Il boia del Valentino.

di Midori_chan
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Un dardo avvelenato. ***
Capitolo 2: *** Inferno e paradiso. ***



Capitolo 1
*** Un dardo avvelenato. ***


Buona sera -perché si, è molto tardi-.
Inizio col dire che questa storia mi è stata commissionata tramite la pagina facebook "Fanfiction su commissione", non cito la persona, ovviamente. 
Passando alla storia: questa è la mia prima originale storica; i personaggi sono Cesare Borgia e Michelotto Corella; ho preso ispirazione da varie fonti, sia storiche come delle cronache, sia dal videogioco e dal manga -insomma, ho accaparrato tutto quello che ho trovato su di loro- e spero quindi di aver fatto un buon lavoro con questa prima parte. La storia difatti avrà due capitoli. Non pretende nulla, non insegna nulla e nn deve lasciare per forza qualcosa, è semplicemente un racconto, magari gradevole, in un contesto storico interessante, ma che ho deciso di trascure. Temo e luogo non sono precisi per non dover forzare alcuni passaggi.
E niente, buona lettura, quanto parlo, alla prossima, Mid_ 

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Si svegliò con il calore sulla schiena, ma ricordava perfettamente che l’ultimo suo sguardo era andato ad un cielo terso di nuvole bianche di neve. Era pieno inverno e perfino nel letto di casa, con un camino che ardeva legna, quella temperatura sarebbe stata strana.
Sentiva formicolii lungo il corpo, colpa delle ferite che lentamente ricordava di aver ricevuto, con calma si impose di controllare il suo corpo per conoscere i danni subiti e i movimenti consentiti.
Prima di tutto capì di essere poggiato su di un fianco, il destro per la precisione, che era quello non ferito da una freccia avvelenata, quella dannata freccia che gli aveva tolto gran parte della forza; subito dopo capì di riuscire a muovere mani e piedi. Con un piccolo sforzo spostò il palmo asciutto della mano sotto il busto per provare ad alzarsi e stava per imporre la forza necessaria quando il calore sulla schiena si espanse sul suo torace.
Abbassò la testa con pazienza, assecondando i pochi movimenti tirati del collo contuso e vide una mano grande sul suo addome che leggera accarezzava i suoi capezzoli. Non sentiva quel tocco, ma poteva immaginarlo per esperienza; riconobbe quella pelle e a confermagli l’identità dell’uomo fu il prezioso anello d’oro massiccio con il simbolo dei Borgia.
Riuscì a prendere sempre più consapevolezza di se e comprese che il torpore sulla schiena proveniva proprio dal corpo del suo Signore.
-Non muoverti!-, ordinò il nobile e la suo voce gli arrivò ovattata, come se fosse lontano dall’altro capo del corridoio.
Obbediente, come solo un servo poteva essere, si distese nuovamente assaporando l’unica sensazione che riusciva a percepire: il calore.
Si addormentò, gli sembrava di essere cullato dal suo Signore, ma sicuramente si sbagliava.
 
