L'istinto del soldato

di Douglas
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I dubbi te li crea la libertà ***
Capitolo 2: *** Non ho scelto io di nascere quindi lasciatemi vivere come mi pare ***
Capitolo 3: *** Il futuro non esiste... ***
Capitolo 4: *** Non pentirti di qualcosa che hai fatto, se quando l'hai fatta eri felice ***
Capitolo 5: *** Fra il bene e il male c'è una porta, e io l'aprirò! ***



Capitolo 1
*** I dubbi te li crea la libertà ***


 

I dubbi te li crea la libertà

(Jim Morrison)

 

L'effetto del mix di antidolorifici che mi sono stato somministrati qualche ora fa stava a poco a poco svanendo, permettendo al buio in cui ero sprofondato di diradarsi lentamente.

Quel maledetto proiettile, oltre ad un profondo lembo di pelle, si era portato via anche parte del mio autocontrollo e il dolore mi tormentava da mattino a sera.

Erano giorni ormai che non riuscivo a rimanere quieto nel mio letto nemmeno nelle ore notturne, così il corpulento dottore afgano dell'ospedale aveva avuto la brillante idea di mettermi sotto sedativi per placarlo.

L'inevitabile sonno in cui ero piombato seppur pesante e innaturale, aveva permesso ad ogni muscolo del mio corpo di rilassarsi, lasciando che la mente vagasse nelle macerie di ricordi lontani.

Vagavo senza meta in un sogno ma non c'era nulla di fantastico o fuori dal comune lì dentro, soltanto puri e semplici ricordi di un passato che avevo quasi archiviato in qualche meandro della mia mente: mia madre, mio padre e mia sorella erano ovviamente i soggetti preferiti ma si alternavano anche i visi dei miei migliori amici e di qualche ex.

I primi ricordi erano legati alla mia infanzia tranquilla mentre gli ultimi, i più recenti, arrivavano sino al giorno prima della partenza per l'Afghanistan: erano, però, scene talmente veloci che non aveva tempo nemmeno per godermele: compleanni, anniversari, viaggi e giorni ordinari si mostravano nella mia mente come una strana presentazione al computer in cui oltre ai suoni si andavano ad aggiungere odori e sensazioni.

Dopo l'infanzia comparvero sporadiche immagini della mia “turbolenta” gioventù: le feste liceali, i primi baci dati di nascosto dai genitori, le sbornie e le serate con gli amici fino alla cerimonia del diploma mi cullarono dolcemente verso il mio risveglio.

Era da secoli che non sognavo: la guerra mi aveva totalmente tolto la forza per farlo.

Per otto angosciosi anni, il mio subconscio sembrò non aver voglia di rivivere quello che era accaduto durante la giornata: dormire era l'unica occasione per far riposare quella ripugnante sensazione d'ansia che si aggrappava sulle spalle ogni mattina prima di una missione.

Oggi, però dormo profondamente, quasi quanto un bambino in culla che sogna ciò che più ama: la propria casa.

Mancavano esattamente poche ore alla mia partenza, e poi avrei cancellato dalla mia mente ogni traccia di quel territorio dimenticato da Dio stesso: niente più nemici, niente più bombe, solo vicini di casa fastidiosi e tranquilli pomeriggi di relax.

Tornavo a casa quella mattina stessa, dopo più di un mese di pura sofferenza e 8 anni di ansia arretrata.

Infatti, dopo una breve ma onorata carriera da soldato, non me la sentivo più di rischiare la pelle per degli ideali che, a volte, nemmeno condividevo: ci avevo quasi dimesso la mia gamba destra per L'Inghilterra e non le avrei permesso di portarmi via anche la salute mentale.

Probabilmente, mi sono girato proprio sul fianco durante un ricordo movimentato perché una fitta lanciante che parte dalla gamba, attraversa tutto il fianco destro del mio corpo un po' martoriato e arriva al cervello mi fa svegliare di scatto.

Ci vuole qualche secondo prima che io sopprima tutta l'angoscia provocata dall'ultimo sogno: le nubi scure inglesi che ho lasciato dietro di me durante il viaggio in aereo fino a Kabul di 8 anni fa che si trasformavano nelle nubi scure provenienti da uno dei fuoristrada dell'esercito inglese che era stato fatto saltare da una delle cellule terroristiche più conosciuto di Kabul ci misero molto a sparire dai miei pensieri.

Finalmente riesco a spalancare gli occhi ma la luce del sole che penetra dalle persiane semi-serrate mi impone di chiuderli di nuovo.

Sbuffando, mi giro sul fianco giusto e provo di nuovo a prendere sonno ricordando a me stesso che avrei avuto bisogno di forze se volevo affrontare un viaggio di sola andata per Londra.

Questa volta non c'è bisogno di una scossa per farmi svegliare di soprassalto: mi basta semplicemente l'asfissiante sensazione di essere in un ritardo mostruoso.

-Maledizione!- grugnisco scostando in malo modo le coperte in cotone grezzo che mi graffiano le gambe.

Con un gesto rapido, spalanco le persiane lasciando che gli occhi vengano feriti dal inondante luce del incessante sole afgano e finalmente, quando metto a fuoco il paesaggio pulsante della città e le vesti lunghe che arrivano sino a terra dei passanti, mi accorgo di quanto sia dannatamente tardi.

- Cristo Watson, serra quell'affare.- mugugna dall'altro lato della stanza una voce impastata dal sonno e, imbarazzato, mi ricordo del mio compagno di stanza, il soldato White.

É una storia bizzarra quella del nostro incontro: io e il mio compagno di stanza siamo stati trasportati in ospedale in due date completamente differenti l'uno dall'altro, esattamente l'uno a distanza di tre mesi dall'altro.

L'assegnazione della camera in comune, seppur del tutto casuale, ha creato non ben pochi inconvenienti al personale del ospedale: ci assomigliamo più del dovuto a livello fisico: gli stessi capelli biondi tendenti al castano, gli stessi lineamenti marcati e persino la stessa età. Inoltre, entrambi abbiamo combattuto in fanteria durante la guerra afgana e ricoprivamo lo stesso ruolo all'interno dell'esercito.

Avevamo persino lo stesso nome di battesimo: John Watson e John White e questo sembrava mettere in crisi anche i dottori che si consultavano vari minuti prima di assegnare i medicinali adeguati alle nostre diverse condizioni di salute.

A differenza di me, White faceva parte di un plotone altamente specializzato, implicato per lo più in missioni suicida in cui il livello di preparazione richiesto era assai elevato. Occorrevano non solo sangue freddo e disciplina, ma anche una credenziale in più che rendesse il singolo superiori agli altri: la mira eccezionale era ciò che lo distingueva da noi altri soldatini di stagno.

Si vantava spesso di far parte di quel gruppo di spedizione che è riuscito a stanare ben 14 cellule terroristiche in un solo mese eppure è evidente che non un uomo vanitoso per natura.

Gli anni passati nell'esercito, avevano sviluppato in lui più che chiunque altro, un sorta di rigido autocontrollo: era una persona molto riflessiva e taciturna e preferiva stare con il naso incollato alle pagine di un libro che conversare.

Inoltre, era un uomo molto orgoglioso che teneva molto alla sua dignità e alle sue origini quasi più della sua stessa vita: sua nonna era tedesca e lui ne aveva ereditato tutti i caratteri.

A John, però, quell'uomo così difficile e scostante, piaceva e anche il soldato apprezzava la compagnia del dottore.

D'altronde, ciò era dovuto molto al buon carattere del dottore: non c'era una sola persona nel suo plotone che non considerasse John Watson un santo più che un medico.

C'era chi lo prendeva in giro dicendo che, in mancanza di un santino, durante le missioni più pericolose, si portava dietro l'immagine del loro compagno.

Era un uomo abbastanza colto e un cecchino piuttosto dotato ma era conosciuto soprattutto per la passione e la pazienza con cui curava soldati e civili: in molti lo avevano visto stare intere ore al capezzale di un suo paziente in attesa che si risvegliasse.

Anche lui aveva i suoi buoni difetti come la tendenza all'irascibilità quando veniva provocato ma per il resto era davvero una pasta d'uomo.

-Scusami White, mi ero dimenticato che ci sei anche tu!- esclamo serrando le persine mentre il brontolio sommesso della massa informe sotto le coperte si trasforma in parole di senso compiuto.

-Troppo tardi, sono sveglio ormai.- esclama conciso togliendosi le coperte umide di dosso. A quanto pare neanche lui ha passato delle nottate tanto piacevoli in questi ultimi tempi visto le grosso occhiaie violacee che gli contornano gli occhi e tagliano i due di netto i suoi zigomi.

-Quante ore hai dormito questa notte?- domando apprensivo studiando il viso stropicciato in una smorfia di dolore mentre con fatica riesce ad appoggiarsi sui gomiti, alzando così il torace e il viso in mia direzione per potermi squadrare meglio.

-un ora, due al massimo. Per il resto del tempo di ho ascoltato mentre mugugnavi frasi senza senso logico. Chi è Harry?- domanda incuriosito stendendo il viso in un sorriso malizioso.

-Mia sorella. Però è off-limites per te.- gli dico consapevole della sua lunga sfilza di ex-ragazze. Harry è già problematica di suo, non ha bisogno di un lattin lover che le faccia la corte.

-Peccato...- bofonchia scoraggiato mentre mi osserva vestirmi e mettere tutto in valigia in fretta e furia. Un movimento fin troppo brusco della gamba destra riesce a bloccarmi in una posizione quasi statica al centro della stanza mentre con un braccio vado alla ricerca del mio fidato bastone senza fare un passo: sono stato sprovveduto e ho dimenticato del dolore alla gamba così adesso rischio quasi di cadere a terra prima di riuscire ad afferrare la stampella ortopedica che provvederò a sostituire con pratico bastone da passeggio.

Mi scrollo via dai miei pensieri ricordandomi della critica situazione in cui mi ero cacciato: l'aereo sarebbe partito fra meno di un ora e non avevo nemmeno chiamato un taxi.

-E queste... le lasci come mancia alle infermiere- riprende White ridacchiando e indicando un paio di mutande rimaste nel cassetto del comodino che ha appena aperto.

Infastidito, gliele strappo dalle mani e, senza troppo ritegno, verso tutto il contenuto del cassetto nella valigia.

Mentre mi muovo frettolosamente fra il caos della nostra stanza, White prende il mio cellulare dal comodino e chiama il servizio di taxi della città: lo sento mormorare frasi fluide nella lingua locale e mi sento quasi imbarazzato dalla mia totale ignoranza verso la cultura con cui spesse volte sono venuto a contatto.

White ha imparato quasi subito il dialetto locale, mentre io arranco ancora a pronunciare un semplice buongiorno: sorrido pensando che il mio compagno ha imparato l'afgano sopratutto per approcciarsi con le affascinanti donne di Kabul: un bel rischio a giudicare della pallottola che quasi si è beccato una volta per aver tentato di baciare la figlia di uno dei classici padri rudi afgani.

Provo ad intuire il senso del discorso mentre chiudo definitivamente la valigia e mi accorgo che riesco soltanto ad intuire che taxi sta per arrivare sotto l'ospedale a prendermi: rimango sorpreso della mia stessa capacità.

Mi impongo di pensare al futuro in maniera razionale mentre preparo il biglietto aereo nella tasca dei jeans che ho appena indossato.

Era così sicuro della mia decisione fino a qualche giorno fa ma poi, con l'arrivo di una lettera che mi diceva che Harry ha avuto un ennesima ricaduta sono davvero combattuto.

I dubbi te li crea la libertà” penso con fare sconsolato.

-Il taxi arriverà tra dieci minuti.- esclama White dopo aver concluso la chiamata e porgendomi il mio vecchio catorcio, “regalo” della mia cara sorellina.

Lo squadro per qualche minuto mentre i miei dubbi si fanno ancora più marcati.

-Credo di aver preso tutto...- dico guardandomi intorno in cerca di qualcosa di mio: l'unica cosa che ho lasciato è un bicchiere d'acqua che stagna sopra il comodino del letto ormai vuoto.

-Tranquillo, se trovo qualcosa di tuo lo invierò a casa dei tuoi genitori.- esclama Kelso mentre mi siedo ai piedi del suo letto semi-vuoto: lo guardo un secondo con fare nostalgico ma lui mi restituisce solo un freddo sorriso di cortesia mescolato ad una occhiata significativa.

-Sei ancora deciso ad evitare le smancerie?- esclamo ridendo fra me e me mentre lui si acciglia ulteriormente e indietreggia sul letto come se stessi per saltargli addosso invece che “infierirgli” una pacca amichevole.

-Certo. Siamo soldati, non signorine- aggiunge incrociando le braccia al petto in una perfetta imitazione di una qualche statua greca.

-Come vuoi, ma sei davvero un ingrato.- dico rimproverandolo come si fa ad un bambino ma so che lui preferisce il mio silenzio ai miei slanci d'affetto.

Mi guarda solo un secondo poi si muove sul letto avvicinando a sé una carrozzina volutamente nascosta nell'angolo fra l'armadio e il comodino.

-Credo di farcela da solo.- bisbiglia lui imbarazzato mentre scopre la parte inferiore del suo corpo: evito di fissarli per non farlo sentire a disagio ma sono ben consapevole che là, dove una volta c'erano le sue gambe, c'erano rimasti due monchi accuratamente fasciati da garze.

Me l'ha raccontata la sua tragica storia, alla fine.

Avevo sempre creduto che sarei tornato a casa senza nemmeno sapere cosa gli era accaduto, quel lontano giorno di settembre, ma ieri sera mi ha sorpreso raccontandomi il tutto fra un bisbiglio e l'altro.

Tutto era accaduto durante una normalissima missione di soccorso all'interno di un villaggio rurale quasi disabitato, dove nessuno di loro si sarebbe spettato nemmeno di sprecare un solo proiettile della loro munizione.

Una mina-antiuomo era l'incubo ricorrente di John White.

Una di quelle piccole, quasi camuffate da giocattolo, subdole e orribilmente congegniate per uccidere chiunque abbia la sfortuna di capitarci sopra.

Un singolo passo sopra di essa e il mondo era esploso con lui.

Inutile sarebbe descrivere la situazione in cui si è ritrovato il povero White: posso solo aggiungere che quando è stato portato in ospedale da uno dei suoi compagni aveva entrambe le gambe completamente maciullate e sanguinava talmente tanto da sporcare quasi completamente di sangue le divise del commilitone e l'interno della jeep con cui era stato portato all'ospedale.

Per fortuna, se di fortuna si può realmente parlare, White è riuscito a salvarsi dopo un interminabile operazione di sei ore che gli ha permesso solo di fermare l'emorragia.

I mesi successivi sono stati per lui anche peggio del dolore durante l'operazione: l'angoscia, la depressione e il tormento lo hanno accompagnato fedelmente notte e giorno, come echi lontani di cruente esperienze di guerra.

Spesso l'ospedale aveva dovuto affidargli degli infermieri che gli impedissero di fare qualche schiocchezza ma John White, seppur mutilato nell'anima e nel corpo, non era una schiocco e, grazie al suo benedetto orgoglio che questa volta gli aveva salvato la pellaccia, aveva dimostrato all'ospedale di che pasta era fatto un vero soldato.

