobbiamo andarcene Sazàn, sono un centinaio! Non possiamo rischiare, andiamo ora, che non si sono ancora accorti di noi!-. Non sapevo cosa fare; sicuramente dovevamo andarcene, ma io volevo capire; "Come mai ci sono altri Rosa? Da dove diavolo arrivano questi? Si riproducono così in fretta, come germi? O forse non li abbiamo uccisi tutti nell'incursione dell'altro giorno? No, impossibile. Che sta succedendo?". Lis mi strattonò per il braccio ed urlò -Non c'è tempo Sazàn, da' questo maledetto ordine di tornare indietro! Informeremo il Consiglio e Liam, e loro vedranno che fare!-. Tornai alla realtà. Ordinai al Jumbo di raggiungere immediatamente Rougen. Il Consigliere Bexthan e il Gran Cancelliere Liam ci aspettavano ancora alla base di sviluppo e ricerca militare, così decidemmo senza pensarci troppo di informare proprio loro di quella sconvolgente scoperta. Scendemmo dal Jumbo, entrammo nell'edificio e ci catapultammo in corsa verso il reparto dove era stato confinato il Rosa. L'alieno era infatti stato portato in una camera speciale, isolata ermeticamente dal resto della struttura e sorvegliata costantemente. La stanza contigua alla camera, infatti, si apriva su essa con degli speciali vetri: chi era in quella seconda stanza poteva osservare chi o cosa fosse nella camera, senza poter essere notato. Entrammo dunque nella stanza da cui Liam e Bexthan osservavano la camera del Rosa. Il Consigliere ci accolse con queste parole -Ho una notizia sensazionale per lei signor comandante e anche per la signorina- poi sogghignando, si scansò dal vetro ed indicando l'alieno che si dimenava legato al letto disse -Come potete vedere voi stessi, il Rosa si è svegliato-.

Ero sorpreso e senza parole, e Lis con me. Eccolo lì; l'alieno a cui avevo deciso di risparmiare la vita, ora era a due passi da me, che si contorceva terrorizzato ed ammanettato al letto, gridando urla che giungevano alle mie orecchie come suoni indistinti, ma che a quelli della sua razza avrebbero sicuramente smosso l'animo. Ma dopo alcuni attimi di silenzio, mi ricordai di ciò che prima avevo visto e prorompetti -Signor Consigliere, Gran Cancelliere, devo darvi una spiacevole notizia-. Il sorriso beffardo del vecchio si tramutò in una smorfia d'irritazione -Su, allora, parla!-. Dissi -In missione all'arcipelago Mozhen, abbiamo avvistato nuovamente un centinaio di truppe dei Rosa-. Bexthan e Liam trasalirono. Liam si mise la mano sul volto e disse -Non finiranno mai- amareggiato; Bexthan non perse lucidità e disse -Bene. Signor comandante, mi avrebbe fatto molto piacere studiare questo essere, ma di tempo, a quanto pare, non ne dispongo; per cui le ordino di procedere immediatamente secondo i piani del Progetto Testimone: innesti la nostra cultura dentro la testa di quel Rosa, cosicché potremo aprire un dialogo con lui-. Liam sospirò; io mi inginocchiai e chinai il capo in segno di obbedienza. Siccome nella stanza erano state ricreate condizioni di vita favorevoli al Rosa, studiando i gas contenuti nel suo casco e i valori della temperatura e della pressione che la tuta faceva rimanere costanti, prima di entrarvi io dovetti indossare un vecchissimo modello di scafandro da astronauta. Entrai nella cabina di pressurizzazione, e successivamente, quando la porta fu sbloccata, nella stanza vera e propria. Il Rosa continuava ad urlare e dimenarsi sempre più, ad ogni mio passo verso la sua persona. Quando fui ad un passo da lui, gli urli lasciarono il posto al più oscuro terrore, che vincolava le labbra dell'alieno impedendo la fuoriuscita anche di un singolo breve suono. Ma quel terrore non sembrava provocato da me, altrimenti avrebbe continuato ad urlare. Anzi, non sembrava nemmeno terrore, sembrava quasi più incredulità. Il Rosa si era portato le mani al volto, si toccava il suo strano naso, passava le sue dita sulle sue martoriate labbra, si lisciava le orecchie. Si, il Rosa si stava specchiando nel vetro della mia tuta, e sembrava non riconoscersi, sembrava non credere ai suoi occhi. Una piccola lacrima scaturì dal suo occhio destro, offeso. In quel momento, Bexthan aprì il microfono ed urlò irato -Comandante vogliamo fare in fretta?-; il Rosa, sentite le parole del vecchio, iniziò nuovamente a dimenarsi e ad urlare con ancora più fomento, ed io dissi -Se urli già in tale maniera solo per questo, aspetta che io compia il mio dovere-. Raccolsi in mente il sapere minimo ed indispensabile per saper parlare la mia lingua, era vastissimo e capii che avrebbe fatto molto male a quell'essere non abituato a stimoli elettrici esterni; poi focalizzai l'alieno ed infine iniziai ad emettere il segnale elettrico. Le urla che sentii quella sera, non potrò mai descriverle appieno. Erano urla di straziante dolore, urla che sembravano supplicare la morte, quasi un dono celestiale desiderato ed agognato. Il suo cervello doveva starsi lentamente cuocendo sotto gli impulsi elettrici delle mie tempie. Urlava, gridava, scuoteva violentemente la testa, dibatteva i denti, stringeva spasmodicamente i bordi del letto con le mani, i suoi muscoli si contraevano e si rilassavano aritmicamente. Dovevo continuare, pregai affinché quel trattamento finisse in fretta; avevo sempre odiato i Rosa, avevo sempre desiderato la morte di quegli invasori, ma quelle urla, io non riuscirò mai a cancellarle dalla mia testa, dai miei ricordi, mi accompagneranno fino alla morte, e forse solo allora conoscerò di nuovo la pace e la dolcezza del silenzio.

Svolto il mio duro compito (che mi era parso interminabile), ero sfinito, ma felice. Sì, ero felice perché il Rosa era ancora vivo. Aveva nuovamente perso i sensi e le sue tempie pulsavano spaventosamente, ma era ancora vivo. Mi sentivo soddisfatto ed appagato, e ringraziai il grande Mur per aver accolto le mie preghiere. In quel momento, quando la mia concentrazione era venuta meno, e i miei sensi avevano ripreso a funzionare, sentii uno strano suono, il vecchio Consigliere doveva aver lasciato il microfono aperto.

Bexthan stava ridendo.

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Capitolo 10
*** Allegoria ***


L'inizio di questo capitolo, tutto incentrato sul passato di Sylar, è per certi versi autobiografico. È il capitolo a cui tengo di più di tutta la storia e, sebbene su di esso io ci abbia riflettuto molto, mi risulta alquanto traballante. In ogni caso, buona lettura.



Allegoria.


 

«L'altro (senso) si chiama allegorico, e questo è quello che si nasconde sotto 'l manto di queste favole, ed è una veritade ascosa sotto bella menzogna».


 

Durante quelle ore di svenimento mi ricordo uno strano sogno. Era tutto buio e freddo intorno a me, quando ad un tratto, una luce, caldo, quasi bollente.

Gli oggetti intorno a me si erano fatti più chiari e distinguibili. Mi trovavo in una soffitta, senza dubbio. Una stanza coperta da un tetto ligneo, stante saldo su due travi enormi. Un mucchio di scatoloni di varie dimensioni e forme. Quella stanza sembrava troppo ordinata per essere una classica soffitta, di quelle che si vedono nei film. Quindi, invasato da non so quale demone maligno, presi a squarciare quei contenitori di cartone ed a scaraventare il contenuto sul pavimento scricchiolante. C'erano pupazzi più o meno integri, vecchi vestiti passati di moda con grosse chiazze oleastre, attrezzi da lavoro arrugginiti e smunti, libri di autori misconosciuti danneggiati dall'umidità, ma l'oggetto che più mi colpì fu una palla, una palla da baseball. Appena la presi in mano lo scenario mutò. Ero nel mezzo di un prato verde. Un vastissimo prato, con ciuffi d'erba che superavano di poco le mie caviglie. Un bambino davanti a me, un piccolo bambino in maglietta blu, calzoncini rossi, un berretto dei Red Socks in testa. Ero io. Io all'età di sette anni. Caddi in ginocchio, piangendo. Il bambino si avvicinò a me dicendomi "Papà, papà! Cosa succede? Non vuoi più giocare?". Piangevo e ancora piangevo. Quel giorno. Quel maledettissimo giorno; credevo di averlo dimenticato in vent'anni. Ma i demoni che una persona si porta dentro, fuoriescono senza preavviso, è solo questione di tempo. Non si può incatenare per sempre la bestia. 12 settembre 2189, mio padre ebbe l'infarto che lo costrinse a letto per più di quattro mesi. Dopo non fu mai più lo stesso. Quella malattia, aveva distrutto la sua vita da contadino. Il medico aveva detto "Non potrà più svolgere lavori che le comportino fatica"; ma mio padre era un uomo legato al lavoro della terra, al lavoro con gli animali; quale altro lavoro avrebbe potuto fare? Mio padre si tramutò in una belva: insultava mia madre e mi trattava male. Delle cose che disse ricordo solo questa -Sempre su quei libri stai! Quando inizierai ad aiutare tua madre nei nostri campi? Tu non sei mio figlio, basta che io me ne convinca-. Io infatti sin da bambino preferii una vita basata sullo studio delle scienze, piuttosto che sul lavoro manuale, su cui si fondava la mia antichissima tradizione familiare. In più da bambino ero anche piuttosto grasso, arrivai all'età di 16 anni a pesare 92Kg; questo influì sulla cattiveria con cui mio padre mi trattava: il figlio di un contadino obeso? Non quadrava. Ma se non potevo cambiare la mia profonda passione per lo studio, potevo almeno cambiare il mio fisico. Vedendo quei 92Kg scritti lì, incisi, sul bilanciere, ripensando anche alle parole del mio vecchio babbo, decisi di dimagrire. Mi innamorai poi di una ragazza, che non ricambiava per il mio aspetto fisico. Il perdere peso era divenuto così lo scopo della mia vita.

A diciotto anni arrivai così a pesare 69Kg, ne avevo persi circa ventitré. Ma mio padre non cambiò. Non mi apprezzò di più. Anzi continuò ad odiarmi, e col passare del tempo, invecchiando, s'era fatto più acido e vomitevole, sì, proprio vomitevole; io stavo male alla sua vista. Così con la maggiore età e con l'aiuto di mia madre decisi di trasferirmi a Chicago per studiare biologia. Quando il mio cervello giunse a tale conclusione fui catapultato nuovamente nella soffitta.

Aprii dolcemente gli occhi. La palla da baseball era scomparsa, al suo posto stringevo nel mio palmo una sciarpa beige. Era la sua sciarpa; senza esitazione chiusi gli occhi e la portai al naso inspirando il suo profumo. Era così buono, sapeva di felicità. Quando riaprii gli occhi ero in un deserto arabo. I resti di una moschea davanti ai miei occhi. Faceva così caldo che a mala pena respiravo. Mi adombrai gli occhi con la mano, per proteggermi dai raggi violenti del sole. Così, con la visuale più chiara, intravidi tra i ruderi una figura femminile, mi avvicinai. Era lei, sicuramente. Era Marie, la mia ragazza, quella con cui ebbi la relazione più seria, quella di cui mi ero realmente innamorato. Il suo volto era velato da sotto gli occhi fino al mento. Ma mi bastavano quelli per riconoscerla. Ero così felice di rivederla dopo tanto. Le corsi incontro, e lei fece lo stesso. La abbracciai, lei mise le sue braccia intorno al mio collo. Non mi importava più nulla, né della mia famiglia, né di Giove. Volevo solo riaverla con me, per sempre. Avvinghiati, ci baciammo ed io sentii il paradiso dentro di me. Non era vero dunque, il paradiso non stava in cielo irraggiungibile, il paradiso non era un luogo, il paradiso era piuttosto uno stato d'animo, no anzi, un'essenza, eravamo io e lei il paradiso, io e lei abbracciati, in simbiosi. Ma subito avvertii una strana sensazione, sentivo della sabbia sulle mie braccia, nelle mie mani. Aprii gli occhi. Marie si stava sgretolando, come sabbia; mi stava lasciando una seconda volta. La strinsi più forte, la pregai di non abbandonarmi, ma nulla, ciò che a mala pena riuscivo ad afferrare con le mie braccia, le mie mani, era solo un grande cumulo di sabbia gialla e bollente. Il paradiso era divenuto inferno, ed io caddi in terra.

Riaprii nuovamente gli occhi, questa volta violentemente. Non più la sciarpa beige tra le mie mani, ma lo stemma della Lega Mondiale. Lo tenevo lì, serrato nel pugno destro, non si muoveva, non si staccava, era inciso su di me, era sulla mia pelle, nonostante i miei strattoni violenti non ne voleva sapere di staccarsi. Lentamente mi risaliva il braccio, procedendo attraverso la spalla continuava lungo il petto, fermandosi in centro, ma leggermente spostato verso sinistra. Sì, si era fermato esattamente sul cuore. Impazzii, caddi in ginocchio, mi strappai la maglietta, mi graffiai tutto il petto scorticandomelo. Poi, sentiti alcuni passi, mi placai ed alzai il mio sguardo. Ero io. Ma ero diverso. Ero un mostro, il mostro che avevo visto riflesso sul casco di quell'alieno. Scattai subito in piedi, ma il mostro aveva già allungato le sue luride mani verso di me. Mi afferrò per i capelli. Aveva una forza incredibile, infatti mi trovavo a trenta centimetri da terra. Mi lanciò sugli scatoloni, e prima che io potessi muovere un muscolo me lo ritrovai addosso a cavalcioni. Le sue mani avvinghiate al mio collo, sembravano stritolarlo come due presse. Iniziai a dimenarmi, non respiravo, tentavo di rompere la sua presa, tentavo di graffiargli le mani, ma nulla; era troppo forte. Non potevo davvero essere io. Il mio naso, il mio stupendo naso era stato come schiacciato; sulle mie labbra un lungo orribile solco; il mio occhio destro attraversato da una cicatrice violacea; del mio orecchio sinistro non c'era quasi più traccia. Iniziai a perdere i sensi, stavo morendo, non riuscivo più a respirare. Lui, il mostro, rideva.

Mi svegliai di soprassalto in quella stessa infernale stanza dove avevo subito tremende torture. Non era stato solamente un incubo. Mi toccai nuovamente il volto. Ero un mostro, ero davvero quel mostro. Iniziai a piangere dalla disperazione. Il trattamento straziante che avevo ricevuto precedentemente, sembrava in quell'istante solo una pallida ombra; tutto il dolore che avevo provato, il desiderio di morte, sembravano ricordi lontanissimi. Il mio volto era sfigurato, nessuno m'avrebbe più guardato negli occhi come prima, nessuno si sarebbe mai più avvicinato a me. Ma presto mi si spense anche la voglia di piangere, grazie ad un forte mal di testa che mi colpì improvvisamente. Portai le mani alle mie tempie, pulsavano violentemente. Avevo qualcosa in testa. Qualcosa di strano, non sapevo bene cosa fosse, sentivo di conoscere molto bene un qualche strano concetto, una nozione, ma non sapevo quale. Ad un certo puntò la porta della stanza si aprì, ed entrarono tre figure in tuta spaziale: una montagna, un nanetto ed uno di statura normale. Erano tre alieni, quello all'estrema destra, quello medio tra i tre, era l'alieno che mi aveva torturato, ne ero sicuro, sebbene non potessi vederne il volto: i simboli ricamati sulla tuta erano gli stessi. Al contrario del giorno precedente però riuscivo a leggerli: “Sazàn”. Indietreggiai spaventato sul letto, rannicchiandomi il più vicino possibile alla parete. La montagna prese a parlare, non potevo aspettarmelo, ma fu una grandissima sorpresa per me scoprire di poterli capire. -Il qui presente Consigliere, sua eccellenza Bexthan Void, rappresentante del Consiglio Dei Cento e dell'intero Pianeta Madre, nonché supervisore del Progetto Testimone; io, Gran Cancelliere Liam S. Lodd', capo dell'esercito del Pianeta Madre; ed il comandante scelto Sazàn Radiwk; noi le diamo il benvenuto sul Pianeta Madre-. Ero confuso, non capivo nulla. Prese a parlare il nanetto -Si si, Liam taglia corto-, facendo un cenno con la mano, -Ci penso io. Lei. Alieno proveniente dal terzo pianeta del nostro sistema planetario. Ci dica il suo nome per cortesia-. Non riuscivo a focalizzare. "Chi sono questi? E perché capisco la loro lingua? Ma dove sono?" pensavo, ma in compenso decisi di rispondere per non compromettere la mia posizione -Io... Io sono l'umano Sylar Hewer, biologo, vengo dal pianeta Terra, in pace-. Le parole che mi uscirono dalla bocca, non erano in Inglese, bensì in quella strana lingua, che a quanto pare, oltre a capire, sapevo parlare anche molto bene; ero sempre più confuso. Il vecchio disse -Bene, bene. La dichiaro in arresto-, a quelle parole trasalii, -Lei sarà oggetto di nostre sperimentazioni, obbedirà soltanto a me o al Gran Cancelliere, sarà sorvegliato sempre da questo comandante-, ed indicò l'alieno che mi aveva torturato, -Ed infine servirà a noi come mezzo di contrattazione con quelli della sua razza... Come ha detto già? Ukioni?-, la montagna rispose per me dicendo -Credo che il termine fosse Umani, signore-. Il nano riprese la parola -Bene, bene. Le è tutto chiaro?-. Io pur di finire in fretta quella criptica conversazione, annuii senza aver capito molto di ciò che aveva confabulato. Esausto, crollai. Sentii solo più l'alieno a destra dire -E' normale. Dev'essere molto spossato, anche proprio a livello celebrale-.

