Il sesto

di Ghen
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. Irregolarità ***
Capitolo 2: *** 2. Sangue e fiducia ***
Capitolo 3: *** 3. Battito, nero, e paura ***
Capitolo 4: *** 4. Solitudine, finti eroi, odio, e soluzione ***
Capitolo 5: *** 5. Potenza, scelta, giusto e sbagliato, e delicata carezza ***
Capitolo 6: *** 6. Vedere e guardare, velo, pezzi d’affetto, illusione, e i due innamorati ***
Capitolo 7: *** 7. Riflessione, ultimo capitolo, ala, arcobaleno, rinascita, vita, scatoletta di pesce per gatti ***



Capitolo 1
*** 1. Irregolarità ***


Il sesto






1. Irregolarità

Penso che mi chiamerò June: come il giugno in cui sono nato, come il giugno in cui è morto il mio gatto, come il giugno dei miei genitori che mi hanno abbandonato.
O meglio: sono spariti, loro. Il giorno in cui comparve quella meteora in cielo e mi convinsi di essere solo. Era comparsa oggi in effetti, in mattina, svuotando il cielo di nuvole. Mi sono svegliato e quella stava lassù nel cielo e i miei genitori non stavano più nella loro camera. Alla finestra vidi solo qualche foglia morta, che della campagna non n’era rimasta più nulla.
Pensai, scendendo le scale, che forse quella meteora s’era già schiantata a terra e aveva spazzato tutti via, meno che me e la mia casa.
Preparai per fare colazione, come se tutto potesse essere normale nella sua anormalità. Magari, pensai, poteva forse sistemarsi tutto da solo. Ma ahimè avvolto della mia innocenza mi sbagliavo, e in fondo tanto in fondo, io già lo sapevo di sbagliarmi; e tutto mi sembrò più chiaro nel veder rientrare Pussy dall’angolo della finestra. O meglio: non più chiaro, no, ma nella sua infinita irregolarità, sì.
Pussy era il mio gatto. Il mio gatto morto.

Lo fissai e lui fissò me, sedendo sul davanzale.
Bello come lo ricordavo: bianco e a chiazze nere, con quel suo musetto rosa. Si leccò una zampa mentre continuava a fissarmi, ed io fissavo lui mentre ingoiavo i cereali della mia tazza di latte caldo.
Il perché, mi chiedevo, del suo fissarmi continuo. Non che Pussy non mi avesse mai fissato, ma c’era un qualcosa in quel fissare incessante e snervante che quand’era in vita non c’era. Eppure, accidenti, non mi chiesi neanche un po’ com’era che fosse eretto sulle sue zampe dentro la cucina, quando lo scorso giugno io stesso l’avevo seppellito sotto qualche centimetro di terra in giardino.
Il cielo, buffamente, cominciava a diventar di un arancio diluito, che prese la mia attenzione. E con la mia, quella di Pussy. Buffo colore, quello, per essere il mattino. Di certo non pensai, continuando ad ingoiar cereali, che doveva sicuramente trattarsi della meteora che correva rapida verso il suolo.
«Beh». Quella voce fine d’un cantante d’opera mi bloccò l’ultimo boccone. «Dunque è così che deve andare? Tu mangi cereali seduto comodamente ed io osservo preoccupato quel coso lassù, pregando in Dio per il nostro ultimo viaggio». Era Pussy. Pussy che aveva parlato ed io a bocca aperta lo fissai sbalordito. «Non credevo di finire così. Va bene, non sarò stato il gatto d’eccellenza che ogni padrone volesse amare ma, a mia discolpa, posso dire di essermi sempre lavato, e pulito la mia lettiera ogni dì… Ogni dì!», continuava mugolante, osservando prima me e poi la finestra.
«E-Ed io che posso fare…?», mi decisi a parlare. Avevo paura in verità, di una sua eventuale risposta: Pussy sembrava così dannatamente superiore, nel suo miagolare degno d’un attore, che mi salì un pizzico d’angoscia.
Nuovamente, mi fissò dritto nelle iridi spaventate. «Tu? Era qui che ti volevo», parve sorridere. «Tu sei l’unico che può fermare ciò».
«Oh… io? E come?». Decisi di rimettere giù il cucchiaino con l’ultimo boccone di cereali e di alzarmi dalla sedia, per mettermi al centro della stanza. Se potevo fare qualcosa, dovevo farla subito.
«Mio giovane padrone…», ricominciò a miagolare Pussy, fissandomi. «June», sottolineò il mio nome. «Trova gli innamorati e avrai la soluzione. Segui il percorso, vinci la sfida, aggiusta l’intuito e apri gli occhi, solo così avrai vinto. E Pussy te lo promette, mio campione, riavrai indietro ogni cosa».
Deglutii. Era come se avessi capito ogni cosa di quelle parole, per quel solo momento, che mi sembrò quasi vero d’aver già terminato. Riavere indietro ogni cosa: i miei genitori, la mia campagna, la mia vita? Tutto vero, mai dimenticato, ma la nuova realtà mi dava consolazione: non sentivo nessun dolore.
Sguardo veloce, quello di Pussy, che dopo un altro sorriso scivolò via dalla finestra com’era venuto, lasciandomi solo con il pensare: da dov’era che dovevo cominciare?
Dovevo trovare un percorso, ma l’unico che vidi fu l’andito per la porta di casa: strana, aveva una forma inusuale, e così capii che da lì tutto poteva iniziare.














***

Questa che vi state apprestando a leggere è una piccola storiella immersa in un mondo onirico, dove ogni cosa ne nasconde un’altra… quindi non aprite gli occhi, ma la mente!
Per aiutarvi, comunque, vi farò una piccola guida sotto ogni capitolo, che metterò scritta di bianco, così basta passare sopra il mouse per leggere ma evita la lettura invece a chi non ha interesse.
Il primo e l’ultimo capitolo sono le cornici della storia, quindi non c’è molto da dire su questo primo capitolo che non valga la pena se non dopo aver letto l’ultimo.
Forse, però, annoto una cosa…
June: il protagonista si chiama June? No. Il protagonista “pensa” che si chiamerà June, da quel momento in poi. Perché June non è il suo vero nome ma dal momento in cui è “entrato” in quello strano mondo non aveva bisogno del suo nome, ma del giugno.
E giugno non è forse il sesto mese dell’anno?



Questa storia è arrivata seconda (su tre) al contest [Original Malefica 1] L'Ala e... il Gatto:



(Il banner mi piace un sacco <3)

Al prossimo capitolo!
Ciao, ciao da Ghen =^____^=



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Capitolo 2
*** 2. Sangue e fiducia ***