Steel man, l'uomo d'acciaio, così lo chiamavano le infermiere dell'ospedale poiché, in meno di un mese, era riuscito a superare la sua crisi.

Scarrozzava qua e là per l'ospedale senza bisogno di alcun supporto.

Parte del merito un poco mi spettavo poiché ero riuscito, con non poca insistenza, a convincere il primario di chirurgia a delegarmi la custodia del soldato.

White, anche se all'inizio era stato abbastanza diffidente, si era affezionato lentamente a me sopratutto alla mia innata dote di mantenere la bocca chiusa sui suoi continui attacchi d'ansia.

Non era stato affatto facile: erano stato così tante le volte che ero dovuto rimanere sveglio per controllarlo che non avevo più tenuto più il conto da un bel pezzo.

Qualche settimana fa, avevo addirittura pensato di richiedere una proroga della mia destituzione per rimanere al suo fianco.

Una notte però, una delle tante afose di Kabul, in cui nemmeno una brezza di vento fluisce dalla finestra, John si era girarato in direzione della carrozzina che gli avevo avvicinato e, con una forte spinta sulle braccia, era riuscito a sedersi sulla carrozzina senza bisogno di un minimo supporto.

-Questa è la prova, Watson- aveva esclamato sorridendo soddisfatto di se stesso – ora puoi tornartene a casa senza avere sensi di colpa- aveva detto guardandomi dritto negli occhi, come se fosse consapevole delle mie riflessioni sul mio ritorno.

John non voleva la mia carità e io non volevo farlo sentire un essere totalmente dipendente dal mio aiuto.

Insieme uscimmo dalla stanza, l'uno zoppicando e l'altro facendo ruotare le camere ad aria delle gomme della carrozzina, e cominciammo a percorre i corridoi semi-deserti che davano sulle altre camere dei pazienti dell'ospedale.

Ogni tanto, bussando discretamente ad alcune delle porte delle camere, cacciavo la testa nella stanza e salutavo quei pochi compagni di camerata che erano svegli a quell'ora.

La maggior parte di loro, anche se infastiditi dal brusco risveglio, mi salutavano con uno spirito carico di riconoscimento e mi auguravano buon viaggio.

Non potevo più sprecare il tempo in chiacchere così, in dieci minuti, avevo già esaurito il tempo per i convenevoli e, utilizzando il vecchio ascensore che gracchiava sinistramente ogni volta che si fermava ad un piano, arrivammo alla grande porta dell'ospedale affollata da un via vai di medici e paziente che entravano e uscivano frettolosamente.

-Questo è il mio capolinea- afferma Kelso quando le ruote della carrozzina raggiungono il margine delle ripide scale che conducono alla porta: la rampa per le carrozzine era ormai in fase di ultimazione.

Mentre alzo lo sguardo sull'arido paesaggio afgano rendendomi conto di quanto poco mi mancherà quella immensa distesa di sassi e rocce acuminate, faccio segno all'autista di attendere ancora qualche minuto.

-Cosa hai deciso di fare John?- mi domanda dopo qualche secondo di silenzio interrotto soltanto dal rumore dei nostri respiri che pare mescolarsi alla polvere della terra. So bene dove vuole andare a parare e io sarò irremovibile su questa decisione.

-Vivrò la vita che non ho mai vissuto. Per adesso sò solo che prenderò in affitto un appartamento a Londra e mi cercherò lavoro... un qualsiasi lavoro che non implichi l'uso di una pistola. Potrei sfruttare le mie conoscenze in campo medico per trovarmi un lavoro più che decente- non descrivo dettagliatamente la vita che mi prospetta, voglio lasciare volontariamente dei buchi che riempirò con una decisione che prenderò al momento giusto.

-E i tuoi genitori? Non credi che gradirebbero una tua visita? E tua sorella?- mi domanda rivolgendo totalmente il suo corpo e il suo sguardo verso di me: so che sta cercando di farmi “ragionare”.

Non gli rispondo direttamente, mi limito a sbuffare e a accennare ad una mia possibile visita durante il periodo di Natale.

-Sei loro figlio no? Chissà quante volte si saranno sentiti in pena per te- esclama rincarando la dose.

-Potrei fare una visita di una settimana al massimo ma per me sarebbe già troppo. Comincerei a sentirmi in colpa perché li sto abbandonando e finirei per stabilirmi stabilmente con loro- brontolo frustato io stesso dal mio cinico discorso.

-E tu quando rientrerai da questo inferno?- domando cercando di cambiare discorso.

- Fra una settimana mia moglie e i miei genitori mi verranno a prendere... Per intanto questa è l'unica certezza che ho- afferma distogliendo lo sguardo immerso in chissà quale profonda riflessione: in cuor mio, spero soltanto che gli venga data un seconda occasione per tornare a vivere una vita normale.

Il tassista, spazientito, suona il clacson interrompendo le nostre congetture.

Carico velocemente la valigia sul taxi sgangherato e chiudo il bagagliaio con più forza del necessario.

Torno dal mio amico, fregandomi delle imprecazione sconosciute che mi sta lanciando l'autista, e lo squadro di nuovo con lo stesso sguardo eloquente che gli ho lanciato in camera.

Lui nemmeno fa in tempo a contestare che gli ho già assestato un amichevole pacca sulla spalla destra e, mentre mi fiondo direttamente sul taxi sento l'eco della sua voce lontana.

-Se non fossi bloccato su questo stramaledetto affare, ti avrei già assestato un calcio in culo come si deve!- mi sta urlando mentre si sbraccia come per volermi strangolare.

Il taxi non ha nessuna esitazione e parte in fretta lasciando dietro di sé una scia di polvere molto spessa.

Quando si dirada, dal vetro del lunotto posteriore riesco ancora a vederlo seduto sulla sedia a rotelle, appostato come una vedetta su un faro, mentre i suoi gesti poco amichevole si trasformano in saluti.

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Capitolo 2
*** Non ho scelto io di nascere quindi lasciatemi vivere come mi pare ***


Non ho scelto io di nascere quindi lasciatemi vivere come mi pare” (J.D.M.)

 

Contemporaneamente a Londra...

 

Non ho dormito questa notte.

Per la verità e da più di un mese a questa parte che non chiudo occhio.

Credo che l'ultima volta che mi è accaduto sia stato dopo un caso particolarmente intricato, quando sono crollato sul divano mentre vagavo nel mio palazzo mentale: solo un fastidioso black-out in cui la mia mente perde la sua regolarità.

Non ho idea di chi o cosa sia l'Entità che mi ha creato, se veramente esiste un qualcosa di superiore all'uomo, ma sono sicuro con non sia lo stesso Creatore degli uomini comuni: dormire e mangiare sono fastidiose incombenze fisiologiche a cui farei volentieri a meno.

Saziarsi di misteri e grattacapi sarebbe per me un attività di certo più piacevole e gratificante.

Ora sono proprio qui, alle tre del mattino, al centro del salotto, con il mento appoggiato sul legno lucido dello Stradivari: è composto per lo più da cristalli minerali submicroscopici tali da specchiare perfettamente il taglio affilato dei miei occhi sulle intricate venature del legno.

Sfregando l'archetto e muovendomi freneticamente da una corda all'altra con gesti regolari produco note talmente acute da riuscire a svegliare il cane dei vicini.

Sorrido all'oscurità quando sento il suo abbaiare lontano che si spande nella notte caotica di Londra.

Mi sto impegnando a fondo per innervosire il mio coinquilino, il celebre professore Blaire dell'università di Londra, talmente a fondo che non stacco l'archetto dalle corde da più di un ora ormai.

Questo tizio è durato fin troppo a lungo per i miei gusti: mi ha infastidito sin dal momento in cui ha varcato la soglia del 221b di Baker Street con una cartellina fra le mani e le tonnellate di scartoffie nel furgoncino per i traslochi.

Credo che sia ormai l'ottavo coinquilino che caccio nell'arco di quest'anno: cosa posso farci se sono esigente?

Non sopporto: gli ignoranti, i bigotti, i superbi, gli avidi, i tradizionalisti, i pigri, gli ecologisti e i viziati e non tollero l'insistenza, la viltà e la lussuria di certe uomini e donne nei miei confronti...

Ovviamente il professor Marcus, oltre a ricalcare pienamente lo stereotipo dell'intellettuale snob che si crede chissà chi, è un uomo viscido e codardo sopra ogni limite.

Il colpo di grazia più significativo alla mia pazienza, mi è stato inferto proprio oggi pomeriggio quando, incurante dei miei studi, quell'idiota ha gettato il contenuto del frigorifero nel cestino: le provette contenenti i miei preziosi acidi, i veleni che mi erano costati letteralmente un occhio della testa e gli esperimenti empirici di anatomia che stavo analizzando.

Tutto gettato giù per il lavabo o dentro uno stupido cestino.

Una fitta d'odio lancinante mi colpisce lo stomaco e, quasi a stento, la reprimo in quell'angolo in cui ho esiliato le altre emozioni.

La rabbia, seppure gratificante, sta corrodendo la mia ferrea logica.

É questo che mi infastidisce di più: la sua mancanza di coraggio. Avrei preferito che mi insultasse in ogni modo possibile che fingere di essere sorpreso dell'accaduto.

Ho individuato subito la corrosione del polsino della camicia provocato dal contatto con l'acido muriatico e il suo imbroglio è pari ad un insulto alla mia genialità.

Di certo, avrei potuto tollerare alla signora Hudson la sua mancanza di buon gusto per la scelta di un tedioso professore d'università ma sono certo che conoscenze così illustri possono fare parte soltanto dell' elite di mio fratello Mycroft.

Si erano conosciuti a una delle festicciole private indette alla sfavillante villa Holmes, posseduta una volta dai nostri genitori e in cui io e Mycroft siamo nati e cresciuti.

La maggior parte degli invitati a questi party possiede numerosi conti fondi fiduciari sparsi per l'intero globo, piazzati in paradisi fiscali come le isole della Micronesia o della Polinesia.

Un professore d'Università, in mezzo a tale ricchezza, poteva essere benissimo scambiato per il più comune dei camerieri, eppure Marcus Blaire non è soltanto un semplice professore: insegna alla London School of Economy e, contemporaneamente, svolge studi economici nei confronti del Governo Britannico, lavoro procuratogli da potenti raccomandazioni derivanti dalle origini semi nobiliari della sua famiglia. Nel “tempo libero” si diletta a fare il ribassista per una nota casa farmaceutica conosciuta a livello europeo.

Noioso.

Scontato.

Banale.

Ma, sopratutto, arrogante e infinitamente vanitoso.

É amico di Mycroft e questo spiega tutto.

Per qualche secondo osservo le corde del violino e mi immagino che siano tese quanto i suoi nervi: visto la quantità superiore di scartoffie che si è portato a casa questo pomeriggio e il continuo squillare del suo cellulare accompagnato da tic nervosi all'occhio destro intervallati, a loro volta, da una sudorazione eccessiva a macchia, domani avrà una giornata impegnativa divisa fra l'Università, un importante comizio in cui sarà uno degli oratori principali e la borsa di Londra.

Anche io mi sto impegnando a fondo per sperimentare delle nuove tecniche compositive che mi frullano nella testa già da un po' di tempo ed è solo per puro caso che io abbia deciso di sperimentarle proprio questa notte.

Sarcasmo: fantastico condimento di una nottata scarna e rinsecchita.

Scherzi a parte, sono ormai deciso a cacciarlo di casa sopratutto perché a causa della sua frequente abitudine di paragonare la mia dirompente genialità con la sua mediocre intelligenza.

Nelle rare volte in cui mi rivolge la parola e io fingo di ascoltarlo visto la noia che assedia la mia fortezza mentale, lui non fa altro che affermare, con una certa insistenza, quanto possiamo essere simili io e lui: entrambi razionali, metodici, riflessivi ed affezionati al proprio lavoro a tal punto da dimenticare le relazioni con gli altri.

Io, ovviamente, non posso fare altro che dissentire.

Le nostre menti sono su piani completamente diversi: il mio cervello riesce ad arrivare ad una deduzione logica in pochi secondi senza alcun tipo di preparazione mentre lui ha sgobbato tutta la vita per sviluppare quel minimo di intelletto a cui è tanto affezionato.

Io avevo volutamente abbandonato i sentimenti perché mi erano d'intralcio mentre lui, con il suo fisico flaccido e l'aria da saputello, non aveva neppure avuto l'occasione di svilupparle.

Inoltre, anche se non lo dava a vedere, era in perpetua ricerca di un qualsiasi tipo di accettazione con il prossimo.

Se l'argomento finanziario fosse per me fonte sufficiente di interesse quanto un buon crimine, probabilmente avrei risolto la grave crisi finanziaria inglese nel giro di un'ora.

Quando lo affermavo, lui non sapeva far altro che esplodere in una grassa risata e cominciava a spiegarmi con paroloni inutili come politica economica, import e export o inflazione che era statisticamente impossibile che io ci riuscissi.

Un altro grosso affronto alla mia genialità che non avevo mai digerito: inutile sarebbe stato spiegare perché il fratello con il quoziente d'intelligenza più basso fosse un noto parlamentare inglese.

Al piano di sopra, intanto, sento il rumore lieve di una porta appena sbattuta e, dopo qualche secondo, lo scalpitio di passi pesanti e irregolari frusta l'aria producendo un rumore che mi risulta quasi comico.

Il professore, oltre che dai suoi pregiudizi e dalle inutili nozioni, è appesantito dalla sua massa corporea superiore alla media accumulata da anni di vita sedentaria.

Soffre di una dolorosa forma di scogliosi che lo sottopone ad interminabili mal di schiena e di una forma di diabete che gli ha fatto perdere numerose diottrie: lo si deduce sia dagli occhiali troppo spessi che non si toglie mai nell'arco di tutto il giorno e dalla difficoltà di sopportare la luce solare troppo intensa che va ad arrossargli le cornee.

Conto i gradini che lo separano dal salotto in cui mi trovo e, quando lo sento arrivare al penultimo , smetto di suonare.

Anche lui si blocca immobile in ascolto: se chiudo gli occhi riesco quasi a fargli un dipinto mentale azzeccato: il volto flaccido si riflette nella mia mente con la stessa precisione di uno specchio.

É immobile, con un piede già posato sul pavimento sull' ultimo gradino della scala: il destro, per la precisione, visto che è destrorso ( come ho appurato dalle traccie di burro lasciate su una fetta di pane) e ascolta i rumori provenienti dal salotto tenendo la mano sinistra appoggiata alla parete visto l'assenza del corrimano.

É sua abitudine utilizzarlo visto la sua massa grassa che spinge inevitabilmente verso il centro della Terra: la gravità con lui è implacabile.

Divertito, appoggio il violino e l'archetto sul tavolo del salotto e mi avvio in cucina fingendo di prendermi un bicchiere d'acqua: mi sembra che questa possa risultare una belle tipiche azioni di un soggetto che ha intenzione di coricarsi.

La lubrificazione delle vie aeree per una corretta respirazione notturna.

Fingo con la naturalezza di un attore professionista davanti ad un pubblico zitto ed estasiato.

Per convincerlo ulteriormente, apro la bocca in un credibile sbadiglio e sfrego il polpastrelli della mano destra sugli occhi come per scacciare la stanchezza via dalle palpebre pesanti.