Il respiro era calmo e regolare, i passi erano lontani, il momento si stava avvicinando e lui era pronto. Discese l’albero con agilità e con un tonfo soffocato dalle foglie e dal fango atterrò furtivo al limitare della magione. C’era il vantaggio della campagna buia, ma lo svantaggio di guardie ben armate e pronte a far caciara senza badare di infastidire i vicini.
Al centro del grande cortile in pietra due sentinelle giocavano ad un tavolino basso, un otre in una mano e delle monete nell’altra; le spade erano state lasciate appoggiate contro il pozzo poco distante, ma abbastanza vicine per Michelotto.
L’ordine era semplice, uccidere il residente di quella casa, il come e il perché non gli servivano, non gli importavano, se era un ordine del suo Signore andava fatto e basta; non gli era lecito porre domande, tanto la sua anima sarebbe rimasta macchiata sia che quello ucciso fosse un’innocente o un peccatore.
Uno in più uno in meno, si disse con arrendevolezza il Corella, che differenza fa, oramai era condannato tra i diavoli e il suo l’aveva già trovato in vita.
Cesare Borgia era il suo demone, nessuno lo odiava quanto lui e nessuno lo amava quanto lui, viveva per grazia di un equilibrio impostogli proprio da Cesare. Al suo Signore non piaceva nessuno, se ne avesse avuto il potere avrebbe ucciso tutti gli uomini sulla faccia della terra, perfino il padre Rodrigo di cui soffriva particolarmente la presenza. L’unico che sarebbe sopravvissuto a questo massacro era proprio Michelotto, che fedele quanto e forse più di un cane da caccia avrebbe seguito il padrone ovunque: cielo e terra, paradiso e inferno, fin dove si poteva spingere la bramosia di quell’uomo.
Si erano conosciuti giovani all’università e il Corella da subito aveva mostrato un’immensa ammirazione nei confronti di Cesare che pensò bene di sfruttare le sue qualità.
Michelotto Corella era un assassino, un uomo con il sangue freddo, abile e scattante, un cane da caccia. Spesso il Borgia lo premiava con una carezza sulla testa, come si fa con un animale.
All’università di Pisa avevano condiviso libri e giacigli, per quanto il freddo Signore non mostrasse emozioni nei suoi confronti l’assassino sapeva che avrebbe fatto di tutto per avere sempre il suo cagnolino fedele vicino ai piedi.
Per questo quando la freccia arrivò pungente sul fianco il suo primo pensiero non fu quello di scappare, ma bensì quello di portare a termine la missione, al suo ritorno, vivo o morto, ci avrebbe pensato il suo padrone.
Aveva corso in direzione del pozzo per prendere le due lame e sottrarle alle mani delle sentinelle, ma non calcolò il nuovo intralcio del freccia e del veleno postovi sopra; questo lo rallentò e i due uomini riuscirono a prendere le loro spade. Un’altra freccia piovve vicino il suo viso e con un smorfia di dolore si scansò prima di essere colpito, in quell’istante, mentre l’arciere caricava e i due spadaccini spronavano verso di lui riuscì a far scattare l’arnese costruito da uno dei fabbri dei Borgia; con uno strattone dalla manica bianca bordata di rosso* uscì una lama celata**, alzò il braccio al sibilo della dardo e deviò la traiettoria portandola contro uno degli uomini, l’altro spaesato attaccò con meno forza di quanto fosse capace e venne ucciso con facilità.
L’arciere sul tetto poteva aspettare e schivando altri due colpi si nascose sotto il porticato di marmo, da lì fu semplice raggiungere la porta, non c’erano guardie e non erano state nemmeno allarmate dai rumori, troppo soffusi per la grande proprietà.
Una volta dentro estrasse la lama avvelenata lasciandola a terra, si tamponò la ferita come meglio poté e con le poche energie rimaste percorse le scale in tutta calma. La magione vista dall’interno faceva intendere la vera povertà del proprietario, se anche prima era stato ricco, ora non lo era di certo; i muri erano scrostati e rovinati dai cani da caccia che non erano più utilizzati per fare sfoggio di denaro, la mobilia era vecchia e incominciava a mostrare i segni dell’età, dal soffitto ricadevano lunghi capelli grigi leggeri.
Michelotto si spiegava così la mancanza di soldati, non erano tanti quanti Cesare gli aveva detto, ma molti di meno, il che rendeva nuovamente praticabile la missione anche con la ferita avvelenata sul fianco che già doleva.
L’assassino sospinse la porta verde sverniciata per entrare nella stanza privata del signore della casa; l’uomo sedeva con la poltrona rivolta versa l’uscio, il viso in un ghignò inquietante, la mani strette intorno all’elsa di un piccolo pugnale puntato sul torace, una lettera tra la lama e il tessuto rosso scuro degli abiti.
-Se fai un altro passo mi uccido e con il mio sangue macchierò per sempre questo documento che sei venuto a prendere-, minacciò l’uomo parlando con uno strano accento francese.
-Datemi il foglio e sarete vivo-, mercanteggiò Michelotto padrone di se, la consapevolezza, però, che forse c’era qualcuno ad attenderlo.
Il Corella vedeva lungo, difatti non passò molto prima che una decina di passi risuonarono nel silenzio della campagna sopra le scale e poi alle sue spalle. Cesare aveva ragione quindi, di uomini ne disponeva, era stato imbrogliato dall’ambiente e non aveva creduto fedelmente alle parole del suo Signore.
-Torturatelo-, decise l’uomo in poltrona.
Fu contento di essere punito.
 
Il moro ragazzo si risvegliò un po’ ansante dal sogno che poi era una parte degli eventi di non sapeva bene quante sere precedenti. Il fatto di essere stato imprigionato in una cella senza finestre e di non aver ricevuto cibo nel tempo della sua prigionia lo avevano scosso e frastornato.
-E’ ora del pranzo-, disse una voce gentile, sicuramente quella di un qualche servo addetto alle sue cure. La luce illuminava poco la stanza, delle scure tende pendevano davanti la finestra, un po’ per riparare dal freddo e un po’ per gli occhi dolenti del ragazzo che era stato imprigionato nel buio di una cantina.
Aveva avuto fame per tanto tempo, ma ora, con il cibo davanti, gli veniva solo il voltastomaco.
-Non lo voglio-
-Deve mangiare, il Signore le ordina di mangiare-, cercò di convincerlo e sembrava seriamente preoccupato se Michelotto non avesse mangiato.
Un po’ riluttante, ma con tutta l’intenzione di fare quello che il suo padrone gli aveva ordinato, si fece imboccare. Le punta delle dita erano ancora poco sensibili, il veleno, così gli avevano spiegato, addormentava gli arti, primi tra tutti quelli delle mani e dei piedi.
Poggiato con attenzione alla spalliera del letto toccava il lato di questo dove la sera prima si trovava il Borgia, non c’era più il suo ardore, la forma del suo corpo si era disfatta, forse chinandosi ne avrebbe sentito l’odore.
-Il Signore aveva delle urgenze da sbrigare, ma immagino tornerà per constatare il vostro miglioramento-, parlò il ragazzino che a mala pena raggiungeva i quindici anni.
Si accorse di essersi addormentato solo quando svegliandosi la luce da naturale era stata sostituita con quelle di alcune candele e  torce. Michelotto si sedette con cautela e ora con la mente più lucida cercò di cogliere i dettagli della stanza.
Non era molto grande, abbastanza piccola perché si illuminasse con due candele o una torcia, vista così la stanza sembrava una cella.
 