2. Sangue e fiducia


La porta di casa mia non era mai stata tanto alta, con grosso manico d’ottone e disegni in rilievo con buffe forme d’animali. Non ne riconoscevo neanche uno ma sapevo che dovevano esserlo, altrimenti cosa volevano apparire con quelle bizzarre corna e gambe snelle se non per animali? In fondo non ci diedi nemmeno poi tanto peso, quanto che tutto, mi prendeva la luce fioca che scivolava sotto la porta, che sapeva di grigio e non certo d’arancio, come il cielo s’era macchiato.
La spinsi appena e subito mi lasciò entrare, come invitato: si spalancò e un vento leggero mi pervase. Laggiù tutto sembrava diverso: vi era un sentiero segnato da ghiaia e tenuto insieme da alberi lunghi, altissimi, e dalle foglie gialle. Sembrava un tetto quello che prendeva il posto del cielo, grigio quanto era vero che tutto là dentro, era immerso nella fitta nebbia. Non era certo il giardino di casa mia, quanto più una camera che voleva farmi credere di essere in una foresta d’autunno.
Sentii qualcosa strisciare lungo le mie gambe e Pussy mi sorrise.
«Andiamo, June, hai trovato il percorso», miagolò, per poi sparire ancora dietro un albero.
Tentai di fermarlo facendo un passo verso il sentiero, tuttavia in quel momento capii che il mio gatto mi sarebbe stato vicino, nonostante la sua presenza fosse un continuo viavai.
Era di un piacevole fresco laggiù, che mi ricordò di avere indosso solo una maglietta a maniche corte che avevo usato come pigiama, e un pantalone da tuta da ginnastica vecchio e logoro, che usavo per stare a casa. Ero scalzo. Non era certo l’abbigliamento adatto per stare in un posto come quello, eppure non me ne importavo, tentavo di ignorare il dolore ai piedi freddi che si sformavano e infossavano passando fra la ghiaia.
Mi voltai e della porta di casa mia non c’era più traccia, solo il sentiero che proseguiva nella strada opposta. Capii che non c’era più verso di tornare indietro, ora che avevo fatto il primo passo verso l’avanti, un avanti che non conoscevo e che mi sembrava curioso.
Più camminavo lungo gli alberi e la ghiaia e più mi saliva una sensazione di forza. I piedi non li sentivo più che neanche ricordavo di averli; tutto ciò che mi sembrava avere importanza stava nell’idea che il sentiero non era poi tanto male, che non vi era niente di pericoloso che potesse crearmi difficoltà, che cominciavo ad abituarmi a quell’arietta fresca e lucida, e che tutto laggiù cominciava ad essermi amico, man mano che osservavo la foresta.
Sorridevo fiero che neanche sapevo più perché, quando all’improvviso un mugugno di dolore prese la mia completa attenzione e mi fermai. Era l’unica cosa diversa che avevo sentito dal momento in cui misi piede laggiù; anzi era l’unica cosa che sentii, che di rumori, dal momento che ci feci caso, non sentii proprio altri.
Un altro mugugno e infine capii da chi o cosa provenisse, accostandomi ad un masso, che stava in mezzo al sentiero mio. Una palla di pelo si muoveva con lentezza, continuando a lamentar dolore, e annaspando come nessuno avevo visto fare mai.
«Ehi… Stai male?», chiesi incoscientemente, che una domanda simile non poteva aver alcun significato se vedevo bene già con gli occhi miei che bene non stava e che sangue perdeva. «Dove sei ferito?».
Avevo paura di toccarlo, quel cucciolo. Era piccolo, bagnato e tremava: un cagnolino solo nella foresta, cosa mai poteva farci?
«So-», prese respiro il cane. «Sono stato ferito», disse poi, fissandomi con quegli occhi neri e lucidi, che in me avevano smosso qualcosa.
«Ma chi è stato a farti una cosa del genere?». Non potevo credere potesse esistere qualcuno a questo mondo tanto cattivo da poter fare un male tanto grave ad un piccolo cagnolino; era una cosa che accettare non potevo.
«Non so chi sia stato… Io mi ero fidato», mi gemette tremante.
«Posso fare qualcosa?»
«Portami alla fine del sentiero, ti prego», mi implorò con lo sguardo il cane. «Lì troverò via di casa»
Forse avrei dovuto chiedergli come fare a fermare il sangue che perdeva, eppure non ci badai, cominciando a chinarmi, per farlo salire sulla mia schiena.
«Io guarirò», gemette poi da solo, come se avesse potuto leggermi la mente. «Se sarai gentile con me»

Continuammo il sentiero, e mi accorsi come quella sensazione di forza che provai agli inizi svanì lentamente dal mio corpo. Ero preoccupato per il cane alle mie spalle, che era piccolo e innocente, e io dovevo prendermi cura di lui.
Sentivo la schiena bagnata del suo sangue, ma il cane non mugugnava più dolore da qualche metro, al contrario lo sentivo odorare con fervore sotto i miei capelli, procurandomi un certo solletico.
Non mantenni più le risate e il cane sembrò ridere a sua volta dopo di me. Ne fui sollevato.
«Hai un buon odore», abbaiò ad un certo punto. «Vuoi essere mio amico?»
«Ma noi siamo già amici», conclusi io.
Fu in quel momento che mi sentii pervadere di felicità: un sentimento che già conoscevo ma che eppure mi pareva così lontano da procurarmi nostalgia. Avevo mai avuto degli amici? Degli amici veri?
Fu quando stavo per accorgermi che mi mancava qualcosa che Pussy sbucò da un albero alla mia sinistra, con il consueto sorriso. «Dobbiamo fare presto, June», miagolò. «Fortunatamente la porta non è lontana da qui, e meno male che hai seguito il sentiero come ti avevo chiesto»
In quel momento mi chiesi se potessi anche non farlo, ma forse avrei potuto perdermi e non ero certo uno che rischiava. Se dovevo fare presto, non avevo il lusso di perdere del tempo prezioso a lasciarmi in sciocchezze. Forse, pensai, che se non avessi conosciuto il cane, avrei anche rischiato. Non per volontà di rischiare, ma la sensazione di forza che era svanita, se non lo avesse fatto conoscendo il cane, forse mi avrebbe tentato.
Forse, pensai. Ma al momento di certo non poteva interessarmi.
«Chi è lui?», mi chiese Pussy, scrutando sulla schiena. «Non perdiamo tempo, caro padrone, magari saresti più veloce senza peso in più»
«Lui è mio amico»
«Credevo di esser io amico tuo», tuonò.
«Siete entrambi amici miei», brontolai, pensando alla solita gelosia tra animali.
Pussy si zittì e per un attimo pensai di dover aggiungere qualcosa, quando finalmente vidi la porta che chiudeva il sentiero. Non riuscivo a vedere cosa andava al di là di quel grande portone di legno che tutto era chiuso tra nebbia e alberi, talmente fitti, in quel breve spazio, che costruivano un muro per concludere il percorso.
Pussy corse per primo e io a breve mi accostai a lui.
Vi era una strana apertura sulla porta, all’altezza del mio petto, e sopra di essa una targa. Non riuscii a comprendere tutte le parole, forse non lessi con la dovuta cura, ma ciò che compresi mi fece impallidire.
M’inchinai per far scendere il cane dalla schiena, che felice mi leccò il viso, scodinzolante. Sorrisi vedendo che si poteva reggere perfettamente sulle sue zampe e che il sangue si era fatto molto meno: le ferite non erano più quelle di quando lo trovai per strada.
«Adesso apro la porta, dovete aspettare un attimo», dissi.
«Io vi saluterò quando andrete oltre la porta», abbaiò il cucciolo. «Devo tornare a casa»
«Non verrai con noi?». Fui come ferito; la sua presenza mi mancava ancor prima che se ne fosse effettivamente andato.
«Devo tornare dalla mia famiglia»
«E se ti faranno ancora del male?»
«Può succedere, ma mi ricorderò della nostra amicizia e guarirò ancora, lentamente», sorrise il cane.
Lo sguardo di Pussy che indicava la porta mi fece ricordare ancora una volta che non avevo molto tempo a mia disposizione e così mi ressi di nuovo in piedi, osservando quella fessura sulla porta, con timore.
«Come bisogna aprire questa porta, Pussy?», mi voltai a lui.
«Temo tu conosca già la risposta», miagolò. Per un attimo il suo sguardo andò a depositarsi sul cucciolo ed io lo seguii: il sangue. Ne aveva ancora un po’ sulle zampe.
La bocca della porta era piccola e una zampa poteva esser infilata senza problemi. Sacrificio, sangue, pegno da pagare. Se volevo proseguire dovevo pagare.
Strinsi i denti e decisi: ero io quello che doveva proseguire ed io quello che doveva pagare, non avrei mai sacrificato un mio amico. Infilai di fretta il mio dito indice della mano sinistra, per non cadere in ripensamenti, quando la bocca della porta si fece più grande per farmi spazio e infilai l’intero braccio.
Una lama veloce mi parve di sentir strisciare dentro la bocca e un taglio netto accompagnato dal dolore. Volevo piangere, ma dovevo esser forte di fronte a loro e mantenni saldamente la mia postura.
«Tutto a posto, mio campione?», miagolò Pussy, mantenendo un tono vagamente compiaciuto.
«Più la paura, che il resto», dissi, convinto, udendo la serratura della porta scattare e aprirsi lentamente.
Ne tirai fuori il braccio e notai una ferita lungo l’arcata del pollice: tutta rossa al suo interno mi parve di vederne un baratro, mentre tutto intorno ad essa le macchie di sangue asciutte facevano capire che ciò che serviva era stato prosciugato.
«Buona fortuna, amico mio», mi parve di sentirlo piangere, mugugnando nella flebile voce e m’inchinai a salutarlo. «Saremo amici per sempre, lo giuro», abbaiò scodinzolante e prese leccarmi la ferita.
«Lo giuro», dissi anche io e mi voltai alla ricerca di Pussy, alzandomi in piedi.
«Sono già innanzi a te», miagolò il gatto a pochi passi, dentro la nuova stanza, nel nero più totale. Lo seguii e il cane corse indietro.
«Spero tu sia pronto per questo, June», miagolò. «Questa sarà difficile»
Mi guardai la ferita alla mano e strinsi i denti: nulla poteva esser peggio, pensai, e deciso presi passo.








