Reny

di ellephedre
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1 ***
Capitolo 2: *** 2 ***
Capitolo 3: *** 3 ***



Capitolo 1
*** 1 ***


reny

 

Note: il titolo della storia si legge con una 'r' leggera, alla giapponese, come nella parola 'volare'. Ma di sicuro si dedurrà già alla fine di questa prima parte.

 

Reny
 
Autore: ellephedre
 
Disclaimer: i personaggi di Sailor Moon non mi appartengono. I relativi diritti sono di proprietà di Naoko Takeuchi e della Toei Animation.

 


 

Roseto.

Soffiava il nome tra le labbra quando il sonno la abbandonava e la sua stanza si apriva al giardino, il trono di fiori ad attenderla per un primo saluto.

Rosa di Terra e bais di Ichìan, truus di Contues e flèon di Mriaase. I suoi preferiti. Indossava i colori del roseto terrestre - verde intenso e rosso vivo - quando si sentiva come una ragazza, il suo corpo un fusto di rami che ancora non aveva messo radici, pronto a cercare gioia nel terreno più adatto.

Era come le rose terrestri: ritrosa a svelarsi, bella solo quando curata, da ammirare in segreto.

La Serenity dei momenti successivi al riposo era una donna sola, in pace con se stessa. Reclinava il capo sul letto di pensiero, godendosi il vento che richiamava su se stessa, la brezza che si insinuava sotto la veste accarezzandole il corpo.

Sorrideva, Serenity.

Vivevano con lei le rose che aveva fatto crescere tra lunghi sforzi, senza infondere loro potere: aveva rispettato la loro ferrea volontà di esistere con regole che lei non poteva distorcere. Permetteva loro di morire quando lo desideravano, e creava un nuovo rapporto d'amore coi figli dei loro figli, boccioli che nascevano, fiorivano e appassivano nel tempo di un soffio. Effimeri.

Aveva concesso il favore della morte a ogni fiore alieno che risiedeva nel suo giardino, ma le rose erano speciali.

Il giallo sfrontato dei baisis la faceva ridere. Il blu intenso dei truusn la incantava. I flèonas la confondevano, fiori bianchi che avevano scelto di privarsi del colore. Erano immacolati, candidi, privi di esperienza. Li ammirava.

Ma le rose erano sempre state con lei, sin dal principio di tutto. Un dono di suo padre, per insegnarle la caparbietà. Non tutto può andare come vuoi tu. Le rose sgargianti l'avevano vista crescere e cambiare. Davanti a loro, con loro, era diventata una regina. Le rose, rose mie, l'avevano osservata nel riposo mentre i periodi si susseguivano l'un l'altro senza cambiamenti. L'avevano accompagnata discrete, compagne tenaci, guardandola da fuori la sua stanza.

Non raccontava loro che era una sovrana amata. Lo sapevano. Mentre tagliava i loro rami, le mani sporche di terra, una volta aveva sussurrato, 'Sono terminata'.

Si sentiva un fiore appassito quando apriva gli occhi e ricordava che l'attendevano momenti già vissuti, una vita sperimentata per intero che si sarebbe ripetuta identica nel tempo, immutata.

Sono una regina vuota. Se la mia Luna sapesse?

Impossibile, pertanto lo nascondeva a chiunque. Presentandosi oltre la porta delle sue stanze, diveniva sua maestà eterna, ragione e cuore, anima della Luna.

I suoi sudditi la amavano.

E io, pensava lei, vi donerò una principessa quando sarà arrivato il mio tempo. La crescerò lontano da me, così che lei conosca la gioia e creda nella follia dell'amore. Sarà una regina che adorerete, una Luna di luce. Per morire io andrò lontano da qui, col mio roseto. Mi sdraierò ove il nostro Elios non giunge e mi addormenterò in eterno felice, sul suolo della Luna che fui.

Aveva perso la ragione, si redarguiva poi, ancora immersa in quel fiume di pensieri. Si alzava, allontanandosi da tutto; rose, baisis, truusn, vegetali senza voce. Correva dai suoi sudditi a comportarsi da persona vera, a udire risposte, a tentare di ascoltare parole e assorbire pensieri. Quando il sonno la vinceva, nella solitudine agognata della sua camera, si chiedeva perché non l'avesse già fatto. Perché non si era già lasciata andare al cammino del termine? Una nuova e giovane Serenity le avrebbe permesso di andare, l'avrebbe sostituita in breve tempo.

Sarebbe stata la sua sconfitta.

Madre, padre. Mi mancate.

Non le avevano donato alcun fratello. Poteva essere il motivo della sua pazzia?

Sorrideva tra sé. L'universo era in disordine. Lei e le altre sovrane lo percepivano intensamente, lo temevano. Il bagliore del caos si era infiltrato tra loro in forme semplici, eventi casuali sparsi nelle ere.

Una Venere che si spegnava un periodo prima del tempo stabilito. La linea di Plutone che tagliava ogni legame col mondo esterno. La ribellione su Giove. La stirpe di Marte che entrava in lotta con se stessa. La Terra che si annullava per propria volontà. Mercurio, Urano e altri non avevano ancora dato segni di squilibrio o, come accadeva a lei, li tenevano celati.

Nessuno ne aveva sentore, ma la Luna aveva una Regina che desiderava perire. Quale offesa maggiore per l'ordine del cosmo?

Serenity attendeva e osservava.

Provava piacere nel guardare le vite altrui, storie che si compivano serenamente. Non le invidiava, lasciava che le strappassero un sorriso prima di addormentarsi, quando ormai era troppo stanca per pensare.

 

Cambiò tutto con la comparsa di una mano. 

Una mano, tre dita nel suo amato roseto che lo afferrarono ferendosi, le spine che affondavano nella carne estranea fino a fiorire di sangue.

Serenity si levò dal suo giaciglio, volò verso i giardini. Il comando di una punizione si spense sulle sue labbra. Tra il roseto e il baisien giaceva sul suolo duro un uomo con le vesti lacerate, il volto deformato da una smorfia. Il dolore gli strappò un grido rauco di sofferenza.

Chi sei?, gli ordinò lei.

La risposta la colpì alle gambe, un calcio contro stinchi che non avevano mai conosciuto colpo estraneo. Sgomenta, non reagì.

"Àisanee riòndas."

Il ringhio da bestia le impose di mostrare la propria potenza. Minacciò l'uomo con un'aura di forza, ma lui gridò, trafitto.

"Àisanee riòndaas!" L'estraneo si strinse lo stomaco grondante di sangue, lacerato su un lato.

Lei gli impose immobilità e lui tornò a urlare.

"Àisa Àisa Àisa..." Parole biascicate che seppero di minaccia.

Inconcepibile.

Serenity esercitò l'autorità della propria gola. "Parli con una sovrana, straniero."

Lui sputò a terra, striando di sangue marcio la durezza del marmo. "Riòndas!"

Lei decretò la propria pazienza esaurita. Colpì l'aria con una manata secca, trasferendo il colpo sulla nuca dell'uomo. Lui perse i sensi.

Alieno.

  

Mantenne rigida la dimensione dei giardini prima di portare l'estraneo all'interno delle proprie stanze. Lui era entrato tramite un varco spaziale di cui non si avvertiva più traccia.

Pericolo.

Come era riuscito quell'uomo ferito e privo di potere a fare breccia nell'area spaziale della Luna, nelle sue stanze? In quale mondo esistevano ancora esseri umani nella cui essenza non scorreva forza?

Ebbe le sue prime risposte quando iniziò a sanare le ferite di lui: caparbie, quelle rifiutarono la guarigione. Potenti a loro modo, le lacerazioni si opposero a tutto il suo potere e a qualunque tentativo di manipolazione di elementi umani e carne. Il sangue defluiva copioso sulle lenzuola d'argento.

La rosa è morta, papà!

Attonita, si gettò sull'uomo e premette con le mani sulle ferite, strappandogli un lamento privo di coscienza.

Il potere non funzionava.

Infilò la mano dentro il corpo viscido di sangue e caldo di morte, trattenendo un conato. L'odore era nauseabondo.

E il suo potere non funzionava.

Non esisteva in tutto il loro sistema stellare un essere più potente di una Serenity.

Nell'universo non esiste una forza maggiore di Serenity, noi saremo...!

Farneticazioni che non avevano utilità. Fece apparire tra le mani pasta di chròs, gioco di un'infanzia dimenticata. La modellò sui vasi di sangue di lui; le sue dita scivolavano, il sangue non si fermava. Riuscì a tamponare la lacerazione interna, le mani immerse in un corpo estraneo che non pareva umano: fluidi, lezzo, consistenza di carne che non conteneva in sé alcun potere. Dov'era un uomo in tutto ciò?

Pulì la mano sulla mascella ruvida di lui, grumi di porpora brillante che coprirono peli biondi e corti, rigidi e fuori posto.

Alieno, un essere umano antico e superato.