Uno degli uomini gli afferrò i lunghi capelli mori e iniziò a trascinarlo fuori dalla stanza; il Corella non riusciva più a dibattersi quanto la dignità avrebbe richiesto, il veleno aveva fatto il suo corso e non si sentiva più le membra, i muscoli erano tavolette d’argilla e la carne cotone impregnato d’olio. Era una sensazione orribile, ma fu per il suo meglio quando schiantato contro il muro non sentì neppure l’urto.
Qualche osso si incrinò, ma Michelotto non sentì proprio nulla, dalle percosse alle bruciature; fu un inferno felice quello che passò la prima sera.
Venne svegliato con uno schiaffo in pieno viso, l’indolenzimento della guancia gli fece capire che l’effetto comodo della tossina era finito, ora gli aspettava il peggio.
Due uomini lo sostennero mentre un terzo gli legava i polsi alti sopra la testa, toccava a mala pena a terra con le punte dei piedi; un uomo dalla barba incolta rossiccia gli si avvicinò con il coltello levato, afferrò la tunica bianca e la lacerò fino alla vita scoprendogli il torace.
-Questi sono i segni del tuo Signore…-, sogghignò il barbuto premendo la punta contro i rossori sul suo petto fino a farne zampillare fuori alcune gocce di sangue.
Il Corella si limitava ad osservarlo, sapeva che non era ancora iniziato nulla, quelle erano solo misere provocazioni.
-Lamentati con la stessa voce che tiri fuori in certe altre occasioni-, lo stuzzicò ancora passandogli l’affilatura sulla guancia arrossata.
L’assassino dapprima ridacchiò con voce bassa e poi, ripresosi dagli scossoni del suo petto, gli sputò in pieno viso.
 
La porta cigolò sui cardini un po’ arrugginiti e dall’apertura entrò l’imponete figura di Cesare.
Michelotto si riprese dal dormiveglia in cui era lentamente scivolato per la noia e la spossatezza e ora guardava il suo Signore con timore. Non solo era rimasto ferito e prigioniero, ma non aveva neppure ucciso l’uomo indicatogli; malgrado ciò il giovane padrone lo guardava intensamente, ma non con disprezzo come quando lo aveva guardato nelle rare occasioni in cui aveva fallito.
-Hai ripreso le forze?-, domandò senza tanti preamboli sedendosi sul bordo del letto stretto.
-Abbastanza, Signore-, il solito tono vacuo.
-Bene, alzati-, gli ordinò tornando in posizione eretta.
Il Corella si mosse piano, ma con determinazione: spostò una gamba per volta fuori dalle coltre calda di coperte, si spinse con le mani più avanti fino a far toccare i piedi sul pavimento freddo e con un colpo di reni si mise in piedi barcollando.
Fu afferrato dal suo Signore che con pochi movimenti gli infilò una veste sulla testa per coprirgli il corpo nudo.
-Andiamo-, disse tenendo per un braccio l’assassino non stabile sulle proprie gambe.
-Se mi è lecito chiedere…-, provò a formulare la richiesta, ma il nobile lo fermò soddisfacendo la sua curiosità.
-Andiamo a trovare François-.
Percorsero il piccolo corridoio poco illuminato per meno di un minuto e raggiunsero una cella più sporca e maleodorante della sua che invece sembrava una piccola stanza di un modesto ostello.
L’uomo di nome François altri non era che il vecchio sulla poltrona che aveva minacciato di uccidersi con il pugnale.
-Come fa ad essere qui?-, Michelotto lasciò la compostezza per mostrarsi veramente sorpreso della presenza di quella persona.
-Me lo hai consegnato tu stesso, non ricordi?-, confermò il Borgia.
No, non ricordo, si disse.
 