***
Non ci sono scusanti! Da più di un anno non aggiorno Il sesto, mi dispiace :(
Da adesso spero di aggiornare con tempi un po’ più regolari, visto che comunque la storia è finita non dovrei avere troppi problemi.

C’è qualcosa da dire su questo capitolo?
Passate il mouse...
Due elementi principali: il cane e la forza. La sensazione di forza lo avrebbe condotto a sbagliare, questa è stata persa quando ha deciso di prendersi cura del cane. Il cane rappresenta un amico, colui che ti consiglia, aiuta nel momento di bisogno e ti sta accanto; se un amico non ci fosse stato non si sarebbe forse perso? Senza amicizia qualcuno rischia di perdersi. La forza rappresenta la spavalderia ed era causata dal sentiero, che sembrava facile e senza rischi, senza capire che il rischio stesso di quel posto era dato da quella sensazione, perché lo avrebbe fatto smarrire e quindi fallire. Invece un amico lo ha aiutato a prendere la decisione giusta.
Il cane era ferito. Com'era stato ferito? Le ferite interiori in questo senso erano esteriori. La ferita del cane era una ferita dell'anima, qualcuno lo aveva tradito oppure trattato male e si era ferito al cuore. Il cane è guarito grazie all'amicizia legata a June. La fessura sulla porta era piccola apposta per la zampa del cane. Una trappola o un consiglio? June poteva benissimo sacrificare il cucciolo ma ha preferito farsi male. È stata la decisione giusta?


Onni Onni -> Scusami davvero tanto per l’attesa! Comunque sembri perfetto per questa storia, sei perfino nato a giugno :D Spero di non deluderti con i capitoli che seguiranno ^_^’

Il prossimo capitolo de “Il sesto” s’intitolerà “Battito, nero, e paura”!


Ciao, ciao da Ghen =^____^=


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Capitolo 3
*** 3. Battito, nero, e paura ***







3. Battito, nero, e paura


Più mi guardavo la ferita alla mano e più notavo qualcosa che cambiava. Non era il solo fatto che non riuscissi più a muoverla come volevo a preoccuparmi, quanto più quello strano colore grigio che aveva iniziato a formarsi tutt’intorno, che cresceva ricoprendo la mia mano.
Rividi Pussy che continuava a pochi passi da me a camminare lungo l’unica strada presente, ondeggiando la sua coda a sinistra e destra in una lenta musica, mi chiedevo com’era che non fosse già sparito per poi ricomparire più avanti. Pensai doveva esser a causa della camera, o quel che pareva dov’eravamo capitati, se ancora restava al fianco mio. Faceva paura in effetti, tutto quel nero, che la sola luce era data grazie alle finestre, o quel che erano. Era un lungo andito, con dei soli buchi rettangolari e bianchi a pochi passi l’uno dall’altro e nient’altro. La porta si richiuse da sola e mai più la rividi.
Avevo paura, ammisi a me stesso, quando iniziai a sentire un battito lontano, che si faceva man mano meno lontano da noi.
«Dimmi, Pussy». Quel pensiero non mi abbandonava. «Tu sai chi era stato a ferire il cane, non è vero?»
Nemmeno si voltò a me, che fosse per poca importanza o per non voler fermare il lungo camminare.
«Il tradimento, June, procura ferite profonde», miagolò. «Più profonde e taglienti quanto più la fiducia e l’amore riposto erano grandi. E mi spiace dirlo per lui, ma i cani… Ai cani basta poco… per ferirsi»
Sentii un groppo alla gola ma non ebbi il tempo sufficiente per distrarmi che il battito si era fatto infinitamente più forte e mi fermai, spaventato.
«Non fermarti, June, potrebbe arrivare», urlò Pussy tanto forte che vidi scintillare i suoi denti fini. «Dobbiamo andare dritti alla fine. Tu non ci devi cascare»
«Cascare dove?»
Il battito si fece più forte che raschiò alle orecchie e mi fece cadere a terra.

Nero.

I canini di Pussy sulla carne del braccio destro mi fecero tornare in me e scossi la testa. Il mio gatto tentava di tirarmi poi per la maglia e così capii di dovermi alzare.
Non ricordavo nemmeno più come arrivai a cadere.
«Un’altra caduta potresti pagarla a caro prezzo, June», miagolò lui.
I battiti erano lontani ma l’ansia cominciava a crescere. Non sentivo più il braccio sinistro e guardai ad occhi spalancati, scioccato, com’era divenuto: il grigio s’era fatto strada lungo la mano e aveva ricoperto tutto fino al gomito. Una domanda mi venne così in mente che mi ghiacciò al sol pensiero: ma da quanto tempo fui sdraiato a terra?
Non passò molto tempo che Pussy mi ricordò che dovevamo fare presto e veloce, con lui al suo fianco presi a correre, finché non colpii contro qualcosa e cadendo di nuovo a terra mi voltai indietro, fu in quel momento che lo vidi… Era un uomo, o una sagoma d’uomo, completamente nero, armato di una lunga spada, che si avvicinava pericolosamente a me. Il battito, quel battito d’un tamburello, da lui proveniva e diveniva più forte come s’accostava pericoloso.
Mi rialzai rapido prima che la sua spada mi ferì e ripresi a correre. Correre e solo correre che non vidi più Pussy né avanti né dietro e mi sentii perso, spaventato, vuoto.
Mi colpii ancora e caddi, sbattendo la testa. Davanti a me, il tamburello aveva aumentato il suo battito, e la spada mi pendeva pericolosa sulla testa.
Mi chiesi il perché. Il perché di tanto odio senza fondamenta. Il perché di tanto male senza ragione, verso una persona piccola quale ero, da una persona grande e grossa come quello.
La sua spada stava per colpirmi e pensai d’esser spacciato, davvero; ma d’istinto posi il braccio sinistro a difendermi e straordinariamente lo fece davvero. La sua spada si tagliò un poco e il braccio dallo scontro ne fu illeso. Grigio come l’acciaio, pensai di avere io il coltello dalla parte del manico, per una volta, e mostrandomi arrabbiato e tanto sicuro dal non aver più paura di lui, la sua spada si tagliò e l’uomo la gettò a terra, restando immobile a me dinnanzi.
Pussy sorrise e si sedette sul pavimento. «Ben fatto, mio campione, una ferita alle volte può proteggere se stessi»
Il tamburello stava sul suo petto, tanto piccolo ma che adesso potevo veder: i suoi battiti andavano più lenti; le bacchette si prendevano lunghe soste tra un respiro e l’altro. Gli occhi dell’uomo lacrimavano ma il suo sguardo, ora che si mostrava, era truce ed infuriato.
La porta, lungo il corridoio, era il rettangolo più luminoso di tutti. Ignorai l’uomo, per il male che mi aveva procurato, e seguito da Pussy solcai la luce.