Mi svegliai. Sudato ed impaurito. -Che hai?-. Mi girai nella direzione da cui era provenuto il suono. L'alieno, "Come si chiama? Sa... Sazàn!" pensai in quel momento; Sazàn stava seduto alla mia destra. Io mi rigirai verso sinistra e non azzardai parola. -Senti, tu sei un mio nemico; ma mi dispiace per l'altro giorno, ciò che ti ho fatto era inevitabile e necessario. Inoltre se non fosse stato per me, a quest'ora saresti morto e sepolto-. Mi sforzai per riprender sonno. Ma riuscii a dormire solo per pochi minuti. Poi decisi di prendere parola, -Dove sono? Cosa siete? Cosa mi avete fatto?-. Sazàn (il suono di quel nome risuonava familiare nella mia testa) mi rispose -Sei sul Pianeta Madre, nel centro sviluppo e ricerca della capitale Rougen, città più importante di tutta la nazione. Io, noi, siamo gli abitanti di questo paese, quelli che voi avete invaso, quelli che voi avete tentato di sottomettere, di eliminare. Cosa ti abbiamo fatto? Ti abbiamo permesso di parlare la nostra lingua, ti abbiamo fatto un dono, alieno, ed ora tu ripagherai tale dono servendoci-. A quel punto mi venne in mente dei miei compagni, e, nuovamente spaesato, sussurrai -Dove sono gli altri?-. L'alieno rispose -I tuoi compagni immagino. Sono tutti morti. O meglio, sono tutti morti quelli che erano sotto la tua stessa cupola. Poi ne sono spuntati altri... Qua entri in gioco tu: ci aiuterai a convincerli a lasciare il pianeta, e tu li seguirai-. Tutti morti. Nur, i miei amici, i miei compagni. Di tutti i ricercatori l'unico sopravvissuto ero io. La più grande solitudine mi colpì, ero su un diavolo di pianeta a seicento milioni di miliardi di chilometri da casa, ed ero solo. Ma poi mi resi conto della seconda parte della frase dell'alieno. "Ma certo! Che stupido, i soldati!" pensai "Loro devono essere vivi! Ed adesso questi mostri vogliono farci levare le tende! Bene! Potrò dire addio a questo maledetto pianeta una volta per tutte!". -Farò tutto ciò che vorrete-. Sazàn rispose -Bene alieno, avviserò Liam ed il Consigliere Bexthan della tua spontanea sottomissione- ed uscì dalla stanza. Mi rannicchiai con i gomiti sul petto, poi mi misi le mani nei capelli. Sentii delle parti calve. Mi ricordai d'essere un mostro e mi misi nuovamente a piangere dalla disperazione. Dopo mezz'oretta (almeno credo) mi riaddormentai.

Così, il giorno dopo, fui lasciato dinnanzi alla C.A.A. dei militari, impiantata su Alfa Giovia. Li guidai io laggiù, su una navetta di piccole dimensioni, ad accompagnarmi c'erano Sazàn, e “l'alieno montagna”, quello che memorizzai essere una specie di generale supremo dell'esercito, il Gran Cancelliere Liam. Era la prima volta che vedevo quegli esseri privi di tuta spaziale. Erano davvero inquietanti, come biologo ne avevo visti di animali spaventosi, ma mai quanto quegli alieni. Erano dei rettili il cui colore della pelle, spessa e molto ruvida, poteva variare dal verde scuro al giallognolo, di forma umanoide erano eretti su due zampe. Un loro piede aveva tre grandi dita dotate di artigli lunghi e neri. Erano vestiti similmente a noi umani, ma con vestiti molto più rozzi e sporchi. Ogni mano aveva poi quattro dita con unghie violacee e molto spesse. Come bocca avevano una specie di becco, dotato di innumerevoli denti taglienti come l'acciaio, e le narici erano su di esso. Gli occhi, enormi e neri, sembravano non dare alcun segno di vita, spenti. Le orecchie erano come ricurve e ripiegate, credo per proteggere i timpani (se ne erano dotati) dalla fortissima pressione atmosferica. Infine i capelli consistevano in spessi filamenti cellulari, infatti non erano tanto capelli quanto più protuberanze carnose, in cui doveva scorrere persino sangue. Mentre il colore dell'epidermide di Sazàn tendeva più al verde militare, quella del Gran Cancelliere invece sfumava maggiormente sul giallognolo. Mi provocavano grande ribrezzo alla vista, ma non potevo dire nulla, altrimenti avrei seriamente rischiato di complicare ulteriormente la mia posizione. Non vedevo infatti l'ora di convincere i soldati a tornarcene a casa, sulla nostra amata Terra. Povero stolto, credevo realmente di risolvere tutto così facilmente e velocemente? Ripensandoci ora, sì, ero stato sballottato di qua e di là per il pianeta, ero stato sottoposto ad un elettroshock potentissimo, finalmente mi era stata data una via di salvezza; potete benissimo capire quanto io mi fossi illuso, come avessi costruito intorno a tutti quei pazzi avvenimenti, un'impalcatura fiabesca, per giustificare l'incredibilità di tutto ciò che mi stava accadendo, e la fiaba -si sa- comporta un lieto fine. Il Gran Cancelliere, prima che fui sbarcato mi disse -Umano, fai un passo falso e v'ammazziamo tutti-, annuendo saltai giù dal velivolo.

Quando finalmente fui davanti alla porta della cabina di pressurizzazione, inserii il codice segreto ed entrai. Appena dentro la cupola, sganciai il casco, me lo tolsi in fretta e furia e con la stessa foga lo scaraventai per terra. Respirai a pieni polmoni ed iniziai a correre verso le due strutture: la base militare e l'infermeria. Correvo e correvo, riuscivo a scorgere un gruppo di soldati ad un centinaio di metri da me. Avvicinatomi, mi accorsi che stavano urlando qualcosa, spaventati. "Finalmente Inglese!" pensai, ma ciò che stavano gridando a gran voce non era propriamente nulla di roseo; -Fermo! Fermo o sparo!-, -Non fare un solo passo! Alt!-, -Retrocedi!-. Poveri soldati, chissà quale orrida vista dovevano ritrovarsi di fronte. Misi le mani in alto e gridai -Sono disarmato! Sono disarmato e sono umano! Fermi! Sono Sylar, Sylar Hewer, biologo della spedizione!-. -Fermi! Calmi! Abbassate le armi-. Dai militari, che nel frattempo mi avevano accerchiato, uscì il capitano Thomas Valliage, con un braccio slanciato in avanti. Non appena mi vide disse sottovoce -Ma che gli avete fatto brutti bastardi?-, poi, -Come sei sopravvissuto all'attacco di quegli esseri?-, mi chiese il soldato; io risposi -Mi hanno risparmiato loro, gli alieni! Mi trovavo in un letto in fin di vita, per l'esplosione nel bosco!- (era la prima volta che ripensavo all'esplosione, ma preso dalla foga non ci feci molto caso) -Mi hanno salvato per usarmi come mezzo! Come strumento! Vogliono farci abbandonare il pianeta, siamo ancora in tempo, possiamo salvarci! Abbandoniamo Giove!-. Sentii che, dopo aver sospirato, il capitano sussurrò -L'esplosione... Interessante...-; alzata la voce mi disse -Calmati ragazzo! Sei completamente impazzito? Sai quanto sta spendendo la Lega Mondiale per questa missione? Cosa credi ci farebbero i vertici al ritorno? Ci lincerebbero. "La guerra con Giove è persa, il mondo intero è perso". La gente impazzirebbe. Ragiona...- poi fece una pausa -Sylar! Scoppierebbe il finimondo. Non possiamo tornarcene a casa a mani vuote. La guerra l'hanno fatta scoppiare loro, loro hanno attaccato le nostre due ambascerie- poi, giratosi verso i suoi uomini urlò enfaticamente -Loro perderanno questa guerra! Li schiacceremo in nome di Dio, e creeremo uno stato indipendente dalla Lega Mondiale, uno nuovo stato libero, qua, su Giove!-. Capii che il capitano stava sognando, non ci sarebbe stata mai alcuna nostra vincita se avessimo continuato la guerra, non ci sarebbe mai stato alcun nostro stato, indipendente poi. Era pura follia, utopia. Urlai -Non ha visto come hanno già schiacciato una C.A.A.? E' cieco? Non capisce che ci ammazzeranno tutti se non c'è ne andiamo?-. Valliage si mise a ridere -Stupido ragazzo, crede che dei ricercatori imbranati ed impacciati valgano quanto dei valorosi militari- disse rivolto ai soldati, poi a me -Sei stolto ragazzo, noi abbiamo armi che voi stupidi topi di biblioteca vi sognate. Saremo noi umani a schiacciare quegli alieni, non certo il contrario-. Stava deridendo i miei compagni, caduti sotto i colpi degli abitanti di Giove. Ero arrabbiato ed amareggiato. In un attimo di follia dissi, -Bene, allora me ne andrò da solo, creperete su quest'infernale pianeta da soli!-. Sentii il rumore dei grilletti che scattavano. La voce di Valliage s'era fatta profonda e severa. -Dove credi di andare Sylar? Sta' fermo se non vuoi che ti sia fatta una doccia mortale. Hai delle informazioni troppo preziose per lasciarmele scappare così. Catturate il disertore!-. Non ebbi nemmeno il tempo di voltarmi che mi ritrovai una ventina di bestioni sopra.

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Capitolo 11
*** Cavallo Di Troia ***


Scusate il ritardo sulla tabella di marcia con cui pubblico questo undicesimo (!) capitolo (di cui personalmente non sono molto soddisfatto) ma in questi giorni ho avuto molto da fare a livello scolastico (si sa, gli ultimi giorni prima delle vacanze pasquali sono i peggiori). Esausto, vi auguro una piacevole lettura.


Cavallo Di Troia.


"Gli Achei finsero di abbandonare definitivamente la città inespugnabile di Troia, nascondendosi in realtà con le navi dietro un'isola poco distante dalla costa. Lasciarono sulla spiaggia della città nemica un grosso trofeo in onore della vittoria troiana: un enorme cavallo ligneo. Quando Priamo re di Troia, facendo spalancare i portoni della città, ordinò ai suoi uomini di accogliere il premio, segnò la distruzione del suo popolo. I Greci avevano infatti nascosto i migliori cavalieri dentro il ventre del cavallo, costoro, durante la notte, uscendo dal cavallo ed aprendo le enormi Porte Scee, fecero entrare gli astuti compagni, ritornati dal loro nascondiglio. La città fu rasa al suolo da un grandissimo incendio. Ancora piange nell'Ade, il re dei Troiani, Priamo per il suo peccato di ingordigia."


Mi avevano trascinato in uno stanzino angusto. In assenza di celle, i soldati mi avevano legato saldamente ad una sedia, e là stavo, in attesa di qualcosa. La guardia che aveva il compito di sorvegliarmi stava ferma immobile fuori dalla porta, col fucile in mano; mi incuteva paura. Pensavo, "Accipicchia, sono qua, su un diavolo di pianeta enorme e pieno di alieni, e devo proprio essere imprigionato dai pochi umani che ci sono? Ma fossero sconosciuti, dico, invece sono miei compagni!". Fui bruscamente interrotto quando dalla porta prorompettero il capitano Valliage e i suoi due sottoposti: uno era Carlos, veniva dal Messico, era una montagna, l'altro si chiamava Ben e portava sempre un cappellino in testa e degli occhialetti da sole tondi sul naso; tutti e tre erano armati fin ai denti. Deglutii molto rumorosamente, Valliage prese a parlare -Bene carissimo Sylar-, si sedette al contrario su una sedia, appoggiando ventre e braccia allo schienale, -Spiegami: cos'ha provocato l'esplosione di cui parlavi poco fa?-. Io confabulai qualche parola, cercando di far intendere che non sapevo nulla. In realtà non ci avevo mai riflettuto molto sull'esplosione di quel giorno, forse perché proprio non avevo avuto il tempo. I due gorilla iniziarono a scricchiolarsi le ossa delle dita, ed il comandante con un cenno della mano li arrestò. -Vedi, Sylar, questo pianeta è una grande risorsa per la Lega Mondiale, ed anche per noi umani. Questi abitanti di Giove, questa razza inferiore, non capisce l'utilità che si potrebbe trarre da un atmosfera con così tanta elettricità statica che si genera spontaneamente. Stiamo parlando di una fonte di energia elettrica infinita ed infinitamente rinnovabile. Tu da buon scienziato mi capisci, vero Sylar? Capisci il potenziale che questo pianeta ci offre. Capisci che in qualche modo dobbiamo appropriarci di una tale benedizione, di un tale capolavoro della natura, di Dio. Ora, amico mio- e mi mise una mano sulla spalla, stringeva molto forte la presa e mi provocava un grande fastidio, -Devi darci una mano a schiacciare questi vermi. Guardati. Guardati, Sylar. Sei a pezzi, ti hanno fatto chissà cosa, sono degli sporchi mostri. Tu potresti essere la chiave per il loro annientamento. I vertici ci hanno vietato di usare l'atomica, e tu non sai quanto noi ci doliamo per questa decisione. Siamo su un cavolo di pianeta neanche nostro, cosa vuoi che siano un po' di radiazioni; no ragazzi?-, si era girato verso i suoi due bracci destri, che avevano sorriso ed annuito entrambi; poi rivoltosi di nuovo a me, -Ma gli ordini sono ordini. Sylar, tu devi pensare a ciò che ha provocato quella gigantesca esplosione; Sylar, tu devi darmi quest'arma-, mi sorrise. La sua bocca incurvata verso l'alto era più una smorfia che un vero sorriso, non provocava un senso di pace e di amicizia nel mio animo, ma piuttosto uno stato di profonda inquietudine. -Va bene lo farò-, d'altronde non avevo altra scelta, e poi quelli erano miei compagni, "Che mi frega di questi alieni?" continuavo a ripetermi per cercare di convincere il mio cervello che aiutare quei militari fosse la scelta giusta.

Così iniziai a pensare a quel giorno. Ero in missione nella foresta di Zògera. "Stavo tranquillamente camminando immerso in quello splendido scenario, quando ad un certo punto mi ha assalito una belva famelica". Procedevo in tal modo tra i meandri della mia memoria cercando di focalizzare immagini, situazioni, gesti. "Questa bestia mi ha squarciato innanzitutto la tuta, e questo è sicuramente testimoniato dall'enorme cicatrice sul mio ventre; poi...". La mano di Valliage dalla mia spalla, si era spostata più a destra, verso il mio collo. Quella sensazione risvegliò in me un ricordo sopito. "Ma certo! Il cordoncino!", mi ero rammentato del fatto che la collanina a cui era attaccato il mio cuore d'ambra, poco prima dell'esplosione, aveva iniziato a strattonarmi e tagliarmi il collo. Tutto era come una reazione a catena nella mia mente, quel gesto del comandante mi aveva sbloccato qualche misteriosa connessione del subconscio. Preso dall'esaltazione cercai di levarmi dalla sedia, con scarsi risultati, ma prorompetti comunque gridando -L'ambra! L'ambra cattura l'energia statica dell'atmosfera!-. Valliage dopo quella mia improvvisa reazione aveva ritratto la mano, ed ascoltate le mie parole, i suoi occhi avevano iniziato a brillare; disse -Ambra? La resina fossile? Spiegati meglio-, molto interessato. Quindi iniziai a ragionare ad alta voce -Dunque, ha presente quando strofina un pezzo d'ambra su un panno di lana?-, il capitano annuì, -Se poi avvicina questa pietra ad un pezzettino di carta, questo viene attratto e rimane ad essa vincolato. Questo risultato si deve all'energia elettrostatica catturata dall'ambra strofinata sulla lana-. Gli occhi di Valliage sembravano voler uscire dalle proprie orbite; -In conclusione, signor capitano, si immagini con un atmosfera enormemente carica di elettricità statica, cosa potrebbe fare un pezzettino di ambra, quale avevo io al collo; non potendo evitare di catturare energia elettrostatica, esso, giunto al limite del suo potenziale elettrico...-; Valliage rispose impaziente -Potrebbe... Sì, potrebbe esplodere!-. Io compiaciuto sorrisi e dissi -Esatto!-. -Uomini! Liberate quest'uomo, e portatelo in una camera degna di un eroe! Stasera daremo fondo alle provviste ed organizzeremo un gran banchetto. Ora abbiamo l'arma con cui schiacciare questi insetti-. Subito fui molto soddisfatto delle mie azioni, da reo ad eroe in pochissimo tempo.