Lo sento esitare qualche secondo, in attesa che io faccia rumore, per sgattaiolare di nuovo in camera sua; così traffico un secondo con qualcosa nel frigo lasciando che i suoi passi irregolari accompagnino il sbattere violento dei miei pensieri.

Caccio fuori la testa dal frigorifero soltanto quando lo sento avviarsi verso la sua camera da letto cercando d attutire il più possibile il rumore dei suoi passi alleggeriti appena dalle sue sofferenti ciabatte in pelo: sento il suo respiro, simile a quello di un cane in piena estate, calmarsi per qualche secondo e me lo immagino sospirare sollevato per aver evitato la sfuriata.

Teme la mia rigorosa logica a tal punto da evitare qualsiasi contatto diretto con me: cerca persino di evitare di incrociarmi in corridoio o in salotto approfittando delle ore in cui sono alla stazione di polizia di Scotland Yard a risolvere un caso.

Lo vedo dal suo viso paonazzo e dalla quantità di foglio poco usati gettati nel cestino, quanto lo infastidisce non avere la certezza assoluta di non vedermi a casa per orari prestabiliti: vive quasi nell'ansia di vedermi apparire da un momento all'altro in qualsiasi ora del giorno.

Se la sua morale glielo permettesse, se ne andrebbe in giro per Londra ad assassinare persone a caso per tenermi il più lontano possibile dal 221b.

Avrei già il colpevole in casa e ci mettere due secondi a stanarlo.

Non sarò io ad andarmene” penso con convinzione.

Un sorriso malvagio lievemente illuminato dal riflesso lunare mescolato alla luce giallognola di un lampione si disegna sul mio volto quando imbraccio il violino per la seconda volta in quella nottata.

Faccio un respiro profondo e chiudo gli occhi mentre nella mia mente appaiono svariati spartiti degli artisti più famosi: mi concentro sul suo preferito così faccio la scelta più banale fra di essi.

Sinfonia n.9 di Beethoven.

Scaldo per un secondo il braccio tenendo l'archetto ancora stretto fra le mani poi inizio la sonata strisciando la corda dell'archetto sulle altre e producendo suoni corposi e intensi: il ritmo parte lento poi, man mano, si fa sempre più veloce fino ad arrivare a livelli quasi epilettici.

Li seguo ben attento a non sbagliare nemmeno una nota e passando da una corda all'altra con movimenti fluidi: voglio che la sua disfatta sia perfetta.

La fronte mi si imperla di sudore dopo solo qualche minuto e sento i ricci appiccicarcisi sopra come se fossero interamente coperte di colla, mentre quelli rimasti negli strati più esterni frustano l'aria con vigore.

Finalmente le sento: le molle del materasso si piegano dolorosamente sotto il suo dolce peso ma tornano nella posizione di prima con un clangore metallico sinistro in pochi secondi.

É furioso anzi totalmente imbestialito:bene, sarà più divertente vederlo combattere fra la rabbia e lo sgomento

Scende i gradini quasi correndo e si ferma di nuovo sul penultimo per prendere fiato: rimane fermo qualche secondo di più dietro la porta, anche quando il suo respiro si è regolarizzando: sta preparando una frase ad effetto che sia capace sia di farmi capire quanto è arrabbiato sia che sia capace mantenermi calmo.

Dopo qualche secondo la porta del soggiorno scricchiola e lui ci scivola dentro velocemente: - permette una parola signor. Holmes?- esclama lui conciso: la sua frase è chiara ed arriva alle mie orecchie in pochi secondi.

Fingo, per l'ennesima volta, di essere coinvolto dalla melodia e,voltandogli le spalle, ondeggio a tempo di musica per prenderlo in giro.

Questo gesto non deve essere troppo di suo gradimento perché mi gira attorno, arrivandomi a due centimetri dal naso e ripete la frase precedente lasciando che le parole stridano sui denti.

-Sto componendo- affermo senza guardarlo in faccia: questa potrebbe essere interpretato come un altro azzardo a livello morale: sto sottovalutando la sua intelligenza, ciò che lui è più affezionato. -Lei non sta componendo, questa è una sinfonia n.9 di Beethoven.- nocche delle mani sbiancate, pupille dilatate, viso paonazzo e fatica a reprimere le urla: sta avendo una specie di attacco di rabbia perché sta facendo quello che non avrebbe mai osato fare in vita sua ossia urlami addosso.

-si sbaglia- esclamo elusivo e con qualche accorgimento la trasformo totalmente fino a renderla quasi irriconoscibile.

-la smetta immediatamente di suonare e mi dia retta per una buona volta. Altrimenti sarei capace di varcare immediatamente quella soglia senza pagarle la mia parte dell'affitto di questo mese- esclama lui tutto di un fiato.

Lascio incompleta la melodia che ho appena creato e poso il violino sul tavolino mentre lui sorride estasiato: crede di avermi in pugno con la storia dell'affitto e vede chiaramente la possibilità di rimandare la sua fuga.

Quanto si sbaglia.

Visto che a Londra il crimine non dorme mai, questo mese sono riuscito a racimolare abbastanza denaro da pagare l'affitto per entrambi senza fare tagli al mio budget, quindi questa mia improvvisa sottomissione e data dal fatto che ho voglia di fargli credere che gli stia veramente dando corda.

Senza molto ritegno, mi stendo sul divano fissandolo in maniera eloquente e divertita: scruto le macchie di sudore e il tremolio della mascella con un certo piacere.

-La prego, mi illumini- esclamo alla fine del mio esame: userò sempre questo tono sarcastico per parlargli così si sentirà sempre a disagio.

-Questa situazione sta diventando insostenibile...- comincia così il suo discorso, usando parole degne di un comizio elettorale di un qualsiasi partito ellettorale e continua illustrandomi le mie continue “disattenzioni”, come le chiama lui: i resti umani nel frigorifero, il violino alle ore più improponibili della notte, gli acidi incolore nei bicchieri e la totale mancanza di cooperazione nelle faccende di casa.

Lo lascio parlare mentre osservo lo smile giallo disegnato sulla parete a fianco del caminetto sorridermi e gliene restituisco uno più sarcastico.

-mi sta ascoltando signor...- esclama strattonandomi una spalla, mi tocca, senza il mio permesso e questo segna esattamente il suo punto di non ritorno.

-No, ho solo seguito l'ultima parte in cui lei mi imponeva di cambiare atteggiamento. Non lo farò se lei vuole proprio saperlo. Non lo farò per un uomo che calpesta il mio duro lavoro gettandolo giù per un lavandino. Lei non sa quante sono state le volte in cui avrei potuto casualmente lasciar cadere un po' di acido sul suo portatile ma non l'ho mai fatto- dico lasciando che finalmente le parole sgorghino dalla mia bocca come un fiume in piena.

Rimane qualche secondo stupito dalla mia franchezza ma non si pente per ciò che ha fatto.

-a questo punto, l'unica soluzione possibile sarebbe che uno di noi due se ne vada- borbotta indispettito.

-Uno di noi due?- domando con un tono stupito poco credibile lievemente crepato da una risata.

Lui mi fissa confuso ma dopo qualche secondo capisce tutto e la sua espressione diventa contrariata.

-Sarò io a dovermene andare. Non è vero?- domanda alla fine sapendo già quale sarà la ,mia Gerarchia cronologica, signor. Blaire. Ma non si preoccupi ho già pagato l'affitto di questo mese per entrambi e le affittato una camera in un hotel di lusso in centro. Il taxi arriverà tra qualche minuto quindi le consiglio di sbrigarsi...- esclamo andandomi a prendere il libro di anatomia che avevo lasciato in sospeso.

Gli do le spalle e per me è già come se fosse sparito dall'appartamento.

Mi fissa incredulo per qualche secondo.

-Cinico stronzo...- bisbiglia quando lascia il salotto e si avvia nella sua camera per preparare la valigia.

Fa in fretta, ansioso di lasciarmi dietro alle spalle come un qualcosa di vecchio e scomodo, e quando ritorna in cucina, attraversa il salotto a passo di marcia e sbatte la porta sonoramente.

Lo lascio uscire definitivamente dal 221b di Baker Street poi corro alla finestra e osservo il taxi svoltare all'angolo dietro un palazzo.

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Capitolo 3
*** Il futuro non esiste... ***


Capitolo 3- Il futuro non esiste, è qualcosa che noi rincorriamo e quando lo raggiungiamo subito diventa presente e poi passato.

 

John Watson

 

L'aereoporto di Kabul mi sembra più affollato e caotico di quando l'ho lasciato 8 anni fa: sono state apportate alcune migliorie qua e là e le postazioni dei check-in sono state spostate di qualche metro.

Questo non fa altro che aggravare ulteriormente la mia situazione.

Trascino la gamba come farei se una parte del corpo fosse andata in cancrena: sto zoppicando vistosamente e attiro sguardi non troppo cordiali su di me.

Per qualche strano motivo a me ignoto, anche se sto indossando normalissimi abiti da civile, la gente del posto mi scruta ancora con lo sguardo torvo e accusatorio che sfoggiavano i cittadini quando passavamo tra le strette stradine strette e affollate, con divise e armi ben in vista.

Sarà per il passo ancora un po' rigido o per il taglio di capelli pratico e quasi geometrico oppure solo per il semplice fatto che, in un periodo di guerra come questo, la maggior parte degli europei è composta per lo più da militari o giornalisti: entrambe categorie molto disprezzate dagli abitanti locali oppressi ormai da anni dalla tirannia occidentale.

É come se durante il periodo di permanenza nell'esercito, la divisa militare mi si fosse gradualmente cucita sulla pelle: punto per punto, pallottola dopo pallottola, missione dopo missione...

Non sono un ingrato e per questo ringrazio Dio ogni giorno per avermi salvato questa pelle su cui è stata cucita la mia triste carriera militare, eppure so che non sarà facile strapparsela di dosso: dovrò scucire ogni punto in maniera calma e razionale per evitare che un pezzo di pelle si stacchi e venga via.

Certe volte questi punti possiedono dei nomi come Adam, Louis, Pedro o Ian e altre volte sono solo visi sconosciuti e irriconoscibili di bambini, donne e ragazzi di tutte le età, gente del posto che stava semplicemente vivendo la propria vita.

Dio, quanto odio la guerra.

Quanto mi vergogno di essere stato uno dei suoi seguaci.

Mi vergogno di essere il bersaglio di quegli sguardi accusatori ma giustificati.

Mi vergogno di aver prestato soccorso a qualcuno che l'indomani avrebbe freddato decine di persone innocenti.

Mi sento come una massa informe di vergogna, che si trascina dietro di sé colpe proprie e altrui, e che si vergognerebbe della propria ombra se questa oscurerebbe la vista a qualche povero malcapitato.

Ora però sto tornando a casa è proverò a ripartire da zero, da una città in cui nessuno ha il coraggio di guardarti in faccia e giudicarti.

A Londra il mio passato può essere addirittura cancellato e, John Watson, potrebbe essere uno avvocato come un imbianchino, o più semplicemente un medico di provincia che vuole provare la frenetica vita di città.

Posso essere chi voglio, come voglio e quanto voglio.

Nessuno potrebbe mai conoscere il mio passato a meno che non sia io a rivelarlo.

Quando la voce metallica dell'interfono dell'aeroporto si propaga in tutta la struttura, mi riscuoto allarmato dai miei pensieri.

Perderò l'aereo se continuo a fare questi pensieri troppo sentimentali.

Senza perder altro tempo, individuo velocemente il check-in dove consegno il biglietto aereo comprato qualche giorno fa su Internet e il mio unico bagaglio contenente quel poco che rimane della mia vita: abiti, beni per l'igiene personale e libri ma anche fotografie, lettere e persino un regalo da portare a mia madre il giorno di Natale: le avrebbe fatto sicuramente molto piacere anche se mi sentivo più come un alunno di ritorno da una gita scolastica che un soldato che ritorna in patria dopo una terribile esperienza pre-morte.

Glielo devo dopo quello che ha passato da quando ha saputo della mia ferita...

Ci impiegano ben 15 minuti a farmi spogliare qualsiasi oggetto metallico e quando, con un gesto rapido, mi tolgo che piastrine di riconoscimento dell'esercito britannico, il controllo mi sembra farsi molto più leggero.

Terminato il controllo, non mi lascio nemmeno il tempo di allacciare completamente la cintura e parto di corsa accompagnato dal clangore metallico della stampella che colpisce il terreno producendo un rumore simile ad uno schiaffo su una guancia.

Tento di ignorare il dolore lancinante alla gamba, anche se la vista mi si annebbia leggermente per le lacrime di dolore che mi si annidano sotto le palpebre e fra le pieghe degli occhi: fa quasi male quanto la volta in cui mi hanno sparato.

Incasso quei colpi e vado avanti nella mia corsa disperata.

Mancano solo 15 minuti e l'aereo per Londra sarebbe partito: con me o senza di me.

Ho appena schivato una grossa signora dalla valigia altrettanto voluminosa quando la tasca dei pantaloni vibra a intervalli regolari.

Sono talmente sorpreso di questo fatto che quasi involontariamente mi blocco sul posto e qualcuno o qualcosa di poco definito sbatte contro la mia schiena.

L'impatto è talmente forte che il cellulare, forse per uno scherzo del destino, mi scivola fuori dalla tasca e, ruotando su se stesso come una trottola, struscia lentamente sul pavimento granitico, sbattendo contro piedi e ruote di ogni genere come la pallina di un enorme flipper umano. Fortunatamente la sua corsa si ferma non molto lontano dal mio viso, anch'esso finito a terra con il resto del corpo e con la voluminosa stampella.

Il mio tempo di reazione è rapido e dopo nemmeno qualche secondo, riapro gli occhi e mi accorgo di aver investito non qualcos'altro ma qualcuno: una bella donna, dalla lucida e brillante come il pavimento su cui è caduta.

Mi rialzo in fretta e senza fatica e imbarazzato, mi scuso apertamente e le offro la mano per aiutarla.

Forse non me ne sto rendendo conto e le concedo qualche sorriso in più del dovuto.

Diamine, sono un uomo anche io e so riconoscere una bella donna quando la vedo.

Lei la scansa velocemente e imprecando, mi squadra in malo modo, come se fossi uno squilibrato che le sta proponendo delle avances indesiderate: eppure io, per intanto, mi sto limitando a scusarmi e non a farle una proposta d'eterno amore.

Qualcuno alle mie spalle mi da dell'idiota, e quando lei si fa aiutare da un suo giovane amico a rialzarsi, vedo in lui lo stesso sguardo che un giovane rivolge ad un anziano per fargli capire che quello che sta facendo è inappropriato per la sua età.

Maledizione, ho solo trentanni non cinquanta!

Questa volta lei accetta con un sorriso civettuolo e compiaciuto e, senza degnarmi di uno sguardo, si allontana trascinando dietro di sé una minuscola valigia.

Noto solo ora, quando oramai sono lontani, la divisa accuratamente stirata e i pass ben in vista che mostrano alla donnina a guardia dell'imbarco.

Altre hostess mi sfilano accanto come un interminabile processione e ben presto capisco che sono quelli che lavoreranno sull'areo che dovrò prendere.

Fantastico, mi sono già fatto la reputazione da maniaco.