***



Eccomi di ritorno! Me la prendo straordinariamente comoda, chiedo perdono :P

Passate il mouse...
Se June avesse sacrificato il cane non si sarebbe procurato quella ferita e lo scontro contro l’uomo come si sarebbe concluso? Non avrebbe potuto difendersi e sarebbe stato spacciato.
La ferita in fondo è il ricordo di un’amicizia e l’uomo è stato sconfitto per questa ragione. Ma chi era quell’uomo? Il tamburello era il suo cuore, lui per primo era stato ferito, rappresenta un uomo solo e arrabbiato con il mondo, che ferisce gli altri per proteggere se stesso. Può essere un bullo della scuola o il vicino di casa impiccione che cerca di interessarsi nella tua vita perché la sua non dà nulla.
E ritornando al capitolo precedente, si parla ancora del cane: Pussy dice che il cane ha buone possibilità di ferirsi e tutto parte dal presupposto che i cani, solitamente, al contrario dei gatti, si affezionano molto facilmente e offrono amore incondizionato. Non che i gatti non si
affezionino o che, ma loro sono più per i fatti propri e credono a volte che sia l'umano di loro “proprietà” (passatemi il termine non corretto) e non il contrario!


Il prossimo capitolo de “Il sesto” s’intitolerà “Solitudine, finti eroi, odio, e soluzione”!

Ciao, ciao da Ghen =^____^=




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Capitolo 4
*** 4. Solitudine, finti eroi, odio, e soluzione ***






4. Solitudine, finti eroi, odio, e soluzione


Il cuore mi batteva furioso. Avevo rischiato di morire e il pensiero non mi si scacciava dalla mente.
Avevo rischiato la morte per una persona anonima armata di spada.
Mi fissai il braccio e vidi come il grigio stava ormai salendo su per la maglietta: quella stessa arma usata per difendermi avrebbe finito per uccidermi a sua volta, me ne rendevo conto sempre più.
La ferita alla mano: quella stava cominciando a divenire più grossa, spaccandosi e mangiando ciò che trovava per la sua strada. Non perdeva sangue ma il rosso era ormai imponente, e sembrava profonda come un baratro; mi ci potevo buttare giù ogni volta che la fissavo.
Avevo caldo e sudavo: il sole picchiava forte i suoi raggi contro di me. Pussy era svanito fra le dune di sabbia da parecchio tempo ed io continuavo da altrettanto parecchio tempo a seguire la strada indicata dalle pietre sparse per il deserto, come mi aveva suggerito di fare.
Mi fermai e guardai attorno spaesato: non c’erano mura, non c’era soffitto, solo sabbia e stanchezza a farmi compagnia in quell’immenso mondo senza fine.
Mi gettai sulla sabbia afferrando una di quelle pietre che m’indicavano il cammino. La gettai lontano, infuriato, e la sabbia mi prese con sé, dondolandomi fino al creare una zolla d’ombra, solo per me, che scivolavo al suo interno. Al diavolo tutto, pensai adirato, mantenendo strette le mie ginocchia, osservando ancora una volta la ferita dolorante. Non c’era via di scampo e tutto mi aveva chiaramente abbandonato. Avrei preferito stare là dentro a vita, al sicuro, e lasciarmi uccidere dal grigio che stava prendendo poco a poco il mio corpo. Mi avrebbe ridotto in cenere. Niente aveva ormai più importanza.
«Non vorrai farmi credere di star prendendo un po’ di fresco», il miagolio della fine voce simile ad un cantante d’opera di Pussy mi distrasse appena un attimo. Mi osservava da sopra la zolla, muovendo la coda su e giù, ma ritornai ai miei pensieri e lo ignorai. Come ignorai la zolla farsi a poco più profonda. «Stiamo perdendo tempo, June, la meteora non aspetterà certo te».
«Non m’importa più»
La mia voce dura lo doveva aver sicuramente lasciato per un attimo esterrefatto, tanto che ci mise un po’ a riformulare qualcosa da dirmi.
«Hai idea di ciò che accadrà se la meteora si schianta? Come sarebbe a dire che non t’importa più?»
«Ci sono cose di cui m’importa e altre di cui non m’importa, Pussy. E al momento… non m’importa più di nulla: potesse il mondo annullarsi completamente, io morirò con lui»
La ferita si faceva più profonda e aperta quanto più dolore mi procurava. Ed io, come allocco di prim’ordine, restavo là a fissarla senza pensare alla soluzione, ma solo al fatto che era accaduto e al male che faceva.
«Tu sei uno stupido sciocco, June», mi gridò. «Condannerai miliardi d’animali solo per il tuo stupido cuore ferito»
«Lo stupido cuore ferito stava facendo il possibile», le lacrime mi rigarono il volto. «Ma non c’è davvero più niente ch’io possa fare. Lo stupido cuore ferito vuole star da solo adesso, stupido gatto morto»
Non mi resi conto che forse, con quelle mie parole, procurai una ferita anche a Pussy. Lui se ne andò e mi lasciò solo come desideravo, senza aggiungere una parola in più che potesse smuovermi qualcosa, ed io piansi più forte. Piansi più forte e urlai, quanto più profondi divenivano la zolla di sabbia e la mia ferita sulla mano.

Perché, mi domandavo, dovevo andare là e salvare il mondo quando il mondo non aveva salvato me? Quando tutto mi fu portato via, quando mi sentii solo e svuotato, quando tentarono di uccidermi, dov’era il resto del mondo? Perché dovevo salvare anime che non avrebbero fatto altro che ferirmi e ferire il loro prossimo continuamente, senza riserve e senza ragione, e perché proprio io?
Fosse per me, pensavo, potevano anche morir tutti.
Potevano morir tutti loro, nelle loro chiassose risate e parole affilate. Nel fuoco potevano bruciare, e nel dolore perire, per ciò che meritavano, per ciò che facevano della loro vita e per quelle che rovinavano.
Ch’io non ero né santo né eroe e potevo permettermi il lusso d’odiare. Odiare per il dolore che portavo indosso come un guanto, e che non potevo abbandonare.

Un giorno, anzi notte, udì una voce già conosciuta e lontana, che chiamava il mio nome. I miei occhi erano gonfi e rossi, pesanti e rotondi, non vedevano più molto bene avendo continuato a piangere senza limiti di tempo, ma infine lo riconobbi, il mio stupido gatto morto.
Non mi resi conto di quanto quella zolla di sabbia fu diventata tanto profonda finché non guardai lui ricoperto di stelle.
«Hai pensato al tuo uscire da qui, June?», mi domandò. «Il piangersi addosso ha portato tante vittime quanto le pulci ne fanno ogni dieci anni», miagolò.
«Cosa ne sai?»
«Sono un gatto, e se permetti di pulci ne ho avuto a che fare parecchio molto più di te», rimbeccò aspro.
«Non parlavo di pulci»
Si mise più comodo nel suo guardarmi attento: gli occhi verdi divenivano così più fini e accesi da farmi quasi da fari per la notte.
«Sei il sesto, June», disse lui ad un certo punto. «Altri si sono fermati a questo punto, come te»
«Che fine hanno fatto?». Il sesto in cosa non capii, agli inizi, eppure era come se tutto fosse comunque chiaro.
«Morti», sottolineò con garbo, prendendo ad affilarsi i baffi con gli artigli di una zampa. Sembrò non importagli particolarmente. «I primi cinque sono caduti nelle trappole più sciocche, tra chi si è perso, tra chi sacrificò il sangue sbagliato e si fece affettare e chi, ahimè, cadde vittima del suo animo ferito. Ma sai, tu June, sei arrivato fin qui, e solo un altro oltrepassò la porta dopo»
«Tu eri con loro?»
«Oh no, loro avevano i loro; io appartengo solo a te»
Mi fissai ancora una volta la ferita. Il baratro rosso mi richiamava a sé e il dolore era lancinante. Versai altre lacrime, nella vergogna, davanti a Pussy.
«Ma sono solo», mugugnai. «È troppo, accidenti. E certa gente merita la morte»
«Certa, appunto, mio caro. E molti, credimi, non sono quella certa», miagolò. «E chi ha detto mai che sei solo?»
«I miei genitori… mi hanno abbandonato. I miei amici… non ne vedo neanche uno qui con me. Sono solo nel mio dolore e nessuno potrà farci mai niente»
«Sarai solo se non farai nessuno partecipe del tuo dolore, perdiana», si lasciò sfuggire il mio micio. «Ed io, comunque, non sono nessuno. E sto con te».
«Un gatto morto, accidenti». Mi richiusi la testa fra le ginocchia.