Quella sera festeggiammo. I militari avevano con sé molti alcolici, che bevemmo fino a colmarci ognuno il proprio ventre. Io ero seduto a destra del comandante, che durante la cena si alzò e, indicandomi, disse -Quest'uomo, quest'eroe, questo pomeriggio ci ha dato la chiave della speranza, la chiave della vittoria! Domani mattina ci prepareremo per raggiungere le venticinque Imperial nell'orbita di Io. Fingeremo di abbandonare il pianeta e, grazie a quest'uomo che si infiltrerà per noi tra quei bastardi, tutti ci cascheranno-, non capivo, avevo bevuto, "Cos'è che devo fare?" mi chiedevo, -A quanto pare l'ambra a contatto con l'atmosfera di Giove, esplode. Bene, ci faremo spedire dalla Lega Mondiale chili di ambra! Ma che dico? Tonnellate! Ed otterremo la potenza della nucleare, senza però quelle maledette radiazioni! Uomini, preparatevi perché tra qualche settimana, il pianeta sarà in mano nostra!-. Tutti urlavano ed applaudivano esaltati alle parole del loro duce, alcuni cantavano abbracciati, altri ricordavano i propri cari, altri davano prova della loro forza fisica sfidandosi in giochi di abilità muscolare. Io cercavo invece, seduto sulla mia sedia, con le mani congiunte ed appoggiate sulle gambe, di capire cosa avesse affermato in precedenza Valliage, quale sarebbe stato il mio compito nei giorni seguenti. Ma la mia mente non era lucida, e così (non so ancora adesso come) mi risvegliai il giorno dopo credendo d'essere ancora in mezzo alla baldoria. Qualcuno stava bussando alla mia porta, mentre il cervello anch'esso bussava fortemente contro le mie tempie. Mi alzai ed andai ad aprire. Era il comandante Valliage in tuta spaziale, il casco nel braccio destro e i suoi due gorilla dietro. -Sono passato per mettermi d'accordo con te sui tuoi compiti. Dunque, mentre noi recupereremo l'ambra necessaria al bombardamento della loro capitale, tu ti infiltrerai tra loro. Ti garantirai la loro fiducia, dicendo che noi abbiamo abbandonato il pianeta senza di te per non compromettere le nostre posizioni al rientro sulla Terra. Ti farai strada attraverso i loro cuori, avranno pena per te, ti lasceranno in vita e tu li servirai devotamente. In tutto questo tempo inoltre tu raccoglierai informazioni per noi: come sono fatti, quali sono i loro punti deboli, i loro punti di forza; com'è organizzata la loro capitale, dove sono le loro basi militari, il loro palazzo più importante, sede del presidente (o quel che è) e fulcro del potere politico della nazione. Insomma ci dirai tutto su di loro. Noi ti recupereremo il giorno prima dei bombardamenti-, ero già sconvolto dalle precedenti parole, ma quell'ultima, "bombardamenti", suscitò in me un brivido che dal coccige mi risalì lungo tutta la schiena, -Ti trarremo in salvo prima dell'apocalisse-. Stavo là, sull'uscio della stanza, immobile; tutte quelle parole, tutti quei compiti. Ero allibito. -Bene vedo che non ci sono domande, allora arrivederci, hai due settimane, poi inizieremo la conquista di Giove-. Si infilò il casco, aprì la valvola dell'ossigeno e partì insieme alle sue due guardie del corpo. Io ero come pietrificato. Non avevo avuto nemmeno la forza di obiettare, non una singola sillaba.

Camminai avanti ed indietro per la struttura ormai evacuata. Ero nuovamente solo. Ma non era tanto la solitudine a pesare sul mio cuore, quanto più una strana sensazione, di tristezza, sì, ma non per la mia persona, ma piuttosto per quegli strani esseri nativi del pianeta. Sarei stato il loro Giuda, prima amico, poi traditore. Ero diviso: fare ciò che mi avevano ordinato i miei compagni, o fare ciò che il mio animo diceva essere più corretto? Non lo sapevo. Quando poi il sole tramontò per la prima volta, decisi di prendere la piccolissima navicella che mi avevano lasciato e procedere in qualche modo verso la capitale aliena. La strada credevo di ricordarmela, il problema era: cosa avrei fatto una volta giunto tra loro? Al momento non m'interessava, così entrai nel mio velivolo (memore delle vecchie lezioni di guida che avevo preso sulla Terra quando ero poco più che maggiorenne), accesi i motori e partii verso Rougen. Durante tutto il viaggio pensai alla mia avventura su quel pianeta, ripensai anche ai miei defunti compagni ricercatori e, apparso il volto di Nur nella mia mente, ammetto che mi scaturì dagli occhi anche qualche piccola lacrima. Impiegai tre ore per raggiungere la capitale, contro la trentina di minuti che ci avevo messo all'andata con gli alieni: ero molto imbranato con l'orientamento. Vedevo gli alti palazzi neri della città ed il mio animo s'era fatto incerto, ansioso, ma non so dire se con accezione positiva o, piuttosto, negativa. Piano piano scendevo di quota, ma non sapevo dove atterrare; andavo così cercando con gli occhi uno spiazzo su cui planare e, avvistatone uno, decisi per quello. Era una grande piazza, nella parte ovest della capitale, c'era molta gente, ma era l'unica soluzione: o atterravo, o atterravo. Quando ormai ero a poche decine di metri da terra, la marmaglia si era tutta diradata e disparsa per le vie che portavano alla piazza. Rilasciai il carrello e toccai il suolo sano e salvo; tirai un sospiro di sollievo. Indossai il casco, aprii la valvola che permetteva il flusso dell'ossigeno e premetti il pulsante che faceva sollevare l'enorme portellone d'uscita, mentre si stava per aprire e la luce potente stava per filtrare dall'esterno dell'abitacolo, entrai nella cabina di pressurizzazione. Appena misi piede in città e sgranai gli occhi per vedere meglio, distinsi una lunga fila di esseri armati dinnanzi a me; erano soldati schierati in una lunga barriera che attraversava tutto il piazzale. Pensai che mi avrebbero sparato, proprio quando sentii una potente voce urlare -Abbassate le armi! E' un ordine!-.

Il Gran Cancelliere Liam, si faceva strada tra i soldati schierati in formazione difensiva. Dietro, una presenza in maschera nera che mi scuoteva animo e corpo fino all'ultimo nervo. Presto queste due figure furono a pochi metri da me. Liam mi disse -Cosa diavolo ci fai qua stupido umano?-, nel mentre egli parlava, l'altra figura si era tolta la maschera e con mio sommo stupore la riconobbi essere nient'altro che Sazàn. Il Gran Cancelliere mi prese per la tuta, la sua mano stringeva la parte che rivestiva il mio petto, e mi ritrovai così ad almeno mezzo metro da terra. Io balbettai -M... Mi hanno... Mi hanno abbandonato qua!-. Liam urlò arrabbiato -Vorrai mica che ci caschi! Perché mai l'avrebbero dovuto fare?-. Io sul momento non sapevo che dire, infine optai per -Sono l'unico a conoscenza della vera morte dei miei compagni, ovvero la negligenza dei nostri militari! Al ritorno sul nostro pianeta, li avrebbero-. Mi interruppe gridando -Zitto! Non può essere vero ciò che dici! Nessuno abbandonerebbe mai i propri compagni, mai! Ti ucciderò stupido umano. Non vorrai mica ingannare me! Liam, centotrentaquattresimo Gran Cancelliere del Pianeta Madre!-. Stava già per stritolarmi il cranio con l'altra mano, quando fortunatamente Sazàn s'intromise chiedendo molto remissivamente a Liam che mi fosse salvata la vita, poiché, secondo lui, ero "solo un povero disgraziato abbandonato dai suoi stessi compagni". Io sussurrai -Siamo delle creature orribili. Per questo mi rimetto alla vostra infinita clemenza-. Il Gran Cancelliere infuriato mi lanciò ad una distanza d'una cinquantina di metri circa. Lo sentii dire ancora -Tu non sai in che diavolo di casino mi hai messo, stronzo-. Non capii se era riferito a me o a Sazàn.

Fui portato nella struttura di qualche giorno prima, in cui avevo subito quel misterioso e doloroso trattamento. Ad aspettarmi lì c'era già quell'anziano Consigliere, il cui nome credo fosse Bexthan. Fui portato in catene dinnanzi a lui, che mi disse -Cosa ci fai ancora sul mio pianeta stupido essere?-, doveva credersi la figura più importante si tutto Giove, -Non dovresti essere in viaggio per la tua lurida “Terra” morente?-. Mi diede un ceffone, poi calmatosi riprese -Ma d'altronde, guardati, sei un poveraccio... Abbandonato dai tuoi compagni, ora se la staranno ridendo sulle loro belle navi, felici del ritorno in patria, mentre tu, tu sei qua solo-. Bexthan rise, poi aggiunse -Voglio essere clemente, siccome hai adempito con rettitudine ai tuoi doveri ed hai allontanato quelli della tua razza dal nostro pianeta, ti sarà concesso di terminare naturalmente la tua vita su questo pianeta. Parola del Consiglio. Sarai sorvegliato dal comandante Neuro Sazàn, che potrà darti qualsiasi tipo di ordine, che tu dunque dovrai eseguire senza obiettare-. Stavo ascoltando poco quel vecchiaccio, pensavo a quando sarei stato salvato dai miei compagni, da quelli della mia razza; pensavo a quando la sua lurida testa sarebbe stata schiacciata dagli scarponi del capitano Valliage; pensavo alla conquista della loro civiltà; pensavo a tutte queste ridicole cose, quando non mi accorgevo nemmeno della grandissima concessione che mi era stata appena fatta: potevo continuare a vivere, potevo finire la mia vita in mezzo a loro. Ma ero oscurato dall'odio, e in quegli attimi avevo il cuore pieno solamente di immagini di morte e di distruzione. -Sappi che se sgarrerai anche una sola volta, verrai giustiziato secondo le leggi del Pianeta Madre, tutto chiaro?-. Doveva aver spiegato migliaia di cose ma io sentii solo quelle ultime parole ed amareggiato annuii.

Fui perciò affidato a Sazàn. Mi era stato concesso di abitare una stanza del centro sviluppo e ricerca, cosicché durante la notte potevo essere sorvegliato, e così da poter monitorare ogni mia uscita o mio ingresso. Ogni qual volta avessi voluto uscire dunque dall'edificio, avrei prima dovuto mandar a chiamare Sazàn; se costui era libero potevo essere accompagnato, ma se costui era impegnato ero obbligato a rimanere nella mia stanza, confinato. Quella vita era insopportabile, ma almeno vivevo; pensavo poi che sarebbe finita in fretta: due settimane massimo. Mi vennero in mente le parole di Valliage; dovevo impegnarmi, dovevo infiltrarmi, dovevo aiutare i miei compagni. Nella prima settimana cercai di conquistare la loro fiducia: ero docile, ed aiutavo in tutte le operazioni del centro. Nella seconda settimana studiai la disposizione degli edifici in città: essa era divisa in distretti uno per ogni punto cardinale più quello centrale (totale nove). Di basi militari ce n'erano tre, una nel distretto sud una nel distretto est e il centro ricerca e sviluppo militare del distretto nord-ovest, proprio dove soggiornavo. Il palazzo centro del comando, chiamato anche nella loro lingua appunto "Palazzo" (che fantasia!), era sito nel distretto centrale, anche detto "Distretto Ricco". Era innanzitutto la dimora dei cento Consiglieri, nonché sede dei loro gabinetti privati; in una seconda ala del palazzo risiedevano invece i Dieci Saggi, una specie di Corte Suprema. L'unica cosa che mi risultò oscura da apprendere era la locazione della dimora del Gran Cancelliere Liam. Quando chiesi a Sazàn di accompagnarmici si mise a ridere e mi disse di non far lo stupido. Sulla loro composizione non imparai molto, se non che Sazàn a quanto pare era l'unico del suo popolo che conservava quella capacita comune a tutti gli animali che precedentemente avevo incontrato: sapeva utilizzare a proprio favore l'energia elettrostatica dell'atmosfera. Quando parlammo di quell'argomento, mi mostrò anche la sua speciale spada, era magnifica, gli chiesi se potevo studiarla e me la fece osservare sotto la sua supervisione. Si componeva di un manico nero fatto di metallo, all'interno di esso si trovava un piccolo frammento di magnetite, esso spingeva l'energia elettrica che scaturiva dalla mano di Sazàn, attraverso un canale forato interno alla spada, da questi fori dunque l'energia elettrica poteva liberarsi violentemente verso l'esterno, creando una specie di lama elettrica. Alla mia domanda sulla possibile esistenza di altre armi del genere, l'alieno rispose dicendo che ce n'erano altre tre ma la loro ubicazione risultava sconosciuta. In quel frangente ci credetti. Infine l'ultima sera mi spiegò dei suoi poteri psichici, forse dovrei coniare un nuovo termine, forse dovrei dire: elettropsichici. Da sempre avevo contato i giorni (con parametri umani) e alla sera del quattordicesimo giorno andai a letto tutto agitato ed eccitato, insomma dormii pochissimo.

Fui svegliato all'alba del quindicesimo giorno. La gente del centro sviluppo e ricerca gridando suggeriva di guardare al cielo. Mi avvicinai con animo sospeso alla finestra, scostai la tenda. Venticinque grandi e possenti Imperial erano sparse per i cieli di Rougen, la capitale di Giove. I miei compagni erano arrivati. La mano destra ascoltava appoggiata sul petto il battito frenetico del mio cuore, mentre sul mio volto nasceva uno speranzoso sorriso.

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Capitolo 12
*** Res Publica? ***


Questo capitolo mi piace molto. Mancano solo più quattro capitoli (più due extra), tutte le scalette sono pronte e forse in una settimana riuscirò almeno a terminare la storia principale. Sono elettrizzato! Buon divertimento.


Res Publica?.


Res publica, in Latino significa letteralmente “affare pubblico”, in tarda età acquista il significato ultimo di Repubblica: una forma di governo dove la libertà politica regna incontrastata al fianco di tutti gli altri diritti. Ma siamo sicuri che la Repubblica sia la migliore forma di governo? Possiamo legittimamente escludere l'esistenza di altri ordinamenti più retti? Anche la fisica galileiana sembrava perfetta, eppure non regge se utilizzata al di fuori della Terra per studiare le leggi del cosmo. Tutto ciò che ci pare perfetto, può essere solo un'effimera illusione.”


Quella mattina sul presto ero stato sbattuto giù dal letto violentemente, Liam era entrato nella mia stanza, aveva levato le mie coperte e mi aveva scosso. Era da una settimana che Jimba mi aveva chiesto con il consenso del figlio di trasferirmi da loro, cosicché io potessi esercitarmi ancora nella stanza d'addestramento del seminterrato; forse alla vista di Jimba quella situazione doveva rappresentare quasi una rinascita del quartier generale dei Neuro. Liam nel svegliarmi gridò -Quel bastardo! Ce l'ha fatta a tutti! Sono arrivati i suoi compagni! Hanno solo finto di andarsene! Lo uccido, io gli spacco tutte le ossa! Alzati!-, ero piuttosto confuso, poiché destatomi velocemente non ero ancora del tutto lucido. Mi strofinai gli occhi, feci uno sbadiglio e mi passai la mano destra sulla faccia, poi, solo dopo qualche minuto, risposi a Liam, che intanto andava avanti e indietro nervosamente per la mia stanza, -Cosa succede?-. Liam prese un portafoto metallico posto su un comodino e stringendolo nella mano sinistra lo accartocciò, poi avvicinò al mio viso il pugno serrato in quella morsa tremenda e disse -Questa sarà la sua fine!-. Io chiesi frastornato -Spiegati meglio, fine di chi?-. A quel punto l'ira prese completamente il sopravvento sulla razionalità del Gran Cancelliere, con un calcio questi bucò l'anta dell'armadio dove tenevo la mia divisa, poi, messe le mani sulle mie spalle ed avvicinato il suo volto al mio, disse con un tono calmo e pacato, che però rivelava tutta la sua ira sopita, -L'umano. Sylar, o come diavolo si chiama, ha richiamato in qualche modo i suoi compagni. Ci ha imbrogliato-, poi girando la testa verso sinistra si mise a ridere. Fu un secondo. La sua risata si placò e sul suo viso emerse nuovamente la rabbia, con un pugno sfondò il comodino. Ma dopo pochi istanti fortunatamente entrò nella camera Jimba che, con una faccia molto severa, disse -Figlio! Cos'è tutto questo trambusto? Vorrai mica demolire la casa, so che ne saresti anche capace. Però ora calmati, per piacere-. Una sua mano si appoggiò al braccio destro del figlio, che sembrò quietarsi. Io non riuscii più a trattenermi, -Maestro, mi spieghi meglio cos'è successo, la prego!-. Liam abbassò la testa e Jimba mi rispose -Gli umani sono tornati e tengono in scacco la nostra capitale Rougen con venticinque enormi navi che, schierate in cielo, stanno oscurando la luce del grande Mur; la gente è in preda al panico, ed il Consiglio è in crisi-. Mi prese un colpo al cuore. Mi resi conto che Sylar ci aveva davvero tradito. Non ebbi nemmeno il tempo di dire la mia opinione che Liam, ripreso vigore, disse -Ragazzo, vestiti, andremo da lui-. Naturale, come prima cosa dovevamo vederlo, dovevamo vedere il traditore.