Con la pasta di chròs terminò di rammendare il taglio netto sullo stomaco dell'estraneo. Come bende usò le lenzuola argentate che aveva confezionato con le sue stesse mani. Rovinate per sempre.

Si tirò indietro e poté tornare in piedi, l'emergenza svanita.

Guardò le proprie vesti chiazzate, i capelli chiari incrostati di sangue, il proprio volto in un riflesso.

Era sorpresa, colta alla sprovvista, disgustata.

Si sentì viva.

  

Si svegliò con occhi immobili, fissi su uno sguardo d'odio.

Bulbi oculari rosati, rovinati, e iridi della tinta del cielo spaziale, laddove esso era immenso e privo di vita.

Le palpebre dell'uomo tremavano, egli sudava dalla fronte. Aveva ugualmente la forza di detestarla. "Riòndas" sussurrò sprezzante, una sfida che la invitò a cogliere.

Serenity si levò in piedi, attese un momento. Il suo corpo smaltì lentamente i ricordi del sonno.

"Straniero."

Tentando di ignorarla, lui si sdraiò sulla schiena e deglutì il dolore. La osservò e non disse nulla, provò a stare fermo senza riuscirvi. Era scosso da brividi, una caricatura di forza.

Infezione.

Per controllare, Serenity ordinò alle bende di tagliarsi.

L'urlo rauco dell'uomo si trasformò in un attacco. Saltò fuori dal letto, verso di lei. Cadde prima di raggiungerla, toccando il suolo con un tonfo, il suo corpo un peso morto. Il dolore lo privò dei sensi.

Serenity lo compatì per la sua miseria. Per il suo ardore, lo invidiò.

  

Il regno ebbe presto notizia delle nuove intenzioni della sovrana: una pausa, di pace. Ella non desiderava essere disturbata.

La Luna affrontava la sua prima crisi da ere. Un uomo privo di potere, giunto da dimensioni e pianeti sconosciuti, penetrato nel mondo che doveva essere la culla della rinascita. Serenity non commise l'errore di sottovalutare la situazione, rimase a fianco del nemico. Lunaria dopo lunaria, lo studiò.

Nel delirio della febbre osservò le urla di lui, le sue grida, sempre le stesse parole. I tentativi di ribellione non avevano fine, egli non desiderava costrizioni, era pronto a rischiare la morte pur di opporsi.

Per sanare i suoi danni fisici, lei era tenuta ad aprire le ferite e a cambiare la pasta di chròs che impediva alla carne di sfaldarsi. Tentare di unire le ossa testarde della mascella dello straniero si era rivelato inutile: egli urlava e si agitava fino a perdere conoscenza. Sovente era lui stesso a cercare l'oblio, premendosi le mani nella lacerazione.

Nella sua folle determinazione, era caparbio e metodico: odiava il potere, lo disprezzava con tutto il suo essere. Ne percepiva l'alone, ne aveva il sentore, e si dimenava per passare all'attacco, le labbra morse fino a schizzare sangue.

Come ne sei capace?

Serenity aveva smesso di porgli la domanda mentale. Serviva solamente a distruggere i pochi momenti di apparente tranquillità.

L'odio, aveva concluso tra sé. L'odio per il potere permetteva all'uomo di respingere anche la potenza più grande. Nel suo essere inerme, egli era forte in una maniera che le risultava ignota, inquietante.

Quale pericolo saresti per la mia gente, se fossi accompagnato da tuoi simili?

"Riòndaas!"

Egli era monotono nelle sue proteste, deciso come se stesse comunicando lo scopo della propria vita in una singola parola. La urlava per opporsi alla sua forza ogni volta che lei tentava un tocco lenitivo di energia.

Per non sentirlo più gridare, Serenity gli coprìva la bocca con le lenzuola.

  

Veglia e sonno si ripeterono per entrambi in una sequenza priva di ordine, di nuovo e ancora.

Infine, mentre lui dormiva, lei decise di sollevare una sua palpebra.

Rosso e giallo erano colori svaniti in quell'occhio alieno.

Bulbo oculare bianco, iride blu, pupilla nera. Occhio in salute.

Forse sopravviverai.

  

La prima parola che tentò di fargli comprendere fu basilare, semplice.

"Acqua."

Lo invitò a bere da un recipiente creato appositamente per lui: con la gola secca e le labbra screpolate, l'uomo si era già rifiutato di bere dall'aria. Era fiero, nella sua stupidità.

"Acqua" gli ripeté lei una seconda volta, quando di nuovo lo fece bere. E "acqua" fu ciò che disse lui in seguito, quando iniziò a rivolgersi a lei come ad un altro essere umano.

  

Dopo la prima comunicazione vi fu un lungo silenzio, un periodo di studio.

La febbre svanita, l'uomo osservava le pareti della stanza, gli occhi vacui. Sveglio, contemplava immobile il nulla.

Durante le prime lunarie la guardò poche volte, senza interesse. Lei non era importante per lui ed egli, concluse Serenity, pareva innocuo.

Ma se ti rivelerai una minaccia per il mio popolo, ti ucciderò.

  

Coesistevano come due rose in un roseto, ognuno preoccupato di esistere senza accorgersi dell'altro.

La voce dello straniero la colse di sorpresa quando si fece viva fuori da urla, in un intero discorso.

"Ista ra mèias."

Voltandosi, Serenity lo trovò come morto, le braccia distese lungo il corpo, le palpebre socchiuse. Non guardava lei. Le sue parole erano state un soffio di vento, leggere nel silenzio.

"Oidèsen mer... fìndare so."

Era una preghiera. Un'invocazione, un sussurro che chiedeva di essere ascoltato da una presenza invisibile. Egli si rivolgeva alle pareti trasparenti, al cielo. Anelava la volta oscura dello spazio.

"Riòndas màighe." Il suo tono si spezzò, riprese ad una nuova cadenza. "Àirami. Àirami, àven."

Spezzato.

La conversazione proseguì lenta e dolorosa. Lei non esisteva in quella stanza.

Quando le parole smisero di defluirgli dalle labbra, l'uomo si addormentò.

  

"Serenity" gli disse lei due risvegli dopo, certa di avergli concesso tempo a sufficienza per una ripresa adeguata. "Serenity" ripeté, premendo due volte la mano sul petto, il gesto che con cui aveva già accompagnato il proprio nome. Indicò lo straniero con grazia di sovrana, la risposta un ordine che non poteva essere disatteso.

Egli non si curò dei tempi imposti, la studiò come se fosse un'incombenza che lo affliggeva. "Reny" disse infine. Annuì.

"Reny?" domandò lei, insistendo con la mano nella sua direzione. 

Contrariato, egli la indicò con la testa, deciso. "Reny." Voltò il capo verso la luce, lontano da lei. Si addormentò su quelle parole, vinto dalla stanchezza.

Aveva storpiato il suo nome, comprese Serenity. Di proposito, ne fu sicura.

   

Il silenzio proseguì senza sosta, ulteriori tentativi di contatto rimandati a tempi di maggiore sopportazione. Infine, come la Terra che sorge all'orizzonte senza preavviso alcuno, l'uomo focalizzò lo sguardo su di lei, le pupille che diventavano scure con intento.

Serenity lavorava nel roseto, fuori dalla stanza, le pareti aperte per lasciar entrare suoni e aria.

"Reny."

Colta di sorpresa, meditò di mantenere il silenzio. "Serenity" lo corresse ugualmente, pulendosi le mani dalla terra.

"Reny" insistette lui, un cuscino dietro le spalle, seduto sul letto creato per ospitarlo.

"Serenity."

"Reny." Alla decisione finale egli accompagnò l'ombra di un'espressione che Serenity faticò a riconoscere: bocca piegata all'insù, appena. Un sorriso, nascosto in una nuvola dura e gialla di peluria che non cessava di crescere.

Lei accarezzò un fiore tra le dita. "Rosa." Ne tagliò il gambo, la lanciò sul letto. L'uomo ne seguì il percorso con lo sguardo. Rimase a fissare i petali rossi che si erano sparsi sulle lenzuola.

"Rosa" ripeté Serenity.

Lui prese in mano il fiore. "Rosa." Cercò la puntura di una spina sulle dita e lacerò a fondo la carne del pollice. Soddisfatto, lasciò cadere il fiore di lato, al suolo. Scivolò sul cuscino fino a sdraiarsi e, ancora una volta, dormì.

  

Le loro conversazioni non conobbero più fine.

I discorsi di lui erano brevi monologhi di accusa, pronunciati a voce bassa, perentoria. Non la temeva o, come credeva Serenity, la temeva abbastanza da tentare di proposito di provocarla: cercava la fine, ma non per mano propria. Quando la sua testardaggine lo spossava delle poche energie che aveva in corpo, lui le poneva domande che non cercavano una risposta.

"Reny. Àivudros sà?"

"Da dove sei venuto?" ribatteva lei.

Lui la guardava. "Sàntrsel sa."

Quando parlavano l'uno con l'altra, parlavano solo con se stessi.

   

Acquisire i rudimenti del linguaggio dello straniero non fu complesso per lei, sovrana dalle infinite conoscenze.