Più che il dolore al corpo sentiva la fame, il suo stomaco brontolava per richiamare il suo padrone della mancanza di sostanze nutritive. Michelotto se ne stava ripiegato su se stesso, difatti quando non veniva torturato lo slegavano, quindi rannicchiato sul suo stomaco per non far sentire i rumori capì di dover scappare prima di morire di stenti.
Fissò l’acqua nella ciotola bassa, era quella di un cane, ma poco gli importava; iniziò a sentirsi imprigionato in quelle forme circolari che andavano a crearsi sulla superficie trasparente.
Fu richiamato alla realtà dall’arrivo del barbuto; quell’uomo aveva preso a torturarlo in un modo diverso da quanto il Corella conosceva: lo violentava.
Il corpo del giovane assassino serviva solo il suo padrone, esclusivamente Cesare Borgia, come indicava la targhetta appesa al suo collo, era una proprietà del nobile.
Eppure l’uomo lo violava più volte in quello che il giovane riusciva a calcolare come un giorno.
-Stai perdendo peso, forse dovremmo darti qualcosa da mangiare, ma il nostro signore non vuole-, gli parlò mentre si accarezzava il membro per farlo indurire. Aveva legato le mani all’assassino, le gambe erano bloccate dal peso dell’altro.
-Perché quello che stai facendo te lo ha ordinato il tuo signore?-, domandò con la voce impastata dal poco utilizzo il giovane, il viso sempre inespressivo.
-No-, rise il più grande afferrandogli la vita stretta e premendosi con forza al suo interno.
Il barbuto lo aveva creduto troppo debole per ribellarsi, ma il Corella rimaneva pur sempre un assassino e come tale ragionava; il suo corpo cercava di tradirlo, ma lui lo piegava ai propri desideri. Si lasciò fottere dal robusto uomo non potendo allontanarlo, ma appena questo finì i suoi comodi con un gemito, la testa alzata nel piacere dell’atto, Michelotto gli afferrò la trachea tirandola con tutta la forza che era riuscito a mettere insieme. L’uomo rimasto senza fiato e sorpreso non riuscì a fermare l’altro mano del Corella che, una volta spezzata la scodella per l’acqua, aveva premuto la punta smussata nel suo occhio arrivando al cervello uccidendolo.
Il più grande si riversò su di lui, il peso del corpo e il sangue uscente a fiotti lo fecero svenire.
Quando si riprese il corpo pesante si trovava ancora sopra di lui e dentro di lui, allontanarlo fu un’impresa da titani, poi con calma cercò di riprendere fiato; se non era venuto nessuno fino a quel momento poteva sperare in qualche altro minuto.
Tolse la grande casacca al barbuto e se la infilò stringendosi la vita con la corda della veste, prese anche un pugnale nascosto nello stivale. Uscito dalla cella trovò il corridoio vuoto, corse a filo del muro fino al tavolo della guardia e mangiò le molliche che questi avevano lasciato della cena, bevve avidamente dalla caraffa di vino annacquato fino a sentirsi dissetato e rinvigorito, poi la gettò a terra.
C’era qualcosa di strano, era impossibile che non ci fosse nessuno a fare da guardia oltre il vecchio barbuto.
Il giovane Corella doveva sfruttare tutte le risorse del suo corpo che l’adrenalina gli stava offrendo e con ansia raggiunse il piano terra, da lì la strada per la stanza privata era semplice da raggiungere.
Nessuna guardia in vista.
Entrò come un demone nella stanza illuminata dal solo camino: il volto scavato dalla fame, gli occhi arrossati, i capelli arruffati.
L’uomo che si era svegliato di soprassalto dal suo letto a baldacchino malandato si arrese subito alla visione orribile e Michelotto riuscì a trascinarlo fuori per il bavero, lo avrebbe usato come scudo contro i suoi soldati, ma una volta uscito nel cortile il suo Signore lo attendeva con ai piedi un fiume di sangue.
 
 
-Il documento?-
-E’ nelle mie mani-, lo rassicurò il suo Signore.
Il vecchio era incatenato a terra tremante, le membra segnate da bruciature grandi e aperte.
Il Corella guardò il padrone che gli fece un gesto con la mano verso l’uomo imprigionato.
Michelotto ricompose la sua maschera inespressiva e con grandi passi raggiunse il piccolo corpo raggomitolato.
-Quanto tempo?-, domandò e l’altro sussultò al tono della sua voce che si era fatta gelida.
-Una settimana-, gli rispose Cesare appoggiato alla porta in attesa degli eventi.
-Una settimana…-, l’assassino si passò più volte quella parola tra i denti, come una litania da chiesa e anche mentre con rabbia picchiava in viso il vecchio continuava a ripetere “una settimana”.
Si era scatenato, una furia distruttiva che ad ogni colpo affondava sempre di più nella pelle dell’uomo; si rimproverò di non avere un pugnale con se per segnarlo con più efficacia.
Il vecchio perdeva molto sangue da ogni dove, ogni centimetro di pelle era ricoperto dal rosso scarlatto e i tratti del suo viso era stati del tutto cambiati a furia di botte.
Il Corella lo stava uccidendo, mancava solo un pugno ben assestato sotto il collo, ma il suo Signore gli toccò una spalla e tutta la sua furia omicida si placò.
-Mi serve per delle informazioni, ma grazie per averlo spaventato a dovere-, si complimentò Cesare accarezzandogli la testa mora.
Michelotto respirava a fatica, lo sforzo di quei gesti lo avevano stremato e si accorse solo una volta fermo del male che provava agli arti.
-Hai bisogno di un bagno e di rifocillarti. Quando avrai fatto questo raggiungi le mie stanze-, così si congedò.
Appena uscì il Corella venne chiamato dallo stesso servo che lo aveva imboccato e una volto seguito il ragazzo entrarono in una stanza spoglia con solo una vasca e un tavolo con sopra dei vestiti puliti.
 
*Richiamo la veste degli Fidawi – i Devoti-, una setta mussulmana che proteggeva il tempio di Gerusalemme nel 1000 circa dai profanatori di reliquie della prima crociata di Urbano II.
 
**Qui richiamo, ovviamente, la lama celata di Assassin’s Creed, il videogioco della Ubisoft ambientato alla fine del 1400.