Non appena fui pronto, partimmo per Piazza Mur. Era la piazza più ampia di Rougen, posta davanti al Palazzo, e la stessa piazza in cui erano giunte le prime due navi terrestri. Proprio là dunque il capitano dei nemici stava contrattando in quel momento con i rappresentanti del Consiglio ed in via eccezionale anche con due dei Dieci Saggi. Sapevamo che naturalmente a far da interprete v'era Sylar. Il Gran Cancelliere era in ritardo poiché era stato avvisato per ultimo, in quanto residente fuori città. Jimba volle seguirci. Durante il viaggio nessuno azzardò una sola parola, c'era una tensione che spezzava il fiato. Non appena il nostro velivolo raggiunse la piazza, Liam aprì bruscamente la porta e saltò giù dall'abitacolo; il mio maestro ed io lo seguimmo. Al centro del piazzale v'era un umano che camminava in qua e in là, gesticolando molto e voltandosi spesso su sé stesso; capimmo subito che era il comandante dei nemici. Al suo fianco stava il traditore, molto fieramente bardato con un mantello e una divisa elegante. Dietro a questi v'erano i militari che stavano puntando le loro sudicie armi sui venti membri del Consiglio e sui due Saggi giunti da Palazzo; potevo riconoscere da quella distanza sia Bexthan che Seis, il mio odio verso quest'ultimo era più profondo delle valli dei Monti del Nord. Vedevo i pugni serrati di Liam tremare per la rabbia. Tutto accadde in un attimo. Liam iniziò a correre, ma Jimba aveva capito tutto e gridò -Figlio! Non farlo!-. Pochi istanti dopo il Gran Cancelliere era giunto in prossimità dei due uomini, protraeva le braccia verso loro cercando di afferrarli, ma qualcosa glielo impediva. Era la frusta elettrica del mio vecchio maestro, intorno a tutto il suo corpo, lo immobilizzava ed elettrizzava contemporaneamente, ma Liam sembrava resistere a questo secondo effetto. Jimba aveva preceduto suo figlio impedendogli di cacciare in seri guai tutto il Pianeta Madre; la sua acutezza nel pensare ed agire era sensazionale. Valliage (questo il nome che poi appresi essere del capitano degli umani) non si era subito accorto della cosa, si era solo visto due grandi e possenti braccia a pochissima distanza dal suo volto. Sylar invece giaceva inginocchiato per terra con le mani che coprivano il capo. Capito poi il vano tentativo omicida del Gran Cancelliere, il capitano trasalì. Mi avvicinai sommessamente pure io alla scena, con le mani alzate e disarmato. Valliage gridava parole nella sua lingua, mentre i soldati stavano tutti puntando le armi su noi tre. Poi fece un cenno a Sylar che iniziò a tradurre -Voi luridi esseri. Come vi siete permessi di tentare di nuocere alla mia persona? Noi non avevamo ancora alzato un solo dito su di voi, che avete dato inizio a questa sanguinosa guerra-, volevo obiettare, ma non potei, -Pertanto vi mostreremo ciò di cui siamo capaci; vi assicuro che sottomettervi a noi sarà per voi la migliore soluzione-. Mentre Sylar traduceva, Valliage parlava a due suoi uomini entrambi molto robusti, il primo aveva la visiera del casco completamente oscurata, tanto che non vedevo nemmeno un tratto del suo volto, l'altro aveva la pelle più scura del loro standard, tendeva infatti ad un marroncino molto chiaro. I due si avvicinarono a Jimba, che aveva mollato la presa sul figlio, rimproverandolo di essersi comportato indecentemente, lo presero per le braccia e lo ammanettarono. Valliage riprese ad urlare, Sylar poi tradusse -Se non volete permetterci di comandarvi con le buone, lo faremo con la cattive: questo lurido sporco essere sarà giustiziato, qui, ora, davanti a tutti-. Il capitano si fece passare una specie di pistola da un militare, poi con un cenno ordinò ai suoi due tirapiedi di far inginocchiare il vecchio maestro. Anche in quel momento di pura follia, Jimba manteneva il proprio contegno; constatai da me quanto la vecchia generazione fosse davvero formidabile, quasi leggendaria. Guardai in volto il Gran Cancelliere alla mia sinistra: non era più lui, immobile, impaurito, spento e muto guardava fisso il povero padre, quasi non volendo credere a ciò che stava osservando. Bexthan cercò di impedire il tutto implorando Sylar, ma egli gli urlò -Zitto schifoso vecchiaccio! Rispetto a tutto ciò che avete fatto a me ed ai miei compagni, questa è solo una piccola punizione!- e gli tirò un calcio nello stomaco, piegandolo in due. Jimba guardava il figlio e, prima che la parte terminale della canna della pistola fosse posta sulla sua nuca, riuscì ancora ad inviare un suo ultimo messaggio a tutti i presenti -Io mi sacrifico per la salvezza del nostro bellissimo Pianeta Madre, vi prego dal profondo del cuore, non fateli infuriare ulteriormente. Costoro fanno sul serio-. Un colpo, uno sparo e poi silenzio. Liam cadde in ginocchio, mentre Valliage iniziò a ridere. Il cadavere di Jimba era riverso sul suolo, senza vita, in un'enorme pozza di sangue. La mia rabbia aumentò, ma l'unica azione utile che potevo fare in quel frangente era star vicino a Liam, così misi le mie mani sopra le sue spalle per consolarlo. Sylar si avvicinò al cadavere, non riuscivo a capire cosa volesse. Poi urlò credo un'interiezione nella sua lingua, e prese la frusta dalla vita di Jimba. Io mossi in avanti un braccio inconsciamente, ma la mano di Liam mi impedì di levarlo. Non parlava, era muto, sapeva che non dovevamo più far nulla di incauto. Poi dopo qualche secondo, con mia estrema meraviglia, parlò sussurrando -Non ora Sylar, non ora-. "Non ora"? Subito non capii e lasciai perdere. Sylar corse a portare la frusta al suo capitano tutto contento, Valliage la squadrò e la prese saldamente in una mano, era contento, stava sorridendo con quella sua viscida bocca bavosa, infine appoggiò l'altra mano libera sulla spalla di Sylar, forse per complimentarsi con lui. Poi però ebbi paura, mi venne infatti in mente che Sylar sapeva della mia spada Neuro. La mia paura divenne sgomento, quando lo vidi guardarmi. Il nostro sguardo s'incrociò: io terrorizzato, lui perplesso. Quell'umano, Sylar, commise, senza rendersene conto in quel momento, lo sbaglio più grosso della sua vita; egli, non so per quale motivo, forse per compassione nei miei confronti, o piuttosto per gratitudine, non rivelò mai dell'esistenza della spada ai suoi compagni.

Vlliage lasciò soddisfatto la piazza con tutti i suoi uomini e tornò alla sua enorme nave spaziale, gravitante sul Palazzo. Non appena tutti gli umani furono saliti sulla navetta che doveva scortarli, i nostri soldati soccorsero il cadavere di Jimba, portandolo a Palazzo affinché potessero essergli resi tutti gli onori dovuti. Noi altri rimanemmo nel pizzale. Il Consiglio era terrorizzato, ma allo stesso tempo infuriato con il Gran Cancelliere, Bexhtan lo stava rimproverando -Cosa hai fatto stupido? Noi stavamo pacificamente contrattando e tu, grazie alle tue stupidate, hai mandato tutto a monte! Sciocco- e gli mollò un ceffone. Liam inginocchiato non poteva reagire. Il Consigliere continuò -Se non riuscirai a controllare il tuo violento istinto, saremo costretti in via eccezionale a deporti, signor Gran Cancelliere Liam Lodd'-. Liam rispose molto amareggiato, -Capisco signore, la prego di scusarmi-. Bexthan si voltò verso i propri collaboratori sussurrando, -Cretino-. I membri del Consiglio lì riuniti decisero in pochi minuti che, almeno in quei primi giorni d'assedio, avrebbero accettato tutte le condizioni imposte loro dagli umani, poiché l'intervento militare era stato escluso già in partenza; il nostro esercito infatti disponeva di sole dieci Stealt, gli umani invece avevano schierate nei cieli della capitale venticinque possenti navi. Era impensabile secondo loro iniziare un nuovo conflitto. Il Gran Cancelliere era ancora là, in ginocchio, quando mi fece cenno d'avvicinarmi. Mi disse piano -Questo Consiglio pullula di personalità incompetenti. Non possiamo sottometterci, inermi! Dobbiamo prima tentare la resistenza!-. Proprio in quel momento dalla nave umana sopra Palazzo provennero degli strani rumori meccanici, stava accadendo qualcosa di sospetto. Con nostra amara sorpresa capimmo che ciò che s'andava verificando lassù non era nulla di buono. Un portellone nella parte inferiore della nave era stato aperto, esso dava proprio sull'edificio. Tutti avevamo intuito, ma nessuno ancora l'aveva veramente realizzato. Una specie di grande pietra luminosa e arancione venne sganciata dall'interno della nave. La vedevo cadere, inesorabilmente, luminosa come una stella; in tutto il pianeta regnava in quegli attimi il silenzio; silenzio che venne infranto dall'impatto di quel micidiale ordigno contro il Palazzo. Un botto enorme, un gigantesco boato che mi perforò i timpani, tutta Rougen tremò sotto l'onda d'urto, io fui scaraventato al suolo. Qualche minuto dopo l'esplosione, rialzatomi, sgranai gli occhi: del Palazzo non rimaneva più traccia, era stato quasi completamente raso al suolo. Non più grandi torri, non più eccezionali cupole, nulla, l'imponente struttura che rappresentava da mille rivoluzioni il potere politico del nostro popolo era ridotta in briciole. Al suo posto, un rudere in fiamme ed instabile, un mucchio di macerie che ad ogni secondo piegava sempre più verso il suolo. Eravamo tutti sbalorditi. Dei Consiglieri alcuni giacevano ancora per terra, altri invece s'erano già rialzatisi, ma tutti quanti restavano immobili, allibiti e spiazzati da ciò che si presentava dinnanzi ai loro occhi. Il Gran Cancelliere, ritto in piedi, fiero, il suo mantello al vento, sussurrò -Vi ammazzerò tutti bastardi schifosi-.

Dopo quel giorno, tutti quanti capirono la potenza militare e la spietatezza degli umani, i membri superstiti del Consiglio accettarono di obbedire incondizionatamente alle loro richieste. Come prima cosa fu chiesto loro di disarmare l'esercito e qualunque corpo di difesa pubblica o privata: loro accettarono. Come secondo procedimento fu richiesto loro di inviare sulla loro nave madre un contingente di persone affinché gli scienziati umani potessero studiare la nostra anatomia: loro accettarono. Terzo provvedimento, indicare loro la locazione delle altre due armi Neuro rimanenti (non ci fosse stato Liam a coprirmi i Consiglieri avrebbero sicuramente rivelato l'esistenza della mia spada): loro indicarono l'ubicazione delle tombe rispettivamente di Me' Hivi, dove era conservata la lancia, e di Lat Pervy, per il martello. Non capii quel terzo ordine, pensai che Sylar volesse studiare solo quelle tre armi, lasciando da parte la spada, che aveva già sufficientemente analizzato; o forse l'avermi permesso di tenere l'arma era davvero solo un atto di gratitudine nei miei confronti; forse aveva trovato in me l'unica figura amica durante quel soggiorno, ma per me Sylar rimaneva ormai il più vile e meschino traditore e volevo la sua morte a tutti i costi. Seppi tutto ciò dopo una settimana, quando Liam, sfinito, ritornò a casa. -Mio padre è bruciato assieme al Palazzo, ma non sono triste per questo, se n'è andato servendo il nostro splendido popolo, ed ora vive nuovamente assieme al Dio Mur. Sono triste per ben altro; sono triste per le nostre sorti, per la sorte di tutto il nostro pianeta. Ma in questa settimana di sottomissione ho certamente capito una cosa: non possiamo sopportare altri soprusi. Gli umani stanno facendo scorribande in città, distruggendola ed assalendo persino i passanti. Sono delle belve ed il Consiglio non fa nulla per evitare tutto questo. Non fa nulla per fermarli! Si limita ad obbedire alle loro stupide imposizioni-, mi raccontava in salotto, seduto alla mia destra, -Sazàn, tu hai un debito con me, ricordi?-. Con tutto ciò che aveva fatto per me ne avevo anche mille di debiti, dunque annuii. -Bene, in questi giorni mi sono prodigato insieme all'ammiraglio Grande-, la mia mente si affollò di migliaia di ricordi, -Per organizzare un movimento per la resistenza alle spalle di quelle cariatidi del Consiglio. Dopo sei lunghi giorni di preparazione dunque, alcuni uomini a me fedeli capitanati dallo stesso Grande hanno progettato un piano di riconquista delle basi militari. So che è rischioso, ma mio padre è morto per noi, è morto per questo pianeta, e quegli incompetenti del Consiglio stanno buttando all'aria il suo sacrificio, stanno permettendo agli umani di schiavizzarci, e non ci permetterebbero mai di resistere con la forza. Ma noi dobbiamo farlo! Dobbiamo resistere, Sazàn! E non farci schiacciare dai quei luridi vermi!-; io ero molto convinto dalle prole del mio signore, il Consiglio con la sua diplomazia non aveva ottenuto nulla, anzi aveva ottenuto i peggiori risultati pensabili; la resistenza quindi mi sembrava "La Soluzione". -Ho avvisato Lis e gli altri del primo battaglione della divisione sicurezza, ti verranno a prendere tra poco, preparati, marcerai sul Consiglio e lo scioglierai con la forza; loro ti guarderanno le spalle, difendendoti dagli attacchi nemici. Tutto chiaro?-. Avevo capito ogni dettaglio: il mio compito era quello più importante, senza prima aver deposto il Consiglio, che impediva le nostre mosse, nessuno avrebbe potuto far nulla. -Va bene-.

Lis e gli altri arrivarono in un'oretta. Fui felice di rivederli, e dopo brevi ma necessarie formalità, partimmo. E così, giunti davanti alla sede provvisoria del Consiglio (di cui ora in via del tutto eccezionale facevano anche parte i due Saggi rimasti in vita), ci preparammo ad entrare dalla porta principale. Eravamo gli unici armati sul pianeta, oltre agli altri "Ribelli" (così ci chiamano ora sui libri di storia) ed agli umani. Perciò, uccisi gli umani a guardia dell'edificio, facemmo irruzione. Bexthan era seduto su uno scanno sopraelevato rispetto agli altri, forse aveva visto in quel momento di panico generale una preziosa occasione per emergere dal resto dei Consiglieri. Sfondammo la porta della sala in cui erano radunati, vidi Bexthan trasalire. Annunciai fieramente, -Signori, il Consiglio è sciolto per ordine del sommo Liam Lodd', Gran Cancelliere del Pianeta Madre!-. Il Saggio Seis si alzò ed urlò -Ancora tu piccolo bastardo! Come puoi in un momento come questo, compiere simili stronzate?-. Con un fendente gli perforai lo stomaco, riducendo in poltiglia tutti i suoi organi interni; quella fu la prima mia vendetta. -Qualcun altro ha qualcosa da obiettare?-. Così mentre io deponevo il Consiglio, gli altri ribelli capitanati da Grande facevano irruzione nelle due basi militari e ne riconquistavano il possesso.

In tutto quel caos infernale, ricordo che inviai un messaggio elettrico a Sylar, -Sto venendo a prenderti-.

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Capitolo 13
*** Bionic ***


Sì, sono un fan di Christina Aguilera, ha una gran voce... Salve a tutti! Siamo agli sgoccioli; non vi trattengo oltre, buon terzultimo capitolo!
P.S. Non sono riuscito a mantenere la promessa dei sei giorni, sono davvero spiacente. Perdonatemi.



Bionic.


“Bionic, take you supersonic, ey! / I'm bionic, hit you like a rocket, ey! / Bionic, so damn Bionic; / Gonna get you with my electronic, supersonic rocket, yeah!”