"Àisanee sà?"

Con due sole parole si guadagnò un'occhiata rapida e lacerante. L'uomo rese gli occhi due fessure violente. Infine, decise che lei non era degna della sua attenzione e guardò altrove.

Quale insolenza.

"Riòndas sà?" insistette lei, premendo sulla parola odiosa e odiata.

"Sèprits."

"Io stessa preferisco il mio idioma al tuo. Ma prima o poi parleremo, straniero, e stabiliremo la sorte che ti attende."

La fierezza della disposizione non incontrò timore di rimando, ma solo sprezzante divertimento, l'ombra di un sentimento più forte.

"Sèprits."

"Se non hai niente da dire, fa' silenzio."

"Sèprits" fu l'ordine di lui.

Inaccettabile.

"Fa' silenzio!" La propria voce, acuta sul finale, le riempì le orecchie. Non urlava da...

Lui era scattato a sedere. "Sèprits" sibilò, una smorfia di dolore e insofferenza a minacciarla.

Pretendevano l'uno dall'altra il medesimo mutismo, capì lei.

Lo comprese lui stesso e la tensione abbandonò le sue membra. Emise un sussurro. "Sèprits, Reny."

Fu un'implorazione.

Serenity lasciò la camera.

  

Quando tornò, trovò lo spazio delle sue stanze differente, svuotato del corpo che aveva abitato perennemente il giaciglio di cura.

Lo straniero era in piedi, il braccio avvolto attorno al suo stesso corpo, a coprirlo un groviglio di lenzuola.

Respirava piano, a fatica, fermo a pochi passi dai giardini.

Serenity lo raggiunse e passò oltre, verso l'esterno. "Puoi uscire." Indicò la vegetazione.

Lo sguardo dell'uomo si posò sulle rose, sui truusn e sui candidi flèonas. Contemplò i colori come fossero vita per i suoi occhi. Ne fu sazio e indietreggiò lentamente, incerto sulle gambe.

Tornò a letto. La sua prima, timida escursione terminò così.

  

Lloygan. Un nuovo fiore lillà di rara eleganza, dono di un pretendente alla sua mano. Altro caos: quell'uomo non era altro che un sovrano del suo stesso sistema stellare. Inoltre... Ti illudi, ma non è necessario che tu lo sappia.

Gli attendenti di palazzo avevano lasciato il regalo fuori dalle sue stanze. I petali delicati avevano recato con sé l'accompagnamento di parole succinte e poetiche, impegno sprecato per conquistarla.

Ma il fiore le era gradito. Nelle sue stanze private poteva rendergli omaggio senza alimentare speranze inesistenti. Lo portò con sé fin nei giardini, posandolo sulla pavimentazione di marmo che circondava le aiuole adorate su cui aveva lavorato con cura. Con le braccia ormai alte, sollevate per creare uno squarcio preciso nelle ampie lastre quadrate, si interruppe.

Dall'interno della camera lo sguardo dello straniero era fisso su di lei, pronto ad odiarla.

Serenity osservò la durezza lucente del marmo e unì le labbra fino a sentirsi senza bocca, muta per la frustrazione.

Attorno alle aiuole il marmo era modellato in piccoli pezzi separati, in rilievo, come aveva voluto lei stessa. Ne individuò uno e affondò le mani nel terreno, incastrando le unghie sotto la sua superficie. Tirò con tutta la forza che aveva. Quando mollò la presa, ricadde all'indietro, nessun potere a fermare il colpo.

La accettò come una sfida.

Col tacco della scarpa, pestò il marmo nel punto di giuntura, più e più volte. La prima crepa la fece sentire vittoriosa.

Servirono sudore, muscoli e strumenti impropri per separare quel singolo pezzo di materiale, a sua volta nient'altro che uno strumento per attaccare le lastre in cui lei desiderava creare la sua nuova aiuola.

Con la Terra ormai tramontata all'orizzonte, Serenity percepì accanto a sé una presenza. Scelse di non gratificarla con lo sguardo desiderato.

"Reny."

Lei continuò col proprio lavoro. Il marmo rotto le feriva il palmo se tentava colpi dall'alto, perciò aveva ritenuto più saggio procedere con un'incisione paziente e continua delle lastre sui punti di unione, per allargare crepe finissime. Sarebbero occorse decine di lunarie per terminare l'opera.

Il sudore cominciò a scivolarle dalla fronte. Ancora non era rimasta sola.

Prese le lunghe code che continuavano a intralciarla nel suo lavoro e le annodò strette sulla testa. Percepì un suono di divertimento che le impose di distrarsi e guardare lo straniero.

Come osava lui?

Ma egli non stava ridendo di lei. Sorrideva esausto della situazione e fissava le sue dita che stringevano maldestre il pezzo di marmo.

"Reny" ripeté. Sollevò una mano nella sua direzione, stabilendo un collegamento tra lei e il nome, quindi la portò al proprio petto.

"Sian."

Annuì e premette le dita su di sé.

"Sian."

 

CONTINUA

 

 


 

NdA: sarà una storia in due parti. La seconda parte - su cui fantastico da tanto tanto tempo - meritava più spazio e attenzione.

Ci tengo a ringraziare Tomoyo_Daidoji per l'idea di questa fanfic. Tempo fa (più di un anno fa, incredibile), all'interno delle richieste per la raccolta Imagining, mi buttò giù l'idea di scrivere una storia basata sulla canzone di Franco Battiato, 'La cura'. Ho conosciuto questa canzone tramite lei e l'idea di questa storia è nata dal testo, più precisamente da questi passaggi:

 

Ti proteggerò [...] dai turbamenti che da oggi incontrerai per la tua via.
Dalle ingiustizie e dagli inganni del tuo tempo, [...]
Ti solleverò dai dolori e dai tuoi sbalzi d'umore, dalle ossessioni delle tue manie.
Supererò le correnti gravitazionali, lo spazio e la luce per non farti invecchiare.
E guarirai da tutte le malattie, perché sei un essere speciale, ed io, avrò cura di te.
[...]
Ti porterò soprattutto il silenzio e la pazienza.
Percorreremo assieme le vie che portano all'essenza.
[...]
Conosco le leggi del mondo, e te ne farò dono.
[..]
TI salverò da ogni malinconia,
perché sei un essere speciale ed io avrò cura di te...

Quell' essere speciale mi colpì molto a suo tempo. Sian, l'uomo che ho presentato in questa storia, è decisamente un essere speciale. Di lui capirete tutto - quasi - nella parte finale della storia.

Il testo della canzone, nei passaggi che ho riportato, delinea l'essenza della storia che voglio raccontare.

 

Grazie per aver letto, spero che mi farete sapere cosa ne pensate della storia.

 

ellephedre

 

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Capitolo 2
*** 2 ***


reny

 

Reny
 
Autore: ellephedre

 

Disclaimer: i personaggi di Sailor Moon non mi appartengono. I relativi diritti sono di proprietà di Naoko Takeuchi e della Toei Animation.

 


  

Sian.

Capelli color dell'oro terrestre e occhi socchiusi, che squadravano con sospetto e abbandono i luoghi di cui egli era ospite forzato. Lo straniero aveva spezzato in due - con le mani - la porzione di materiale marmoreo che lei aveva tentato di utilizzare come strumento. Le aveva indicato di attendere, quindi aveva iniziato a sfregare tra loro, ripetutamente e con calma, le superfici ruvide che aveva ricavato.

Non l'aveva più guardata e non aveva proferito altre parole. Immergendosi nel compito umile che si era prefissato, aveva rilassato le spalle e incrociato le gambe. Con l'allungarsi dei momenti, il suo lavoro si era fatto meccanico, rassegnato. La sua mente si era spostata nel passato, lontana da un presente che non aveva interesse ad abitare.

Serenity aveva osservato le rose.

Si comportava con loro come faceva lo straniero coi pezzi di marmo. I fiori erano la sua distrazione dal mondo. Aveva relegato la loro bellezza e vitalità ad un ruolo immeritato: quando ne aveva cura, chiedeva loro silenziosamente di portarla alla dimenticanza di sé.

Non sono una Regina morta, non sono una Regina che non sa vivere. Sono questa donna, che taglia gambi, estirpa radici e versa acqua. Sono questa donna che osserva e contempla serena i propri fiori, nella tranquillità della propria dimora.

Come l'alieno, era degna di pietà, l'ombra di se stessa.

Si alzò e raccolse una rosa rossa, l'esemplare coi petali più morbidi e lucenti. Tornando al proprio posto, sfiorò il materiale tra le mani di lui. "Marmo." Si sedette e sollevò la rosa tra le mani. "Rosa."

Lo straniero - Sian - fece una pausa nel proprio lavoro. Rivolse uno sguardo al fiore che lei teneva tra le dita. "Marmo" annuì. "Ro..." La sillaba si spense sulle sue labbra, suono colpevole e amaro.

Iniziò a trattare l'immagine della rosa come fosse divenuta trasparente ai suoi occhi.