 

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Capitolo 2
*** Inferno e paradiso. ***


Bheeeeeè, ecco il secondo ed ultimo capitolo di questa storia che mi ha fatto penare, ma l'ho amata e sono contenta che mi sia stata proposta di scriverla.
Ho incominciato ad adorare Michelotto, spero piaccia anche a voi, per me sarà il mio personaggio meglio riuscito :D
Borgia...uhm, Cesare è carino anche nella sua stronzaggine **
Questa è la fine di un bel progetto per i miei gusti e spero di trovare qualcos'altro di interrassante da scrivere tramite "Fanfiction su commissione"

  Alla prossima, Mid_

Twitter/Faccialibro


||Il boia del Valentino||
II

 

 






Era così da Pisa, così dal loro primo incontro, dal primo sguardo: quando Cesare ordinava Michelotto eseguiva, non che ha quest’ultimo dispiacesse.
Il Corella si conosceva, sapeva di essere un uomo nato per servirne un altro ed era meraviglioso essere assoggettato al Borgia invece che a qualche d’uno senza lo stesso potere e lignaggio.
Aveva messo la sua vita nelle mani di quell’uomo, gli aveva permesso di controllarlo, di possederlo, ma nulla riceveva in cambio e nulla desiderava.
A volte gli bastava l’odore del sangue, a volte preferiva la consistenza di un osso spremuta dalla sua sola forza, altre volte l’opprimente peso del suo corpo sopra di lui e dentro di lui.
Il Borgia disponeva del suo assassino quando voleva, ma se desiderava altri li aveva; il Corella no, il suo fisico doveva appartenere solo e soltanto al nobile o le conseguenze sarebbero state orribili.
Questo temeva il giovane, perché anche se era un apatico omicida l’unica cosa che lo spaventava era Cesare; era sicuro che il suo Signore sapesse delle violenze subite ed era per questo che si lavava con inusuale cupidigia e lentezza atte a ritardare l’incontro.
-Signore, vi sentite poco bene, volete che vi lavi io?-, Michelotto, dentro il bacile, non rispose al servo, ma lasciò l’acqua raffreddarsi.
Si passò le mani sopra i lividi scuri, quelli della prigionia e sospettò che altri ne avrebbe avuti dopo la sua visita nelle stanze del Signore.
Il Borgia non era altro che fango impastato con sangue, come i mostri della storia romana così era lui: superbo e capace di tutto, anche di uccidere il suo cane fedele se lo avesse tradito.
Arrivò il momento in cui la veste di cotone rossa venne posata sul dorso ancora umido dell’assassino e non poté più rimandare l’inevitabile confronto.
Percorse il corridoio sotto lo sguardo del moccioso che lo aveva aiutato a lavarsi e vestirsi, poi arrivato alle scale venne lasciato solo.
Raggiunto il piano superiore capì di trovarsi nella tenuta estiva del Signore, anche se la stagione non era quella giusta per essere in quel luogo.
Le stanze arredate con gusto sfilavano sotto i suoi occhi, stanze, quelle, che aveva aiutato a decorare rubando opere d’arte, armi particolari, teli d’oriente e spezie delle terre sconosciute oltre lo stretto di Gibilterra. Il suo padrone sedeva su di uno scranno ammantato di nero, superbo risaltava con la sua veste da camera di un bianco pulito.
-Signore-, disse Michelotto inchinandosi al suo cospetto.
-Tu, mio adorato servitore, avvicinati e bacia i miei piedi-, parlò gentile, come quando si rivolgeva a qualche nobile suo pari, ma quel tono nascondeva un ordine ben preciso. Il Corella fece come ordinatogli, inginocchiandosi davanti le gambe coperte con cura e abbassando la testa con umiltà e sottomissione, baciò la caviglia forte poco più chiara della pelle esposta al sole del collo e del viso.
Il calcio non lo colse alla sprovvista, aveva sentito i muscoli contrarsi per prepararsi al movimento, ma non se ne sottrasse consapevole di meritare tale punizione. Il colpo lo allontanò facendolo piegare su se stesso, la mano sporca di sangue per tentare di fermarne la fuoriuscita dal naso.
-Perdonatemi Signore-, biascicò l’assassino, ma il tono non suonava affatto sottomesso come il Borgia desiderava.
-Pensate di meritare il mio perdono?-, gli domandò alzandosi autoritario mostrando la sua altezza.
L’altro non rispose, si asciugò la bocca sulla quale colava il liquido scuro e vischioso, gli occhi a terra.
Il Signore si piegò e con un fazzoletto pulì il viso di Michelotto per potergli afferrare il viso senza macchiarsi la veste.
-Un altro uomo ti ha toccato, ti ha posseduto…-, argomentò la sua ira.
-E’ stato contro il mio volere e sotto sostanze inebrianti, mio Signore-, provò a rabbonirlo il Corella.
-Ti sei lavato con cura?-, chiese Cesare lasciandogli il mento, camminò fino al grande baldacchino e vi si adagiò sopra.
-Si, padrone-
-Allora toccami con la tua bocca-, disse indicandosi con un dito l’inguine.
Poteva non obbedire? Voleva non obbedire? Perché alla fine il problema era quello, lui voleva, a Michelotto essere schiavizzato piaceva, se ne compiaceva, vi si crogiolava, ma non lo avrebbe mai dato a vedere.
Si alzò che ancora si tamponava il sangue, il sapore ferroso di esso si mischiò presto con quello amaro del suo Signore.
Il Borgia non emise neppure un sospiro e non sembrava trattenersi, semplicemente non era uomo a cui qualcosa del genere bastasse; il nobile allungò una mano a stringere i glutei dell’assassino, sodi e forti erano contratti ma appena il padrone vi pose la mano sopra i muscoli si sciolsero lasciando entrare con facilità il dito al loro interno.
Tanto era freddo Cesare tanto lo era Michelotto, quasi solo per competizione, ma anche per nascondere quella sua natura, per non far capire al suo Signore che a lui quella violenza piaceva, altrimenti sapeva che quello avrebbe smesso non più compiaciuto di poterlo costringere in tali azioni.
L’inserimento di un altro dito fecero gemere il moro più piccolo, se ne pentì subito poiché l’altro lo spinse via.
Il Corella rimase sdraiato sulla schiena, il respiro corto che cercava di nascondere con una mano e il corpo semi nudo con la veste arrotolata fino al petto, i capezzoli scuri visibili.
Cesare si voltò a guardarlo, sembrava perfino disgustato,- Vestiti, tra poco ti mostro ad una persona-, aveva detto improvvisamente, ma le sue parole contrariavano i suoi movimenti; con uno scatto veloce era entrato nel corpo dell’altro, le gambe alzate sopra le sue spalle per entrare più in profondità: era una punizione.
Quanto amava essere punito Michelotto.
 