In quei giorni non avevo chiuso occhio. Avevo passato quasi quaranta ore in laboratorio a sviluppare la nuova tecnologia per cui il comandante Valliage aveva tanto sudato. Dunque quel giorno le mie mani tremavano più del solito, stanche ed affaticate; ma fortunatamente non ero io il chirurgo che doveva eseguire l'operazione, era infatti un finlandese trentenne, esperto in esportazioni, amputazioni, trapianti ed impianti d'organi. Io dovevo solo spiegare dove suturare, recidere o cucire. Tutte quelle cavie che gli alieni ci avevano inviato sulla nave madre, tutte quante mi avevano regalato dell'ottimo materiale su cui lavorare e d'altronde qualunque biologo come me avrebbe desiderato avere un'opportunità simile. Per due giorni quindi avevo selezionato tessuti, vene, nervi, muscoli ed ossa da quelle cavie, avevo insomma fatto un egregio lavoro di collage, creando così ciò che il capitano mi aveva chiesto. La sala operatoria in cui mi trovavo ritto in piedi era di piccole dimensioni, ma comunque ottimamente attrezzata. Valliage era coricato sul lettino, sedato. Dopo pochi minuti entrarono nella stanza il chirurgo finlandese con i due assistenti, dagli occhi uno mi sembrò una donna, ma non posso esserne certo. Egli mi disse subito -Buongiorno, lei dev'essere sua eccellenza Sylar-. Valliage infatti, dopo le mie valorose azioni di spionaggio, mi aveva promosso di grado facendomi diventare quasi al pari dei suoi due bracci destri. Tutti mi rispettavano su quella nave, anche se il mio aspetto esteriore era quello di un mostro. -Noto con piacere che il suo duro lavoro si è perfettamente concluso e l'arto è ora pronto alla sostituzione-. Io risposi affermativamente. Era davvero stato complicato creare un braccio bionico per il comandante. E dunque quell'arto che dalle mie mani aveva visto la luce, doveva essere ora impiantato nel corpo di Valliage. Il capitano aveva infatti nella settimana precedente raccolto le tre armi neuro, affinché io potessi capire meglio il loro funzionamento. Quando io gli avevo riferito l'enorme potenziale di tali armi, egli si era subito esaltato dicendo che avrebbe voluto poterle utilizzare ad ogni costo. Io gli risposi che per noi esseri umani sarebbe stato impossibile fare uso di quelle armi, poiché il nostro sistema nervoso non avrebbe condotto sufficiente energia elettrica per innescare la reazione. Così Valliage, molto ingenuamente, mi aveva ordinato di sostituire il suo sistema nervoso con un sistema nervoso alieno. Subito l'idea mi sembrò folle, ma ripensandoci decisi di provarci. Così mi fu affidato un laboratorio e, inviatemi delle cavie aliene, avevo dovuto vivisezionarle cercando di non danneggiare il loro sistema nervoso e i loro arti. Notai con mia grande sorpresa che il sistema nervoso non differiva dal nostro per composizione, ma solo per resistenza e per struttura: esso infatti era composto da cellule nervose molto più piccole, addensate in poco spazio, che creavano nervi molto più spessi, robusti, resistenti e dunque capaci di condurre un maggior numero di volt. Sottoposti i miei risultati agli occhi di Valliage, egli decise di tentare: avrei dovuto amputare il suo braccio, privarlo del suo sistema nervoso, impiantando al suo posto un sistema nervoso alieno. Il capitano aveva avuto un grande coraggio a decidere di sottoporsi a quella rischiosa operazione; in giornata infine ebbi tra le mani l'arto destro di Valliage (ammetto che mi facesse davvero impressione, ma ormai non potevo tirarmi indietro). Avevo dunque inizialmente studiato il braccio vero e proprio del comandante, smontandolo in tutte le sue parti. Successivamente avevo selezionato le parti migliori da ognuna delle cavie sezionate nel giorno precedente, per creare "il braccio bionico perfetto"; fortunatamente era giunto sulla nave un alieno piuttosto muscoloso, doveva essere un condannato a morte perché una delle nostre guardie nel condurlo al laboratorio aveva perso metà braccio per un suo assalto. Da costui dunque presi le ossa, che erano più spesse e resistenti di quelle di tutte le altre cavie: avevo calcolato infatti come le nostre ossa si sarebbero spezzate sotto quei potentissimi scatti dei nervi che facevano muovere energicamente i muscoli, così decisi di sostituire anche le ossa, e non solo il sistema nervoso. Infine avevo rimontato il tutto nel migliore dei modi, come con un puzzle, cucendo e suturando i punti più importanti. Concluso il mio faticoso lavoro, avevo testato le potenzialità della mia creazione, collegandola ad una batteria che potesse fornirle energia elettrica (siccome sulle nostre navi di energia elettrica libera nell'aria non ve n'era): non appena permettevo all'energia elettrica di scorrere attraverso i nervi del braccio, esso resisteva, muovendosi freneticamente. Quando il chirurgo mi aveva parlato, proprio quel braccio bionico era nelle mie mani, immerso nel ghiaccio per garantirne un'adeguata conservazione.

Il capitano senza braccio, pronto per l'operazione si rivolse a me dicendomi -Sylar, se questo progetto andrà a buon fine, ti eleverò a mio pari-. Io ammutolii per la felicità e lo rassicurai. Il chirurgo finlandese disse ad un'infermiera di procedere con l'anestesia totale. Valliage piano piano chiuse gli occhi, un leone che dormiva come un agnellino. Gustav (questo il nome del chirurgo) mi fece cenno di avvicinarmi e, quando fui a pochi centimetri da lui, i suoi due assistenti presero il braccio. -Bene, iniziamo-. Con un bisturi aprirono le cuciture sotto la spalla, prepararono ogni cosa con la massima precisione per proseguire con l'impianto. Così il braccio fu inserito a dovere ed entrai in gioco io: essendo infatti quella una mia superba creazione, indicavo al chirurgo come procedere e quali fossero le priorità assolute. Dopo circa quattro ore stavamo infine collegando e suturando le ultime vene quando io sentii una strana sensazione alle tempie. Una voce, quella di Sazàn rimbombava nel mio cervello, diceva -Sto venendo a prenderti-. Impaurito e sorpreso allo stesso tempo lasciai cadere gli schizzi su cui avevo indicato come procedere nell'operazione; ero isolato dal resto del mondo, quasi in un mondo parallelo, dove ogni cosa era governata dalla staticità. A portare scompiglio in questo mio meraviglioso universo furono gli strattoni di un'infermiera che mi pregava per il bene del capitano di tornare in me. Subito, imbarazzato e frastornato, tornai al lavoro.

L'operazione fu un vero successo, anche se appena finita dovetti sorbirmi i rimproveri di tutta l'equipe per la mia sbadataggine nel lasciar cadere gli schizzi e nell'intralciare ed impedire il lavoro altrui. In un giorno il capitano si riprese completamente, non so come facesse, ma riusciva già a muovere il braccio ed a stringere il pugno. In due giorni provò a prendere in mano le armi Neuro. Naturalmente non funzionavano, se non creando delle piccole scosse nei pressi dell'impugnatura. Prima che Valliage potesse urlarmi contro, provai a spiegargli -Signore, le armi non funzionano dentro queste navi poiché non vi è energia elettrostatica, se fosse là fuori...-, ma il capitano mi interruppe subito sbraitando -E come faccio ad andare "là fuori"-, facendomi il verso, -Se appena metto un passo al di fuori di qui muoio?-. Io prontamente risposi -Giusta osservazione-, gli occhi del capitano sembravano volermi uccidere, -Per tale motivo ho sviluppato per lei questo marchingegno-. Gli porsi una specie di zainetto a cui erano collegati dei cavi. -Cos'è questo affare?- mi chiese; io risposi -E' una batteria. E' più facile se le faccio vedere subito come funziona al posto di spiegarglielo; ecco-, mi avvicinai a lui, -La metta a spalle-, lo aiutai perché il braccio ancora gli dava fastidio; -Ora colleghiamo questo qua, e questo lì-, infilai i due cavi che terminavano con dei lunghi aghi nel suo braccio e lui non batté ciglio. -Bene è pronto signore?-; -Certo! Che credi?- rispose Valliage. Così accesi la batteria ed il braccio del capitano fu invaso da un'energia pazzesca, scattava e tremava, a mala pena egli riusciva a tenerlo sotto controllo. Urlò -Cosa mi stai facendo brutto deficiente?-, io sorridendo gli risposi -Provi a prendere una di quelle armi-. Egli prese la lancia. Essa s'illuminò ed emettendo un sibilo iniziò ad allungarsi ed a coprirsi di energia elettrica, bucò il pavimento del piano superiore, tranciando a metà un inserviente. Tutti ammutolirono, io sorrisi e con me il capitano che disse -Sylar sarà il nuovo vice capitano e prenderà il mio posto quando io morirò-. Carlos e l'altro mi guardarono malissimo, io abbassai lo sguardo e dissi -Grazie, sono onorato capitano. Ma lasci che le spieghi ancora due o tre cosette-. -Tutto quello che vuoi-, rispose. -Mi sono permesso di apportare una modifica al progetto concordato del braccio bionico. In esso infatti sono presenti ben due sistemi nervosi intrecciati, uno è collegato direttamente al suo sistema nervoso, al suo stesso cervello, ed è quello che controlla il movimento dei muscoli. Il secondo è quello collegato alla batteria che porta sulla schiena, esso percorre tutto il braccio non interagendo con i muscoli e giunge fino nelle punte delle sue dita: è quest'ultimo che dunque permette il funzionamento delle armi Neuro aliene-. -Fantastico Sylar, fantastico davvero...-. Io continuai -Seconda cosa, riguarda la batteria: ha una carica di circa due ore dopo le quali dev'essere ricaricata. Si ricordi bene capitano, dopo due ore non sarà più in grado di usare queste armi-. -Non c'è problema-. Conclusi dicendo -Terza ed ultima cosa si ricordi che l'energia che scorre in questo sistema nervoso è più potente del solito quindi esso si consumerà se non dosa bene i tempi. Ogni mezz'oretta dovrebbe dunque fare una pausa-. Egli rispose -Moriranno tutti prima; grazie Sylar, puoi andare-.

Mentre ci scambiavamo queste parole, squillò in tutta la nave l'allarme per i messaggi di grande importanza, il più delle volte negativi. Valliage balzò in piedi e mi spinse via, poi prese il citofono sulla parete nord della stanza e chiamò la sala comandi chiedendo di passargli la persona che aveva dato l'allarme. In un batter d'occhio fu in collegamento con la quinta Imperial posizionata sopra la base militare aliena del distretto est. Ciò che il capitano ascoltava dal citofono doveva essere una pessima notizia, stringeva quella cornetta con talmente tanta forza che quasi la sentivamo scricchiolare. Subito urlò -Procedete col piano d'assalto! Bombardate! Bombardate! Bombardate!-. Poi si mise in contatto nuovamente con la sala comandi e disse di avvisare gli ammiragli delle altre navi di bombardare la città. Poi, riagganciato il citofono, si girò verso di me ed i suoi due tirapiedi e disse -Gli alieni hanno riconquistato le basi ed ora hanno aperto i portelloni di lancio. Venite con me, alla sala comandi!-. Non avemmo neanche il tempo di chiedere ulteriori spiegazioni. Correvamo attraverso i corridoi della prima Imperial, Valliage tutto preoccupato gridava agli uomini di armarsi, andare nell'hangar principale e prepararsi sul ponte di lancio al decollo. Giunti nella sala comandi il capitano ordinò di accendere i propulsori per allontanarsi dalla città e spingersi al di fuori dell'atmosfera di Giove; la prima Imperial infatti doveva rimanere integra. In quei minuti giunse un altro allarme, uno dei soldati addetti alle comunicazioni tra le navi, voltatosi verso di noi, gridò -Abbiamo praticamente perso la quinta Imperial di stanza sopra alla base militare del distretto sud; gli alieni hanno aperto il fuoco ed hanno danneggiato gravemente l'astronave!-. Valliage tirò un pugno sopra ad uno dei pannelli d'alluminio che ricoprivano la sala comandi e disse -Merda! Quegli imbranati si sono fatti fregare da quegli schifosi! Sappiamo almeno il numero dei nemici?-. Il militare parlava direttamente con l'ammiraglio della quinta Imperial che gli riferì -I nemici in quel settore contano circa tre astronavi grandi come le nostre Imperial, ma con cannoni più potenti; in un colpo combinato hanno distrutto circa metà della nave che ora sta crollando inerme a terra-. I motori si stavano riscaldando, potevo sentire il classico sibilo che precedeva la vera e propria accensione dei propulsori. Il capitano aveva fretta di raggiungere lo spazio, mentre urlava -Abbiamo l'ambra! Come fanno a resistere? Siete tutti dei buoni a nulla, avete comunicato alle altre tredici navi di iniziare i bombardamenti?-. Il militare rispose affermativamente, ma poi aggiunse -C'è un'unica Imperial che non risponde alle nostre segnalazioni...-, Valliage si avvicinò al povero soldato che si ritrovò a mezzo metro da terra, gli disse -Quale sarebbe questa nave?-. Il soldato balbettò -La... la seconda s... Signore-. Sbiancammo tutti: la seconda Imperial doveva sorvegliare il distretto sud, dove vi era la seconda base militare degli alieni. Valliage disse sottovoce -Così non va bene-, poi aumentato il tono di voce -Così non va bene! Sono pronti i reattori?-. L'ammiraglio rispose -Circa cinque secondi rimanenti... Cinque... Quattro... Tre...-; solo in quel momento alzai lo sguardo verso gli enormi vetri che mostravano l'immensa capitale Rougen. Lo scontro era iniziato, decine e decine di bagliori provenivano dalle altre parti della città, pensai che doveva essere l'ambra che esplodeva disintegrando ogni cosa, ma presto mi accorsi che nei cieli della città non vi erano solo le nostre navi, ma anche alcune Stealt (questo era il nome che ritrovavo insito nel mio cervello). -Due... Uno... Partenza!-. La nave accelerò come un fulmine ed in pochi secondi fummo nello spazio circostante il pianeta. Valliage tirò un sospiro di sollievo e disse -Ce l'abbiamo fatta, siamo salvi-. Sentii un brivido lungo tutta la schiena, poi un bruciore alle tempie; -Stai attento-. La nave iniziò a tremare, ci fu un grande botto e poi uno scossone. Valliage fu l'unico a rimanere in piedi. Gridava -Cosa diavolo accade ora?-, un militare gli rispondeva, -Signore una nave nemica ci ha raggiunto e ci ha colpito-. Il capitano s'infiammò ed urlò nel citofono che trasmetteva il messaggio a tutta la nave -Piloti d'assalto, accendete i motori, i portelloni si stanno per aprire, come obbiettivo avete l'annientamento completo del contingente nemico che fin qua ci ha seguito, chiaro?-. Poi gridò ad un militare -Apri immediatamente i portelloni del ponte di decollo!-. Non appena quest'ordine fu dato, ed i portelloni si spalancarono, centinaia di nostre navette solcarono lo spazio circostante e si diressero verso la nave nemica, che nel frattempo aveva fatto lo stesso. Poi Valliage giratosi verso di noi disse -Carlos, Ben, Sylar, preparatevi. Si va a schiacciare quei luridi pezzi di sterco!-. Così scendemmo fino agli hangar, siccome non ero un militare salii sulla nave dello stesso Valliage che prima di decollare mi disse -Tu sarai i miei occhi, dovrai dirmi chi è che ci attacca e da dove, chiaro?-. Io risposi -Certo mio signore!-. Così decollammo dal ponte e fummo in vista delle navette nemiche. Ero intrappolato controvoglia in una navetta, a decine di migliaia di chilometri da Giove ed a milioni di miliardi di chilometri dalla Terra; inoltre credevo di star per morire, lo sentivo accadere. Pensai che non saremmo durati più di dieci minuti. La navetta viaggiava, curvava bruscamente, roteava su se stessa, Valliage era intento a colpire le navette nemiche abbattendole una dopo l'altra; io non facevo nulla, avevo paura.

Ad un certo punto sentii -Colpito, affondato-. La nostra navetta iniziò a tremare. Valliage urlò -Sylar cosa fai? Dovevi avvertirmi quando saremmo stati seguiti! Stupido! Ci hanno preso!-. Io iniziai a chiedere perdono ed a gridare, egli mi rimproverò -Zitto! Sta solo zitto!-. Mi voltai indietro: eravamo seguiti da due navette, non riuscii a distinguere chi vi era sopra, ma quella voce era di Sazàn quindi sapevo che uno di quelli era per forza lui. Valliage chiamò Carlos e Ben dicendo loro -Mayday! Mayday! Sono stato colpito, chiedo rinforzi!-. Poi urlò ancora -Maledetto Sylar, non moriremo solo affinché tu possa essere oggetto di tutte le mie ire!-. Le navette dei due gorilla ci raggiunsero subito ponendosi ai nostri fianchi, e così passammo in leggero vantaggio nello scontro (leggero perché la nostra nave era seriamente danneggiata). Facemmo un giro della morte per aggirare i nemici e coglierli alle spalle, io credevo di star per vomitare. Valliage dopo tale manovra gridò -Carlos affondale! Ben distruggiamo questi vermi!-. Una loro nave venne colpita da Carlos e sembrò rallentare ed abbassarsi, ma quando Carlos la sorpassò questa riprese la propria normale velocità e gli fu dietro. Il capitano urlò -Carlos, stupido, credevi di avercela fatta ma ce li hai dietro! Sta attento-. Con un colpo nemico ben piazzato la navetta di Carlos s'incendiò, proseguì per qualche centinaio di metri e poi esplose. Valliage si era bruscamente interrotto, poi irato urlò -Carlos! Maledetti, morirete tutti!-. Portò la nostra navetta dietro ad i nemici ed iniziò a bombardarli con ogni genere di colpo. Ogni volta che premeva il tasto sulla cloche per far partire il razzo gridava -Prendi questo, stronzo!-, -Ti sfido a sfuggirgli!-, -Crepa!-. Ad un certo punto i nemici si divisero e così facemmo anche noi. Valliage era spossato e stanco, non parlava più. Ad un certo punto mi disse -Abbiamo finito i colpi, Sylar-. Capii che li aveva sprecati tutti, ero spaventato e sconcertato allo stesso tempo. Egli tentò di comunicare con Ben ma non ci giunse nessun segnale; poteva esser successa una sola cosa: la sua navetta era stata distrutta. -Sylar adesso proverò una manovra disperata-. Neanche il tempo di urlare di non farlo che Valliage sbloccò completamente la potenza dei due propulsori. Capii ciò che aveva fatto; -Ho sganciato l'uranio nel motore Sylar-. "E' una manovra suicida per caso? Vuole ammazzarci?" pensai ed effettivamente accadde qualcosa di molto simile. Con quell'accelerazione portentosa fummo presto alle calcagna di una delle due navi nemiche, ma la nave non rallentava, anzi, così presto ci schiantammo contro di essa. Ricordo un grande impatto, l'abitacolo pieno di fumo e fiamme, Valliage che urlava -Sylar, ci sei ancora? Sei ancora vivo?-. Io avevo troppo fumo in gola per rispondere ed emisi solo un grido roco. Valliage gridò -Mettiti il casco Sylar! Perdiamo ossigeno e pressione!-. Io agganciai il casco alla tuta che avevo indosso ed aprii l'ossigeno. Respiravo. -Adesso proverò a tornare alla nave madre, non so se ce la faremo ma è la nostra unica possibilità!-. Un milione di spie lampeggiavano in tutto l'abitacolo ed altrettanti suoni acustici mi perforavano i timpani. "Sto per morire?". Dinnanzi a me c'era la nostra bellissima Imperial, mi sembrava il paradiso, mi sembrava una salvezza divina; dovevamo raggiungerla. Valliage urlava -Il motore si sta surriscaldando, l'uranio sta per terminare, non ce la faremo. No! Ce la dobbiamo fare! resisti bella, resisti, portaci dalla mamma-. Era uscito di testa, ero uscito di testa. Dov'ero, cosa stavo facendo, vedevo l'Imperial avvicinarsi, sempre più, inesorabilmente, fino a quando non impattammo contro qualcosa, la nostra nave si schiantò al suolo, io fui sballottato sul sedile e le cinghie di protezione mi ferirono tutto l'addome. Per qualche minuto ricordo un buio, nero, profondo. Poi aprii gli occhi.