Si ammutolì e, per quella lunaria, così rimase.

   

I giardini divennero il luogo in cui lui scelse di stare. Dormiva sul giaciglio che gli aveva permesso di recuperare le forze, ma da sveglio usciva dalle stanze e si prodigava a lavorare sull'aiuola da creare. Quando voleva riposare, si fermava e guardava il cielo, seguendo il percorso che la Terra compiva nella volta spaziale.

"Terra" gliela descrisse una volta lei, prima di indicare i loro dintorni e il suolo su cui poggiavano. "Luna."

Lui aveva ripetuto atono le parole, gli occhi che si muovevano lenti a indicare le entità nominate. Aveva fatto silenzio, poi aveva guardato nel vuoto e aveva detto, "Àven."

Aveva abbassato le palpebre, lembi di pelle provati da sonni agitati e infelici.

"Sian ni Àven."

 

Sin da quando ne era stato in grado, Sian di Àven si era nutrito con riluttanza dei pasti che lei gli aveva offerto, cibi semplici e pressoché insapori, pensati per una digestione semplice che non gravasse su un corpo provato. Serenity aveva compreso che, se lo straniero avesse potuto nutrirsi di sola volontà, non avrebbe mai mangiato.

Nei primi tempi, abbandonato sul letto per intere lunarie, egli se n'era rimasto ad osservare i piatti che si freddavano, sfidandosi da solo a non cibarsene. I vapori che abbandonavano il cibo caldo giungevano alle sue narici senza causare apparenti reazioni. Nei momenti in cui lei si addormentava o non gli prestava più attenzione, per l'alieno le necessità del fisico vincevano su quelle della mente.

Col corpo che riprendeva le forze, egli aveva in seguito rinunciato alla propria battaglia: mangiava ogni cosa, muovendo la mandibola come se dovesse ricordarsi, di volta in volta, di comandare ai denti di masticare.

Era un'altra operazione di cui occuparsi per lui, solo un modo per far trascorrere il tempo. Nei suoi occhi correva il vuoto o un ricordo, nulla che trapelasse nel presente.

Per le sue necessità di pulizia corporea, Serenity aveva messo a disposizione acqua, teli e unguenti, nonché un contenitore con coperchio pensato per gli infanti, troppo minuto per un uomo cresciuto. Poiché non le erano noti adulti che si rifiutassero di provvedere alla propria depurazione interna senza l'indispensabile ausilio del potere, aveva lasciato a lui l'incombenza di adattarsi. Regolarmente, si era curata di impegnarsi in leziose passeggiate nei giardini, per dargli il tempo di provvedere al mantenimento del proprio decoro.

Da malato, Sian di Àven aveva provato gusto nel lasciarle il compito di mettere ordine a operazioni terminate, una evidente forma di disprezzo nei suoi confronti. Quando poi era riuscito ad alzarsi e si era acceso in lui un minimo desiderio di comunicazione, quel problema era venuto meno.

La buona volontà e la salute ritrovata colpirono Serenity a sufficienza da offrirgli un pasto dotato di degni sapori.

Semi di rès lievitati e vegetali terrestri di prim'ordine, questo ordinò per il piatto di lui.

Dopo aver assaggiato il cibo, Sian di Àven lo deglutì in fretta, in volto un'espressione che poteva essere confusa per mite soddisfazione.

A pasto terminato l'espressione di lui cambiò rapidamente, assieme al colorito del suo viso. I lunghi respiri, mantenuti forzatamente silenziosi, non furono sufficienti a sanare la situazione. Egli scattò in piedi. Tenendosi il fianco ferito, si trascinò veloce fin dove poteva, appena fuori dalle stanze. Lì rimise tutto ciò che aveva ingerito.

Storcendo il naso, Serenity si costrinse ad alzarsi.

Vi era dignità in una condizione simile? Cosa distingueva quell'uomo da un'umile bestia, un essere che possedeva almeno il buon senso di non credersi superiore al proprio stato? Non vi era ragione di assecondare le sue credenze, la soluzione che lui si rifiutava di prendere in considerazione era veloce e indolore: il potere era di aiuto nell'evitare situazioni degradanti.

Una mano alta dello straniero la fermò nel suo breve cammino, il corpo di lui ancora piegato in avanti.

"Àirami." Un soffio veloce, deciso.

Lei sollevò le dita in aria e sviluppò potere, pulendogli il viso.

Sian di Àven la afferrò per il polso, esercitando una pressione violenta. "Riòndas."

Dissipando la propria energia, Serenity lo sfidò ad approfondire la minaccia.

Egli raddrizzò la schiena, prese un respiro più intenso. Piegò quindi la testa, piano e con grande sforzo. "Àirami" ripeté a mento basso, lo sguardo rivolto al suolo che aveva sporcato. La lasciò andare, chiedendole col palmo di tenersi lontana. Fu assieme comando e invocazione.

Egli si diresse a recuperare dell'acqua e i teli che usava per lavarsi. Li adoperò per pulire, inginocchiato, la forma della propria vergogna.

Quando terminò, Serenity lo seguì con lo sguardo.

Tra le mani un fagotto di stoffa sporca, l'uomo si stava dirigendo alla fonte che riforniva d'acqua pura i giardini.

Àirami.

Una parola di umiltà, la prima che Sian di Àven aveva pronunciato dopo l'indecoroso incidente. Una parola che aveva ripetuto, rivolgendosi a lei e sforzandosi di mostrare rimorso.

Nel comprendere il significato del termine, Serenity ebbe un ricordo.

Àirami. Gli occhi dello straniero rivolti supplicanti al cielo. Àirami, àven.

... Àven. Il nome del suo pianeta.

Perdono, aveva detto.

Perdonami, Àven.

 


 

Serenity si unì a lui nella sua occupazione quotidiana, la lotta impari contro il marmo ostinato dei giardini.

Non erano lontani dal separare una prima lastra dal pavimento, ma lei divenne ancora più caparbia nel costruire una conversazione tra loro, una comunicazione che andasse oltre il mero scambio di suoni che identificassero oggetti. Riconosceva come inevitabile quel primo passaggio, ma lo accelerò per poterlo rapidamente superare.

"Mano. Mano." Indicava i rispettivi arti. "Vesti. Vesti." Danzava con le dita attorno agli abiti che indossavano entrambi. "Rose, petali. Rami. Marmo, lastra. Lastra."

Egli la osservava come se fosse vento che si ostinava a colpirlo.

Uno schiaffo veloce alla mano lo mise in allerta.

"Scusa" concesse Serenity. Chinò lievemente la testa. "Àirami."

Quando vide che egli aveva compreso, lo picchiò di nuovo sulla base del palmo.

"Reny."

Avergli strappato un avvertimento le causò un sorriso che tenne celato. "Picchiare." Scandì il suono e colpì le proprie dita, senza risparmiarsi. "Picchiare" ripeté lentamente.

L'attenzione dello straniero era per lei.

"Parlare." Serenity disegnò onde accanto alle proprie labbra. "Par-la-re." Annuì e ripeté il movimento, lasciandolo partire dalla gola, indicando i suoni che si levavano in aria. "Sto parlando. Prima tu hai parlato." Accentuò la parola che gli stava insegnando e quella che si riferiva a lui. Incrociò il suo sguardo concentrato e annuì. "Parla." Ottenne un naturale silenzio. "Parla" insistette.

"Reny."

Venne invasa da una sensazione di vittoria. "Hai parlato." Annuì in premio.

"Reny, sèprits."

Sorrise a se stessa, a lui. "No" scosse la testa. Il silenzio non portava a nulla. "Parleremo."

Egli non ripeté il suo comando e lei lo anticipò prima che lo impartisse nuovamente. Allungò una mano di lato e la mosse in aria delicatamente, come creatura volante. "Movimento."

Si alzò in piedi, girò brevemente su se stessa. "Movimento."

Non stava più seguendo una logica nel trasmettere le conoscenze del proprio linguaggio. Agiva in libertà, una mente che vagava senza regole.

Sollevò una gamba sotto le lunghe gonne, la piegò di lato fino a sporgere col piede dal tessuto. "Movimento." Si irrigidì e si mise seduta, gambe unite e mani composte sul grembo. Divenne grave nel tono. "Immobilità." Lo indicò dove stava, fermo e silente. "Immobilità. Immobile."

Il viso di lui era privo di reazioni chiare, il suo unico pensiero visibile in un tremito della guancia. Aprì lievemente la bocca e non parlò, una scelta derivata solo dalla mancanza di vocaboli.

Si espresse infine come era sua abitudine.

"Fèigrin ra còistenra. Mis tànisre."

"Stai parlando."

Egli abbandonò sul suolo gli strumenti di lavoro in marmo. ". Sa sèprits, Reny."

Si allontanò verso le stanze, lasciandola sgomenta.

Aveva detto....

   

Non era stata l'unica tra loro a studiare il linguaggio dell'altro, comprese.