Sentii la presenza di Pussy ancora con me, anche se non proferì più parola e così, invece che guardare la ferita sulla mia mano, osservai a me dinnanzi e vidi un raggio di sole, per la prima volta dopo tanto, farmi visita. Pensai, non so come, che forse qualcosa avrebbe potuto cambiare, se davo delle possibilità.
Fu così che piovve dal cielo una piccola foglia e la raccolsi estasiato. Era la prima completamente verde che vidi da quando… da quando, ormai, nemmeno più lo sapevo.
«Wow… Sei bellissima. Sei l’unica»
«Davvero?», sorrise a quel punto la foglia, solleticandomi il dito con cui la mantenevo, poggiato sul suo mento. «Sono… speciale?»
«Oh sì… Sei speciale per davvero, credimi», risposi sorridente a quella graziosa voce femminile.
«Credo che anche tu sia speciale», mi sussurrò. «Ma come mai sei così triste?»
«Sono ferito»
Sembrò crucciarsi, per me. Mi sentii speciale per davvero anch’io, solo ed esclusivamente per quel viso.
«Ci penso io, adesso», mi sorrise la piccola foglia.
La poggiai sulla ferita della mia mano e questa restò attaccata al sangue, impedendomi di veder quel baratro rosso.
«Usciamo di qui», mi ressi in piedi più deciso, senza sentir male alle ossa per il tempo passato. Pussy rallegrato si fece due giri su se stesso, mentre la duna riprendeva il suo aspetto originale.
«Mi hai aspettato», sorrisi al mio caro gatto.
«Non male, per uno stupido gatto morto, non trovi?», miagolò acidamente.
«Scusami. Ti devo aver ferito»
«Oh, nulla che non sia guarito in poco tempo… Dopotutto, per fortuna sono un gatto»
Seguito dal fedele felino ripresi a seguir le pietre.









***


Rieccomi qui! Credo che questo sia il mio capitolo preferito di questa piccola e stupida storiella XD

June è il sesto perché ce ne sono stati altri 5 prima di lui, esatto. Hanno fatto lo stesso suo percorso per fermare il meteorite ma hanno fallito.
Passate il mouse...
“I primi cinque sono caduti nelle trappole più sciocche, tra chi si è perso, tra chi sacrificò il sangue sbagliato e si fece affettare e chi, ahimè, cadde vittima del suo animo ferito.”
Poteva capitare di perdersi al secondo capitolo, nella foresta. E sempre nel secondo, alla fine, sacrificare il sangue sbagliato e cioè quello del cane invece del proprio significava farsi affettare come conseguenza nel terzo capitolo dall’uomo con la spada. Poi invece ci fu quello che si lasciò ingoiare dalle sabbie in questo capitolo, lasciando che la duna scendesse sempre più a fondo.
Animo ferito? Questo capitolo rappresenta più una fuga dall’adolescenza: il protagonista è stato oggetto di bullismo (capitolo precedente), si sente solo e sconfitto, ferito dal mondo e dalla sua cattiveria. La duna rappresenta il baratro personale di ognuno di noi quando ci sentiamo giù e senza alcuna voglia di risalire, quando abbiamo perso tutte le speranze. June si chiede perché debba salvare il mondo quando il mondo, quando lui sta male, non c’è. Si rende poi conto che non può fare dell’erba un fascio e condannare tutti indistintamente; che sì, certa gente merita cattiveria, ma non tutti.
E allora quando vede la luce della speranza cade dal cielo una foglia, una piccola creatura speciale.
Il suo ruolo si vedrà meglio nei piccoli capitoli successivi...

Il prossimo capitolo de “Il sesto” s’intitolerà “Potenza, scelta, giusto e sbagliato, e delicata carezza”!

Ciao, ciao da Ghen =^____^=


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Capitolo 5
*** 5. Potenza, scelta, giusto e sbagliato, e delicata carezza ***






5. Potenza, scelta, giusto e sbagliato, e delicata carezza


Avevo ormai abbandonato il deserto e la sua porta di legno grezzo, nulla c’era laggiù che valeva la pena di ricordare. Avevo intravisto l’albero verde da cui sicuramente s’era separata la mia foglia, ma nessuna di quelle piccoline poteva essere tanto bella quanto la mia, che non era importante andarlo a trovare.
Questo nuovo andito pareva quello d’un albergo lussuoso, stretto e un poco lungo, aveva le mattonelle bianche che vidi per la prima volta e il battiscopa in legno lucidato. Mobili grandi e piccoli lo abbellivano e sulla mia testa vidi un gran lampadario; ed era tutto. Già s’intravedevano le porte. Già, le porte. E lì pensai che la prova, questa volta, consisteva in scegliere quella giusta.
«Se dovessi fallire… Il mio posto lo prenderebbe il settimo?»
Pussy mi fissò senza alcun’ombra di sorriso questa volta, per poi fissare le tre porte. «Stai pensando di gettare ancora una volta la spugna, June?»
«Oh, no di certo»
«E allora vai avanti», miagolò.
«Non hai risposto», insistetti.
Non seppi nemmeno il perché di quella domanda, forse in cuor mio volevo sapere che se avessi fallito qualcun altro dopo di me avrebbe fermato il meteorite, eppure speravo nel contrario, in modo dal creare un me stesso veramente speciale, come credeva la mia foglia.
«Non ci sarà nessun settimo, June», dichiarò infine Pussy. «Il meteorite non può aspettare altro tempo, la fine è segnata per luglio»

Vi erano tre porte. E tra le tre, solamente due presero la mia attenzione e importanza. L’altra non la vidi neppure, anche se sapevo della sua presenza.
Quella a sinistra portava nel suo legno inciso un cavallo, che fiero si reggeva a due zampe. Il pomello era di un lucido dorato. Quella che avevo scelto io invece, era quella che stava nel mezzo: una porta meno rifinita, con il pomello chiuso da una catena pesante, stretta e forte.
La foglia mi sorrideva felice ed io sorridevo a lei, seduto poggiato con schiena alla parete.
Avevo setacciato l’intero andito, ma nessuna chiave stava in quel posto, né tanto meno l’unico piede di porco trovato era riuscito a sortire gli effetti sperati, spezzandosi tentando di piegare quella catena.
«Dimmi, Pussy, ho per caso scelto la porta sbagliata?»
«Io non direi si tratti di porte sbagliate o porte giuste, mio caro padroncino», miagolò lui, seduto davanti a me, fissandomi come meglio sapeva fare.
«L’altra… L’altra non fa per me», scossi la testa.
«Lo so», mi aggiunse lui.
«Purtroppo», aggiunsi invece io. Carezzando la foglia rivolsi il mio sguardo al soffitto.
«June, non siamo tutti uguali», miagolò ancora.
«Ma a volte vorrei poter essere diverso. Sarebbe stato più facile girare quel pomello e andare avanti, riuscendo a fregarmene del resto»
«Ma non saresti tu, saresti un altro», mi sorrise. «Più facile, certo, ma quante cose indietro lasceresti? Con quante cose pagheresti quella decisione? Non sei il tipo, mio caro, devi solo trovare la soluzione giusta e andare avanti per la tua strada, non per quella di un altro»
La mia testa restò a fissare quel muro bianco del soffitto per tanto, troppo tempo, fin quando mi resi conto che restare lì a pensarci non mi avrebbe portato da nessuna parte.
Presi dei mobili e gli gettai addosso alla catena. Uno dopo l’altro e tutti finirono per rompersi. Carezzai ancora la mia bella foglia, e ricordai il sangue che riuscì ad aprire una delle prime porte. Staccai la foglia dalla ferita, pensando di poter far uscire del sangue, ma quando la poggiai sulla catena questa ebbe un sussulto, per la prima volta.
«Cos’è successo?», chiesi alla mia adorabile foglia.
«Sì è mossa», mi sorrise lei.
Solo allora capii che per ogni potenza che potevo scatenare, niente, e davvero niente, avrebbe rotto quella catena quando invece avrebbe ceduto solo per un pizzico d’amore. Ripresi la mia foglia e carezzai delicato con lei gli anelli arrugginiti, che si aprirono e la porta scattò.