Eravamo giunti sul ponte di lancio, la navetta quasi completamente distrutta, slacciai la cinghia che mi costringeva seduto, nel fumo e tra le fiamme mossi qualche passo verso il sedile di Valliage, lo liberai dalla cinghia, me lo caricai a spalle ed uscii da uno squarcio. Della navetta rimaneva quasi nulla. Mi trascinai così insieme al mio capitano per qualche dozzina di metri lontano dalla nave. Alla fine caddi sfinito al suolo, mentre davanti ai miei occhi la navetta esplodeva in un tripudio di fuoco e fiamme.

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Capitolo 14
*** Belve ***


In questo capitolo c'è una citazione dantesca, ritrovatela! No scherzo, tentavo solo di imitare il mio professore di Italiano. Al prossimo capitolo.


Belve.


“Nemico. Una parola dal significato difficile, crediamo di avere un determinato nemico, cerchiamo di ostacolarlo per favorire la nostra vita, cerchiamo in ogni modo di contrastarlo. Potremmo anche giungere sino al punto d'annientarlo, per poi magari accorgerci d'essere rimasti soli, per poi capire che non era davvero un nostro antagonista, per poi pentircene; ma sarebbe troppo tardi, saremmo divenuti noi il nostro nemico.”


Per meglio sconfiggere le due navette umane rimaste delle tre, che in partenza avevamo deciso di attaccare, pianificammo di dividerci. Noi (Bulen, Lis ed io) scegliemmo di seguire ed affrontare la navetta a sinistra, mentre Glax e Dayron, l’autista del primo battaglione, decisero che avrebbero bersagliato quella di destra, guidata dal comandante dei nemici e sulla quale era presente anche il traditore Sylar. Abbattemmo il nostro nemico in poco tempo, ci bastarono solo tre colpi, e vedemmo l’astronave umana prima incendiarsi, poi esplodere. Dopo il nostro successo, pensammo di recarci a dar man forte agli altri, ma quando fummo a poca distanza dalla loro nave, assistemmo ad un vero e proprio attacco suicida. Gli umani avevano infatti deciso di annientare i nostri, non con le classiche testate, ma piuttosto schiantandosi contro la loro nave. Davanti ai nostri occhi sorpresi e increduli, la nave nemica iniziò ad accelerare enormemente, raggiungendo in pochi secondi l'astronave di Glax e Dyron ed impattando violentemente contro essa. Subito immaginammo con immensa amarezza che fossero morti tutti quanti, ma indicibile fu la smorfia di sgomento che comparve sui nostri volti quando notammo che l'astronave umana era piuttosto mal ridotta, ma ancora in grado di volare. Senza esitazione così la seguimmo attraverso il campo di battaglia e presto capimmo che essa si stava dirigendo verso la nave madre. Io, sommerso dalla disperazione per i nostri compagni, gridai a Bulen, che stava manovrando la cloche, -Sparagli! Affondali! Che aspetti?-. Ma Lis, bloccandomi, rispose energicamente –Sazàn, no! Abbiamo l’opportunità di infiltrarci nella loro nave senza farci notare e di debellarla dall’interno! Non vorrai mica buttare tutto all’aria!-. Io mi liberai dalla sua stretta e gridai –Ma là c’è il capitano nemico! C’è anche il traditore! Hanno ucciso i nostri compagni! Come fai a-. Lis mi tirò uno schiaffo, che mi fece tremare tutta la faccia, quando mi fui calmato mi disse dolcemente –Sazàn, non farti prendere dalla foga e impedisci all’ira di offuscare la tua mente. Pensa al bene di tutti; pensa al metodo più rapido per finire tale guerra. Abbiamo una grandissima opportunità, non possiamo minimamente permetterci di lasciarcela sfuggire-. –Va bene, tutto chiaro, faremo come volete- . Dunque inseguimmo la navetta nemica sino all’Imperial (questo il nome delle gigantesche astronavi da cui provenivano tutte quelle minori in quel momento schierate in battaglia) e, quando fu aperto il portellone del ponte di decollo per permettere alla nave del comandante di rientrare, facemmo irruzione anche noi. La loro nave si schiantò contro il suolo, mentre noi grazie alle attente manovre di Bulen atterrammo delicatamente. Quando il portellone fu richiuso, sentimmo l’ossigeno essere liberato nell’ambiente circostante, così fummo obbligati a vestirci delle tute; io indossai anche la maschera nera. Credevamo che gli umani fossero morti nell’impatto, ma poi riuscii a distinguere due figure che, uscendo dai resti in fiamme della navetta, si trascinavano lungo lo stanzone: erano Sylar e, sulle sue spalle, il comandante degli umani. La astronave umana esplose, e fu proprio quello l’istante in cui noi scendemmo dal nostro velivolo.

I nostri passi risuonavano nell’androne e il loro suono fu subito notato da Sylar che balzò in piedi con uno scatto nervoso. Balbettava –V… Voi… Come avete fatto? Soldati! Soldati! Aiuto! Dove siete? Uccideteli!-. Indietreggiava impaurito e tremante, ponendo entrambe le braccia avanti con l’intento di fermarci. –Sazàn… Sazàn… Abbi pietà! Non ti ricordi? I bei momenti passati insieme-. Io urlai –Zitto!-. Non volevo sentire nessun'altra parola da lui, da colui che aveva tradito il mio intero popolo, dalla causa vivente della ripresa della guerra, da quel mostro. Lui rispose –No eh? Ti prego Sazàn, ti scongiuro, ho dei figli, una famiglia, a casa-. Io irato emisi solo un ruggito famelico. Sylar iniziò a gridare, tirò fuori dal proprio fodero una piccola arma da fuoco e chiuse gli occhi, forse per paura. Stava sicuramente per mettersi a sparare all’impazzata, quando il capitano umano, rialzatosi da terra, gli fermò il braccio in una morsa tanto tremenda, che Sylar lasciò cadere l’arma e, senza opporre alcuna resistenza, pregò affinché fosse liberato. Valliage (questo il nome del secondo uomo) si rivolse a lui dicendogli qualche strana cosa nella loro lingua, Sylar, piangente per il terrore, fece un cenno di consenso con il capo e, scappato in un angolino della sala, lì si rannicchiò ponendo le sue luride mani tra i suoi unti capelli a protezione della sua sudicia testa.

Sentimmo tutti quanti un sibilo, veloce ed acuto, come il suono di una saetta. Non potevo crederci. Quella davanti ai miei occhi, che dal pugno destro serrato del capitano scaturiva, luminosa, fino a giungere a perforare lo stomaco di Bulen, era la lancia Neuro di Me' Hivi. “Cosa diavolo sta succedendo? Come diavolo ha fatto? E' tutto un sogno?”. Eppure Bulen stava lì, con la bocca spalancata, da essa fluivano fiotti di bava, il ventre forato dall’arma Neuro che si era strepitosamente allungata non appena Valliage l’aveva stretta nel pugno destro. I rantoli del nostro compagno ci facevano contorcere l’animo. Io guardavo quella scena, muto, senza realmente comprendere ciò che stava accadendo. Quando Bulen crollò in ginocchio, Lis scoppiò a piangere e gridò -Come hai potuto bastardo? Come hai potuto uccidere mio fratello? T'ammazzo!- ed estrasse l'arma dal suo fodero. “Bulen è morto? Ma come ha fatto Valliage? Fratello?”. Non feci nemmeno in tempo a gridare -No Lis!- che il capitano nemico, lasciata la presa sulla lancia, stava già prendendo dal suo fianco la frusta. “Ma certo!” pensai “Ecco dove sono finite le armi Neuro sequestrateci! Servivano a lui, lui riesce ad usarle!”. Notai che egli impugnava quelle armi sempre con la mano destra, quindi conclusi che solamente con quel braccio doveva essere in grado, per qualche strano motivo, di servirsene. Mentre ponderavo tali questioni, Lis si ritrovò in pochi secondi intrappolata dai mille filamenti elettrizzati della frusta di Jimba, che la facevano contorcere ed urlare. Ero disperato, non sapevo più cosa fare, come agire. Bulen giaceva in terra trafitto in un lago di sangue, Lis stava per essere uccisa, ed io ero immobilizzato dal panico. Ad un certo punto un urlo coprì l'inquietante ristata di Valliage e squarciò i miei pensieri, era Lis che gridava il mio nome. Gridava e gridava a squarcia gola quella parola, -Sazàn-, -Sazàn, -Sazàn-. Istintivamente la mia mano destra si mosse verso il fodero che portavo sul fianco sinistro ed estrassi la spada di Sasox. Era enorme, più lucente e potente che mai, pensai che la batteria sulle mie spalle fosse sul punto d'esplodere, era quella che mi stava infatti fornendo l'energia necessaria all'accensione dell'arma. La sentivo scorrere senza freni, dal mio cervello sino alla punta delle mie dita. Con un fendente recisi le corde della frusta e Lis cadde a terra esanime, ma respirava ancora e la sentii sussurrare con l'ultimo filo di voce rimastogli in gola -Grazie, non morire, ti prego-. Valliage sorrideva malignamente, lasciò cadere in terra l'arma ormai inutilizzabile, poi allungò il braccio dietro la sua schiena, prese il martello Neuro di Lat Pervy e, sogghignando, disse con uno strano accento una parola che capii subito; egli sussurrò -Sazàn-. In quel momento l'ira prevalse sulla mia parte razionale, e mi lanciai contro di lui con un impeto violento quanto l'esplosione di una stella. Non ragionavo più, volevo solo ucciderlo, volevo sentire il suo sangue scorrere sulle mie mani, volevo sentirlo rantolare, volevo vedere i suoi occhi perdere ogni scintilla di vita; ero diventato una belva, un demonio assetato di vendetta.

La mia spada si schiantò contro il suo martello e un fragore risuonò in tutto il ponte. Cercavo di spingere con tutta la mia forza contro la sua arma, per farlo cedere dalla stanchezza, ma era troppo forte. Valliage prese infatti un grande respiro e poi concentrò tutta la sua forza nel braccio destro: il martello divenne enorme e lucente, sembrava quasi di dimensioni doppie rispetto a prima. Mi ritrovai così sbattuto a terra, inerme e disarmato. La spada era stata scaraventata alla mia destra sul pavimento, non appena rigirai lo sguardo verso il nemico, questi era già pronto a sfondarmi il petto con un colpo. Molto agilmente feci subito forza sul braccio sinistro e rotolai verso destra proprio qualche istante prima che il martello, menato con vigore da Valliage, sfondasse il pavimento. Con un grande botto una parte del suolo crollò, ed io per non cadere mi aggrappai saldamente ad un tubo che fuoriusciva dall'intercapedine tra le piastre di metallo che ricoprivano il pavimento e le travi di sostegno. Una scaglia, distaccatasi per lo schianto, mi aveva ferito il braccio sinistro, conficcandosi piuttosto profondamente. Cercai di tirarmi su ma non ce la feci, con un solo braccio non riuscivo ad alzare tutto il mio peso. Valliage stava ridendo da qualche parte, da quella posizione non potevo vederlo; il suo viso però si staglio davanti ai miei occhi quando, dopo pochi secondi, sopraggiunse lentamente. Con uno scarpone stava stritolando la mia mano, sentivo un dolore atroce in tutte le ossa delle dita, così presto persi la presa. Precipitai sulla ferraglia che dal piano superiore si era lì schiantata e il dolore che tale caduta mi provocò alla schiena mi impedì per qualche attimo il respiro. Vedevo il capitano umano ridere lassù, attraverso la breccia da dove ero caduto, stava stringendo il martello con molta forza e lo stava sollevando in aria. Capii che stava per lanciarsi su di me con tutte le sue energie, da quell'altezza e con quella potenza mi avrebbe sicuramente ridotto in polvere tutte le ossa, e gli organi in poltiglia indistinta. Mi chiedevo se mai sarei riuscito a salvarmi, non potevo muovermi, avevo troppo male, non avevo nulla con cui difendermi, mi sarebbe servito qualcosa per colpirlo a distanza, ma cosa? Come un lampo nella notte, illumina tutto il cielo nero e poi scompare in un istante, così mi balenò in mente un'idea: potevo colpirlo coi miei poteri psichici. "Ma certo! Sono un genio! Sicuramente qualcosa gli farà se elaborerò un messaggio lungo. Devo provarci! Devo riuscirci!". Così in quei pochi secondi condensai nel mio cervello tutta la mia vita, tutte le mie esperienze, tutto il mio sapere, tutti i miei ricordi. Poi guardai intensamente Valliage e prima di procedere con i segnali elettrici dissi -Fottiti stronzo-. L'umano portò le proprie mani alle sue tempie gridando come un ossesso. Lasciò cadere il martello che precipitò sul piano inferiore, lo stesso dove io mi trovavo. Egli continuava a dimenarsi ed a scalpitare urlando con quanto fiato aveva in gola, ma io non potevo permettermi di perdere la concentrazione; egli si contorceva prima verso sinistra, poi si voltava improvvisamente verso destra, successivamente incurvava la schiena all'indietro e perdeva l'equilibrio, si rialzava, barcollava ed infine cadeva attraverso la parte sfondata del pavimento. Lo osservai precipitare verso di me, fin quando non me lo ritrovai addosso e dunque la mia concentrazione venne inevitabilmente meno. Dopo qualche minuto il capitano si rialzò frastornato e fece qualche passo qua e là confuso; io decisi che quella era l'occasione giusta per agire, raccolsi ogni briciolo di forza rimastomi in corpo, mi alzai e mi avvicinai al martello silenziosamente per impossessarmene; ma sbagliai un concetto elementare per ogni buon soldato: non badai a ciò che faceva il capitano. Essendo egli infatti atterrato su di me, aveva sicuramente riportato minori ferite di quante erano state le mie e, avendo capito ciò che volevo fare, prima che fossi in grado di sottrargli l'arma, mi prese e mi lanciò sul suolo. Io caddi come un corpo morto, senza opporre resistenza, ed infine il nemico ottenne ciò che aveva tanto bramato: recuperò il martello. Ma accadde qualcosa di alquanto strano, l'arma, stretta nel pugno destro di Valliage, non riluceva e nemmeno accennava la più piccola reazione. Valliage certamente doveva aver capito cioè che stava succedendo, ma io no; egli prese due cavi che penzolavano dalla sua schiena, prima nella fretta non li avevo notati, e li conficcò bruscamente nel suo braccio destro provocando vari schizzi di sangue. Sorrideva inquietante, ma, notando che il martello imperterrito s'ostinava a non reagire, il sogghigno lasciò posto ad una smorfia di disperazione. Estraeva e conficcava quegli aghi senza alcun ritegno, il suo braccio era pieno di sangue, ma lui non intendeva sicuramente fermarsi. Dopo qualche minuto però si placò, amareggiato sganciò due lacci che sostenevano uno strano marchingegno metallico, che cadde con un tonfo sul pavimento; esso non sembrava molto integro, era tutto rovinato, graffiato, bollato, sfondato. Non capivo cosa stesse succedendo, ma l'umano gridò una parola che riconobbi, egli urlò -Sylar-, scuotendo le mani in aria. Poi riprese comunque il martello e si avvicinò verso me. Stavo per morire, mi avrebbe colpito in ogni caso, anche con l'arma spenta, ma d'altronde era pur sempre un martello di metallo, e non doveva per forza essere elettrizzato per nuocermi. Immaginai il mio cadavere con il ventre sfondato, col cranio squarciato e tutto il cervello in terra; immaginai i miei compagni piangere sulla mia tomba, come io avevo fatto con Syr, con Jub e con Lavhii. Tremavo dalla paura, la paura di morire, di terminare la mia giovane vita, di non poter più agire, d'essere immobile per l'eternità. Ma in quel momento d'assoluta disperazione, in quel momento che pareva eterno, accadde un miracolo.