Il vibrare incessante del telefonino mi fa tornare sulla terra e quando lo prendo fra le mani noto con piacere che dopo ben 8 anni di guerra è riuscito a superare anche questa botta.

Sullo schermo minuscolo appare, illuminata ad intervalli irregolari di luce, la scritta Home.

-Casa?- scruto lo schermo perplesso per qualche secondo in più del necessario, mentre la gente mi scivola accanto come la corrente di un fiume in piena.

Rivolgo uno sguardo disperato al grosso orologio analogico dell'aeroporto, quando schiaccio per ben due volte il pulsante verde prima che io possa rispondere alla chiamata.

Non mi faccio domande, è quasi scontato chi ci possa essere dall'altro capo del telefono.

-Pronto- esclamo portandomi il telefono all'orecchio e voltandomi indispettito verso i campi brulli che si alternano alle piste d'atterraggio mi impongo di far terminare al più presto la telefonata. Dall'altro capo, a Sheffield, sento solo un respiro leggero e dei bisbiglii confusi ma familiari.

-Pronto? John, sei tu?- domanda improvvisamente la voce melodica di mia madre: è da Ferragosto che non la sento e mi è mancata quasi quanto l'aria nei polmoni.

É stupido pensarlo ma la sua voce mi ricorda la patria: è chiara e tersa come il cielo inglese nelle rare giornate estive in cui anche le nuvole sembrano essersi prese anch'esse una vacanza, è sonante come il rintocco del Big Ben, scrosciante come il Tamigi e melodica o coinvolgente come una buona canzone dei Beatles.

Ok, forse sto diventando degenerando perché paragonare la voce di mia madre a quelle di John Lennon è una cosa totalmente ridicola.

-Mamma?- domando riprendendo il filo logico dei miei discorsi.

-John, tesoro, come stai? Non hai idea di quanto mi sia sentita in ansia in questi giorni. Ho quasi fatto impazzire l'ambasciata inglese per avere qualche tua notizia. Harry, Mike! Venite! ha risposto – il suo discorso è caotico e le urla per richiamare il marito e la figlia vicino a sé non aiutano la conversazione.

Sento che il borbottio di sottofondo, che prima poteva essere benissimo scambiato per un interferenza telefonica, si tramuta nella voce profonda di mio padre.

Tipico di papà: suggerire alla mamma le frasi da riferirgli.

Non adora stare al telefono.

È quasi allergico alla tecnologia, anche se non è poi vecchio come lo si immagini.

É buffo ma preferisce starsene in disparte e ascoltare a pezzi un discorso ed interpretarlo a modo suo che avere una corretta conversazione.

-Sto bene, mamma. Gli ospedali qui, sono quasi più efficienti di quelli inglesi.- le dico tentando di tranquillizzarla ma la mia interpretazione risulta un po' zoppicante.

Forse il mio stato di salute si sta propagando anche a livello celebrare.

-Oh John! Tutti queste settimane senza uno straccio di telefonata. Usavi sempre quelle diavolo di e-mail che solo Harry sa utilizzare, quindi noi due poveri disgraziati dovevamo aspettare fino a domenica prima di avere tue notizie.- mi rimprovera lei, come faceva durante il mio periodo adolescenziale in cui i miei genitori mi opprimevano di attenzioni.

-Harry mi diceva che eri diventata una maga del computer e che sapevi navigare il rete anche da sola per trovare le tue ricette di cucina- esclamo sorridendo fra me e me e tirando in ballo la mania di mia sorella di gonfiare i fatti.

-Harry dice solo scempiaggini in questo periodo. Quell'aggeggio infernale mi farà venire un esaurimento nervoso.- sbuffa lei con quel tono che mi risulta davvero troppo da anziana.

Altri brontolii coprono quasi l'intera frase e parole sconnesse mi arrivano alle orecchie senza che abbiano vero e proprio senso.

Sfortunatamente per mia madre, ad Harry sono state trasmessi non solo l'impulsività e l'irrazionalità tipica degli Watson ma anche la buffa abitudine di utilizzare gli altri come intermediari nelle conversazioni telefoniche senza parlare direttamente con l'altra parte.

-Vi ricordo che non siamo a teatro e voi non siete due suggeritori. Suggerisco caldamente ad entrambi di attendere il proprio turno di parola se non volete rimanere senza pranzo.- esclama minacciosa rivolta agli altri due brontoloni.

Se chiudo gli occhi riesco persino a vederli: papà è seduto sulla poltrona, con il Times in mano e le orecchie ben tese mentre Harry ha avvicinato la sedia alla madre e se ne stava con le gambe aperte e i gomiti appoggiati sulla spalliera.

I brontolii non si quietano del tutto anche questa volta sento svettare nettamente la voce di mio padre, come se si fosse avvicinato alla cornetta per sentire meglio.

-Chiedigli se gli fa male la gamba- esclama rivolgendosi a mia madre con tono sommesso.

Anche lui è preoccupato anche non lo da a vedere: la sua voce mi sembra persino più vibrante di quella della mamma.

Papà ha sempre fatto più fatica ad incassare i duri colpi rispetto alla mamma.

Come molte volte accade, il figlio maschio assomiglia sempre più alla madre mentre la femmina al padre: per questo motivo Harry e papà, anche se si mostrano forti al mondo intero, sono realmente persone molto fragili.

Mamma ed io, invece, anche se siamo più premurosi e razionali, affrontiamo bene le situazioni difficili: pazienza e una buona dose di coraggio sono nostre virtù.

-Come va la gamba? Zoppichi ancora?- mi domanda lei troppo abituata a quella stramba mania di mio padre per ribattere ancora.

-I medici mi hanno detto che è in fase di miglioramento. Prima di partire, ho fatto riabilitazione per due settimane di seguito e questo mi ha permesso di ristabilire l'equilibrio fra le due gambe. Ora cammino anche senza stampelle ma per non stancarla eccessivamente ho comprato una stampella medica.- tralascio volutamente termini tecnici e semplifico eccessivamente la mia guarigione: credo che non sappiano delle notti insonni, dei dolori lancinanti e dell'umiliazione che provo nello zoppicare come un vecchio di appena 35 anni.

Non gli sto nascondendo le cose: sapranno giudicare benissimo da soli quando mi vedranno.

Quando mi vedranno?

Bella domanda. Credo a Natale o forse prima... se riesco ha trovare un posto di lavoro decente potrei persino tornare per le vacanze di Halloween.

Sono un figlio ingrato?

Una voce poderosa rompe il brusio indistinto nella mia testa.

I passeggeri del volo per Londra sono pregati di recarsi immediatamente all'imbarco 9.

Io ci sono proprio davanti all'imbarco nove, due passi e potrei consegnare il biglietto alla donnina che mi squadra con aria annoiata proprio davanti all'imbarco.

Ma una frase mi blocca.

-A che ora hai il volo, tesoro?- domanda mia madre dall'altro capo del telefono con la stessa ingenuità che la caratterizza.

Io rimango immobile e fisso per qualche secondo la porta in acciaio che chiude l'imbarco, affollato dagli ultimi ritardatari che fanno la fila davanti al gate.

Tra un mese li rivedrò, perché devo fare tutte queste storie...

Il futuro è li davanti a me ma io rimango impantanato ancora nel passato.

Improvvisamente sento il bisogno di parlare con qualcuno che abbia più esperienze di me sugli addii e sulle partenze.

-Posso parlare con Harry?- domando ricordandomi della sua fuga di casa all'età di 18 anni: non era la stessa sera in cui aveva dichiarato di essere lesbica ma una delle tante in cui papà la rimproverava per l'odore di gin che le impregnava tutti i vestiti.

Era arrivata a casa alle cinque di mattina, Dio solo sa come, visto che non si reggeva nemmeno su due piedi per tutto l'alcol che aveva in corpo.

Mi ricordo che ci aveva messo meno di cinque minuti per prepararsi la valigia e scappare di casa nel cuore della notte.

Dopo la sfuriata di papà, aveva finto di tornarsene a letto e, passata una buona mezz'ora, aveva preso la grossa valigia che teneva sotto il suo letto e l'aveva riempita di tutti suoi averi poi era scappata via dalla porta sul retro lasciando un bigliettino sul tavolo della cucina.

Ero stato io ad inseguirla, munito solo di tanta pazienza e di un pigiama leggero, e a riportarla a casa prima che si rifugiasse in qualche bar malfamato supplicandola di rimanere ancora un po' con loro.

-Se vuoi fuggire almeno non farlo da codarda! Affrontali e digli quello che hai intenzione di fare e poi fuggi, ma fuggi senza guardarti indietro!- mi ricordo di avergli detto mentre la pioggia scrosciante riempiva le mie ciabatte in plastica come dei piccoli secchielli.

-Ehi Johnny! Come sta il mio fratellino preferito?- urla euforica alla cornetta come faceva quando aveva vent'anni ma ormai, sia lei che io, siamo troppo grandi per giocare a fare gli adolescenti.

-Non c'è male... Dovrei parlarti in privato, è urgente- esclamo rimarcando la parola privato e la mia stessa voce mi risulta patetica.

Non mi risponde nemmeno e senza parlare, la sento camminare allontanandosi dalle voci lontane dei miei, forse ha fatto un cenno ai miei che risulta ad entrambi più adatto di mille parole.

Ha raggiunto le scale che conducono al piano di sopra e ha chiuso saldamente la porta dietro di se quando ha inizia a parlare.

-Siamo soli. Ora, spiegami perché non vuoi tornare a casa- esclama perentoria mentre me la immagino sedersi sul penultimo gradino della scala, quello che scricchiola sinistramente come se si stesse per rompere da un momento all'altro.

-Tu, come...?- domando sorpreso sbattendo le palpebre un paio di volte: la mia voce deve risultarle davvero idiota perché la sua risata fragorosa quasi mi spacca il timpano attaccato alla cornetta.

-Sei la persona più trasparente che conosca. Se nelle lettere non specifichi a che ora sarà il tuo volo ed al telefono eviti di rispondere alle domande di mamma è evidente che tu sia indeciso. Se hai voluto parlarmi perché sia io a prendere una decisione al posto tuo, ti stai sbagliando di grosso. John, non sono nemmeno capace di prendere decisioni importanti sulla mia di vita, figurarsi su quella del mio adorato fratellino...- esclama lei con la tutta franchezza di cui è munita: secondo carattere ereditato dalla lunghissima generazione degli Watson a cui io, questa volta, so di farne parte.

-No, ovviamente.- dico piegando il capo in direzione delle miei scarpe lucide come farebbe un fratello appena rimproverato dalla sorella maggiore: una pressante sensazione di incertezza mi preme alla base dello stomaco e, quando distrattamente le domando come procedano le sue sedute degli alcolisti anonimi capisco che forse mi sto comportando da egoista.

Perché la Mia vita, il Mio futuro e la Mia indipendenza dovrebbero essere più importanti della salute di papà dopo il suo infarto, della dipendenza di Harry o del cuore fragile e stanco di mamma che, dopo tutto quello che le è accaduto, avrebbe bisogno di un po' di riposo?

Mentre Harry mi racconta la sua difficile battaglia con l'alcolismo, mi avvicino silenziosamente alla donnina dell'imbarco e con un gesto secco e immediato appallottolo il biglietto che ho in tasca e lo getto del cestino.

Le sto dando le spalle, quando la porta d'acciaio si chiude con uno schiocco sonoro.

Quello schiocco sarà uno tra fra i tanti suoni che non dimenticherò mai nella vita insieme ad un colpo di pistola, ai brontolii telefonici della mia famiglia ed una melodia di un violino.

 

Angolo autori:

visto che questo capitolo l'ho pubblicato il giorno della festa della mamma, mi è sembrato giusto aggiungere un capitolo dedicato alla famiglia di John che però riflette sulla decisione che renderà la mia fanfic diversa dalla storia della bbc.

Ovviamente, tutto ciò che ho scritto è basato su una storia che non possiede e che ciò che scrivo non è fatto a scopo di lucro.

Volevo precisare che, l'ultima frase è quasi un anticipazione di ciò che accadrà in futuro e non una parte del discorso di John nel presente. Inoltre le frasi utilizzate dei titoli sono tutti aforismi dell'inimitabile Jim Morrison che secondo me, contengono la risposta adatta ad ogni interrogativo.

Spero che qualcuno abbia anche capito che la storia di John e Sherlock viaggia su “binari” paralleli: nei capitoli precedenti i fili conduttori erano il sonno e una partenza. Nei prossimi saranno una telefonata, il rapporto con la propria famiglia e una donna.

Recensite e dite la vostra e ringrazio tutti quelli che mi seguono pazientemente e che lasciano bellissime recensioni

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Capitolo 4
*** Non pentirti di qualcosa che hai fatto, se quando l'hai fatta eri felice ***


Salve a tutti ecco questo mio nuovo capitolo che risulta un po' più lungo di quello che mi aspettavo...

Spero che continuerete a leggere e ringrazio in particolar modo Celestine per i suoi utili consigli e spero vivamente di non deluderla con questo capitolo... Alla prossima 

ps scusate per il ritardo ma maggio è un mese infernale per tutti gli studenti!

 

Capitolo 4- Non pentirti di qualcosa che hai fatto, se quando l'hai fatta eri felice

 

Londra è così tranquilla questa mattina che nemmeno il vento osa scuotere i rami degli alberi piantati a pochi metri l'uno dall'altro per dare ai cittadini la falsa speranza che in quella stessa aria ci fosse una quantità di ossigeno più che sufficiente per i loro polmoni.

Il vapore acqueo è salito addirittura di qualche grammo in più per centimetro cubo, segno che l'acquazzone della notte precedente ha lasciato traccie evidenti del suo passaggio.

Se fuori il clima mite potrebbe risultare quasi piacevole alle masse di londinesi che si avventurano nella City con un ombrello ancora stretto sotto braccio ormai consapevoli delle tipiche bizze autunnali, qui dentro il caldo non è altro che asfissiante.

L'ambiente chiuso e poco areato sembra amplificare l'umidità prodotta dai respiri pesanti degli spettatori ordinatamente disposti intorno al piccolo ring bianco, andando a creare una pesante cappa che pesa sopra le nostre teste.

L'aria è pervasa da un forte odore salmastro: percepisco una strana miscela di nicotina e cloruro di potassio aleggiare leggera sotto le mie narici.

In un locale chiuso come questo non è permesso fumare ma il tizio al mio fianco è talmente impregnato dalla sostanza che un olezzo amaro si espande intorno a lui come un aurea pungente: è un fumatore accanito, uno da tre o quattro pacchetti al giorno, a giudicare dalla voce cavernosa, dalla frequenza dei colpi d tosse e dall'ingiallimento delle falangi dell'indice e del medio della mano destra.

Respiro a fondo estasiato, come se tentassi di assorbire le particelle di nicotina nell'aria circostante; quell'aroma inconfondibile mi graffia la gola come farebbe il profumo di birra ad un buon intenditore.

Solo dopo un occhiata più prolungata mi accorgo delle piccole tracce di cenere grigio-nera impigliata fra i baffi marroni e capisco che non si tratta di semplici sigarette ma bensì di ottimi sigari: dei Romeo and Juliet per la precisione.