***

Aw! Questo è un capitolo cortissimo che ancora più degli altri sembra appartenere ad un sogno.
Mi spiego meglio… passate il mouse!
Il cavallo rappresenta una sorta di fierezza, di orgoglio e spavalderia. June non è mai stato un ragazzino spavaldo. La porta con il cavallo è stata creata per chi è all’opposto di June. Quella è una porta facile, perché non ha catene e basta girare il pomello per andare avanti ma non essendo adatta al nostro protagonista, cosa avrebbe lasciato indietro? Se lui si fosse imposto di essere diverso quella porta sarebbe stata adatta a lui ma nel cambiamento, sempre, si lascia qualcosa. Ad esempio un ragazzino come lui, se diventasse più freddo e scostante, non avrebbe più gli amici che si è fatto che lo troverebbero insopportabile. June si chiede se non fosse meglio essere diverso: non è mai successo a nessuno chiederselo? "Se fossi diversa, forse questo sarebbe più facile", "Forse non soffirei così", "Forse me ne fregherei", "Se fossi diversa andrei avanti e basta, senza pensarci". Ecco, l'ultima è la più adatta per descirvere la porta con il cavallo.
La porta con la catena invece è quella più adatta a lui, perché rappresenta la difficoltà dell’essere se stessi e restare se stessi lungo il cammino.
Ricordiamo però che c'è un'ultima porta: June sa che c'è ma non la vede. Come la sensazione strana in un sogno, che sai che c'è qualcosa e ne sei certo, anche se non lo vedi. In un sogno ha senso anche se nella realtà sembra strano. Quella è una porta totalmente distante dalle caratteristiche di June, per questo non la vede. Non può toccarla né averci a che fare, non è adatta. Magari rispondeva alle caratteristiche di altri ragazzi passati prima di lui, gli altri cinque.


Il prossimo capitolo del “Il sesto” s’intitolerà “Vedere e guardare, velo, pezzi d’affetto, illusione, e i due innamorati”!
Ciao, ciao da Ghen =^___^=

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Capitolo 6
*** 6. Vedere e guardare, velo, pezzi d’affetto, illusione, e i due innamorati ***






6. Vedere e guardare, velo, pezzi d’affetto, illusione, e i due innamorati


Quel giardino dov’ero finito era una delle meraviglie più belle che avessi mai visto. Vi erano innumerevoli sentieri e tante aiuole fiorite, sculture di pietra e grandi fontane. Erano altissimi i lampioni per illuminare le strade in ciottoli nella notte.
«Questa è l’ultima prova, June», mi sorrise talmente fiero, il mio caro gatto, che mi sembrò di essere ad un passo dall’aver vinto. «Trova gli innamorati e avrai la soluzione». Questa volta, come ormai da tempo non faceva, Pussy svanì dietro un albero e non lo vidi più.
Mi domandai se anche l’unico mio predecessore che non era caduto in inganno dal cuore ferito era stato là dentro a cercare gli innamorati.
«Dove potrebbero nascondersi mai due innamorati?», chiesi alla mia piccola compagna foglia.
«Questo posto è talmente romantico che anche noi due potremmo esserlo», arrossì la foglia che mi fece arrossire a mia volta. Era adorabilmente carina, anzi bellissima, e le sue piccole spine, quasi impercettibili ad occhio, la rendevano ancora più speciale, contornando la sua bellezza come dei piccoli gioielli.
«Forse siamo veramente noi», risi io, scioccamente. Iniziai un balletto fra i fiori di un’aiuola, quando lei mi interruppe.
«Ma due innamorati sono per sempre»
Me lo disse con un tono troppo serio che odorava di cattiva notizia e il mio ballo perse ritmo, cadendo a terra.
«Sì», risposi.
«Guarda bene, June, per quanto ti ami, non staremo mai insieme per sempre», sussurrava tentando di non incrociare il mio sguardo. «Io ti ho aiutato e tu hai aiutato me, ma non siamo gli innamorati che durano per sempre»
«C-Che vuoi dire…?». Nemmeno mi resi conto di quando cominciai a piangere e le mie lacrime fredde rigarono il mio volto. Ero un ragazzino, tonto per di più, che credeva a tante cose ma che non riusciva mai a vederle per com’erano veramente e confondevo tutto.
«Che devi trovare gli innamorati o la meteora spazzerà via ogni cosa. Anche l’amore vero»
«Tu sei l’amore vero»
«Apri gli occhi, June», sorrise, per l’ultima volta, e piansi ancora più forte. «Sto morendo»
Divenne presto vecchia e si sgretolò in tanti pezzi color arancio, che rimasero attaccati alla ferita nella mia mano per via del sangue. Urlai e sentii battiti d’ali di uccelli spaventati volare via.
L’amore era una cosa crudele ma la ferita non si riaprì questa volta, grazie ai suoi pezzi su di me.

Andare alla ricerca degli innamorati era l’unica cosa che poteva salvare tutto e aguzzai bene la vista. Vidi una scultura senza braccia, degli uccelli su un albero, una fontana con sopra un bimbo alato e fiori, tanti fiori. Dov’erano gli innamorati? Come potevo trovarli?
E scovai degli specchi, ma questi non mi aiutavano, riflettendo attentamente solo ciò che avevo già vissuto, nei posti in cui ero già passato.
Corsi per un breve pezzo finché una scultura non prese la mia attenzione e mi accostai. Erano un uomo e una donna, abbracciati, sembravano volersi scambiare un bacio.
Sorrisi fiero, pensando finalmente di averli trovati.
«Ancora alla loro ricerca? Il tempo scorre», si accostò dietro un cespuglio Pussy.
«No, guarda, credo di averli trovati», indicai orgoglioso quel pezzo di pietra scolpito, ma lo sguardo del gatto mi fece immediatamente capire di aver appena fatto la figura del povero babbeo.
«Sei sicuro in quello che dici?», miagolò scettico. «Guarda meglio»
«Cosa devo guardare?», mi accostai come potevo. «Stanno per baciarsi»
«Io ti consiglierei di guardare altrove per cercare gli innamorati, ma se davvero tu credi…»
«No, no, hai ragione, guarderò altrove», sbuffai. In fondo aver trovato quei due buffoni abbracciati non aveva cambiato per nulla la mia situazione attuale e per di più, quel mio bel gatto sembrava aver sempre ragione.
Ritornai ai miei passi per veder cosa mi ero potuto perdere per il giardino della notte, finché non rividi di nuovo quegli uccelli sopra un albero. Curioso decisi di dargli una possibilità e mi accostai. Avevano una buffa forma e capii così che doveva esserci qualcosa, in mezzo, che m’impediva di vederli chiaramente: allungai una mano verso il nulla finché realmente non toccai qualcosa e stringendolo lo tirai via. Un lungo velo, che fino a poco prima era niente meno che trasparente, era ciò che mi stava in mezzo da sempre. Tra me e il mondo, un velo che mi accorciava la vista.
Lo presi tra le braccia e fissai di nuovo quegli uccelli. Ora li vedevo, e sì, avevo trovato i miei due innamorati: due gufi si baciavano ed io sorrisi.
«Ehi», tentai di richiamare la loro attenzione. «Ehi, a voi! Siete innamorati, vero?»
La richiamai eccome, la loro attenzione, che subito mi fissarono torvi.
«Che cavolo vuoi tu, eh?», mi disse il primo.
«Fatti i fatti tuoi e torna a casa», mi rispose invece l’altro.
«Oh no, devo solo parlare con voi, non voglio disturbare»
«Si dia al caso, caro ficcanaso, che tu stia già disturbando», mi urlò sempre il primo, per poi sentire il secondo in replica.
«Fila via»