 
Aveva ancora il sapore del suo Signore nella gola, sdraiato sul letto era solo, l’altro lo aveva lasciato da qualche minuto per andare a ricevere l’ospite di cui aveva parlato. Lì, sul quel materasso morbido, il Corella aveva tempo di pensare.
Doveva inventarsi un modo per farsi perdonare. Gli venne in mente un’unica cosa: la prossima missine sarebbe dovuta andare perfettamente, senza intralci, liscia come l’acqua che passava sotto il Ponte Vecchio di Firenze.
Mentre si massaggiava il naso gonfio e ancora dolorante, il ragazzotto che lo aveva servito nelle ultime ore si presentò nella stanza con l’intenzione di condurlo dal suo Signore.
Sentiva nuovamente male ai muscoli, ma lo seguì attraverso gli spazi chiusi del cortile, del portico e della serra.
Una luce primaverile invase la sua visuale e un calore contrario alla stagione invernale lo prese.
Com’era possibile che Borgia fosse tanto potente da ricreare la primavera nel suo studio?
Dalle porte finestra, il Corella, percorse con lo sguardo la stanza dall’altra parte del vetro: c’era il suo Signore e un uomo dall’aspetto imponente quanto Cesare, suo padre Rodrigo.
Il suo padrone lo chiamò con un movimento elegante della mano e lui, servile, fece come ordinatogli.
Se guardava Rodrigo aveva la sensazione di poter scorgere l’aspetto futuro del suo Signore: ancora forte, ancora potente, temibile e rispettabile.
-Così è questo il tuo cagnolino…-, lo osservò attentamente l’uomo maturo, Michelotto se ne stava ritto poco distante dalla sedia raffinata con in volto la sua maschera migliore: l’indifferenza.
La stessa faccia che aveva conquistato Cesare, quella che gli aveva fatto capire con una prima occhiata che quel ragazzo era diverso da tutti gli altri.
 
Il ragazzo dai capelli mori sedeva a terra, una gamba alzata, dietro una colonna porosa; teneva in mano un libro, con la copertina di cuoio, chiuso e fissava la parete davanti a lui. Aveva lo sguardo vacuo, perso in qualche pensiero importante, così non si accorse degli occhi curiosi di un giovane influente.
-Sei quello che  è arrivato da poco, Miguel da Corella?-, domandò imperioso appoggiandosi al muro davanti al ragazzo.
-Se sapete la risposta…-, distolse gli occhi il giovane.
Quell’ala dell’università era sempre vuota, a maggior ragione durante la visita del principe fiorentino Lorenzo De Medici; a Miguel non interessava stimarlo e al quel ragazzone che si trovava davanti era stato vietato dal padre.
-Cesare Borgia, immaginavo che prima o poi avrei fatto il vostro incontro-, continuò il moro alzandosi con un po’ di fatica poiché era stato a lungo in quella posizione.
-Che atteggiamento è mai questo?-, gli si avvicinò con un ghigno, era fin troppo incuriosito da quell’espressione sempre annoiata e indifferente, più del normale, era fuori dalla sua natura comportarsi in modo così interessato per delle persone.
-Dovrei inchinarmi?-, gli rispose coraggioso e il ghigno sparì dal volto bello e autoritario di Cesare, simbolo del suo potere futuro, diventando cemento.
Gli afferrò il colletto della camicia bianca e lo spinse addosso alla colonna; Miguel tossì sorpreso dal movimento repentino, cercò di liberarsi da quella stretta forte, ma non ci riuscì, solitamente la sua forza risaltava eppure quell’uomo era forte, molto forte.
-Cosa diav…-, non riuscì a maledire l’altro che quello gli infilò la lingua in bocca, zittendolo.
 