Distolgo lo sguardo da lui solo dopo che mi ha lanciato un muto segnale di impazienza stringendo gli occhi in due fessure e avvitando le braccia intorno al petto e così mi concentro sulle figure che accerchiano il ring.

Un uomo con un enorme papillon rosso fuoco, il presentatore, e un vecchio canuto sulla cinquantina, l'arbitro, confabulano fra loro al centro del rettangolo bianco mentre tizi dall'aria losca e guardinga si aggirano nella parte esterna nel ring in attesa dell'arrivo dei contendenti: sono per lo più gli agenti degli avversari, qualche medico e due cronisti di bassa lega.

La figura più imponente è certamente quella di McMurdo, l' enorme ex-pugile dal viso taurino che si muove indisturbato fra lo spazio tra il ring e la folla scrutando attento ogni minimo particolare come se dalla sua analisi ci si aspettasse un dettagliato prognostico di vittoria.

Anche se ora non pratica più la boxe visto l'età ormai avanzata non sono rare le volte in cui viene invitato a presiedere agli incontri in qualità di esperto: in realtà, confesso che è tutt'altro che stupido quell'ammasso di muscoli ambulante.

Anche se la sua mente non sprizza scintille, è stato per lungo tempo uno dei pochi decenti boxer inglesi di questi ultimi tempi, capace di adattare pugni potenti ad una serrata tecnica difensiva.

Ottimo In-fighter e all'occasione anche eccellente puncher: con la sua scarica ininterrotta di pugni a distanza ravvicinata era riuscito a mandare al tappeto tantissimi suoi colleghi anche più mastodontici di lui.

L'unico suo punto debole? É un debole incassatore come lo dimostrano il suo naso quasi intatto rifatto dopo il suo ritiro dalle scene.

Durante gli incontri, quando McMurdo perdeva la possibilità di sfondare la difesa avversaria grazie alla tecnica elaborata prima dell'incontro, gettava con facilità la spugna prima del K.O. senza valutare le infinite possibilità di riscatto.

Narcisista a tal punto da preferire una sconfitta ad uno zigomo spaccato.

Lui sembra aver captato i miei ragionamenti perché, in quel preciso momento, alza il viso in mia direzione e mi fa un breve cenno d'intesa col capo.

Piega il capo con una certa inclinazione in avanti che fa intendere ad un buon osservatore quanta sia alta la stima che prova nei miei confronti.

Mi lascia volentieri la facoltà di non rispondergli e io la colgo al volo limitandomi a lanciargli uno sguardo eloquente.

Ha avuto bisogno spesse volte di una mia “consulenza” durante gli sfolgoranti anni della sua carriera, soprattutto quando si doveva battere contro avversari pericolosi come Tony Moore o Oscar Galaxy ed ora è giunto il momento di restituirmi il favore segnalandomi gli incontri più quotati delle varie categorie.

Sembra ancora sorpreso dalla mia presenza perché non smette di lanciarmi sguardi interrogativi, chiedendosi perché un intenditore come il signor. Holmes si interessi ad un incontro dall'esito tanto banale.

Il match tra Eric Small, pugile da poco approdato dalla categoria dei pesi leggeri che arriva per un soffio a pesare le libbre sufficienti per questa categoria, e il professionista Bartholomew Sholto non gli è sembrato sufficientemente interessante per mandarmi a chiamare.

La verità è che ho bisogno di racimolare un po' di soldi in un modo semplice ed immediato senza che Mycroft mi possa controllare.

L'arroganza con cui cerca di assegnarmi casi di importanza internazionale in cui spesse volte sono immischiati gli organi di potere delle altre nazioni mi fa desistere dall'accettarli mentre Lestrade sembra che in questo periodo abbia rispolverato la sua passione per il suo lavoro perché se la cava anche con quei pochi casi di rapina a mano armata che impazzano nella città in quest'ultimo periodo.

Non è da escludere che sia mio fratello stesso a togliere a Scotland Yard i casi più interessanti per assegnarli ad un super gruppo di esperti criminologi solo per il semplice piacere di mettermi i bastoni fra le ruote.

Spesse volte mi chiedo se mia madre lo abbia messo al mondo solo per infastidirmi ma, se è veramente così, mamma ne dovrebbe essere veramente fiera.

Se i normodotati lo chiamerebbero “amore fraterno” io dissento e lo definisco più una sorta vampirismo: succhiare ogni mia dote superiore per il bene superiore della nazione è una delle sue prerogative.

Anche questo mese devo pagare l'affitto per l'intero appartamento, e seppure io ami il ruolo di “consulente detective”, le gratificazioni morali non posso pagarmi le bollette o la spesa per il cibo.

Maledetti bisogni fisiologici!

L'unica alternativa per guadagnare soldi facili sono le scommesse: se gioco bene le mie carte e piazzo una puntata vincente posso essere soddisfatto per tutto questo mese e forse anche quello successivo.

Al microfono, il presentatore avverte che mancano pochi minuti all'inizio dell'incontro così mi concedo la possibilità di dare un occhiata al pubblico: la metà delle seggiole intorno al ring sono vuote; sono le tre di un venerdì pomeriggio e l'incontro vale soltanto per le qualificazioni del torno dei pesi medi.

Oltre a qualche occasionale appassionato di pugilato, ci sono soltanto i due agenti dei rispettivi concorrenti seduti in prima fila entrambi rigorosamente armati di occhiali scuri e auricolare all'orecchio seduti non molto distanti dagli angoli dei rispettivi atleti, ci sono anche un avversario venuto a studiare le tecniche del eventuale prossimo sfidante e qualche scommettitore occasionale, categoria a cui io e l'uomo a mio fianco facciamo parte.

Siamo precisamente in undici, un numero relativamente basso se si conta che solitamente, durante gli incontri più quotati della stagione, il numero si aggira intorno ai 30 e 40.

La quota ottenuta dalla vittoria di Sholto sarebbe troppo contenuta per le mie esigenze così mi chiedo se non sarei capace di dirottare l'esito dell'incontro a mio piacimento: conosco abbastanza Sholto da sapere che la sua tecnica di lotta è davvero infima, è uno tra i tanti volgarissimi “slugger” che crede che il pugilato sia solo uno sport fisico.

Ovviamente neanche l'altro pivellino, tale Eric Small, ha accumulato sufficiente esperienza per permettersi di accorgersi delle carenze dell'altro e di sfruttarle a proprio piacimento.

Gli unici vantaggi oltre ad una mente più lucida di Sholto sono i riflessi pronti e le schivate rapide con cui è riuscito a distinguersi nella categoria dei pesi leggeri.

Prima di scommettere, decido di appurare di persona le qualità di entrambi come faccio sempre: mi bastano un bastone da passeggio, una parrucca grigia, un paio di occhiali da vista, una busta della spesa colma di cibarie e un bambinetto profumatamente pagato per fingere di travolgere un povero vecchio davanti al marciapiedi della strada a fianco dell'arena.

Capisco che il giovane, oltre ad avere inutile buon cuore inadatto a questo tipo di carriera, dimostra di avere i tanto decantati riflessi rapidi per cui è conosciuto, tali da evitare la caduta a terra della busta della spesa.

Il professionista, invece, mi sbatte a terra lui stesso e mi ringhia addosso come farebbe una bestia dall'aspetto rozzo e selvatico.

Riconosco immediatamente gli effetti collaterali degli steroidi anabolizzanti androgeni come la perdita dell'elasticità muscolare che lo fa cadere a terra dopo una debole spinta di un corpo leggero come quello di un vecchio e l'indebolimento della flessibilità dei tendini della mano che sfrega in maniera quasi ossessiva: diagnosi= ancora tre anni di incontri e poi i dolori muscolari prenderanno il sopravvento riducendolo ad un ammasso informe dolorante e psicologicamente disturbato.

Sorrido compiaciuto con me stesso nel momento stesso in cui getto tutto il mio travestimento in un cassonetto dell'immondizia convinto ormai della strategia esatta con cui il ragazzo potrebbe battere Sholto.

Rientro nell'arena e sussurro la mia puntata allo scozzese dall'aria annoiata che si trova seduto in uno dei posti a fianco della porta centrale: mi osserva con aria sorpresa e quasi disperata, ben consapevole che lo strambo tizio che si ritrova davanti non ha mai perso una scommessa da quando lo conosce.

Mi sussurra, quasi come se fosse un consiglio, che l'incontro è dato 10 a 1 per Barholomew Sholto, il professionista dallo sguardo truce e dalla capacità intellettuale pari a quella di una scimmia poco evoluta.

Non lo ascolto neppure, andandomi invece a sedere al mio solito posto in ultima fila vicino alla porta d'entrata mentre lui se ne rimane solo con i suoi pensieri e le sue congetture: sono consapevole che in pochi minuti circolerà la voce che Mr.Holmes ha puntato contro Sholto e tutti gli altri scommettitori cominceranno a pentirsi della loro scelta.

Nessuna sa quale sia il criterio con cui sceglie i vincitori o i perdenti ma l'unica cosa certa è che se Sherlock Holmes fa i suoi prognostici, l'esito dell'incontro è ormai deciso.

Un chiaroveggente per gli 10 altri scommettitori ma un abile stratega per McMurdo che, appena gli giunge voce della puntata, mi chiede se voglio riferire qualcosa al giovane Small.

Non esito un secondo e utilizzando un linguaggio tecnico e preciso, faccio capire a McMurdo che Small deve giocare sopratutto sulle staticità dell'atleta sulle gambe e che deve riuscire a parare i suoi ganci destri per oltrepassare la sua difesa poco stabile.

Una mossa rischiosa ma efficace che, se applicata con criterio, gli permetterà di vincere l'incontro.

McMurdo non esita un secondo sui metodi poco ortodossi di Holmes e se ne va in direzione del camerino di Small come farebbe un umile servo con il suo padrone.

Per la decima volta in quella giornata, il telefono squilla freneticamente nella tasca del cappotto abbandonato sulla sedia a mio fianco: rimango un attimo in silenzio ascoltando le vibrazioni che, ad intervalli regolari, fanno fremere tutto il cappotto come se ci fosse un enorme scarafaggio all'interno della tasca.

Primo squillo, secondo squillo, terzo squillo e così via dicendo fino all'ultimo prima della segreteria telefonica: Mycroft deve essersi parecchio innervosito perché, invece di mandare qualche agente segreto in mia ricerca, preferisce telefonarmi conoscendo bene la mia avversione verso le sue chiamate.

Quando è nervoso perde completamente la testa e lascia che quest'inutile stato d'animo prenda il sopravvento sul suo cervello: sono rare le volte in cui succede poiché, con il lavoro che si ritrova, la calma e la ragione sono elementi essenziali con cui deve convivere quotidianamente se non vuole offendere qualche pezzo grosso straniero.

Osservare gli effetti devastanti di questo sentimento sono stati per me fonte di gran divertimento fino dall'infanzia: bastava osservare la sua stanza per accorgersi della sua mania di ordine e controllo su tutto.

Ogni oggetto aveva un posto prestabilito congeniale alle sue funzioni e ai suoi usi: i libri disposti in ordine alfabetico, le camice accuratamente ripiegate esclusivamente da lui stesso nei cassetti dell'armadio a seconda del giorno della settimana in cui le avrebbe indossate, i costosi modellini d'auto d'epoca regalatigli da papà ad ogni compleanno posti maniacalmente a predefinite distanze l'uno dall'altro, distanze che la nostra governante doveva tenere conto se non voleva essere presa di mira dalle ossessive antipatie del ragazzo.

Io non badavo alla mia stanza, avevo troppi progetti per la testa per accorgermi della disposizione delle mutande nel mio cassetto: l'unico oggetto per cui manifestavo la stessa ossessione di mio fratello era il set chimico per gli esperimenti: dovevo poterci bere dalla beute e dai becker se il governante di turno voleva tenersi stretto il loro posto di lavoro.

Non era facile lavorare a stretto contatto con dei maniaci dell'ordine come i due giovani Holmes e, se si contava anche la mania di mamma e papà di avere tutto perfettamente pulito e in ordine in caso di arrivo di qualche illustre ospite, erano assai poche le persone che affrontavano l'ardua impresa di tenere sotto controllo la grandiosa villa degli Holmes, anche se i salari a fine mese erano a dir poco astronomici.

Mycroft sembra essersi rassegnato all'impresa di far rispondere suo fratello al telefono perché due trilli secchi arrivano immediatamente alle mie orecchie facendosi largo fra il brusio sottomesso della folla: non deve mancare molto all'entrata dei due contendenti.

Sorrido soddisfatto della vittoria a questa interminabile battaglia che dura dalle 8 di questa mattina e, con un gesto rapido, agguanto il cellulare e leggo il suo prevedile messaggio, rispondendogli in modo più rapido di quanto lui potrà mai fare:

-Dove sei? MH -

 -Non lo sai? Stai perdendo colpi SH-

-Smettila di fare il bambino e rispondi alle mie telefonate, è urgente MH-

-Non hai ancora risposto alla mia domanda SH -

-Credevo di saperlo ma mi sono sbagliato, questa risposta risposta è di tuo gradimento? MH-

-Abbastanza...i tuoi segugi stanno perdendo il loro fiuto eppure sai bene che la mia vita non si limita solo a Scotland Yard e il Bart's SH-

Ad ogni messaggio l'impazienza del mio "caro" fratello si fa sempre più marcata influenzata dalla difficoltà nell'utilizzare i messaggi: il telefono per lui può avere come funzione esclusiva quella di effettuare e ricevere chiamate di lavoro eppure si ostina a comprarseli sempre più ipertecnologici solo per mettersi in mostra con i suoi amichetti del Governo.

Una lieve pressione alla spalla destra mi fa abbandonare a mala voglia lo sguardo dallo schermo dell' I-phone che almeno io sfrutto completamente in ogni sua funzione e, alzando il capo, invito McMurdo a riferirmi l'esito della sua missione.

-All'inizio non l'ha presa molto bene perché credeva che fossi stato pagato poi, quando gli ho spiegato che avevo amici influenti che volevano la sua vittoria, si è calmato ed ha ascoltato i miei consigli. Subito dopo mi ha sbattuto fuori- mi spiega con voce profonda e con un attenzione particolare nel tralasciare i dettagli meno influenti.

-Non hai fatto il mio nome, vero? Non voglio mocciosi alle calcagna- esclamo infastidito del fatto che fossi stato definito un amico di McMurdo.

-No, signore. Ho solo detto che eravate molto interessato alla vittoria- esclama deglutendo in modo impacciato come se fosse appena stato accusato di smerciare sostanze dopanti.

-Bene, ora devo andare. Mi raccomando raccogli tutte le vincite ed inviale al 221/B Baker Street, Marylebone- esclamo indossando il mio cappotto con un gesto fluido.

-Non rimanete a vedere il match?- esclama stupito della sua stessa voce, come se prima avesse valutato a lungo se quella domanda avesse potuto  scatenare le ire di quello strambo ma geniale uomo.

-So già come andrà a finire, tanto vale andarsene. Arrivederci McMurdo!- esclamo con tono asciutto mentre mi avvio all'uscita dell'arena, lasciandomi alle spalle brusii confusi e congetture di ogni genere.