Tornai ai miei passi sbuffante: ora avevo trovato i miei innamorati, ma erano dei gufi scorbutici che non volevano starmi a sentire. Mi riaffacciai agli specchi e vidi come, di striscio solamente, l’uomo che tentò di uccidermi era in verità molto magro e piccoletto.
«Mio caro campione, hai trovato ciò che cercavi?», Pussy mi raggiunse.
«Sì, e questa volta li ho trovati davvero», indicai i gufi. «Ma non vogliono starmi a sentire»
«Se non stanno a sentire te, June, è finita. Non abbiamo altro tempo»
A quelle parole strinsi i denti e tornai indietro a passi veloci: nemmeno quei due gufi potevano ignorare la fine del mondo.
«Oh, è tornato», mi sbottò sempre il primo, fissandomi appena; facendo finta di nulla credeva non l’avessi sentito.
«Sentitemi bene, voi due! Io non voglio disturbarvi, ma qui c’è in gioco la fine del mondo», tentai di scandire bene le parole, questa volta, tanto che quei due, per l’amor di Dio, non potevano ignorarmi ancora.
«Oh, la fine del mondo dice lui», mi sussurrò il secondo.
«Cosa non si dice per farsi gli affari degli altri e disturbare la vita altrui», commento aspro il primo.
«Ma io dico davvero. Dovevo solo trovare due innamorati e voi lo siete. Perché mai dovrei disturbarvi e farmi gli affari vostri?»
«Non saprei, diccelo tu», aggiunsero in coro.
«Tutti state qui a fissarci e a sparlare alle nostre spalle», proseguì il primo gufo.
«Tutti che commentate cosa è giusto e cosa è sbagliato, senza lasciarci vivere in pace», terminò il secondo gufo.
«Io non vedo cosa commentare, siete solo due innamorati», sorrisi. «Ma se gli spettatori vi disturbano, ho la soluzione per voi». Guardai il velo e pensai che, in fondo, a me non era mai servito e a loro di certo poteva esser molto più utile. Lo alzai al cielo, sorridendo. «Aprite bene questo velo e sistematelo sopra l’albero: vi vedranno più soffusi e nessuno avrà più da commentare»
Li vidi scambiarsi occhiate complici e il primo planò verso di me per afferrare il velo con le zampe. «Sai», mi sussurrò lui in confidenza. «Non ci dà fastidio se qualcuno ci guarda, per carità; ma la lingua è lunga e affilata, di chi non vuol capire». Prese il velo e lo portò sull’albero. Mentre il primo sistemava, il secondo planò verso di me e mi consegnò qualcosa, ed io felice capii di aver raggiunto l’obiettivo. «Un regalo per averci aiutato», mi sorrise, per la prima volta, arricciando in modo strano quel becco fine. «Noi gufi non dimentichiamo mai chi ci ha prestato favori»
Poi volò via sull’albero e sotto il velo sapevo che si sarebbero baciati ancora, i miei innamorati. Pussy mi raggiunse e aprii la mia mano, scoprendo ciò che mi aveva regalato il secondo gufo: uno spillo.














***

So bene che questa storia è scritta male. Mi piaceva l’idea che mi ero fatta della trama e sì, mi piace ancora, ma non sono riuscita a scriverla come avrei voluto e adesso più che rileggere e correggere qualche errore dovuto alla distrazione non sto facendo altro, non credo che la riprenderò mai per riscriverla daccapo. Lo dico giusto per correttezza (ormai manca un solo capitolo alla fine), l’ho scritto anni fa, non so come l’avrei scritta oggi.

Bando alle ciance, come sempre passate il mouse per leggere cos’ho scritto su questo capitolo…
June amava la foglia e la foglia amava June. È il primo amore e, come spesso accade, non va sempre come previsto. Qui la foglia è morta ma rappresenta semplicemente l’amore che muore in una giovane coppia. La foglia tuttavia si sgretola nel diventare vecchia e morire, lasciando dei pezzetti sulla ferita, impedendole di aprirsi e recare a June del dolore: anche se l’amore è finito gli è rimasto qualcosa che lo consola e non si dispera.
June deve trovare gli innamorati, non c’è ancora molto tempo e quando scopre la statua di due che stanno per baciarsi crede di averli trovati. Ma due che si stanno per baciare sono per forza innamorati? Prende una cantonata, non vede bene e scopre il perché quando trova i due gufi: c’è un velo. Il velo rappresenta i pregiudizi, i preconcetti che la società tutti i giorni ci bombarda e ci offusca la vista. I due gufi infatti sono innamorati ma a prima vista non ci avrebbe mai fatto caso perché sono semplicemente dei gufi. I gufi infatti sono stufi della gente che si fa i fatti loro e li giudica, rappresentando tutte quelle persone che ogni giorno vengono giudicate, in questo caso per il loro amore.
I gufi prendono il velo e lo usano per mostrarsi semplicemente uguali a tutti gli altri.
“Non ci dà fastidio se qualcuno ci guarda, per carità; ma la lingua è lunga e affilata, di chi non vuol capire”
La lingua, quello che si dice, fa male alle persone. E quelle che appartengono alle persone che giudicano senza conoscere lo sono ancor di più. Bisogna sempre stare attenti a ciò che si dice.

Arrivederci al prossimo e ultimo capitolo, che s’intitolerà “Riflessione, ultimo capitolo, ala, arcobaleno, rinascita, vita, scatoletta di pesce per gatti”!
Ciao, ciao da Ghen =^___^=

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Capitolo 7
*** 7. Riflessione, ultimo capitolo, ala, arcobaleno, rinascita, vita, scatoletta di pesce per gatti ***





7. Riflessione, ultimo capitolo, ala, arcobaleno, rinascita, vita, scatoletta di pesce per gatti


Uno spillo contro una meteora. C’era qualcosa che avrebbe dovuto farmi pensare che, forse, non avrebbe funzionato, eppure non ci badai nemmeno per un attimo. Ero convintissimo della riuscita, perché avevo superato tutti gli ostacoli e mi mancava ormai solo quella meteora.
Non mi ero perso per la foresta e non avevo sacrificato il sangue del cane mio fedele, ma il mio. Avevo sconfitto l’uomo che mi avrebbe potuto fare a fette grazie alla maledizione della ferita che mi ero procurato alla porta. Non mi ero lasciato ingoiare dal deserto trasportato dal cuore ferito. Avevo imparato che la forza non era tutto e che si poteva sistemar ogni cosa con dolcezza. Avevo aperto i miei occhi e scoperto l’amore. Questo era l’ultimo passo mio e poi avrei riavuto ogni cosa, come miagolò Pussy. Riavuto ogni cosa… e mi domandavo quasi cos’era che avrei riavuto indietro. Sembrava passato del tempo, e così tanto laggiù, da non ricordarmi davvero più chi fossi.
June, il mio gatto morto, la meteora, malinconia, una forza apparente, il mio amico cane, sangue, un male senza ragioni, una ferita profonda, la solitudine, il pianto, la mia cara piccola foglia, l’essere speciali, la dolcezza e la carezza, un amore, fiori, frammenti dell’amore morto sulla ferita, i gufi innamorati, l’aprire gli occhi. Chi ero e cos’avevo passato? Chi ero prima d’essere June e chi ero in quel momento?
Fissai lo spillo. Non era poi così importante capire proprio tutto in quel momento, se prima non avrei fermato quella meteora.
«Sei pronto, June?», miagolò Pussy, destandomi. «Questo è l’ultimo capitolo, poi si torna a casa»