-Insolente il tuo cane, non si è neppure inchinato-, si lamentò il grande rivolto al figlio.
-Esegue gli ordini del suo padrone, vero Michelotto? Inchinati a mio padre, prostrati ai suoi piedi, mostrati servile come solo tu sai fare-, gli ordinò Cesare.
Il Corella si inginocchiò, allungò le mani alla caviglia ripetendo il gesto che aveva già fatto con il suo padrone.
-Carino-, sorrise Rodrigo tirandogli i capelli per fargli alzare il viso a guardarlo e l’altro, sottomesso e abbassato, mostrava ancora il suo solito viso vuoto.
-Capisco perché ti sei voluto prendere questo cucciolo, per quanto diversi, io e te, rimaniamo comunque padre e figlio-, rise di gola alzando il mento  dell’assassino.
-Perché sei qui, padre, cosa vuoi chiedermi?-
-Ho bisogno di questo tuo assassino per una questione-, rispose accarezzando distrattamente il viso di Michelotto.
Calò il silenzio per alcuni secondi, Cesare aveva giunto le mani sotto il mento pensieroso e circospetto.
-Perché dovrei darti qualcosa che è mio, sei una persona che può avere tutto, perché vuoi lui?-, quasi soffiò come un serpente velenoso.
-Figlio, dovresti obbedire a tuo padre…-, iniziò il nobile alzandosi, la mano si strinse nuovamente nei capelli mori costringendolo ad alzarsi con lui.
Anche Cesare si mise in piedi, pari altezza del padre e lo guardò torvo, dubbioso dell’atteggiamento così interessato che mai aveva mostrato.
-Cosa vuoi veramente da lui?-, chiese movendo la testa in direzione del suo cagnolino.
-Vorrei metterlo dentro un’arena a combattere con un ragazzino che mi da fastidio, come si fa con gli scorpioni o i polli-, rise abbassandosi all’altezza del viso dalla carnagione olivastra, i capelli neri tirati sempre di più come in una minaccia silenziosa.
-E’ ancora quel fiorentino, quel ragazzino che ha salvato Lorenzo a discapito tuo? Mi dispiace, ma Michelotto rimane qui, non servirà per qualche inutile battaglia-, si risedette credendo la questione chiusa.
-Non fare arrabbiare il tuo vecchio! Ho detto che mi serve e lo avrò. Conosco la sua fama, è forte e io devo vincere contro quel marmocchio impertinente. Dannato il giorno il cui in cui è nato!-, si infuriò e scagliò il giovane sulla scrivania per descrivere con più veemenza la sua ira.
Il Corella non proruppe neppure in un singulto, levò il viso verso il suo Signore che ghignò.
 
 
Miguel cercava di evitare il Borgia, non voleva invischiarsi con quell’influente ragazzino viziato, gli avrebbe causato solo problemi, ma l’altro era dell’opinione contraria.
Un giorno, sempre in quell’ala in disparte del grande edificio, dove il Corella si nascondeva dagli sguardi altrui, un gruppetto di ragazzi più grandi di lui si intromisero nel chiostro.
Il giovane alzò lo sguardo, un po’ annoiato e un po’ infastidito, in direzione di quelli, mentalmente sperò che non lo disturbassero, ma già il suo corpo era in piedi per sfogare lo stress di quei giorni.
-Guardate, c’è il tipo a cui piace farselo mettere in quel posto-, rise quello che sembrava il capogruppo.
Miguel sorrise, come accondiscendente e appena gli fu abbastanza vicino scattò agile.
Non ricordava di aver mai fatto alcun addestramento, forse lo aveva semplicemente nel sangue.
Il calcio arrivò alto, dritto sul naso e il capo dei gruppetto cadde a terra insanguinato, il restante degli “idioti” si preparava a vendicarsi dell’atto.
Erano quattro e quattro furono i corpi riversi a terra gementi con qualche non molto grave ferita.
Il Corella si girò con tutta l’intenzione di andarsene e stava muovendo un passo quando il primo ferito gli afferrò il piede facendolo cadere; gli salì sulla schiena per fermarlo a terra spingendogli il viso contro la pietra.
Con un ringhiò strozzato Miguel alzò il viso e vide Cesare sorridere, lo videro anche tutti gli altri e molto più velocemente di come erano venuti se ne andarono.
 