Un'enorme esplosione squarciò la parete destra della nave. Tutto vorticosamente volava di qua e di là per la pressione interna dell'Imperial, che, prima risorsa vitale, ora s'era trasformata in fenomeno mortale, riversando verso lo spazio aperto ogni oggetto o persona presente sulla nave. La breccia era enorme: fuoco e fiamme divampavano ogni dove e il suono monotono dell'allarme copriva ogni altro suono. Valliage stava a mala pena in piedi, il martello piantato in terra, cercava d'aggrapparsi al manico con la massima forza possibile. Ma tutto quest'inferno si spense: era comparso uno schermo al plasma a protezione dello squarcio nella parete, doveva consumare enormi quantità di energia siccome i motori dell'enorme nave si spensero. Valliage si rialzò in piedi, estrasse il martello dal pavimento ed iniziò a ridere. Ma la sua risata si bloccò quasi subito, vidi la sua faccia contorcersi in una smorfia di dolore, il suo corpo stava distante da terra, alzato, inerme. La bocca spalancata, gli occhi che parevano quasi uscire dalle orbite, non riusciva nemmeno a gridare, a proferire la minima parola, la sua voce era mozzata da quella morsa potentissima che gli stava aumentando enormemente la pressione del cranio.

L'enorme mano del Gran Cancelliere Liam stava letteralmente stritolando la testa del capitano, materia grigia volava in ogni direzione, ed il suo cadavere precipitava rumorosamente sul pavimento. -Ora alzati, Sazàn-.

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Capitolo 15
*** Morte ***


Questo capitolo è molto breve, ma penso sia uno dei più importanti. Personalmente lo amo. Per una volta ho usato un sottotitolo preso dal capitolo stesso e sono molto felice. Il prossimo capitolo sarà l'ultimo della sequenza narrativa principale (Sì, ci saranno due capitoli extra sulla generazione precedente a quella di Sazàn e... Vedrete). A presto.


Morte.


«Un punto, poi il nulla.»


C'era un gran polverone dappertutto, le fiamme che divampavano su tutto il ponte di decollo e che erano state create dall'esplosione, avevano sollevato un denso fumo nero che ricopriva ogni angolo dell'androne, impedendo una vista chiara e limpida della situazione. Mi ero alzato ma non riuscivo a capire dove stessi andando, immaginavo che Valliage molto probabilmente avrebbe vinto anche con quell'improvvisa esplosione provocata da chissà cosa, forse da un guasto. Così iniziai a chiamare il capitano, urlavo -Thomas, dove sei?-, -Ehi! Rispondimi ti prego-, -Scusami per prima, ma ti prego di' qualcosa!-. Nessuno rispondeva alle mie parole e la mia paura crebbe esponenzialmente. “E se dovesse aver perso? Se fosse morto? No impossibile... Aveva le tre armi! Eppure l'ho visto precipitare. Ma sono scemo? No, lui ha vinto!”. Poi sentii dei passi intorno a me, erano di più persone, almeno due. Pensai che potevano essere di Valliage e dell'ammiraglio, che probabilmente era sceso sin qua dalla sala comandi per aiutarci. Poi sentii come un respiro pesante, affannato, stanco, e mi prese lo sconforto. Iniziai a correre all'impazzata e, seguendo un raggio di luce che filtrava attraverso il fumo, mi schiantai contro un vetro della nave. Era là, Giove, in tutto il suo splendore, bello e lucente come una sfera d'oro incastonata in una cornice di diamanti splendenti; sembrava così vicino, che quasi mi persuasi di poterlo toccare, di poterci arrivare con un braccio, di poterlo sfiorare con le dita. I palmi delle mie mani spingevano contro la fredda barriera che mi separava dal mio mondo, volevo raggiungerlo nuovamente, volevo ritrovare Nur là che mi aspettava, sotto uno di quei grandi e luminosi alberi. Con lei sarebbe stato tutto differente, niente più paura, né affanno, solo pura e fantastica felicità. Il suo volto mi apparve nella mente, era così bella, così intelligente; era la donna dei miei sogni, la donna perfetta per me, ma era morta. Ora giaceva in chissà quale parte del pianeta, a marcire ed a consumarsi. Immaginai le sue carni disfarsi col tempo, consumarsi fino a lasciare solamente nude ossa bianche come il marmo. Mi misi a piangere, il fumo m'impediva quasi di respirare, ma il pianto sgorgava lo stesso incessante dai miei occhi infiammati; stavo per morire, questa volta seriamente, definitivamente, per sempre, il mio corpo avrebbe avuto stessa sorte di quello di Nur. Pensai fosse quasi una liberazione, ero diventato un mostro, avevo perso tutto; la morte come salvezza. Mi voltai, appoggiai la schiena al vetro e mi lasciai cadere inerme a terra. Tossivo, la mia vista s'offuscava sempre più, ed avrei presto perso anche i sensi se non fosse stato per la sua voce, -Guardalo, è qua il traditore!-, era Sazàn. Mi tirai su con le poche forze che avevo, le mie braccia erano stanche ma riuscii a spingere contro le pareti di ferro, le mie gambe tremavano incessantemente nonostante comunque mi reggessero ancora.

Dal fumo sbucarono due figure, una di media altezza, era Sazàn, l'altra enorme. Quest'ultima disse -Guardalo, non sta nemmeno più in piedi, che pena-. Io non feci nemmeno in tempo a dire -Non è-, che fui subito atterrato da un pugno in pancia. Sentivo il sangue caldo uscire dalla mia bocca, a pochi centimetri da terra; lo stomaco si era ritorto su sé stesso, lo sentivo pulsare e tremare. Non ce la facevo più. Un calcio mi spinse contro la parete e avvertii una sensazione di dolore atroce lungo tutta la schiena, come se mi avessero spezzato tutte le vertebre singolarmente, una ad una. -Ti sei sfogato abbastanza Liam?-, diceva Sazàn. Egli rispondeva -Si- poi, dopo avermi sputato addosso, concluse - lo lascio a te, finiscilo-. A quelle parole mi pietrificai, il terrore, forse l'adrenalina anche, mi fecero alzare in piedi, usando le ultime briciole di forza che rimanevano ancora nel mio stanco corpo. Lo vedevo bene, attraverso il casco, aveva proteso il suo viso verso il mio, tanto che il mio respiro, il mio fiato pesante ed umido appannava la sua visiera. Stava per scatenarsi contro di me, esausto e senza più energie. Iniziò a parlare -Sylar- poi rise -Guarda, ti hanno di nuovo abbandonato, la storia si ripete-. Io risposi -No, no! E' impossibile!-. -Guarda fuori dalla finestra, presto precipiteremo verso il pianeta Sylar, non c'è più alcuna speranza di salvezza per te-. Mi rigirai verso il vetro panoramico. Era vero, l'Imperial stava lasciando il campo di battaglia, no, io stavo lasciando il campo di battaglia. "Ma dove sono?". Poi collegai tutto: l'esplosione, lo scudo al plasma, il rumore dei motori assente, la mia vicinanza a Giove. L'ammiraglio aveva sganciato il blocco B danneggiato dell'Imperial dove si trovava il ponte di decollo, dove io mi trovavo. Dunque le parole dell'alieno erano vere, i miei compagni, quelli per cui avevo rischiato la vita, mi avevano ringraziato donandomi morte certa. Il rottame su cui i miei piedi appoggiavano stava per schiantarsi contro l'atmosfera di Giove attirato dalla forza di gravità del pianeta, ed io non avrei potuto far nulla per evitarlo, per uscirne vivo. Guardavo ancora i bagliori del campo di battaglia, dei colpi che le astronavi delle due fazioni si stavano scambiando. Iniziai a mugolare come un cane ferito. Sazàn iniziò a ridere -Mi fai così schifo-. A quel punto trasalii, non ero mai stato un tipo combattivo, ma quella frase mi aveva davvero ferito. Cercai di tirargli un pugno, ma mi accasciai sulla spalla dell'alieno poi, in quella posizione, dissi -Avete iniziato voi questa maledetta guerra, noi venivamo in pace, noi vi abbiamo offerto la nostra amicizia, e voi avete sparato sui nostri uomini, li avete uccisi, massacrati! Non vi avevano fatto nulla! Siete voi la causa di tutto questo! Voi! Non noi!-. Gli occhi di Sazàn si spalancarono, Liam intervenne prontamente gridando -Non vorrai mica credere a questo verme vero? Ti devo ricordare quante volte ci ha già tradito? Ti devo ricordare i tuoi compagni, morti per mano del suo popolo? Avanti Sazàn, cosa aspetti? Uccidilo. Uccidi l'antagonista della tua vita-. Sazàn si mise ad urlare dalla rabbia. Liam invece rideva di gran gusto.

In pochissimi istanti mi ritrovai le sue mani sul mio collo, stringeva con grande forza, fui alzato da terra di mezzo metro, sentivo il vetro freddo dietro di me. I suoi artigli mi ferivano tutta la gola, il suo ruggito mi penetrava nell'animo e metteva ogni sentimento, ogni concetto a soqquadro. Con le unghie cercai di graffiargli le mani, cercai di divincolarmi da quella presa. Sazàn gridava -Perché l'hai fatto Sylar? Noi ti abbiamo ospitato, t'abbiamo accolto, e tu ci hai tradito senza esitazione, perché? L'hai fatto per potere? Per denaro? O solo perché non puoi evitare di odiarci? Perché tutti voi esseri umani non potete evitare di disprezzare ciò che è diverso da voi?-. Mentre diceva tutto ciò i miei sensi si stavano annebbiando: non vedevo più chiaramente davanti a me il suo volto, non più sentivo suoni distinti, non più percepivo l'odore acre del fumo, non più padroneggiavo i movimenti delle mie dita, che pian piano smettevano di graffiare le mani di Sazàn.

Eccomi qua. 22 giugno 2208, Sylar Hewer, 26 anni, biologo, tra le grinfie dell'essere che porrà fine alla mia vita. L'aria mi manca, il battito del mio cuore da violento e veloce si calma, rallenta, s'affievolisce, diventa quasi una ninna nanna mortale. I miei occhi si chiudono, l'immagine del suo volto, sfocato ma ancora distinguibile, scompare dalla mia mente. Al suo posto il buio. Non sento più il mio corpo, non distinguo più tra caldo e freddo, sembro quasi un sasso, un corpo immobile senz'anima, un oggetto. La mia tridimensionalità svanisce, la realtà svanisce, ogni cosa sembra sbriciolarsi e scomparire. Tutta la mia vita passa davanti ai miei occhi, sembra un sogno mai concretizzatosi, mai realizzatosi. Tutto l'universo si riduce alla mia mente, si riduce ad un pensiero, una retta infinita e lunghissima che percorre il nulla, io la sto percorrendo, sto correndo, ma non sono più io, la mia identità si confonde con la retta stessa, col buio attorno a me. Tutto si chiude ad un cerchio, io divento un cerchio, uno spazio chiuso, uno spazio limitato, definito da confini ben precisi. Esso si restringe, sento che io stesso sto svanendo. Più si restringe più sono vincolato, incatenato, immobile, inesistente. Un punto, poi il nulla.

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Capitolo 16
*** Fin ***


Starships è finito. E' stato bellissimo, ma tutto ha una fine. (Sì ci saranno ancora due capitoli, ma sono capitoli extra... Mi aggrapperò ancora a quelli). In queste due settimane ho iniziato a lavorare parallelamente ad una seconda storia molto complessa. Per cui vi auguro una buona fine di questo racconto per rivederci, magari, con questo prossimo racconto (che se tutto va bene dovrebbe chiamarsi...): “One Blue Sky”. Ciao! (Piango)


Fin.


“Questa fine sarà solo l'inizio di una nuova epoca di eroi, di una nuova epoca di combattenti. Il tempo è ciclico, si ripete, le gesta sono sempre le stesse solo rilette in una chiave più moderna. I personaggi cambiano, si evolvono, ma la tela, lo sfondo, rimane dello stesso materiale, e l'autore è uno: il destino.”



-Lascialo andare Sazàn, non vedi che il verme è morto?-; la mia presa stava ancora stritolando il suo collo ormai viola, sentivo il rumore delle sue ossa spezzarsi sotto la mia stretta, ma ciò che provavo, non si era spento, il mio odio non si era placato, la vendetta verso il nemico principale della mia esistenza, non aveva alleggerito il mio cuore che ancora trasudava oscurità. Ero perso, immerso nel buio della mia ira. Quando una sensazione, un contatto mi riportò alla realtà; Liam aveva appoggiato la sua mano destra sulla mia spalla sinistra e stava facendo forza con le sue dita, così lasciai cadere il cadavere paonazzo; un tonfo risuonò in tutto il rottame che inesorabilmente sarebbe presto entrato in collisione con l'atmosfera del Pianeta Madre. Crollai in ginocchio, non ragionavo più. Avevo visto i suoi occhi vitrei spegnersi, la sua bocca smettere di agitarsi, la sua anima fuoriuscire dal freddo corpo, cosa avevo ottenuto con tutto ciò? Vendetta forse, ma stavo davvero meglio? Mi ero davvero tolto un peso? O avevo piuttosto piantato un altro spillo nel mio cuore? Liam stava ridacchiando dietro la mia schiena. Quel rumore mi distolse dai miei pensieri e in quell’istante, tornato alla realtà, sentii un sibilo nel mio orecchio sinistro, come un fischio, ma debole, quasi un sussurro. Una vibrazione continua, come un ronzio d'ali d'insetto, girai lentamente la testa verso il suono e non appena i miei occhi furono in vista della mia spalla scorsi un bagliore rosso, a volte giallo, a volte persino blu. Stavo per scattare istintivamente in piedi, anche se non avevo capito nulla di ciò che stava accadendo alle mie spalle. Un grande peso sulla schiena, qualcosa che esercitava una forza tremenda, mi stava impedendo i movimenti, ancorandomi a terra, il mio casco raschiava a contatto con le lamine di ferro che ricoprivano il pavimento; il mio fiato appannava la mia stessa visiera. -Stai fermo Sazàn, non muovere nemmeno un dito-.

Liam stava dietro di me, il suo piede destro sulla mia schiena mi schiacciava inerme al suolo, nella sua mano destra una spada. Riuscivo a vederla, riflessa sul pavimento, quella spada, quell'arma lucente, ricordava molto la mia spada Neuro, ma era nettamente più grande ed emanava un bagliore più intenso. Continuavo a non capirci nulla (quasi che il mio cervello rifiutasse di ragionare), poi -Sazàn, caro Sazàn, io ti devo ringraziare, mi sei stato davvero di grande utilità, ma anche gli oggetti più utili, quando hanno terminato il loro lavoro, vengono messi da parte, vengono abbandonati-. "Cosa diavolo sta accadendo? Cosa diavolo..". -Insomma Sazàn, la tua vita è giunta al termine, ti sono davvero debitore, anche se ammetto che la fortuna ha giocato comunque un ruolo fondamentale in tutta questa storia-. Io dissi -N... Non capisco Liam... Che sta succedendo? Che-. Il Gran Cancelliere proruppe in una grande risata -Ma come Sazàn, non hai ancora capito nulla? Forse non sei poi così acuto come sembri, forse davvero non hai un cervello... Alla fine vedi? Chi è nato marionetta, muore marionetta, sempre-. A quelle parole iniziai ad intravedere qualche collegamento; "Marionetta? Possibile che...". -Si Sazàn. È proprio come immagini: io ti ho usato. Ed ora tu per me non sei nulla, nulla, conti meno di un sasso-. "Come ha fatto a leggere i miei pensieri?". -Sazàn ti dirò una cosa prima di cancellarti dall'universo, i Gran Cancellieri del nostro popolo, tutti quanti, sono stati e saranno sempre Neuro, i più potenti Neuro-, raggelai. "Ma come ho fatto a non pensarci prima? Certo! Se è figlio di Jimba!". Liam rise, poi calmatosi disse -Sazàn, sei talmente ingenuo, talmente tagliato fuori che quasi mi fai pena. Jimbasa non era mio padre, ma solo un pezzente a cui ero stato affidato dopo la morte del mio vero padre. Jimbasa semmai è stato l'assassino di mio padre, il più grande rivoluzionario del pianeta-, i miei occhi tentarono la fuga, -Sì, sono il figlio di Avendii Sasox-. Un flash attraversò la mia mente incredula, una firma in fondo ad una lettera:

 

Liam S. Lodd'

 

-Tu non capisci vero? Non ci arrivi perché sei limitato, sei stupido. Mio padre ha cercato di liberare il nostro popolo; mio padre non è un criminale è un utopista, un filosofo, un visionario, un genio. Quei vecchi rincoglioniti del Consiglio hanno voluto a tutti i costi la sua morte perché sentivano la loro posizione tirannica, la loro poltrona in Consiglio, minacciata dall'ondata di libertà che mio padre avrebbe portato alla nazione, se solo fosse riuscito nel suo intento. Ma ora, a tre rivoluzioni dalla sua morte, il suo progetto è stato portato a termine da me, da suo figlio, nonché centoventiquattresimo Gran Cancelliere; il Consiglio è crollato, il potere è completamente in mano mia. E nessuno si opporrà alla mia nazione, al mio impero dopo che avrò vinto tale guerra. Mio padre era un povero, un soldato non può nulla contro l'intero paese, ma io, io sono la persona più influente al mondo, io sono Liam Sasox, io sono un Dio! E tu Sazàn, tu Sazàn sei stato una marionetta, tu mi hai condotto fin qua senza farmi sporcare un solo dito, tu hai agito per me allo scoperto, tu, Sazàn, in realtà sei stato il primo a perire per la mia causa-. Doveva essersi esaltato, stava a braccia aperte con lo spadone nella destra e la sua pressione sulla mia schiena era diminuita grandemente, decisi che era quello il momento adatto per agire. Feci pressione sul pavimento e riuscii ad alzarmi.