Seguendolo per il giardino, che avrei visto per l’ultima volta, mi accorsi di quant’era ancora più bello e magico: i fiori tutti parlavano e le statue si muovevano per ragione propria. Rividi la scultura dei due che s’abbracciavano e i loro visi schifati: forse s’odiavano, pensai, e lo scultore li aveva comunque fatti accoppiare, dove sarebbero restati per sempre. Una maledizione, era quella, altro che amore. Nemmeno si muovevano, loro: erano solo pezzi di pietra senza sentimento.
«Per di qua», Pussy si voltò e poi corse per degli scalini in pietra contornati da fili d’erba, sopra di essi vi era una grande arcata. Non vedevo ciò che c’era al suo interno se non della luce rossa. Non appena m’avvicinai il tanto che bastava, tuttavia, riconobbi il cielo ch’avevo abbandonato, e la meteora, che imponente lasciava scie di luci taglienti nella sua corsa spericolata contro il suolo.
Passata l’arcata mi ritrovai a salire sull’erba marrone e morta che era rimasta del mio giardino, e lo pensai perché riconobbi la mia casa, seppur un po’ diversa, poco lontana da lì.
Fissai la meteora e lo spillo.
Fissai la ferita con i frammenti di foglia rimasti a tenermela chiusa. Fissai il braccio sinistro grigio con la maledizione che sentii arrivata fino a metà petto. Fissai il mio caro gatto, ch’era morto, ma che mi guidò fin lì.
«Cosa devo fare, di preciso?», domandai.
«Credo tu già conosca la risposta, mio caro June», sorrise Pussy.
Alzai lo spillo contro l’imponente meteora, pronto a lanciarlo. Prima che ciò avvenne, però, qualcosa di strano accadde e rimasi a fissare lo spillo che avevo tra le dita: una piccola ala, trasparente com’era che mi ricordava quelle delle fate, riportava alla luce i colori dell’arcobaleno, e si muoveva lentamente, come un cucciolo al suo primo tentativo di volo, era nata dallo spillo. Mi venne da sorridere senza ragione. O forse la ragione già c’era, che era la felicità nel vederla.
«Perché una sola?», chiesi a Pussy.
«Oh, June, lo spillo è piuttosto piccolo: cosa ne avrebbe fatto di ali in più?»
Era chiaro; ora tutto era chiaro. Lanciai lo spillo come avrei fatto con un aeroplanino di carta e la piccola ala tagliò il vento impavida finché, com’era che doveva essere, arrivò a colpire la meteora e questa, come un palloncino bucato, scoppiò e si arricciò nel cielo più e più volte diventando infinitamente più piccola ad ogni sbuffo, riproducendo del chiasso sempre minore. Risi felice quando vidi che la piccola ala aveva perso le sue piume e i colori dell’arcobaleno cadevano dal cielo. Saltellai estasiato e risi ancora, osservando Pussy che tentava di acchiapparle con le zampe, come ogni gatto che si rispettasse.
«Quest’avventura è finita, mio caro campione, non saprei essere più fiero di te», miagolò colmo d’affetto.
«Mi mancherai. E mi mancherà tutto questo», dissi invece io.
«Oh andiamo, June, quest’avventura è finita ed è pur vero, ma non hai idea di quante altre ancora ne avrai», strizzò un occhio verde. «Basterà tenere sempre a mente ciò che hai imparato e seguire il sentiero»
«E ci sarai sempre tu a guidarmi?»
«Non ti viziare, mio caro ragazzo, io sono solo un gatto»
Una piuma d’ala mi cadde dinnanzi e la presi con la mano, orgoglioso di quei colori.
«Cosa posso fare per te, Pussy?»
«Una cosa ci sarebbe», sghignazzò con quella sua fine voce che mi ricordava tanto un cantante d’opera. «Una scatoletta di pesce fresco. Ne voglio una. Dissotterrami e mettimela accanto, aperta»
In quel momento non pensai nemmeno per un attimo che quella richiesta pareva tanto insolita quanto da un lato orribile, o almeno no, non insolita nella sua irregolarità, ma il mio gatto morto, morto da un anno, poteva esser irriconoscibile là sotto la terra, adesso. Ma in fondo Pussy era un gatto, e amava le scatolette di pesce quant'era vero che amava fissarmi.
Annuii e osservai nuovamente il cielo: qualcosa lassù stava finalmente cambiando. Riprendeva ora l’azzurro colore del mattino e le nuvole bianche si gonfiarono ancora, paffute come sempre. La meteora finì per scomparire in una cicatrice bianca nel cielo e le piume d’ala terminavano di precipitare lente. L’erba e le foglie riprendevano vita e ad esser verdi; gli alberi ricomparvero tutti spuntando da sotto il terreno fino ai massimi livelli d’altezza loro permessi. Gli uccellini ripresero a cinguettare e le altre case di campagna, miei vicini, rispuntarono dietro una fitta nebbia. Il grigio, la maledizione mia che non aveva fatto in tempo a mangiarmi, fu risucchiata fin dentro la ferita e questa, rapidamente, si richiuse, portando con sé i frammenti della mia piccola amata foglia. Mi voltai e Pussy non c’era già più.
Udii il rumore di pentole di chi lavava i piatti prima di far colazione e sorrisi, ricordandomi dei miei genitori e di quanto li amassi. Avevo riavuto indietro ogni cosa come promessomi. La vita mia, era tutta di nuovo fra le mie mani.
Corsi verso casa guardando come, ovunque, il color arcobaleno delle piume della piccola ala mi avrebbero ricordato chi ero. E grazie tante avrebbero ricordato qualcosa un po’ a tutti, bastava solo esser lì pronti, che per vederle bastava saper guardare.



Aprii una scatoletta di pesce dopo un anno che non sentii più quell’odoraccio e brandii una vecchia pala. Mi fermai in giardino e presi a scavare. Non credevo di aver mai potuto fare una cosa simile, ma glielo dovevo, al mio caro gatto morto. Una parola data era una parola data e scavai fino al sentire qualcosa, così cercai di ripulirlo dalla terra. Oh no, quell’ammasso di cosa informe e puzzolente aveva ormai ben poco del mio caro gatto ma gli lasciai comunque la scatoletta di pesce e ripresi a rimettere la terra inverminita al posto suo. Colpii per schiacciarla e vidi che qualcosa si era attaccato alla mia mano sinistra, forse un pezzo di una piuma dell’ala ma, quando cercai di toglierla, una zampa a ciuffi bianchi e neri sbucò dalla terra e spaventato caddi a terra.
Quando presi il coraggio di guardare e capii che non c’era più niente, pensai solo che, frutto della mia immaginazione o verità ben celata, il mio caro gatto morto aveva un pessimo senso dell’umorismo.
Ripresi la pala e la conficcai nel terreno. La prossima volta, per lui, non ci sarebbe stata nessuna scatoletta.









***


Ed è… finita *-* Il finale è frettoloso ma in fondo è tutto frettoloso; poi per partecipare a quel contest per cui era stata scritta dovevo scrivere 7777 parole esatte! Ora non so se sono ancora 7777, credo di aver cambiato qualcosa nei capitoli precedenti e non ho contato, ma non importa.
Ah, l’idea del palloncino mi è sempre piaciuta e volevo usarla da qualche parte :D

Passate il mouse come sempre…
“«Oh andiamo, June, quest’avventura è finita ed è pur vero, ma non hai idea di quante altre ancora ne avrai», strizzò un occhio verde. «Basterà tenere sempre a mente ciò che hai imparato e seguire il sentiero»”
La verità è che la vita, in fondo, è un’avventura. La crescita lo è e il percorso fatto da June in tutti questi capitoli è appunto la rappresentazione di una crescita: le amicizie, gli amori, la fiducia ecc…

Credevo di avere tante altre cose da dire su questo capitolo e su tutto l’insieme ma credo di essermi scordata °.° Eh va beh, nel caso non dovrò fare altro che modificare il capitolo.
Ringrazio tutte le persone che mi hanno seguito fin qui, nonostante tutto ^_^

Alla prossima! Ciao, ciao da Ghen =^___^=

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