-Padre, padre…-, scosse la testa, - Non puoi venire in casa mia a darmi ordini e pretendere il mio cagnolino, lo capisci?-, aveva parlato in modo irriverente, in modo sfrontato anche per un figlio, ma Cesare non aveva paura del genitore, ne delle conseguenze, lo aveva già più volte, in passato, sfidato e sempre ne era uscito vincitore.
-Mi stai forse cacciato?-
-Ti sto invitando ad andartene. Se vuoi rimanere fallo, ma sto per prendermi il corpo di questo mio assassino, perché tutta questa situazione mi ha eccitato-, fece il giro del tavolo pregiato, mettendosi accanto al padre che aveva lasciato i capelli riccioluti del Corella.
-Mi hai convito a rimanere, ho proprio voglia di scoprire se quel viso rimane impassibile anche durante il sesso-, disse Rodrigo spostando la sedia in una posizione più favorevole e sedendosi con le gambe accavallate e le braccia incrociate.
Michelotto, piegato in quella posizione, sentì la durezza del suo Signore premergli in mezzo alle natiche; si aggrappò all’estremità opposta della scrivania e il Borgia più giovane gli sollevò la veste.
L’assassino guardava dritto davanti a lui e quasi sorrise alla vista del ragazzino, che lo aveva aiutato in quei giorni, nascosto dietro una colonna che li guardava.
Aprì un poco la bocca quando Cesare iniziò a strofinarsi sulla sua apertura per indursi maggiormente e la richiuse con uno scatto quando lo penetrò senza preavviso.
C’era il silenzio più assoluto nella stanza, solo il suono erotico dei loro corpi faceva da sottofondo.
Michelotto infilò le unghie nel legno, il padrone lo avrebbe punito, ma ora non poté farne a meno; sentì il suo Signore soffiare abbassandosi di poco sulla sua schiena nuda e gli fece salire dei brividi fino a sotto il collo.
Con il passare dei minuti, invece di regolare i movimenti, il Borgia cresceva ancora nelle sue viscere, eccitandosi sempre di più; artigliò i riccioli scuri e costrinse il corpo sotto il suo ad inarcarsi flessuoso.
Il giovane  sentiva la sua erezione sbattere contro il tavolo e questo gli procurava stilettate di dolore, dovute anche al fatto di non essere toccato.
Ma l’assassino era bravo a gestire il dolore, quello che lo metteva a disagio e gli creava problemi era il piacere, per questo  ringhiò basso, come un vero cane, quando Cesare passò una mano prima sul suo capezzolo e poi sulla sua erezione.
Il giovane Borgia lo aveva costretto ad alzarsi dal tavolo, lo stringeva tenendolo in piedi, non si muoveva più eppure continuava a rimanergli arpionano delle viscere.
Quasi gli faceva da seggiola, il Corella aveva i muscoli tremanti ancora intorpiditi per il troppo uso delle ultime settimane.
-Padre a te non piacerebbe un uomo che non piange sotto di te, è inutile per te questo cane-, parlò con disprezzo, verso chi o cosa però non si comprese.
-Forse hai ragione tu, ma mi hai incuriosito, il suo corpo è conturbante-
Cesare sbuffò fiato caldo tra i capelli del suo assassino e lo lasciò andare nuovamente mezzo disteso sulla scrivania; vi uscì con ancora il membro eretto e pulsante.
-Finisci pure, figliolo, me lo prenderò subito dopo…-, sorrise il più grande alzandosi tranquillamente ed uscendo dalla stanza.
Il Corella continuava a rimanere in quella posizione, indeciso su come comportarsi in quel frangente e parve fare bene: il suo Signore gli rientrò violentemente dentro deciso a concludere.
-Fammi sentire la tua voce-
-Signore…-, si lamentò soffocato.
-Ho detto-, parlò spingendosi con più forza,- fammi sentire la tua voce!-
L’assassino chiuse gli occhi, si concentrò sulle sensazioni, ma era nuovo per lui gemere e sospirare, ricordò la prima volta che Cesare l’aveva posseduto e gli sembrò così maledettamente simile a quel momento.
Aprì la bocca con in muto gemito, le guance gli si colorirono quando gli scappò un lamento stridulo.
 
-Vedi, questo dolore che senti ora? Sarò solo io a procurartelo, non contraddirmi o potrei ucciderti-
 
-Ti darò a mio padre-, disse dopo essersi riseduto sulla sedia, il Corella si stava ancora sistemando dopo che il suo Signore gli era venuto dentro.
-Padrone, non disubbidirò così ai suoi ordini?-
-Si, lo farai e sarò costretto ad uccederti…-
 
Il tramonto era appena calato alle spalle della torre di Pisa quando Miguel riuscì a tirarsi su dal letto.
Aveva passato l’intero pomeriggio sotto il corpo del Borgia; aveva perso la sua dignità, aveva perso il suo orgoglio e la sua libertà.
Era stato inutile combattere per ottenere il comando, quell’uomo era troppo forte, aveva un carattere imponente e da sovrano.
-Ora mi appartieni-, aveva pronunciato Cesare mentre si appropriava del corpo del giovane.
 
-Allora, Signore, uccidetemi ora. Credo di poterlo pretendere dopo tutti i servigi svolti per voi-, chiese sempre con il viso pieno di indifferenza.
-Tu pretendi?-, iniziò a ridere l’uomo guardandolo di sottecchi da dietro alcune carte che stava esaminando.
-O mi uccidete voi o lo farò io stesso-, era deciso in quello che diceva, preferiva la morte al tradimento.
-Vattene ora, sono stufo!-, fu l’ordine che ne seguì.
Il Corella si abbassò e prese dall’interno del suo stivale in cuoio un pugnale; levò il braccio e la mano con la lama.
-Vuoi farlo qui? Mi sporcherai l’ufficio-
-Una volta morto potete punirmi, se preferite, disse atono passandosi l’argenteo pugnale sulle vene scure.
Michelotto grugnì appena e chiuse gli occhi in attesa.
-Dannato idiota!-, gli urlò da quello che sembrava un posto lontano.
 
Aprì gli occhi confuso, non sembrava l’inferno ma il paradiso quello in cui si trovava: le coltri bianche e vaporose come le nuvole, la luce accecante e il soffitto affrescato con immagini di angeli.
Un colpo forte gli arrivò in pieno viso.
-Stupido, come hai potuto fare una cosa del genere?!-, il suo Signore sembrava del tutto sconvolto, arrabbiato e forse preoccupato. Si sicuramente si trovava in paradiso se Cesare Borgia era angosciato per lui, anche se non si capacitava del perché si trovasse lì, pensava bene di doversi ritrovare nell’infimo e bruciante Ade.
-L’ho fatto perché non volevo darmi ad altri uomini, anche se era vostro padre, anche se eravate voi ad ordinarmelo. Credo di amarvi dalla prima volta che vi ho visto-, parlò Michelotto credendosi ormai morto.
Cesare si appoggiò sull’addome del suo assassino accarezzandogli piano il viso.
-Sei solo il mio servo-
-Si, si è vero-
 

 

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