. Una sillaba che lei aveva pronunciato di sovente, tra sibili di rabbia contenuta o in compagnia di semplici affermazioni calme, discorsi con se stessa - su di lui - che gli aveva lanciato contro. In contemporanea, Sian di Àven le aveva rivolto incomprensibili invettive di simile natura.

Il tono, un movimento particolare delle sopracciglia... Comprendere qual era il termine che racchiudeva in sé un'affermazione positiva poteva essere semplice.

Sì. No.

Sian li possedeva entrambi oramai, mentre a lei sfuggivano nel linguaggio alieno di lui. . Aveva creduto che quel suono...

Pronta a intraprendere di nuovo la sfida, decise di combattere nei momenti precedenti al sonno, quando la resistenza di lui era più debole.

Riverso sul letto, trovò un uomo abbandonato al proprio dolore, le pupille larghe e fisse sulle lenzuola, le labbra semiaperte e secche nella folta peluria bionda.

Àirami. Àirami, Àven.

Il silenzio della sua sofferenza la rese umile.

Si sedette accanto al giaciglio di lui, sul suolo.

Nelle camere che condividevano malamente da un intero ciclo di Luna, posò le braccia sulle ginocchia unite. Studiò il buio del luogo segreto che aveva glorificato la sua solitudine di sovrana.

"Del tempo in cui nacque la Luna, si narrano innumerevoli fantasie."

"... sèprits."

Serenity divenne più dolce nell'esprimersi, soave e innocua. "Della mia Luna si dice che nacque come donna nello spazio, vagabonda senza dimora che si espanse sino a creare la propria casa." Posò la guancia sulla spalla, morbidezza e calore al contatto. "Si narra che fummo un bacio dell'Helios al firmamento, luce che potesse splendere senza fuoco."

Cullò a parole il silenzio di lui.

"Si narrano grandiose menzogne di ciò che fummo. Lo permettemmo. Abbiamo in verità molti nomi e un solo ruolo, per una sola di noi. Il resto è attesa, un intervallo in pausa che è divenuto vita per me. In potenza non conosco sconfitta, non ho corona e sono ignota nella mia natura. Un mistero, se non per una Serenity della Luna. Parli con una regina che è un passaggio nella sua stirpe, ma una sovrana per il suo popolo. Loro non sanno. Non vorrebbero sapere." Chiuse gli occhi, gravata dal peso di eventi a cui non avrebbe mai assistito di persona. "Hanno ragione. Può esistere colpevole ignoranza quando non vi è motivo di conoscere? Essi vivono e muoiono, compiono sereni il proprio cerchio. Io insegnerò alla nuova Serenity che è giusto essere come i nostri sudditi. Non esistono re e regine. Non esistono sovrani quando vuoi sorridere e far crescere una rosa. Esiste solo..."

Se lo domandò lei stessa.

"Ho trascorso molto tempo senza una risposta." Eppure essa non poteva celarsi lontano dalla sua Luna. Ne era convinta, doveva crederlo.

Cercò nell'ombra scura accanto a sé. "Àven. Quando mi parlerai del tuo pianeta, ti assisterò nel tuo ritorno ad esso."

   

Serenity si destò dal proprio sonno col peso del silenzio nelle orecchie.

Ad occhi aperti trovò vuoto il giaciglio di riposo accanto a sé. Allarmata, accese per istinto i sensi in una ricerca rapida, infruttuosa. Si alzò e cercò ansiosa nell'area dei giardini. Il luogo di lavoro vicino alle aiuole era abbandonato, uno degli improvvisati strumenti di marmo rotto in più pezzi.

Si sentì smarrita nella sua stessa casa.

Cercava un corpo senz'aura, una persona che riusciva a parlare, ad esistere e a soffrire, senza emanare un solo soffio di energia. Pensava di essersi abituata ad averlo intorno fino a che lo aveva avuto nel suo campo visivo, rapidamente individuabile. Ma ora?

Egli poteva essere uscito dalle stanze, tra la gente.

Si trattenne dallo spalancare le porte.

I giardini erano vasti, escludere che vi si fosse addentrato era prematuro. Si liberò delle calzature e corse verso la fonte d'acqua pura. Giunse a quel luogo con passi soffici, accarezzando coi piedi zolle di erba e lastre di marmo.

Sian di Àven era seduto sul bordo della lunga vasca, le gambe immerse nell'acqua, il capo chinato in avanti. Le rivolgeva la schiena e, dai movimenti delle sue braccia sollevate, lei intuiva lo svolgersi di una misteriosa operazione sul suo viso. Spostandosi silenziosa, Serenity giunse a vedere il pezzo di marmo nella mano di lui. Con le dita egli tirava i peli morbidi che gli adornavano le guance. Col lato appuntito dello strumento, premendo sulla base dei ciuffi, tagliava.

Come punizione il sangue gli piaceva: noncurante, egli lo versava dalle nocche, in rivoli sul collo, come macchie sulle vesti.

Serenity comprese di non avere più intenzione di ospitare un martire delirante. Si concentrò sulle proprie mani chiuse a pugno e, in un istante, diede vita a un semplice utensile.

Sian di Àven si tese, trafitto a schiena rigida. Per lui l'energia benefica che pervadeva la Luna era ancora il segno di una minaccia puntata alla gola.

A lei non importò più: lo aveva assecondato oltre ogni limite di sopportazione, per entrambi. Dopo un intero ciclo di lunarie passato sul suo pianeta, quell'uomo non si era ancora rassegnato al principio fondamentale che governava tutti loro.

Serenity si diresse da lui, la piccola lama con manico stretta nel pugno.

Giunse a sfiorare l'acqua con l'orlo delle gonne e allungò il braccio, offrendo lo strumento allo sguardo d'odio alieno che si posò su di lei, valutando le sue intenzioni con infinito isprezzo.

Il movimento della mano di lui fu calmo, calcolato. Prese dal suo palmo l'oggetto, lo tenne nel pugno senza guardarlo, osservando invece lei. Si accertò di farle vedere la soddisfazione che provò quando, con un rapido movimento, gettò il coltello in acqua.

Impongo giustizia, insegno ad estranei come si vive in un mondo che non mi appartiene e che neppure conosco.

Era come se lui lo avesse detto.

Era un Re, comprese senza più dubbi Serenity. L'arroganza delle sue azioni e delle sue convinzioni era possibile, davanti a una Regina come lei, solo per un regnante che fosse convinto di essere un suo pari. Privo di forza com'era, egli conservava ugualmente la dignità che ogni sovrano o sovrana doveva portare in sé, quale anima del proprio pianeta.

Ma sulla Luna egli era un ospite. Umile personaggio comune, se lei decideva di trattarlo come tale.

Lo straniero era un Re senza pianeta, che invocava implorante il perdono di un mondo lontano.

Fu solo per pietà che Serenity decise di essere clemente con lui, ma non per questo si arrese. Osservò il luccichio dello strumento che si era posato sul fondo dell'acqua e mosse veloce la gamba, poggiando il piede in avanti, sul pavimento, e dandosi il giusto slancio. Col corpo disegnò in aria un arco che sparì nel fresco della fonte.

Acqua, dolce acqua in cui non vi erano regine o potenti, solo respiro e silenzio.

Aprì gli occhi e dimenticò il proprio abbandono. Si spinse verso il basso, sino a chiudere tra le dita l'impugnatura dell'utensile che aveva creato secondo le credenze dell'alieno. Egli desiderava una lama? Lei gliene aveva data una e ora Sian di Àven, in una maniera o nell'altra, ne avrebbe fatto uso.

Riemerse. Nuotando, tornò davanti a lui, imponendo ai suoi occhi la vista del coltello, un dono forzato che doveva essere accettato.

Fu un attimo, un errore: per sollevare il braccio sopra l'acqua smise di sostenersi coi muscoli e lo fece col potere.

Allertato, lui l'afferrò per la spallina della veste e la trascinò verso di sé, chiudendola nella morsa delle gambe. Così la tenne fuori dall'acqua, con la punta della lama che toccava la sua gola scoperta.

"Riòndas àisami, àisanemisra." Il coltello tagliò, entrò sottopelle. "Làren sa àcarisca. Carìs... Carìs, mèsa."

Un soffio in più e la lama avrebbe reciso il vaso sacro, il tubo di carne morbida che proteggeva il percorso vitale del sangue verso la testa. Sarebbero stati sufficienti pochi momenti: forse non sarebbe riuscita a comandare alla pelle di ricompattarsi in tempo, forse la sua mente si sarebbe spenta prima. Il suo termine poteva giungere... ora.

Eccolo il suo riposo, in pace, nella fonte del suo giardino. Le rose, il loro profumo lontano nelle narici. Il suo corpo nell'acqua fresca, dove non sarebbe mai stata ritrovata. Il riposo nella culla della sua Luna, che non aveva amato abbastanza da vivere.

Deglutì e accettò il dolore del taglio come la giusta punizione per una regina che non meritava il proprio pianeta. Poi mosse il braccio per allontanare la mano di lui, la protezione di potere già pronta a difendere tutto il suo corpo. Sian di Àven sciolse la presa prima di lei.