Liam aveva perso l'equilibrio, ne approfittai per fuggire nel fumo e per cercare un arma con cui difendermi, mi facevo strada tra le fiamme dicendomi "Non pensare a nulla, non pensare a nulla altrimenti ti trova". Poi sentii "Dove scappi Sazàn? Il rottame è piccolo, ti ritrovo subito", ciò mi indusse a velocizzare la mia ricerca. Così mentre correvo senza accorgermene fui intralciato nei movimenti da qualcosa e caddi sul terreno, poi percepii nella mia testa "Ti ho sentito piccolo bastardo, vengo a prenderti". Senza badare a ciò che Liam mi aveva detto guardai per terra: ciò che m'aveva fatto perdere l'equilibrio era il cadavere del capitano umano. Mi guardai intorno e scorsi ciò che stavo cercando così disperatamente: il martello di Lat Pervy. Stavo per allungare il braccio, quando sentii il suo piede schiacciarmi tutte le ossa. Gridai per il dolore, era lo stesso braccio che mi ero ferito nel precedente scontro con Valliage. -Cosa credi di fare? Preparati a morire-. Mi alzò da terra, io cercai qualcosa a cui aggrapparmi, ma mi ritrovai nei pugni soltanto macerie e frammenti di ferro. Stava per trafiggermi con lo spadone, quando, senza pensarci, gli conficcai nell'occhio sinistro un paletto di ferro che mi ritrovai in mano. Liam lasciò la presa, urlava ed imprecava, cercando di fermare l'emorragia con le mani; io mi trascinai sino al martello, riuscii ad afferrarlo ed esso s'infiammò con un sibilo che mi parve dolce quanto il miele; non avevo però nella batteria molta carica residua, così mi ripromisi che avrei terminato quello scontro in pochi minuti. Dissi -Tu... Brutto stronzo, perdi sangue, non sei un Dio, sei solo un fottutissimo stronzo-. Mi lanciai all'attacco, ma Liam mi bloccò parando il mio impeto con lo spadone, aveva tutta la faccia ricoperta di sangue, ma riusciva ancora a ridere e a parlare, -Sei ridicolo. Ti sei lasciato ingannare per mesi ed ora credi di poterti permettere di fare dell'ironia? Lo sai cos'è questa?-, sentivo il calore della sua spada bruciarmi le guancia sebbene avessi la maschera indosso; -Questa è la Spada della Giustizia, l'arma dei Gran Cancellieri. Proprio questa spada, impugnata dal mio predecessore, ha reciso il capo di mio padre. Questa è la più potente ed antica arma Neuro mai costruita-. Io risposi -Stai cercando di farmi paura? Altrimenti chiudi quella tua lurida bocca-. Liam digrignò i denti ed impugnò la spada con entrambe le mani, essa s'ingigantì ancora di più; egli così mi spinse finché non fui con le spalle al muro. I nostri volti erano vicinissimi, i nostri fiati turbinavano uno sull'altro. -Cosa vuoi fare Sazàn? Presto qua arriveranno a recuperarmi i soccorsi che prima ho chiamato, tu per allora sarai morto, "Ucciso dal capitano nemico, muore l'ultimo soldato Neuro del Pianeta Madre", mentre leggerò questo titolo, starò ridendo, già elevato a divinità per aver trionfato sugli invasori, siederò in trono, davanti a tutto il nostro... Il mio popolo!-. Gridai e gli tirai una testata, egli indietreggiò e decisi di provare ad attaccarlo. Il martello si sfracellò sul suo braccio sinistro. Aveva infatti parato il mio colpo con esso, ma sembrava esserne uscito minimamente danneggiato, quasi indenne. Egli continuava a ridere, poi però il suo viso si adombrò e disse -Mi hai stancato, il tuo tempo scade ora-. Con un fendente mi fece crollare a terra e persi la presa sul martello. Si stava lentamente avvicinando verso di me; "Perché proprio me? Perché me? Perché me?" mi ripetevo quella domanda ininterrottamente dall'inizio dello scontro, ma proprio in quel momento stava esplodendo nella mia testa come non mai. Liam lo percepì e disse -Sazàn, prima di piantare quest'arma nel tuo petto, voglio spiegarti un'ultima cosa. Tutto ciò è iniziato con l'arrivo delle ambascerie aliene sul nostro pianeta. A quel tempo progettavo già da mesi di sbarazzarmi del Consiglio ma non avevo alcuna possibilità di riuscita: ero stato eletto da poco e non mi ero ancora fatto un buon nome; non avrei avuto nessun appoggio dall'esercito. Ebbene, il contatto con questi umani fu un ottimo pretesto per raggiungere il potere, quasi come un bocconcino servitomi su un vassoio d'argento. Tutti i cambiamenti più drastici si hanno infatti al termine di una guerra; le persone disperate si affidano completamente ad un leader che possa guidarle e proteggerle. Sì, Sazàn, sono stato io la causa dello scoppio del conflitto, sono stato io ad ordinare ai nostri soldati di sparare sugli alieni-. La mia rabbia stava per esplodere, tutto ciò che mi avevano sempre detto, che gli alieni ci avessero invaso, risultava essere una menzogna: eravamo stati noi i primi ad attaccarli, ripensai alle parole di Sylar con una nota d'amarezza nel mio animo. -Però mi serviva ancora qualcuno che odiasse gli umani più di qualunque altre cosa, mi serviva qualcuno che avesse perso tutto, mi serviva una persona disperata, una persona disgraziata, così da poterla assoggettare, domare, ingannare, manovrare. Il giorno successivo alla nostra vittoria sul primo satellite, ho saputo della tua storia da Jimbasa, che ti conosceva a fondo in quanto tuo maestro, egli era preoccupato delle tue condizioni, eri il suo alunno prediletto sai? Comunque, grazie alle informazioni che ricavai da lui, io scelsi te come mio servitore, te, che avevi perso la cosa a te più cara per colpa dei nemici, avevi perso i compagni, i tuoi amici. Chi credi che sia stato a promuoverti capitano? Io Sazàn. Ho fatto persino in modo che tu incontrassi tutte le personalità più ostiche del Consiglio: Bexthan, Hus, per non parlare del Saggio Seis. Esatto Sazàn sono stato io a farti imprigionare, sono stato io a farti odiare il Consiglio. Sono stato io ad organizzare tutto ciò, io, non il destino. L'unica cosa che non avevo calcolato è stata quell'umano, Sylar. Ma tutto è andato comunque secondo i miei piani, ora anche lui è morto, giace laggiù, senza più vita. Nessuno potrà più mettere in dubbio le mie gesta eroiche, la mia disciplina. La tua vita è falsa Sazàn, è artificiale; ed ora la tua morte segnerà la fine di questo “progetto divino”, del mio progetto. Tu, che hai ucciso un tuo compagno; tu, che hai sciolto il consiglio; tu, che hai accolto il traditore sul nostro pianeta; tu, Sazàn, nemico del mio popolo, morirai, ed io, vincitore della guerra, assoggetterò al mio volere il mondo intero-.

Le mie gambe scattarono veloci, in un attimo fui in piedi, nella mano sinistra il martello Neuro, mi lanciai contro Liam, non ero più io, ero una belva. Non mi accorsi però di aver finito l'energia elettrica a mia disposizione, così, essendo impotente, un suo fendente mi tranciò di netto il braccio sinistro e caddi riverso in una pozza di sangue, chiusi gli occhi. -Cosa fai Sazàn? Ti vuoi decidere a morire?-. Sentii il rumore del colpo che squarciava le carni, gli schizzi di sangue sul mio volto, ma non provavo alcun dolore, io ero integro, senza ferite. Aprii gli occhi. Una lunga chioma mi ricopriva la visuale, una figura femminile giaceva in ginocchio, trafitta in ventre dalla Spada del Giudizio. -Lis, Lis!- gridai io, -Lis, che hai fatto? Pazza! Credevo fossi morta! Ma cosa ti passa per la testa-. Stavo per piangere, Lis si era sacrificata per me, si era lanciata in mia protezione ed era stata sventrata dal colpo di Liam. Ella con il suo ultimo filo di voce sussurrò -Te l'ho portata, visto Sazàn?-. Poi crollò esanime sul terreno. Notai in quel momento che aveva in vita la mia spada, la spada Neuro, e senza pensarci la presi. Gridavo come un demone, non capivo più nulla, sentii il braccio destro, unico braccio rimastomi, infiammarsi. La spada sibilò, vidi Liam, ora disarmato, che tentava velocemente di estrarre dal cadavere di Lis la sua arma. Prima che potesse farlo la mia spada, la spada di Avendii Sasox, la spada rinnegata, colpì e trafisse in pieno petto Liam Sasox, il più grande nemico del nostro popolo, il più grande criminale del Pianeta Madre.

Il sangue colava a fiotti dalla mia ferita, la nave entrata in collisione con l'atmosfera del pianeta tremava e si scuoteva intensamente, in tutto quell'inferno la mia vista si offuscò, presto persi i sensi e caddi come corpo morto cade.

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Capitolo 17
*** Extra 1 - Epitaph ***


Staships è ormai finito e non ci saranno prosecuzioni (almeno da parte mia). Questo capitolo extra è il primo di due.


Extra 1 – Epitaph.


Il poeta ha appena lasciato la mia stanza e la porta si richiude dolcemente, alle sue spalle, con un soffice rumore metallico.


Salvò egli la Madre vincendo la guerra;
Insieme a Mur ora riluce su ogni terra.


Questi i due versi che saranno incisi su una placca dorata, essa sarà posizionata sul loculo che conterrà le mie ceneri, base di una statua nera che mi raffigurerà in procinto di sollevare un arricar morto.
Sto morendo. Sono ormai troppo vecchio, sento che questi sono gli ultimi respiri, faticati, sudati. Dal mio letto, ricoperto da un lenzuolo purpureo, posso udire le preghiere del mio popolo, che veglia senza sosta su di me da ormai tre giorni.
Mi passa davanti tutta la mia vita in un istante. La mia infanzia, l'accademia, le prime missioni. Li sento, i miei compagni, chiamarmi a gran voce da lassù. Sebbene in casa, sento Mur, attrarmi verso di sé con un caldo abbraccio che mi allieta, consumandomi pian piano. Penso alla guerra, la mia guerra; penso ai poveri umani, sul loro pianeta morente, marcio e macilento. Ripenso al povero Sylar, a quel bastardo di Valliage. Quasi mi scappa un sorriso di beffa. Un violento colpo di tosse mi sfonda però il torace.
Liam. Liam Sasox, la persona che cambiò radicalmente la mia vita, che mi trasformò in ciò che sono stato, in ciò che ancora sono in queste ore e in ciò che sarò per sempre, nei meandri della storia. Liam, mio signore, che mi usò, mi ingannò ed infine mi tradì. Non porto più alcun rancore, forse in passato, ma ora abbandono quei sentimenti inutili, lasciandoli indietro, sorpassandoli senza badarci. Povera anima, quasi sono grato a lui; cercò di cambiare il nostro mondo in peggio, assoggettandolo al suo volere; ma trovò me: la sua rovina. Probabilmente questi pensieri sono solo le allucinazioni fantasiose di un vecchio morente. Ma io la sento ancora, la mia spada, trapassare il suo petto. Chiudo gli occhi, sono molto stanco.
Li riapro dopo pochi minuti, vedo ancora mio figlio sulla porta, lascia cadere il bicchiere d'acqua che avevo chiesto di portarmi. Urla; non riesco a sentire le sue parole, ma vedo il suo collo fremere, la sua gola tremare, le sue vene gonfiarsi. Sono accerchiato da persone che mi toccano e gridano, ma l'unica emozione che percepisco è orgoglio, che come calore mi scalda; orgoglio per il mio bellissimo popolo.
Me ne sto andando. Sto morendo. Io Sazàn Radiwk, centoventicinquesimo Gran Cancelliere del Pianeta Madre, sto lasciando questo mondo, per ricongiungermi con il Dio Mur e tutti i miei compagni; per diventare pura energia, pura vibrazione, puro fremito vitale, quello stesso di cui mi sono servito nella mia lunga vita, per rendere migliore il nostro piccolo gioiello. Chiudo gli occhi.
Il mio ultimo pensiero va a te, Lis. 

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Capitolo 18
*** Extra 2 - Capsula Del Tempo ***


Questo capitolo extra è il secondo di due.


Extra 2 – Capsula Del Tempo.


Sasox si trovava nel mezzo del valico innevato dei Monti del Nord, tutto insanguinato e con la camicia ormai lacera e a brandelli. Nella destra impugnava la spada Neuro che pochi mesi prima aveva fatto tremare il mondo. Alle sue spalle vi erano migliaia di soldati pronti a sparare sul nemico al minimo segnale del loro comandante, il quale in quell'istante, davanti al Rivoluzionario, stava parlando: -È finita Avi. Sei circondato, non hai più nessuna via di fuga. Arrenditi-. Sasox rise, poi, passatosi la mano sinistra sul volto, rispose in tono di sfida -Mai-.

Si lanciò così con le sue ultime forze contro il giovane Jimbasa che subito estrasse la sua frusta e gridò ai suoi uomini -Non sparate! Non sparate deficienti! Dobbiamo catturarlo vivo, lasciate fare a me!-. In un attimo il Rivoluzionario si ritrovò immobilizzato a terra, in ginocchio, elettrizzato dal cavo della frusta Neuro, che, avvolto attorno a tutto il suo corpo, pareva una serpe fiammeggiante. -È finita, fratello-.

Il comando arrivò presto a palazzo, e Sasox, dopo essere stato incatenato, fu condotto davanti al Consiglio, ai Saggi ed al Gran Cancelliere Tolpe, riunitisi quel pomeriggio in via del tutto eccezionale.

Onis, il più importante dei Saggi, leggeva il verdetto -Avendii Sasox, primo battaglione della divisione Neuro, la dichiaro in arresto per aver commesso svariati crimini contro la Madre; la sua condanna è la pena di morte. Domani si terrà la sua esecuzione davanti agli occhi di tutta la nazione, come monito d'osservanza delle leggi del pianeta. Sul suo capo calerà la Spada della Giustizia. Questo è quanto-.

Quella stessa sera, davanti alla grata di una piccola cella di massima sicurezza sorvegliata da venti uomini, si tenne una chiacchierata tra vecchi compagni. Il recluso parlò per primo -Cosa ci fate qua?-, uno dei due rispose -Lat ed io siamo venuti a dirti addio, Avi, in onore dei vecchi tempi..-. Sasox stizzito però lo interruppe -Vecchi tempi eh? Siete ancorati come sempre al passato, siete incatenati come sudici schiavi a queste leggi, a questi ordinamenti, scelti da chissà chi, in chissà quale epoca. Questo mondo non è giusto, questo mondo è marcio, è corrotto, cari compagni. Io ho provato a cambiarlo, ho tentato, ma il Consiglio è troppo forte, esso veglia perennemente su di noi come un tiranno, instancabile, infallibile. Avete tutti quanti il cervello fottuto...-. Lat Pervy, non potendo più sopportare quelle parole, così insulse alle sue orecchie, tirò un pugno sul muro (per poco non lo sfondò), poi gridò -Tu, brutto stronzo, prima uccidi tuo padre, poi tutti quegli altri Consiglieri, ti sei preso anche Mi'. Ma la tua sete di sangue non si è ancora placata, no, non eri soddisfatto, non sei soddisfatto neanche ora, a poche ore dalla tua esecuzione! Hai voluto continuare coi tuoi misfatti, brancolante nella tua stupida follia, ed ora morirai, Avendii, il tuo sangue purificherà le tue azioni, purificherà il nostro nome, il primo battaglione della divisione Neuro rilucerà nuovamente!-. Detto ciò, il comandante Pervy tirò un calcio alle sbarre che lo separavano dall'assassino; Jimbasa, poggiata una mano sulla sua spalla, gli suggerì dolcemente -Vai a casa Lat, tua moglie ti aspetta e il tuo bambino avrà voglia di rivedere il volto di suo padre. Va' da loro...-. Così gli interlocutori divennero due, poi dopo qualche minuto, Sasox fu lasciato solo, tormentato dai suoi stessi pensieri.

L'indomani, all'esecuzione erano presenti i Consiglieri, seduti su scanni disposti in semi cerchio su più piani; al centro della sala il condannato in ginocchio al fianco del Gran Cancelliere Tolpe. Dirimpetto a lui i due Neuro superstiti. Lat Pervy guardava il suolo, Jimbasa Lodd' guardava l'antico amico, dritto negli occhi. Poi egli fu condotto al patibolo, non appena il portone dell'edificio si aprì e la sua figura poté essere scorta dal basso del piazzale, il popolo insorse in grida festanti e di gioia: il Rivoluzionario stava per essere decapitato, stava per rinascere la pace. Ogni passo sembrava pesare al condannato che si lasciò letteralmente trascinare sino al poggiatesta. Là, da due energumeni fu costretto, piangente, a chinarsi. Finché, dopo aver proferito un lungo discorso al popolo, Tolpe estrasse la spada e l'accese. Una colonna di luce illuminò il cielo. Un secondo prima che la lama recidesse il collo di Avendii Sasox, Jimbasa avvertì una sensazione nella sua testa, quasi un breve solletico.

-Prenditi cura di Liam, Jimba-.


 

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