Non esco del tutto dalla sala fermandomi proprio sotto la porta principale e quando, per l'ennesima volta, sullo schermo del cellulare appare la chiamata di Mycorft, schiaccio sull'icona della risposta nel momento esatto in cui il suono della campanella dell'inizio dell'incontro si propaga a dismisura nell'aria pesante di quella sala.

Infine chiudo la telefonata e attendo una sua risposta.

Se è abbastanza intelligente da capire qual'è l'unica arena che utilizza la campanella manuale per l'inizio dell'incontro installata negli anni sessanta durante il suo periodo d'oro in cui in quel posto arrivavano scommettitori da tutta Europa, lo degnerò di una risposta.

Pochi secondi dopo arriva un suo messaggio e, quando ne leggo il contenuto, non posso fare a meno di complimentarmi mentalmente per la sua sagacia.

Sono infastidito dal fatto di dover parlare direttamente con lui però una promessa e pur sempre una promessa e se stesse per assegnarmi uno dei suoi casi di importanza nazionale non mi tirerei certo indietro: sono stufo di tenere sempre la mia genialità a bada.

-Sei riuscito a trovarmi lo stesso? Dovresti rimproverare un po' più spesso i tuoi uomini; far perdere le ie tracce travestendomi da vecchio è stato più facile del previsto- lo interrompo io prima che lui mi chieda come abbia fatto a sfuggire al pedinamento dei suoi agenti.

-Presuntuoso come al solito, fratellino- esclama pungente senza che un velo di sottile ironica ricopra la sua frase.

-Vuoi dire geniale come al solito- lo correggo andandomene avanti e indietro per il corridoio deserto e osservando con accuratezza i volti dei pugili appesi alle pareti: russo ubriacone, tedesco con un insana passione per la violenza, irlandese ingenuo massacrato a suon di ganci, italiano perverso che distruggeva i pugili durante gli incontri e ne rimorchiava altrettanti nel tempo libero.

-Cosa hai per le mani questa volta?- domando incuriosito sperando che tralasci i soliti convenevoli inutili che tanto disprezzo.

-Mi hai frainteso Sherlock, questa non è una telefonata di lavoro, ma di piacere – afferma lui con il suo solito tono freddo e distaccato, screziato da qualche punta di sarcasmo.

-Credi che io sia così stupido da credere che tu mi abbia telefonato solo per un saluto?- domando chiedendomi invece tra me e me cosa ci sia sotto tutta la premura che mi riserva in quest'ultimo periodo.

-Sherlock già all'età di otto anni sapevi a memoria tutti gli elementi della tavola periodica, a quattordici hai battuto l'intero club degli scacchi professore compreso in meno di cinque minuti e a diciassette sei riuscito ad incriminare quei fanatici che dicevano di aver messo una bomba nell'ufficio del preside solo dal contenuto del loro armadietto... come puoi credere che ti possa giudicare uno stupido?- mi elogia lui con troppa convinzione ed, improvvisamente ho una folgorazione che mi lascia basito e allo stesso tempo inorridito.

-No, assolutamente no! Tre volte in uno stesso anno! Sei un illuso se credi che salirò su quella macchina solo per farti un piacere.- gli urlo al microfono del telefono consapevole che probabilmente ne rimarrà assordato per qualche secondo.

-Credi che non abbia capito perché sei andato a quest'incontro di box; tu hai bisogno di un coinquilino.- esclama appoggiando in malo modo la tazzina di ceramica sul piattino e chiudendo il Times rigorosamente aperto sulla pagina della politica estera: il tonfo secco della ceramica e lo scricchiolio molto più secco delle pagine del Times rispetto a quelle del Sun sono inconfondibili.

-Io non ho bisogno di niente e di nessuno, tanto meno di te! Lestrade mi ha spiegato che, misteriosamente, i casi più interessanti di omicidio a Londra vengono assegnati ad una squadra speciale governativa. C 'è il tuo zampino dietro a tutto questo? Non rispondere so già la risposta. Se tu mi lasciassi fare il mio lavoro potrei pagarmi l'affitto come sempre!- gli ringhio addosso trattenendomi dal insultarlo per riuscire a mantenere il mio adorato self-control.

-Devo ricordarti che giorno è domenica, Sherlock.- lo sento sorridere sarcasticamente dall'altro capo del telefono e questo mi fa rabbrividire in modo umano, così poco da me.

Questo cambio netto di discorso mi fa capire che Mycroft sta per giocare il suo asso nella manica.

Mi fermo improvvisamente, al centro esatto del corridoio, davanti a una finestra da cui riesco a vedere la limousine di mio fratello e appoggiandomi al muro con la schiena, faccio aderire la colonna vertebrale contro la parete destra del corridoio su cui è stata messa della mochette rossa da tre giorni.

-Non lo so, ma il tuo tono mi suggerisce che centra qualcosa con la nostra famiglia- dico facendo scivolare la schiena contro la parete e lasciando toccare il sedere a terra e, incrocio le gambe in una perfetta imitazione di un buddista in preghiera, mi preparo alla più catastrofica delle eventualità.

-é il compleanno di nostra madre...- esclama semplicemente come se quel fatto non fosse un tentativo di sabotaggio alla mia salute mentale.

Deglutisco rumorosamente e, dall'altro capo del telefono, Mycrosoft si scioglie in una risata liberatoria.

Non ho scampo di salvarmi da quella orribile riunione di famiglia a cui venivano invitati i più illustri capitani di industrie e le loro viziatissime moglie.

Mamma aveva sempre avuto molta pazienza con me: aveva sopportato a malincuore il lento processo di distruzione della mia vita sociale e aveva visto sfumare la possibilità di avere dei bei nipotini con gli occhi azzurro-Holmes, come li chiamava lei, per lasciare che io vivessi la mia vita in modo pieno e autonomo senza avanzare nessuna protesta.

Ma su questo genere di cose era categorica,

Dio diceva di santificare le feste e le feste vanno santificate!

Qualsiasi tipo di festa, dal battesimo del cuginetto più sconosciuto al ricco cenone di Natale.

Una donna forte con un altrettanto forte senso di giustizia e un gusto inimitabile ma anche donna molto capricciosa e sperperatrice incallita di denaro se si trattava di feste: i cibi, i fiori, le posate in argento e le decorazioni dovevano intonarsi perfettamente all'arredamento e al look dei padroni di casa altrimenti sarebbe successo un putiferio tra il club delle amiche del bridge.

La mia famiglia, così come l'ho descritta, corrisponde perfettamente allo stereotipo della tipica famiglia inglese snob con la puzza sotto il naso che si diverte con il golf e con le serata di gala e che conosce di persona buona parte dei reali di Inghilterra.

Non era stato affatto facile per me non perdere il senso dell'orientamento fra tutto quel lusso sfrenato.

Povero bambino ricco, sussurravano i miei compagni a scuola quando passavo fra i banchi con i miei vestiti che costavano quasi quanto lo stipendio dei loro genitori.

Anche se non disprezzo la ricchezza, fino all'età di quattordici anni non avevo mai capito che cosa volesse dire essere indipendenti.

Vivevo con mio fratello e la mia famiglia in una bella gabbia d'oro dotata di tutti i confort e ne ero felice come lo sarebbe ogni bambino sulla terra.

Poi era venuta l'adolescenza e con questa la consapevolezza di quanto potevo essere diverso dagli altri, persino dai membri della mia famiglia: non mi importava un accidente delle belle auto o dei capi firmati anche se la mia prima macchina era stata un spider e indossavo abiti per lo più dai tessuti pregiati.

Tutto quello era un qualcosa che faceva da sfondo alle mie immense capacità intellettive e che, spesse volte, le contrastavano fino a renderle invisibili.

Così a quelle orribili feste, me ne stavo in disparte con il mio libro di chimica sulle gambe e mi limitavo a fare gli auguri a mia madre e a mandar giù a fatica un pezzo di torta che vomitavo fra le rose del giardino qualche ora dopo.

All'inizio questo aveva creato non pochi disaggi alla mia famiglia, visto che gli ospiti domandavano come mai non parlassi con questo o quell'altro figlio preferendo starmene in disparte con i miei pensieri e i miei tomi voluminosi ma poi si erano fatti l'abitudine e nessuno faceva più caso alla pecora nera degli Holmes.

A diciotto anni compiuti, avevo fatto le valigie e me ne ero andato a studiare a Cambridge senza nemmeno un attimo di esitazione evitando la mia festa per i diciotto anni per un soffio.

Neanche là la situazione cambiò parecchio perché, come se fosse un eterna maledizioni, i figli degli amici dei miei genitori erano miei compagni di studi.

Mi isolai e passai gli anni della giovinezza con i veleni come miei unici amici.

E ne ero felice perché la solitudine non mi ha mai spaventato.

Alle sue amiche mia mamma diceva che avevo una forma di autismo che mi impediva di instaurare delle vere e proprie relazioni umani.

I loro perfetti figli, di conseguenza, mi stavano alla larga lanciandomi ogni tanto qualche occhiata di carica di pura pena, come se avessi una sorta di malattia infettiva irreversibile.

Non mi sono mai pentito della scelta di aver abbandonato sia l'università che villa Holmes quando Lestrade cominciò a chiamarmi per risolvere i casi più difficili: non era il mio mondo quello e non è nemmeno quello delle persone normodatate, i morti mi danno più soddisfazioni dei vivi.

Del passato non mi rimangono che queste fastidiose incombenze a cui sono obbligato, con le buone o con le cattive maniere, a farne parte.

-Facciamo un patto- esclamò Mycroft dopo aver lasciato che i miei pensieri vagassero a quegli orribili tempi lontani – tu ti presenti alla coinquilina che ti ho trovato e io ti prometto che convincerò la mamma che sei troppo occupato in un caso per venire, cosa ne pensi?- mi domanda con un tono tentatore che conosco bene: i suoi patti sono ormai il suo pane quotidiano.

-Una donna?- domando indispettito dalla scelta errata già di partenza: a parte rare eccezioni, le donne sono solo trappole mortali travestite da pietre preziose.

-Qualche problema?- esclama lui divertito come non mai dalla mia reazione: Bastardo, sa bene quanto io le sopporti poco!

-In effetti sì, se la mia prossima eventuale coinquilina è donna, le condizioni pendono troppo a tuo vantaggio. Per riequilibrarle dovresti assicurarmi che non parteciperò neanche alla festa di Natale e al compleanno di papà- ritratto convinto che potrò guadagnarci un po' di più.

    -Ti concedo il compleanno di papà, ma a Natale mamma diventa troppo isterica se manca qualcuno all'appello, se vuoi potrei offrirti l'anniversario di matrimonio- propone lui come se stessimo piazzando azioni in borsa.

    - Natale, compleanno di mamma e papà, anniversario di matrimonio e pranzo di ferragosto. Ultima offerta!- gli rispondo io in modo telegrafico.

    - Ok, te li concedo a patto che tu salga immediatamente sulla macchina e torni al tuo appartamento.- esclama lui impaziente riflettendo su come potrebbe riferire a mamma che il suo figlio minore non tornerà a casa per un bel pezzo.

Vittorioso, mi alzo immediatamente da terra e, con quattro agili falcate, sono già entrato nella lumousine suggerendo all'autista l'indirizzo del mio appartamento.

 

Continua...

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Capitolo 5
*** Fra il bene e il male c'è una porta, e io l'aprirò! ***


Capitolo 5- Fra il male e il bene c'è una porta, e io l'aprirò!

 

Ben Weston

 

Adoro il mio lavoro.

Non solo perché la paga dell'autista personale di un parlamentare è a dir poco stellare, ma anche perché era stato un vero e proprio colpo di fortuna aver ricevuto quest'offerta di lavoro da un uomo tanto distinto come Mycroft Holmes.

Prima di fare l'autista di limousine, avevo fatto il tassista per quasi vent'anni e, grazie alla mia dimestichezza con le strade londinesi e una buona dose di esperienza accumulata nel periodo giovanile in cui lavoravo come corriere, mi ero tenuto stretto quell'impiego.

Era un lavoro come un altro che non mi entusiasmava, sopratutto a causa della mia scarsa conoscenza delle lingue straniere che mi sarebbero servite per farmi capire ai numerosi turisti che affollavano la capitale.

Era più forte di me: se l'inglese è considerato la lingua globale con cui tutti si mettevano in contatto anche con persone di altre nazionalità, perché i turisti si ostinavano a parlare nella loro lingua natale? Non era forse quello un poderoso schiaffo al progresso?

Non mi lamentavo: sorridevo cercando di cavare un indirizzo dal loro inglese sconnesso e incomprensibile e, contemporaneamente, azionavo il comando per aumentare i chilometri sul contatore grazie ad un marchingegno istallato dal mio carrozziere di fiducia.

La mia vita però venne sconvolta un giorno di settembre di tre anni fa da un pazzoide che, come se fosse appena sbucato da un poliziesco tedesco mal riuscito, mi intimava di raggiungere il più in fretta possibile il 221/B di Baker Street utilizzando tutte le scorciatoie da me conosciute.

Lo squadrai da capo a piedi, incredulo, ma ripartii con la mia solita flemma azionando nel frattempo il pulsante posto vicino al comando dei tergicristalli.

Ignorando le sue pressanti richieste, mi venne spontaneo pensare che a questo mondo esistevano parecchi invasati che si sentivano grandi poliziotti:tutta colpa di C.S.I e Criminal Mind..

Sfortunatamente dovetti ben presto ricredermi poiché appena svoltato l'angolo, mi ritrovai invischiato in una vera e propria sparatoria con tanto di pallottole volanti che fischiavano a pochi centimetri dalle orecchie, simile a quelle che il commissario Rex e il suo assistente ( perché era il cane ad avere l'assistente e non il contrario) dovevano fare i conti ogni santo giorno.

Per lo spavento, andai a tamponare con violenza la macchina che avevo davanti che si era fermata per fare attraversare un pedone mentre una seconda botta dal dietro mi avvisò che avevo innescato un vero mene proprio tamponamento a catena.

Atterrito, non ebbi nemmeno il coraggio di voltarmi per vedere cosa era successo al mio passeggero e rimasi inchiodato nella posizione di guida per lo shock.

L'ultima cosa che ricordo sono una voce profonda che mi definiva un idiota prevedibile, il rumore di una portiera sbattuta e le sirene dell'ambulanza e della polizia che arrivavano sul posto.

Il resto rimane nel buio più totale.

Quando mi svegliai dovetti affrontare la dura realtà: mi ritrovavo improvvisamente senza lavoro visto che, oltre ad aver praticamente distrutto un taxi, avevo anche svelato il trucco con cui riuscivo a spillare più soldi, con un violento colpo di frusta al collo e con un danno di 1000 sterline da pagare.

Il tizio della sparatoria non era stato catturato poiché era fuggito prima dell'arrivo dei soccorsi però l'avevo visto in faccia e avrei potuto benissimo identificarlo fra mille: con quegli abiti costosi, gli zigomi pronunciati e la pelle praticamente trasparente non sarebbe stato difficile trovarlo, inoltre conoscevo quello che supponevo essere il suo indirizzo.

Il fratello del presunto sospettato mi tappò la bocca offrendomi un lavoro prestigioso come suo autista personale che fui ben felice d'accettare.

Sulle prime non mi fidai di quello che conoscevo come il fratello di uno squilibrato che andava in giro a farsi sparare addosso per puro divertimento però, con il tempo, incominciai ad apprezzare la riservatezza di quel distinto uomo di politica.