Serenity galleggiò all'indietro. Il sangue della ferita sul collo andò a mischiarsi ai rivoli d'acqua che le cadevano dai capelli.

Con un dito, chiuse il taglio sulla pelle.

Uno sciabordio si abbatté su di lei con un'onda lieve: Sian di Àven era entrato in acqua, la lama che l'aveva ferita in mano, tesa verso di lei.

"Carìsmi." Appoggiò la schiena contro il bordo della fonte e annuì, umile. "Carìsmi. Sànaa." Lui concordò con un inespresso proposito e sollevò il capo, scoprendo il collo chiazzato di peli biondi e sangue. "Sànaa" ripeté, insistendo nell'aprire verso di lei il palmo col coltello.

Le offriva, capì Serenity, la stessa punizione finale che era stato sul punto di infliggerle.

Così termina anche questo, pensò lei. Chiuderemo la vita inutile di un uomo inutile, che non trova più ragioni per esistere.

Prese la lama e nuotò verso di lui. Si sostenne anche con il potere, di proposito, osservando il modo in cui Sian l'alieno accettò rassegnato di non contrastarla più, convinto di non avere più un motivo di farlo.

"È un primo passo" sussurrò lei, teletrasportando nel palmo della mano libera un velo d'unguento. Glielo spalmò sul viso prima che lui potesse opporsi, sentendolo tremare per lo sforzo di controllarsi. Gli schiacciò la testa di lato con un palmo aperto, studiando la maniera migliore per far scivolare il filo della lama sulla sua guancia.

"Fa' silenzio" gli disse, quando percepì che egli stava per parlare e farneticare di nuovo di riòndas e àisanee che non significavano nulla sulla Luna.

Non lo avrebbe ucciso. Sarebbe stata la sua punizione, se insisteva tanto nel cercarne una.

Sarebbero sopravvissuti entrambi, a forza se necessario, fino a che non fossero tornati umani, capaci di non guardare alla morte come a una soluzione.

Come sovrani, rappresentavano l'ordine nel cosmo. Spettava a loro combattere contro il caos, invece di diventarne lo strumento.

Dovevano vivere. Avevano qualcosa per cui vivere.

La mia gente.

La mia Luna.

Sollevò gli occhi al cielo e passò delicatamente la lama sulla pelle di lui, senza ferirlo.

Sei la mia Luna, il mio pianeta. Per il momento in cui mi sono arresa... Perdonami.

Riuscì a non piangere.

 

CONTINUA

 


 

NdA: sarà una storia in tre parti -_- . O quattro? Se non riesco a terminare in altri 30KB la loro storia, le parti saranno quattro.

Mi sono accorta di essere arrivata alla stessa lunghezza del primo capitolo con questa seconda parte e che... andava bene fermarsi qui.

Serenity in questo capitolo prova a comunicare con Sian e finisce col comunicare molto a se stessa.

Cosa pensate di lei? E di lui?

Le reazioni di Sian e le sue motivazioni non sono ancora chiare, spero di riuscire a farvi capire bene la ragione di tutte le sue azioni.

 

ellephedre

 

 

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Capitolo 3
*** 3 ***


Reny 3

Reny

Autore: ellephedre

Disclaimer: i personaggi di Sailor Moon non mi appartengono. I relativi diritti sono di proprietà di Naoko Takeuchi e della Toei Animation.

 


 

Nella lunaria successiva allo svelamento del suo volto, Sian di Aven si alzò e cominciò a camminare. Con le guance ancora deturpate dalle ferite, superò le stele di marmo che stavano limando insieme e procedette verso l'interno dei giardini, senza indugiare.

Serenity posò gli strumenti di lavoro e lo seguì a distanza, domandandosi se in lui vi fosse desiderio di esplorazione o fuga. Senza saperlo il suo ospite si stava dirigendo verso il cuore del territorio che lei aveva riservato a se stessa sul pianeta - una larga e vasta area che custodiva ricordi pregnanti per la sua stirpe.

Sian avanzava incurante dell'ambiente che lo circondava, come se il suo unico fine fosse quello di far lavorare le gambe. 

Serenity lo accompagnò nel suo viaggio fuori dal palazzo, all'interno della Valle Eterna. L'orizzonte era sgombro di monti o rilievi. I prati sterminati ondeggiavano alla brezza del vento, accogliendo il calore della fase eliosa del pianeta. Serenity non pensava nemmeno più al fenomeno che aveva dovuto imparare a controllare: ormai il rilascio delle particelle di luce solare concentrata, raccolta durante il viaggio della Luna nel cosmo, avveniva in maniera indipendente dalla sua volontà, come il semplice atto di respirare.

Sian procedeva nella sua scoperta della Luna al medesimo ritmo, senza perdersi nella contemplazione di un albero, di un fiore, di un masso. Solo qualche animale catturava la sua attenzione, guadagnandosi un movimento della sua testa, non sufficientemente deciso perché il resto del corpo lo seguisse.

Dopo una lunga camminata giunsero in vista della Depressione di Reitan, un cratere profondo quanto cento esseri umani nella sua parte iniziale. Secondo le sue antenate, gli effetti della battaglia che si era combattuta in quel luogo lo avevano reso oscuro per cento generazioni. In seguito, lentamente, la vita era tornata anche in quello scampolo di Luna. Ora, nel suo punto più profondo, vi era un vasto lago in cui abitavano minuscole creature estranee al loro intero sistema stellare. Serenity proteggeva quell'ecosistema con una cupola di potere atta a preservarne l'unicità.

Era l'impronta di una lontana galassia, nel centro della sua amata Luna.

Dal bordo del cratere Sian non poteva vedere il lago. Immobile, non avanzava più.

Serenity era sicura che avesse la tentazione di farlo. Con un solo passo sarebbe caduto nel vuoto, ponendo fine alle proprie sofferenze.

All'orizzonte comparve una lunga striscia azzurra, il primo segno del loro satellite madre.

L'esplosione di colori distolse l'attenzione di Sian dal cratere.

Lentamente, Serenity lo raggiunse. Pronunciò due sillabe. «Luna.» Con un braccio indicò la vastità del mondo su cui posavano i piedi. Continuò a disegnare una curva con le dita, in direzione del corpo celeste che li dominava. «Terra.»

L'arco terrestre ebbe il tempo di levarsi alto nel cielo prima che Sian aprisse bocca.

«Terra» disse. Poi, stremato dalle energie mentali profuse nel viaggio, si voltò e tornò indietro, verso il palazzo.

    

Grazie alla sua pazienza e ostinazione, Serenity aveva convinto il suo ospite a non protestare più quando lei decideva di parlargli. Opporsi alle sue parole non sarebbe servito a Sian per ricevere in dono il silenzio.

«In principio fu... il caos. Poi esplose l'energia e vi fu un nuovo ordine.»

Aveva sempre desiderato raccontare ad alta voce quella storia. Poteva allenarsi con un uomo che non comprendeva ciò che diceva, in attesa di narrare dell'inizio dei tempi alla prossima Serenity.

«L'ordine aveva come scopo iniziale la formazione. Nebulose, galassie, stelle, pianeti. L'ordine è luce che viaggia - in attesa di trasformarsi, dopo un tempo infinito, in caos. All'alba del nostro 
universo, la luce lavorò per costruire una struttura. Il suo consolidarsi in stabilità fu il principio della coscienza. Con la coscienza nacque la necessità di vita.»

Disteso sul suo giaciglio, Sian teneva gli occhi fissi sulla volta oscura del cielo. Il lieve movimento delle sue palpebre le permetteva di capire che la stava ascoltando.

«La culla della vita era una fornace che conservava un'impronta. Essa veniva... neppure io so da dove.» Lo immaginava, ma non ne aveva la certezza. Per lei non saperlo era liberatorio, la rendeva una creatura meno assoluta. «Fummo uno» sussurrò. «Poi due. E per non avere ricordo delle nostre origini fummo lanciati in un punto lontano del nostro nuovo universo, verso la nostra prima casa.»

Gea.

«Arrivando non diventammo subito noi. Ci dividemmo ulteriormente, espandendoci nell'universo. I semi originali rimasero qui, alla luce dell'Helios. Col passare delle ere acquisirono la forma umana a cui eravamo destinati. Non conosco il nome della prima Serenity, ella non aveva coscienza di sé. Lei e l'uomo che per primo nacque come tale insieme a lei diedero origine a una stirpe comune. All'interno di questa linea sorse alla vita una giovane - Alam - che portava in sé la conoscenza di ciò che fummo e di cosa saremmo diventati. Fu l'inizio della Storia di Gea. E la sua fine.»

Udendo la reverenza nel suo tono, Sian voltò la testa. 

«Il pianeta non era destinato a durare» proseguì con mestizia Serenity. «Per lo scopo che avremmo avuto per l'universo, dovevamo dividerci. Fu un cataclisma a farlo per noi, rompendoci in quattro parti. Fu la nostra prima estinzione.»

A quel tempo l'ingranaggio umano era ormai rodato e conosceva il suo percorso. Trovò una strada più veloce per la propria formazione.

«Quando rinvenimmo, molte e molte ere dopo, la linea delle Serenity si era stabilita su questo corpo celeste, la Luna. Gea si era ridimensionata fino alla metà di ciò che era, diventando la Terra. Due parti più piccole di Gea avevano viaggiato lontano, associandosi ad altri corpi celesti fino ad acquisire massa. Venere, si fecero chiamare. E Nemesis. Sulla Luna nacque una nuova voce dell'universo - Teia - che fece incontrare le nostre quattro stirpi. Il sovrano terrestre fu molto contrariato quando venne a sapere che il potere originale del Cosmo - che portavamo in noi come primi depositari della Vita - si era racchiuso unicamente in me, ovvero in Serenity. Teia spiegò alle quattro stirpi che avevamo tutte una funzione, proprio perché un tempo eravamo stati una cosa sola. La Terra, Venere e Nemesis erano parti di me. Avevano la capacità di fermarmi, ci raccontò Teia. Avrebbero protetto l'universo da ciò che ero destinata a fare - in un tempo troppo lontano perché ce ne preoccupassimo in quel momento. Teia ci diede dei nomi. Così fummo Scudi - il primo, la Terra, il secondo, Venere e l'ultimo, Nemesis. Poi ci fui io, a cui il nome non venne assegnato, bensì rivelato: Cosmo.»

Il sussurro aleggiò nell'aria, vibrando di potenza.

«La Serenity di quel tempo decise di non assumere Cosmo come nome, sapendo cosa significava. Se ne diede un altro - il nostro, per simboleggiare la pace. E il tempo passò, così a lungo che questa lunga storia che ho raccontato perse qualunque significato.»

Fece silenzio mentre Sian la guardava, cercando di capire se volesse continuare a parlare.

Serenity si sdraiò sulla schiena e rese opaco il soffitto della stanza, facendo sparire la vista del cosmo stellato che aveva fatto da cornice al suo racconto.

«Quando mia madre mi raccontò questa leggenda» proseguì infine, «fui molto contrariata. Come mai a noi non era spettata la porzione di Gea più grande, la Terra?» Sorrise, ricordando l'ingenuità della propria domanda. «Suppongo che la nostra Luna sia più evoluta. Quando riapparimmo qui come specie lo facemmo con grande difficoltà, in un ambiente non più grande del cratere della Valle Eterna.» Quello infatti era il ricordo di un altro cataclisma, lontano nelle ere ma molto più recente. «Sulla Terra noi esseri umani siamo riapparsi insieme a una vastità di curiosissime specie. La causa è il clima, il terreno, l'atmosfera. La Terra è ciò che Gea fu, la casa originaria della nostra umanità e di tutta la vita che ha coscienza di sé. Sulla Luna siamo rivissuti artificialmente, grazie alla Serenity che, separandosi da Gea, non lasciò morire la propria chiave vitale. Ordinò al suo potere di preservarla, riproducendo l'ambiente di Gea in una piccola cupola che si impiantò sulla Luna. Suppongo sia accaduto lo stesso su Venere e Nemesis. Quando rinacque la prima erede lunare, pensò lei ad allargare il nostro spazio vitale sul pianeta, conquistandolo nella sua interezza. Così, un tempo lei e oggi io, regoliamo la creazione di acqua e di aria su questa Luna. Ogni cosa dipende da noi. Sulla Terra» sorrise, «il sovrano ha altri problemi. Oggi consideriamo il suo pianeta il più rozzo. Il re terrestre non crea la vita sulla Terra: la controlla, la doma. Sarebbe nata a prescindere da lui o da qualunque essere umano che ne avesse deciso l'apparizione.»

Il concetto la riempieva di meraviglia. «Avrei voluto vedere cos'era Gea. Ancora di più, vorrei sapere dove si trova la fornace di energia che ci formò e da cui poi partimmo nell'universo. Prima Alam e poi Teia ne sapevano più di me.»

Sempre più spesso ascoltava una paura antica nel proprio animo. «La confusione che percepisco nel nostro sistema stellare significa che stiamo arrivando a un nuovo grande cambiamento.» Aveva il terrore che potesse essere quello finale. «Immagino che in quel caso arriverà una nuova voce dell'universo a guidarci.»

Che cos'era quell'entità?

Poiché avevano acquisito tutte le loro informazioni da lei, non avevamo modo di verificare quanto vi fosse di vero in ciò che diceva di se stessa. Serenity sapeva solo che la forza di quella creatura stava unicamente nella conoscenza, poiché - sia nella forma di Alam che di Teia - ella non aveva avuto in sé un millesimo della potenza di un sovrano planetario.

Con la guancia adagiata sul cuscino, Sian la contemplava, muto e annoiato.

«Comprendi cosa significa ciò che ti ho raccontato? Ovunque tu sia nato, discendi da una stirpe successiva alla nostra. Sei uno di quei semi che dopo essere stati su Gea hanno cercato una casa nel resto del cosmo, aiutandoci ad occuparlo fino a recessi che mi sono ignoti.»

Ebbe un'idea. Si sedette sul suo giaciglio e aprì i palmi delle mani, concentrandosi per la creazione di un'immagine.

Percepì la tensione di Sian, ma non gli diede importanza. Lui aveva imparato ad accettare che non poteva impedirle in toto di usare il suo potere. Ormai pretendeva solo che non lo usasse su di lui. 

Serenity lo aveva accontentato, ma l'oggetto a cui stava dando forma richiedeva un contributo attivo da parte dell'uomo che giaceva a pochi passi da lei. Forse sarebbe stato un modo per invogliarlo a una maggiore comunicazione.

Quando ebbe finito, fece aleggiare nel'aria una raffigurazione stilizzata dell'universo che le era conosciuto.

«Non sono stata ovunque. Questa è l'immagine che ho del creato, raffinata dalle informazioni che ci hanno trasmesso Alam e Teia. Neppure loro sapevano fino a quali estremi si fosse spinto l'essere umano.» O più probabilmente, non avevano avuto interesse a rivelarlo. 

Alla base del modello tridimensionale Serenity aveva posto diverse manopole di energia, che sarebbero servite ad allargare il modello e a muoversi al suo interno, sondandolo.

Sian non si era mosso, ma osservava con sospetto e astio il nuovo oggetto, sfidandola ad avvicinarlo a lui. Era già pronto a ribellarsi.

Con cautela, Serenity pronunciò una parola. «Aven.»

Sian tirò su il torso, sedendosi. Il nome del suo pianeta lo aveva scosso.

Lei gli indicò la raffigurazione che teneva in una mano. Con due dita manovrò velocemente l'immagine, affinchè si focalizzasse sul loro sistema stellare.

Un piccolo Helios brillò con prepotenza sopra il suo palmo, circondato dai pianeti che omaggiava con la propria luce.

Lei ne pronunciò i nomi, allargando la visuale sulla Luna appena la chiamò. Terminò la lista e restrinse precipitosamente le dimensioni dell'Helios, facendolo diventare un punto sempre più minuscolo, fino a che fu solo un granello di luce che si mischiò a mille altri nella coda della galassia in cui si risiedevano. Rimpicciolì ulteriormente e infinitamente il modello, fino a farlo tornare alla sua forma originaria.

«Aven» ripeté, domandando silenziosamente la collocazione del pianeta da cui lui era venuto.

Rimirò lei stessa il modello dell'universo, rendendosi conto all'improvviso di aver dato vita ad un esercizio sciocco. E se Sian conosceva solo i dintorni dello spazio che circondava il suo pianeta? Forse non aveva nemmeno idea di dove si trovasse nell'insieme che lei gli stava mostrando. Magari era la prima volta che vedeva un'immagine così raffinata del cosmo.

Di sfuggita, notò una luce di interesse negli occhi di lui, subito mascherata dall'indifferenza.

Sian si girò su un fianco, dandole le spalle.

Aveva intenzioni di dormire e la loro conversazione a senso unico era terminata.

Serenity abbassò la luce dell'oggetto, soddisfatta.

Non sapeva quanto tempo ci sarebbe voluto, ma voleva credere che in futuro il suo ospite avrebbe adoperato quel modello. 

A parte il roseto, null'altro lo aveva interessato nello stesso modo.

In quella lunaria lontana lei avrebbe ricevuto le prime risposte su Sian di Aven, dipanando il suo mistero.

 


 

Dopo un lungo lavoro e molte lunarie, terminarono la loro opera sul pavimento dei giardini. Nonostante si fosse rifiutata di tagliare il marmo col potere, Serenity aveva deciso che il riquadro di terra in cui avrebbe piantato il suo nuovo arbusto non sarebbe stato meno perfetto degli altri a cui aveva dato vita. Perciò, insieme a Sian, si era adoperata con alacrità e precisione per rendere levigato e liscio il materiale del pavimento. Il lavoro era stato rallentato da un suo errore nel momento in cui aveva inavvertitamente aperto una crepa su una lastra. Era stata costretta a prenderne una nuova, ricominciando daccapo. In ragione dei molti sforzi e delle tecniche apprese durante la realizzazione manuale dell'aiuola, vedere i magnifici fiori lillà dello Lloygan svettare nel suo giardino la riempì di una soddisfazione sconosciuta. 