Anche se non mi è permesso fare supposizioni, mi sembra di aver intuito già da tempo il suo ruolo in politica: Mycroft Holmes non si faceva una grande pubblicità attraverso i mass media perché aveva i propri mezzi per farsi votare, mezzi potenti ed invisibili che Tony Blair in persona avrebbe solo potuto sognare: provavo una profonda stima per un uomo che, grazie alla propria diplomazia, riusciva a mandare avanti un intero paese.

Suo fratello, invece, riusciva solo a scatenarmi istinti omicidi inespressi: come un enorme palla al piede che non sapeva far altro che infastidire il fratello con assurde pretese insensate, Sherlock Holmes era disoccupato e giocava a fare il detective solo per il gusto di sentirsi superiore agli altri.

Ben Weston lo considerava poco più di un subdolo avvoltoio che si nutriva delle carcasse dei morti per potersi sfamare.

Per questo motivo, quando l'aveva visto salire sulla sua limousine quella mattina, aveva dovuto trattenersi dal sferrargli un meritato pugno sul naso per averlo lasciato da solo, agonizzante, in un taxi semidistrutto: istinto che mi invadeva sempre le poche volte che Sherlock accettava un passaggio sulla limousine del fratello.

Lo osservavo dallo specchietto con aria circospetta, ascoltando il suo borbottio sconnesso sopra il residuo di terriccio rimasto attaccato sul tappettino della sua limousine ed osservando con tacito odio i movimenti fulminei delle sue mani che studiavano con chirurgica precisione i residui di chissà-cosa rimasti impigliati fra le pieghe dei sedili.

Probabilmente, mia figlia Carry, da buon adolescente con gli ormoni a mille, avrebbe appeso il suo poster in camera visto il visino delicato che si ritrovava quell'uomo ma, se un giorno gli avesse portato a casa uno squilibrato di quel calibro, l'avrei cacciato di casa sua a pedate nel sedere.

-Le ha dato un passaggio. Strano. – esclamò improvvisamente con voce più chiara e squillante del solito e, sentendomi preso in causa, seguii il copione assegnatomi dal fratello in quelle circostanze: -Non mi è permesso rivelare nessun dettaglio della vita privata del signor. Holmes, quindi stia zitto e buono o apro la portiera e le faccio provare l'ebrezza di essere gettato da una limousine in corsa- pensai fra me e me immaginandomi la scena successiva con immenso piacere.

-Non mi è permesso rivelare nessun dettaglio della vita privata del signor. Holmes- esclamai invece attenendomi alle direttive del grande capo: avevo due figli e una moglie da sfamare e non potevo permettermi pazzie. Sicuramente, il mio ultimo desiderio prima di una eventuale pena di morte, sarebbe stato quello di riempire di lividi quella sanguisuga troppo cresciuta.

- Non era una domanda. Io so che le ha dato un passaggio come so che doveva essere una donna molto attraente e consapevole del suo fascino. Per inciso, scaraventarmi giù da una limousine non procurerebbe mai la mia morte poiché saprei atterrare in modo tale da ridurre i danni ad un braccio rotto e qualche escoriazione e, se passasse vicino alle sponde del Tamigi, potrei persino cadere in acqua senza farmi del male, quindi la smetta di ingegnarsi in modi banali per assassinarmi e si concentri sulla strada- lo riprese con tono asciutto mentre osservava in controluce un filo di nailon nello stesso modo in cui sua moglie osservava un quadro durante una di quelle noiosissime esposizione a cui era stato trascinato: sembrava che ci vedesse tutto un mondo in quel semplice filo come sua moglie vedeva un significato in quattro macchie di vernice su una tela bianca.

Non osai più rivolgergli parola, scocciato e allo stesso tempo impressionato dalla sua perspicacia, e mi concentrai sulla strada fingendo di essere solo in macchina: suo fratello aveva accennato qualcosa del fatto che non sarebbe stato facile nascondere le tracce del loro passaggio e per questo, mi aveva pregato di limitarmi a quella semplice frase di circostanza e di non rispondere alle sue provocazioni.

In dieci minuti arrivammo a destinazione e, accostandomi sul marciapiedi che conduceva direttamente all'appartamento in cui aveva visto entrare Mycroft e la stangona poco loquace, scaricai la pesante zavorra non prima di avergli rivolta un ultima occhiata furibonda a cui lui rispose con un irritante sorrisetto sarcastico.

Ingoiai il groppo che mi era rimasto in gola e, stringendo saldamente le dita intorno al volante di morbida pelle, lo osservai procedere a passo spedito verso il portone di legno scuro.

Quell'essere mostruoso avrebbe mai potuto condividere un appartamento con un ragazza tanto seducente?

E con un altro essere umano?

Era veramente umano quell'ammasso di cellule grigie ambulante o era uno di quegli alieni freddi e calcolatori venuti sulla terra alla ricerca di un territorio da conquistare?

Ben Weston si disse che la televisione doveva avergli dato alla testa dopo quell'affermazione da film fantascientifico.

Solo una cosa poteva essergli certa, solo un pazzo della suo calibro avrebbe accettato di convivere un appartamento con un tizio che ti guarda come fossi una rana da vivisezionare.

Quando lo vidi varcare la porta di casa, controllai l'orario sul cruscotto e, su una bella agenda in pelle marrone (regalo di sua figlia per il compleanno), mi segnai il minuto esatto in cui la porta si era chiusa alle sue spalle.

Non segnai le ore, era assolutamente sicuro che non avrebbe avuto bisogno di quelle.

Con l'agenda e la penna ancora in grembo, mi misi comodo e, ignorando le riviste d'arte prestate da mia moglie Clara, mi decisi a terminare un maxi- cruciverba che aveva in ballo da più di due settimane.

Era ancora bloccato sulla parola di 10 lettere orizzontali ( persona che soffre di una patologia che lo porta ad un totale isolamento nei confronti della società) quando la porta si spalancò per la seconda volta permettendo l'uscita di una furibonda stangona che, grazie a poche agile falcate da modella, raggiunse la limousine e, senza molte cerimonie, tornò a battere freneticamente le unghie laccate sullo schermo del suo telefono touch anche se in un modo molto più violento di prima.

12 minuti, la convivenza di un comune individuo con Sherlock Holmes non poteva durare di più.

Sull'agenda, segnai i minuti esatti dell'arrivo della donna nella limousine e, trattenendo a stento un sorrisetto amaro, mi concessi diversi minuti per bearsi della celestiale visione che intravedevo nello specchietto anteriore, concentrandomi sul punto esatto in cui le gambe chilometriche venivano crudelmente coperte dalla gonna di jeans.

Attaccare bottone con una simile bellezza era praticamente escluso: amavo alla follia sua moglie, eppure mi sarebbe piaciuto un sacco flirtare con le belle ragazze come sapevo fare da giovane.

Indeciso, feci appena a tempo ad aprire la bocca per domandarle cosa era successo in quell'appartamento con lo squilibrato e il parlamentare, quando vidi il secondo uscire dallo stabile e, con il suo tipico passo lento ma deciso e con lo sguardo talmente indecifrabile ci sarebbe voluto uno squadrone di psicologi professionisti per capire cosa stesse passando per la testa, mi bloccò le corde vocali in un istante.

-Deve scusarlo Anthea, mio fratello è un vero maleducato quando si tratta di donne. Le avevo accennato della sua sociopatia, forse l'ho fatto in modo poco marcato- esclamò Mycroft Holmes appena si fu accomodato nel posto accanto alla ragazza: se non fosse stato una persona minuziosamente intellegibile, Ben avrebbe detto che il signor. Holmes ci stava provando con quella bellissima ragazza. Non le sorrideva in modo mellifluo, non la guardava come se avesse la vista a raggi x di Superman e non tentava di farle i complimenti: manteneva il suo tipico tono neutrale da comizio elettorale e le stava ad una distanza consona alla situazione ma, per il semplice fatto che fosse andato personalmente a prenderla al campo da tennis, lo aveva fatto insospettire.

Sta il fatto che l'uomo, da buon parlamentare che si rispetti, aveva evidenziato solo i lati positivi del fratellino: genialità, intuito, acume, talento per la musica, tralasciando volutamente la sua follia definendola poco più che una “particolare” situazione: bizzarra, fuori dal comune, stramba, malata, critica, esasperante; così tanti aggettivi e tutti così insufficienti per descrivere le condizioni inumane in cui viveva quel pazzoide sociopatico.

Un improvvisa illuminazione mi invase da capo a piedi e, posando lo sguardo sugli spazi vuoti del suo cruciverba, li riempì con la parola “Sociopatico” che ci stava a pennello.

-Mi ha dato della prostituta- bisbigliò improvvisamente Anthea senza smettere un attimo di interrompere la sua frenetica attività: c'è qualcosa di profondamente sbagliato nel modo ossessivo con cui i giovani d'oggi si scambiano messaggi a tutte le ore del giorno e della notte ma quella tizia li batteva sicuramente tutti.

-La farebbe sentire meglio sapere che mio fratello non ha pietà nemmeno per la propria madre quando si tratta di osservazioni?- esclamò Mycroft con un espressione inespugnabile sul volto lacerata appena da un sorrisetto: non riusciva a capire se con quella frase stesse davvero tentando di farsi perdonare oppure la stesse prendendo in giro.

Modo poco galante per conquistare una donna.

- Mi avevate assicurato che fosse soltanto un po' esigente- lo riprese lei con franchezza senza dilungarsi in discorsi inutili: la sua offesa si leggeva chiaramente nelle sue iride o meglio nelle iridi riflesse sullo schermo accesso del suo cellulare.

-In realtà, ho creduto che se l'avesse conosciuta di persona avrebbe colto anche lui i lati positivi del suo carattere: siete una ragazza molto intelligente, riservata e indubbiamente affascinante ma Sherlock è accecato dalla sue “doti” per vederlo. Per questo sarò felice se accettasse le mie scuse ascoltando la proposta che voglio farle...- esclamò sporgendosi le labbra verso l'orecchio incorniciato dalle onde brune della ragazza.

Incredulo, decisi di sbirciare la scena direttamente dallo spazio creato fra il poggiatesta e lo schienale del mio sedile, pronto a sorbirmi una scena da film rosa con tanto di bacio appassionato e anello da una trentina di carati.

- Cosa intende per proposta?- domandò incuriosita.

-Che ne direbbe di diventare la mia segretaria personale? In fondo io le avevo promesso di pagarle l'affitto nel caso in cui Sherlock le avrebbe creato problemi ed effettivamente è quello che ha fatto. So che state cercando un nuovo impiego e con me potrà avere contatti con persone illustri che sapranno indirizzarla sulla giusta via. Le prometto salari alti e impieghi gratificanti che sono sicuro saranno all'altezza delle sue ottime credenziali. D'altronde, di questi tempi, sembra quasi impossibile trovare collaboratori validi...- e con queste parole lanciò un occhiata tagliente all'autista ancora voltato nella loro direzione.

Ben Weston incassò il colpo con un invidiabile nochalance ritornando alla sua tipica professionalità che lo aveva reso così gradito agli occhi del capo.

Non ascoltò il resto del discorso concedendosi solo il lusso di ascoltare la risposta affermativa della ragazza e, chiudendo il libro che aveva posato sulle cosce, non domandò neppure la loro destinazione, consapevole del fatto che l'aveva volutamente ignorata quando il signor. Holmes gliela aveva comunicata prima di sistemare le cinture di sicurezza.

Si concentrò sulla strada più veloce da prendere per arrivare a Buckingham Palace lasciandosi cullare soltanto dal pensiero consolatorio che sarebbe potuto rimanere a stretto contatto con quella bellezza ancora per un bel po'.

 

Shelock Holmes

 

Questa volta Mycroft gliela aveva fatta grossa...

Quando al telefono lo aveva pregato di raggiungerlo, non aveva immaginato che intendesse all'interno del suo appartamento.

Lì dentro c'erano i sue acidi, le sue basi, il microscopio da 800 sterline e il suo violino solo per fare gli esempi più importanti ma c'erano anche il suo notebook e i libri di rinomati criminologi di tutto il mondo.

Fortunatamente la sua preziosa siringa era accuratamente nascosta in una scatola in legno intarsiato incastrata fra lo specchiera del bagno e la parete piastrellata, dove alla lamina di vetro dello specchio era stato fatto istallare un perno centrale che lo percorreva verticalmente nell'area centrale.

Una semplice pressione nell'area giusta avrebbe fatto ruotare di qualche grado la superficie rivelando un piccola nicchia in cui nascondere i suoi tesori: siringhe e bottigliette di cocaina.

Non sono abbastanza ottuso per credere ai luoghi comuni, eppure temevo che una donna attraente avrebbe avuto altro per la testa che pensare a non distruggere tutto ciò che incontra.

Chissà se, passando accanto ai suoi esperimenti, avrebbe potuto far cadere a terra le sue provette o avrebbe voluto provare il suo violino insudiciandolo con quelle mani ricoperte di sostanza viscosa ritrovata sulla maniglia della portiera della limousine con cui si era truccata( fondotinta).

Aumentai il passo, spalancando con furia la porta principale dell'edificio con l'obbiettivo più di scardinarla che di aprirla ed, evitando per un soffio la mano scarna della signora Hudson, feci le scale a quattro a quattro fermandomi solo sull'ultimo gradino, il diciassettesimo per la precisione, per studiare dell'altro residuo di terra rossastra e sassolini grigiastri rimasto impigliato sul tappetino posto davanti all'appartamento, privo ovviamente della scritta “Welcome” che avevo provveduto a far sparire.

Dal basso, la voce tutt'altro che gracile della signora Hudson mi raggiunse informandomi che Mycroft era appena arrivato a farmi visita e che mi aspettava nell' appartamento insieme ad un amica.

Mi sporsi quel tanto che bastava per vedere la signora Hudson fare capolino dalle scale.

-Tempismo perfetto, signora Hudson. Peccato che abbia violato uno dei punti principali del nostro contratto.- esclamai puntando l'attenzione dalla voce signora su eventuali rumori o voci provenienti dall'interno.

 

 

La signora Hudson si ricordava bene il contratto d'affitto stillato dal notaio di Mycroft: era uno strano congruo di stranezze e cavilli impensabili che Sherlock aveva provveduto a far aggiungere per avere tutti i vantaggi possibili ed immaginabili. Tentennò prima di replicare: non temeva né Sherlock Holmes, un ragazzo incompreso nascosto sotto la maschera di uomo di polizia indifferente e distaccato, né tanto meno Mycroft Holmes, potente uomo di politica che però teneva al fratello a tal punto di telefonarle personalmente almeno una volta alla settimana per avere sue notizie.

L'unica sua paura, per quanto riguardava lo strano rapporto fraterno che li legava, era quello di pronunciare qualcosa in più, anche una sola parola in più, che avrebbe potuto scatenare la terza guerra mondiale.

Con cautela fu costretta a rivelare tutta la verità, consapevole che quel giovane perspicace l'avrebbe scoperta più velocemente di quanto lei avrebbe saputo inventare una scusa decente.

-Veramente il signor. Holmes mi aveva assicurato di avere il suo permesso. Aveva con sé la chiave dell'appartamento e quindi...- la donna non fece a tempo a terminare la frase che si ritrovò lo spioncino del 221 B nel punto esatto in cui c'erano gli occhi chiari di Sherlock.

- Hai fatto un duplicato della chiave di casa mia?- sentì gridare dall'interno dell'appartamento mentre si pentiva delle parole appena pronunciate: sospirò e rassegnata, tornò alle sue faccende con il pensiero fisso dell'anca che la tormentava:non aveva nè il tempo nè la voglia di occuparsi di quei due bambinoni troppo cresciuti.

L'unico suo rimpianto era stato quello di non riuschire a chiedere un favore a Sherlock... Ma lo sguardo infuocato che aveva prima di sbatterle la porta in faccia le aveva fatto capire che avrebbe fatto meglio ad aspettare.


 

- Hai fatto un duplicato della chiave di casa mia?- gli gridai addosso non appena li vidi scendere dalle scale che conducevano all'area superiore del suo appartamento dove si trovava il bagno, la camera da letto degli ospiti e la sua stanza .

- Buongiorno a te, Shelock e complimenti per la tua cortesia. Avevo bisogno di una chiave per mostrare l'appartamento alla signorina così mi sono fatta prestare dalla signora Hudson quella di scorta. La galanteria non è il suo forte, Anthea, ma per il resto...- incominciò Mycroft ignorando apertamente la mia rabbia. Mi mandava in bestia la sua indifferenza.

- Non mentirmi Mycroft! La signora Hudson ha detto che avevi già con te la chiave.- sibilai trattenendo a stento la rabbia: confuso, mi presi qualche secondo per ricacciare la rabbia in una delle immense sale del Mind Palace, quella piena di gabbie e di catene dove venivano rinchiuse i suoi inutili sentimenti.

- Calmati, come ho già detto, sono semplicemente venuto a mostrare l'appartamento alla signorina. Non tutto il mondo fa parte di una scena del crimine, sai?- mi esortò contrariato.

- Se lo fosse, tu saresti sempre il principale sospettato- borbottai infastidito dal tono di rimprovero che stava sfoggiando: mi fece tornare indietro hai tempi in cui abitavamo sotto lo stesso tetto e dovevo sorbirmi i suoi noiosissimi sermoni sull'importanza della famiglia e dei doveri di un figlio verso i propri genitori.

- Vede signorina, anche mio fratello certe volte può avere senso dell'umorismo- ironizzò quello mentre lei mi sbirciava nascondendo lo sguardo fra una setosa ciocca di capelli.

Guardai mio fratello divertito.

Mycroft conosceva bene quella sensazione: ci aveva convissuto, nel bene e nel male, durante i duri anni dell'adolescenza. Se, da un lato, lui veniva considerato come il fratello con la testa sulle spalle o il primogenito ereditiere della fortuna degli Holmes, erano i pochi a ricordarsi dell'esistenza di un Holmes junior assennato e studioso.

Sherlock era la pecora nera della famiglia: una pecora arrogante e spropositatamente boriosa dal carattere infernale ma dall' aspetto tipico della grande casata. Occhi cristallini, zigomi pronunciati, fisico snello: questo era Sherlock e Mycroft aveva sempre sognato di avere solo un quarto del suo fascino ai tempi in cui, a livello di notorietà, erano entrambi allo stesso livello.

Erano entrambi figli dei coniugi Holmes: però uno diligente e assennato e l'altro cinico e misterioso.

-Bene Sherlock, ora che ci hai degnato della tua presenza, ti posso presentare Anth...- non gli feci terminare la frase, poiché dopo una prima perlustrazione superficiale delle condizioni della casa (tutto apparentemente intatto) richiesi immediatamente un colloquio privato con lui.

Mycroft acconsentì, lanciando un rapido sguardo di scuse ad Anthea, e seguendomi in cucina si accertò di essere abbastanza lontano dalla ragazza per sfogare la sua vera natura da predatore naturale:

- Incredibile Shelock, non sei neanche riuscito a farle dire il suo nome- esclamò alzando la voce forse accorgendosi della mia totale disattenzione: mi ero posizionato nella traiettoria esatta da cui potevo vedere lo schermo spento della televisione riflettere i movimenti di quell'intrusa.

- Sai che io non ho mai bisogno delle presentazioni- e tossii senza ritegno quando lei appoggiò le dita sul mio adorato teschio.

Senza dubbio sarebbe stata la prima cosa a sparire se avrebbemmo condiviso l'appartamento.

- Tu no, ovviamente, ma forse lei avrebbe voluto presentarsi personalmente al suo futuro coinquilino- mi rimproverò e, a quelle parole, tramutai la mia espressione da contrita a divertita.

- A chi vuoi darla a bere Mycroft? So che anche se lo volessi, lei non sarebbe mai la mia futura coinquilina... Questi giochetti stupidi riservali per qualche parlamentare imbecille.-

Lui rimase un attimo basito alle mie parole, convinto che il suo piano sarebbe potuto davvero andare a buon fine, poi con la punta del suo inseparabile ombrello, colpì il pavimento producendo un rumore secco che rappresentava un vero e proprio gesto d'impazienza.

Era grave che danneggiasse volontariamente il suo ombrello, anche se si trattava solo della punta.

- Che vorresti dire, fratellino?- domandò con un espressione da tonto che non gli s'addiceva e utilizzando l'odioso diminutivo che sfoggiava soltanto nelle rare occasioni in cui voleva umiliarlo.

- Sto solo dicendo che sfruttare a tuo piacimento festività e anniversari solo per avere una bella ragazza come segretaria personale lo giudico piuttosto squallido. Chissà cosa ne penserebbe la mamma?- domandai mostrando il cellulare con aria minacciosa.

- Fallo pure, sarebbe contenta di sapere che almeno uno dei suoi figli ha contatti con esponenti dell'altro sesso- nel suo tono di voce non c'era un minimo di sarcasmo: mamma sarebbe davvero contenta di vederci entrambi accasati con tanto di colonna di pargoli al seguito.

Scocciato appoggiai il telefono sul tavolino, come a dichiarare la mia resa su quello specifico fronte.

-Solo un particolare mi sfugge; Perché quando l'hai incontrata al tennis club non le hai semplicemente proposto di abbandonare il suo posto da segretaria sottopagata in una squallida rivista per teenager per essere l'assistente personale di un importante uomo di politica?- domandai incuriosito da quella novità.

- Tu, come?-

- Aveva dei sassolini grigi incastrati sotto le suole delle scarpe e della terra rossa sulla parte centrale delle suole: questo particolare tipo di ghiaia è riscontrabile solo due aree specifiche della città con un tipo di ghiaia grigia e frastagliata mentre la terra rossa, più fine e trattata delle altre, si trova solo in due campi da tennis professionali. Abbinando le due opzioni sono riuscito a riscontrare solo una via nella quale troviamo un campo da tennis e un parcheggio in ghiaia grigia. Esso conduce direttamente alla sede dei una rivista per teenager di poco conto. C'era anche un centro commerciale nella medesima struttura ma un filo di nailon intrappolato nel poggiapiedi posteriore mi ha indirizzato su un altra strada: era un filo sottile e piuttosto trasparente adatto a calze leggere estive quindi adatte a chi è abituato ad indossare calze sottili per mettere in mostra le gambe, una commessa per praticità non indosserebbe mai delle calze così sottili in un periodo autunnale. Gli uffici di un redazione sono notoriamente molto più caldi dei locali di un supermercato a porte scorrevoli con tanto di frigoriferi adatti per conservare al meglio carni e latticini.

Probabilmente stava facendo una partita di tennis nel campo a lato al suo ufficio quando siete andata a prenderla, una meritata pausa dopo un articolo particolarmente complesso sulle cotte adolescenziali o sui metodi per far sparire l'acne. La sua attrezzatura è stata goffamente nascosta dal vostro autista nel bagagliaio mentre la ragazza si è dimenticata di cambiarsi le scarpe perché le indossa per praticità anche nel tempo libero come è evidente dall'usura totale delle calzature. Inoltre ha dovuto truccarsi di nuovo dopo la partita per prepararsi all'incontro così ha utilizzato lo specchietto della limousine, lasciando tracce viscose di rimmel e polvere di ombretto sul parasole posteriore e il fondotinta fresco ha lasciato delle traccie evidenti sulla pelle del sedile. Si è truccata all'ultimo momento e si è tenuta addosso le scarpe da tennis ciò significa che era impreparata al tuo arrivo. Forse glielo hai solo accennato durante uno dei vostri fugaci incontri. Solo un cosa mi sfugge ancora, perché hai dovuto farmela incontrare? Non avresti potuto semplicemente proporgli l'impiego quando l'hai incontrata al tennis club?- domandai compiaciuto per l'espressione vagamente sconfitta del fratello.

Non era facile scoprire cosa tramasse l'astuto uomo di politica e nemmeno in quel caso Sherlock fu pienamente convinto di aver vinto.

- Semplice, volevo che ti incontrasse e capisse quanto fossi misogino con certi tipi di donne così da ottenere la sua totale fiducia. Non si sa mai, magari avresti potuto sfruttare la sua vicinanza per farti trasferire informazioni utili sul mio conto- un improvviso luccichio mi fece distrarre per un secondo e capito che proveniva dalla vistosa collana che la ragazza indossava, feci finta di non notare il suo appostamento.

- E troppo stupida per affidarle un lavoro di spionaggio. E tu sei troppo astuto per farti abbindolare da un paio di gambe lunghe. Credo che in passato l'abbiano assunta solo per trarre profitto dalle sue doti fisiche e non dalle qualità mentali- lo schermo della televisione mi restituì l'immagine di un ragazza sconvolta intenta a spiare due persone che parlottavano in una cucina di un appartamento. Se fosse stato un programma televisivo, sarebbe stata una soap opera di bassa qualità come di bassa qualità fu la reazione della “leggiadra signorina”.

- Brutto bastardo, io non sono una prostituta- urlò svelando il suo nascondiglio dietro lo stipite della porta. Capirai che nascondiglio!

La tensione in lei era evidente, le mani erano strette in morse d'acciaio che facevano risaltare i tendini delle dita mentre il viso aveva preso un colorito molto simile al vermiglio, con i muscoli facciali contratti in un espressione quasi bestiale.

- Signor. Holmes anche se questo tizio è suo fratello, le confesso che sarebbe l'ultimo uomo sulla terra con cui condividerei qualcosa...-

Qualcosa? Buffo modo per dire un appartamento. Oppure, questa volta, le sue parole non erano state pronunciate casualmente ma erano frutto di uno discorso già affrontato fra i due.

Capii in non meno di cinque secondi. Le aveva consigliato di sedurmi.

Illuso.

Ero suo fratello da una vita e non aveva ancora capito che mi interessavano quel genere di cose?

Lei non assecondò i nostri silenzi e i nostri sguardi carichi di significato e, lanciando un ultima occhiata omicida, la vidi sparire oltre la porta d'ingresso seguita dall'ondeggiare sinuoso delle ciocche brune.

-l'avevi vista origliare, non è vero? Per quello hai usato quelle parole?-

- Ovviamente, ciò non toglie che la seduzione sia una delle sue migliori armi, ti consiglio di sfruttarla al meglio- borbottai qualche parola in suo favore ma non le concessi il lusso di altre lusinghe.

Era una donna piuttosto infantile e tendente alla superficialità che se ne stava per la maggior parte del tempo isolata in un mondo tecnologico, forse troppo frustrata e vigliacca per affrontare la vita reale.

Uno dei principali difetti che Sherlock mal sopportava in qualsiasi persona era la viltà.

-Ne terrò conto- concordò l'altro.

- Ovviamente dovrai mantenere il nostro patto se non vuoi che le riveli il tuo losco piano- esclamai divertito dal capovolgimento del ricatto.

Per ora, ero io a tirare i fili di quella strana relazione fraterna ma non era detto che un qualsiasi fatto avrebbe potuto riportare tutto nelle mani del parlamentare.

- Quello era scontato, Sherly-.

- Sherlock è un nome già abbastanza fuori dal comune, storpiarlo è un vero e proprio insulto alla decenza- dissi avanzando di un passo inducendolo così a retrocedere fino alla porta, era un invito abbastanza esplicito da indurlo a stringere a se il suo fido compare di acquazzoni, ma c'era ancora una cosa da precisare prima che se ne andasse – Spero solo che questa caccia al “coinquilino perfetto” sia ormai terminata- esclamai mentre ormai sembrava intenzionato a prendere congedo.

Con la punta dell'ombrello mi colpi sullo sterno inducendomi ad allontanarmi di qualche passo poi, assumendo una rigida posizione degna di una delle scultura in cera di Madame Thussard, sogghignò e disse – questo non posso concedertelo... Sai che ti ossessionerò a vita finché non troverai qualcuno con cui spartire l'affitto.-

Aggrottai le fronte e, posando la punta dell'indice e del medio della destra nel punto in cui le sopracciglia si potrebbero congiungere in un unico arco, provai a trovare un modo per porre fine a quella persecuzione.

Niente che non implicasse un qualsiasi danno fisico o mentale.

- Cosa dovrei fare per terminarla?- ci rinunciai alla fine.

Mi veniva in mente le solo macabre scene del crimine di casi che avevo già risolto in precedenza.

- Dovrai risolvere tutti i casi che ti propongo senza nemmeno batter ciglio- aprii gli occhi ed emettendo un verso simile ad un grugnito, gli feci intendere il mio disappunto- oppure dovrai cominciare tu stesso la caccia. Vedila come la ricerca dell'unica persona che, condividendo con te l'appartamento per 24 ore, non provi il sano impulso di piantarti un coltello nella schiena-

Coltello nella schiena? Arma banale per un coinquilino banale. Il coinquilino perfetto dovrebbe come minimo strangolarmi con il filo del telefono oppure fingere una perdita di gas e farmi esplodere insieme al 221B.

Dovevo ammettere che però la cosa cominciava ad intrigarmi.

- in quest'ottica potrebbe essere interessante, anche se sai quanto odio scendere a patti con te- ammisi mentre lo spingevo praticamente sul pianerottolo.

- Tutto in quest'ottica è interessante per te. Smettila di fare il difficile, io lo faccio per te perché so che hai avuto piuttosto fatica a pagare l'affitto di questo mese. Dimezzarlo ti darebbe la possibilità di utilizzare il denaro dei casi per fare qualche acquisto in più.-

Pensai alle mie costose scorte di cocaina che, inesorabilmente ,stavano per terminare e ammisi che qualche soldo in più non mi avrebbe fatto male.

- Allora, lo farai?- domandò Mycroft avvicinandosi alla scala che conduceva al pian terreno.

- Ci penserò su però non contarci troppo- e così dicendo rientrai nell'appartamento con mille pensieri nella testa e una sfrenata voglia di cocaina che placai esaurendo l'intera scatola di cerotti alla nicotina: non molto soddisfacenti ma certamente più economici.

 

Angolo autrice:

Eccomi con il mio ultimo capitolo, un tantino più lungo dei precedenti anche se devo ammettere che molto meno coinvolgente degli altri. Praticamente mi serve per introdurre l'incontro fra Sherlock e John che avverrà fra breve.

Ringrazio tutti quelli che seguono la mia storia e sopratutto un ringraziamento speciale a Celestine e i suoi consigli.

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