Era l'opera più umana che avesse mai creato con le mani, pregna di sudore e volontà.

Seduto sul pavimento, Sian posò a terra lo strumento che aveva usato per costruire una dimora alla nuova pianta. Riposò col mento sulle ginocchia, contemplando i petali.

«Bànsei» mormorò.

Sì, penso Serenity. Era un fiore meraviglioso.

  

Aveva sperato che Sian acquisisse interesse nel mondo che lo circondava, una volta terminato il lavoro nei giardini. Invece il suo ospite si chiuse in se stesso, smettendo persino di uscire dalle loro stanze. Serenity cercò di essere paziente e di non forzarlo. Più trascorreva del tempo con lui, maggiormente percepiva il suo dolore.

La notte, quando dormivano a poca distanza l'uno dall'altra, udiva il modo in cui si spezzava il suo respiro. Le sembrava di vedere coi propri occhi il mondo di cui lui provava nostalgia.

Era peculiare che quella sensazione le permettesse di non sentirsi più sola come un tempo.

In sua presenza, iniziò a giocare col modello tridimensionale del cosmo, muovendosi lontano, verso i confini dell'universo conosciuto, dove regnava il caos.

Egli veniva da quelle oscurità?

Avrebbe potuto spiegare la sua mancanza di potere e la sua capacità di opporsi all'energia che era luce.

Se solo lui fosse stato in grado di dirle come era apparso nel suo palazzo, superando tutte le barriere di protezione.

Ma Sian osservava le immagini del cosmo sbattendo a stento le palpebre. Le luci delle stelle si riflettevano sulle sue pupille blu senza generare reazioni.

Fu la sua apatia a rendere insopportabile il silenzio per Serenity. Era stata come lui prima che arrivasse, una morta che sopravviveva.

Vedere riflesso in quell'uomo il proprio atteggiamento, dopo aver assistito ai suoi lampi di vita e carattere, la portò all'esasperazione. 

Mentre provvedeva alla cura delle altre piante nel suo giardino, da sola, richiamò a sé il ricordo di un canto. Lo intrappolò nelle mani e fece viaggiare le onde sonore nell'aria.

"La mia luna è grande e bianca

e la terra è blu e stanca!"

Per la letizia increspò le labbra ascoltando la filastrocca di voci infantili, così innocenti e allegre.

"Noi siamo esseri potenti

e i terrestri sono lenti!"

Molto tempo addietro sua madre l'aveva sgridata sentendola cantare quelle parole. Non era degno di una principessa burlarsi degli abitanti di un vicino pianeta.

Obbedendo, Serenity non aveva più cantato quelle strofe ad alta voce in presenza di anima viva, ma la melodia si era stampata nella sua testa. Era ancora molto popolare tra la sua gente e le capitava di risentirla di tanto in tanto. Puntualmente doveva stringere la bocca per non ridere. Come reazione non sarebbe stata regale.

Di buon umore, si pulì le dita sporche di terra e portò con sé la musica, tra le pareti delle sue stanze.

Sian si era seduto sul letto, colpito.

"Siam gelosi di una cosa sola

una tristezza che non ci consola

loro hanno più bambini

molti molti più bambini

ma noi almeno abbiamo questa poesiola!"

Fu straordinario vedere di nuovo un sorriso sul volto del suo ospite.

Serenity spense la musica con un gesto della mano. «I piccoli portano sempre un po' di felicità.»

Sian di Aven fissava lo spazio dietro le sue spalle, concentrato su un pensiero lontano.

Serenity creò accanto a sé l'immagine di un bambino - un minuscolo lunare dalla pelle diafana, già capace di camminare. Con le dita cercò di domandare al suo ospite se lui ne avesse mai avuto uno. Pensò di non essersi fatta capire fino a che lui non scosse piano la testa.

Era una risposta, dopo tanto tempo. Un successo.

«Ci sono molti bambini come lui oltre le mura di questo palazzo.» Ancora una volta, cercò di comunicare il concetto con le mani. «Non penso che potrai mai vederli di persona, ma...»

Lui aveva stretto gli occhi. La indicò. «Ai.» Spostò l'indice sull'immagine del bambino. «Tèi.» Posò la mano su se stesso. «Kon.»

Serenity comprese solo quando lui, con un ampio gesto del braccio, segnalò lo spazio oltre le mura dietro il palazzo con sguardo interrogativo.

«Altre persone» gli disse. «Sì, ci sono.» Contò come lui, seguendo il suo stesso ordine. «Uno.» Si riferì a se stessa. «Due.» Proseguì col bambino. «E tre» terminò con lui. Dietro di sé creò altre immagini di persone, riprendendo a contare.

Sian seguì la lezione. Cambiarono l'ordine del conteggio, per essere certi di intendersi sul fatto che parlavano di cifre.

Serenity capì dove voleva arrivare lui solo quando arrivarono al concetto delle decine e poi delle centinaia. Impiegarono un po' per imparare a vicenda la rispettiva matematica - soprattutto per il fastidio che lui provava nel vederla disegnare per aria, col potere, i segni numerici che voleva mostrargli. Serenity dotò entrambi degli strumenti che venivano assegnati ai bambini per imparare a scrivere. Questo permise loro di procedere più spediti.

Infine Sian lui ripeté la sua domanda iniziale, questa volta a parole.

«Remòn?»

Continuava a segnalare la città che si estendeva nelle vicinanze del palazzo reale.

Quanti?

Lei gli offrì una stima approssimativa. «Trecentomila.»

Scrisse il numero e lo vide rasserenarsi di meraviglia al pensiero delle molte genti che abitavano la città millenaria, la prima mai sorta sul pianeta.

Serenity disegnò un cerchio, dandogli un nome. «Luna.» Di fianco si adoperò per creare l'immagine stilizzata di un piccolo essere umano. Alla sinistra aggiunse un numero. Ottanta milioni, come le anime su cui regnava come sovrana.

Sian di Aven assorbì il concetto con un lungo pensiero.

Serenity su azzardò a chiedere. «E sul tuo pianeta. Su Aven?»

Vinse la ritrosia di lui premendo ripetutamente col dito sull'immagine del piccolo essere umano. «Aven?»

Poiché era rapido ad apprendere, per il suo ospite non fu difficile indicare il numero degli abitanti del pianeta che aveva abbandonato - o da cui era fuggito.

Duecentocinquanta milioni. Quando lui aggiunse uno zero, sul finale, Serenity fu certa che si fosse sbagliato.

Ripassò brevemente con lui i propri concetti matematici per essere sicura che non ci fossero errori. Sian dimostrò di aver compreso le basi a decine dei loro conteggi e ribadì la propria stima.

Serenity restò senza fiato.

Due miliardi e mezzo di anime, su un unico corpo celeste.

ll pianeta da cui lui proveniva era peggiore della Terra. Non c'era un minimo controllo sulle nascite.

Sian fu eloquente nel comunicare che fine avevano fatto quelle persone. Tracciò un segno deciso sopra l'immagine del piccolo omino, rimanendo a guardare la striscia nera con cui lo aveva cancellato.

«Tansir coronè. Carislen riondàs.» La ferocia entrò nella sua voce. «Riondàs carismor to Aven.»

Serenity riconobbe due parole in quel discorso.

Riondàs, potere. Caris, morte. 

Il potere aveva portato la morte su Aven.

Sian si allontanò dal ripiano su cui avevano disegnato e con un lungo sospiro si coricò nuovamente sul proprio giaciglio, devastato dai ricordi.

   

   

CONTINUA

 

   


   

NdA: ehm, non picchiatemi, ma alla faccia delle tre parti. Pensavo di fare di questo il capitolo in cui Serenity e Sian entravano in maggiore confidenza. È successo, ma alla fine è stato più il capitolo di uno scambio di informazioni fondamentale sul mondo di entrambi. In particolare col racconto di Serenity vi ho fornito tanti dettagli utilissimi a comprendere l'universo della mia saga.

Li ho sviscerati ulteriormente in questo post sul gruppo Facebook. 

Intendevo accelerare la ripresa di vitalità di Sian, ma un suo ritorno all'apatia mi è sembrato più veritiero per ciò che gli è successo e che non ho ancora raccontato.

Il prossimo sarà il capitolo in cui lui e Serenity si conosceranno meglio. Uscirà nelle prossime settimane, non dovrete più aspettare anni, promesso. 

È ora di dare un finale a questa storia :)

   

Oh, se state seguendo tutta la saga, dovreste aver capito che Alam e Tèia rappresentano le precedenti incarnazioni di un certo essere che sta di nuovo per rinascere nell'universo dei miei protagonisti :) È tutto legato in ciò che invento.

   

Elle

   

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